Una spiegazione dell'inflazione e della disoccupazione: una sfida alla teoria economica liberale
di
Anwar Shaikh
Introduzione
Per
la maggior parte del dopoguerra, i problemi connessi con l'inflazione e la
disoccupazione sono stati all'ordine del giorno sia nel campo economico che
politico. La politica economica
neoliberale sorge come una risposta della classe capitalista alla crisi
economica mondiale degli ultimi venticinque anni, ed è per questo motivo che
risultano abbastanza facili da spiegare gli attacchi che tale politica ha
portato avanti nei confronti dei lavoratori e delle loro istituzioni, provocando
l’aumento di fallimenti e bancarotte, la spaventosa tendenza alla
concentrazione ed alle centralizzazioni, la ricerca ostinata di nuove aree di
mercato e di nuove risorse destinate al potere selvaggio dei capitali che
dominano la sfera mondiale (Shaikh 1987). Ma la teoria
economica neoliberale è venuta alla ribalta poichè quella keynesiana si è
rivelata incapace di dare una spiegazione adeguata alla "stagflazione"
prodotta dalle crisi economiche e ciò appare particolarmente ironico dato che
la stessa teoria economica keynesiana divenne predominante per l'incapacità da
parte della teoria economica tradizionale, che sta alla base dell'economia
neoliberale, di dare una spiegazione della gigantesca e persistente
disoccupazione caratteristica della Grande Depressione. La moderna macroeconomia
eterodossa è stata coinvolta in tale conflitto poiché a partire dagli anni 70
buona parte di essa è stata inglobata all'interno del keynesismo, tanto che
nell’economia radicale e postkeynesiana prendono il via alcune varianti della
teoria keynesiana-kalechiana della domanda effettiva; un quadro di equilibrio
generalmente statico in cui la fissazione dei prezzi attraverso il "mark-up"*
li rende indipendenti dalla domanda, spostando così ogni aggiustamento sul
versante della produzione e dell'occupazione - per lo meno fino ai limiti del
"pieno impiego". Naturalmente all'interno di un quadro di questo tipo
l’ostacolo al pieno impiego in condizioni di prezzi stabili è di natura
politica, non economica e si basa sullo scontro tra gli interessi di tre
componenti: il capitale, i lavoratori e lo stato. La tendenza kalechiana di tale
tradizione differisce solo per il fatto che dà maggiore importanza al potere
del monopolio ed ai problemi associati con il "pieno impiego" (Kalecki,
1968). La teoria neoclassica non presenta problemi di questo genere, in quanto
assume che il sistema capitalistico raggiunge il pieno impiego automaticamente
ed in modo efficace, sostanzialmente l’inflazione aumenta quando l’offerta
di moneta stimola la domanda aggregata a fronte di un pieno impiego spinto da
una offerta aggregata. Versioni più recenti associano concetti quali il tasso
di disoccupazione naturale che sono solo delle finezze sulle argomentazioni di
base, ma anche in questo caso, come nella teoria keynesiana-kalechiana, si
presuppone che l’inflazione aumenti in prossimità del pieno impiego. In
contrasto con tali interpretazioni molto comuni desidero quindi presentare una
spiegazione classica dell’inflazione e del suo rapporto (o la sua
mancanza) con la disoccupazione. In generale, un'impostazione classica parte
dalla visione di un'economia permanentemente in crescita fondata sul tentativo
incessante di ogni singolo capitale di (auto) espandersi costantemente. Dato che
ogni capitale opera individualmente, senza alcun riferimento diretto alla sua
collocazione nella divisione sociale del lavoro, l'interazione di queste unità
individuali genera un processo turbolento intrinseco: l'ipotetica divisione del
lavoro, creata dalle aspettative dei capitali individuali, si mette
costantemente a confronto con la divisione del lavoro provocata dalle loro
interazioni e le discrepanze agiscono sulle aspettative e sulle azioni, che a
loro volta provocano nuove discrepanze ecc. L'economia neoclassica cerca di
nascondere tutto ciò utilizzando le nozioni di concorrenza perfetta e di
equilibrio generale. In realtà si verifica sempre una condizione di squilibrio
ed è proprio grazie alla compensazione tra le fasi di superamento e di mancato
raggiungimento dell'equilibrio che si realizzano le tendenze che sono proprie
dell'economia. Secondo questo punto di vista il bilanciamento di tutta una serie
di fattori (domanda - offerta,
prodotto - capacità, settore dell'economia - crescita complessiva, ecc )
rappresenta l'insieme delle forze interne che impongono un ordine intrinseco ad
un disordine esterno. L'ordine nel e mediante il disordine, un vecchio concetto
presente in Marx che ha ricevuto finalmente una leggittimazione attraverso le
dinamiche non lineari. Nel mio lavoro ho cercato di dimostrare che un approccio
del genere può venire formalizzato in modo da ottenere un quadro di
non-equilibrio dinamico integrato
dell'analisi della crescita endogena, della moneta endogena e dei cicli endogeni
(Shaikh 1989,1991,1992). Una struttura di questo tipo, grazie al lavoro di
Goodwin (1967), può essere utilizzata anche per formalizzare una teoria
endogena della disoccupazione permanente fondata sulla concorrenza. Questo è ciò
che Marx definisce esercito industriale di riserva e che oggi possiamo definire
come "tasso di disoccupazione intrinseco" per distinguerlo dalla
nozione liberale piuttosto funesta di "tasso di disoccupazione
naturale" secondo cui il sistema procederebbe in maniera perfetta quando è
in grado di creare e mantenere un certo quantitativo di disoccupazione
involontaria a disposizione del capitale così da poter affermare che sono le
imperfezioni del sistema che fanno crescere la disoccupazione volontaria, ad
esempio l’astensione dal lavoro (Friedman 1968). In questo lavoro vorrei porre
in evidenza un altro grande problema: quello dell'inflazione ed il suo legame,
se esiste, con la disoccupazione. In primo luogo tratterò questi aspetti
secondo le teorie ortodosse, come sorgono storicamente di fronte alle sfide
della realtà storica, poi proporrò un approccio alternativo alla questione
dell'inflazione e cercherò di illustrarlo con i dati relativi agli Stati Uniti.
Disoccupazione
ed inflazione nella teoria e nella storia
La
moderna macroeconomia ha avuto origine dal disordine della Grande Depressione
degli anni 30. Mentre la teoria prevalente continuava ad insistere sul concetto
che il capitalismo era di per se efficiente, in grado di autoregolarsi e capace
automaticamente di offrire occupazione a tutti coloro che la desideravano, la
realtà economica ci raccontava una storia completamente diversa: i fenomeni
storici e sociali che si verificavano erano fallimenti su larga scala delle
imprese, disoccupazione di massa, generalizzazione della miseria, ed è in
questo contesto che venne pubblicata la Teoria
Generale di Keynes (Keynes 1936) che aveva come obiettivo quello di fornire
una spiegazione della disoccupazione persistente e di prescrivere una cura per
eliminarla. Il modello redditi-spese familiari derivato da un approccio teorico
di questo tipo ha dominato per un terzo di secolo sia la
macroeconomia che la politica nella maggior parte dei paesi capitalisti
avanzati. Nelle sue applicazioni era sistematico, quantificabile, flessibile e
facilmente adattabile alla politica fiscale. Il modello è guidato dalle
componenti esogene della domanda aggregata ed in generale si assume che esistano
delle risorse inutilizzate, in modo particolare il lavoro. Un aumento di una
componente della domanda esogena stimola la produzione e l'occupazione, le
maggiori entrate che ne derivano stimolano a loro volta il consumo e quindi
la crescita di nuova domanda aggregata (ma per una quantità inferiore
alla fase precedente) e così via finchè l'impulso originario non abbia
prodotto un effetto moltiplicatore sulla produzione e sull'occupazione.
All'interno di questo quadro la politica fiscale sembra essere un meccanismo
molto importante per regolare il livello di occupazione, poichè il deficit
governativo viene considerato capace di provocare un effetto moltiplicatore
sulla crescita della produzione e dell' occupazione. I keynesiani tendono a
credere che la disoccupazione sia un aspetto normale in una economia capitalista
non-regolata, però, con un uso assennato del deficit fiscale, il governo
potrebbe gonfiare il livello di occupazione e raggiungere una situazione molto
vicina al pieno impiego. Questa divenne la premessa indispensabile per la
politica sociale del dopoguerra (Artis, 1992, pag 139). In seguito vi furono
delle ulteriori modifiche che hanno ridimensionato le analisi sulle possibilità
di deficit di bilancio, ma non hanno messo in discussione le fondamenta del
ragionamento. Fu rilevato che il deficit statale poteva provocare l’aumento
del tasso di interesse comportando una diminuzione negli investimenti che andava
così a contrastare alcuni degli effetti originariamente espansivi del deficit.
Crebbe inoltre l’dea che la riduzione della disoccupazione grazie alla domanda
aggregata avrebbe potuto portare anche ad un incremento dei salari monetari con
il conseguente aumento dell’inflazione. La
curva di Philips (Philips 1958) introdusse la nozione di un tradeoff
(correlazione opposta) tra inflazione e salari monetari rapidamente inglobata
nella teoria dominante sottoforma di un tradeoff tra inflazione e
disoccupazione. Fleming (1962) e Mundell (1963) hanno esteso l'analisi al
rapporto tra produzione, disoccupazione e bilancia commerciale ("bilancia
estera"). Ne risultava una molteplicità dei potenziali "targets"
(livelli desiderati di occupazione, di inflazione, del tasso di interesse, della
bilancia commerciale estera. ecc) che hanno reso l'economia politica alquanto
sofisticata, ma era evidente che tali complicazioni non erano altro che delle
estensioni della teoria di fondo e non dei cambiamenti. All'interno di tutti
questi sviluppi il concetto fondamentale era che l'inflazione sarebbe cresciuta
solo quando l'economia si trovava in prossimità
del pieno impiego. Ma questa concezione ha iniziato a crollare alla fine
degli anni 60 in quanto l'inflazione non era divenuta solamente un problema
pratico di una certa importanza, ma un serio problema teorico: mentre la curva di Philips prevedeva che l'inflazione
sarebbe stata accompagnata da una diminuzione della disoccupazione, (che avrebbe
stimolato un aumento dei salari monetari e quindi dei prezzi), una nuova ripresa
dell'inflazione è stata accompagnata però da un aumento della disoccupazione, cosa che sembrava negare tutta la
nozione di un tradeoff tra i due fattori.
Un
tentativo per aggirare le difficoltà era di supporre che le aspettative
giocassero un ruolo significativo nella spirale salri-prezzi e ciò diede vita
alla nozione di una curva di Philips dell’aumento delle aspettative (APC) (Phelps
1967, Friedman 1968), associata all’ idea di un "tasso naturale" di
disoccupazione che avrebbe ostacolato l’inflazione. Da questo terreno hanno
preso piede i diversi modelli interpretativi dell’inflazione, spesso tra loro
conflittuali e l’infame NAIRU**
(Godley e Cripps 1983, Rowthorn 1984). Ma questi modelli si dimostrarono un
beneficio ambiguo per il paradigma keynesiano, infatti non solo
hanno minato dalle fondamenta la politica sociale keynesiana, ma hanno
posto le premesse per una nuova macroeconomia classica che poteva eventualmente
soppiantare il keynesismo stesso (Artis 1993, 140-142); per esempio, la nozione
di tasso naturale di disoccupazione ha le sue radici nel paradigma del pieno
impiego automatico dell'economia neoclassica – l’unico aspetto che il
keynesismo ha cercato di superare. Secondo l’economia neoclassica, si assume
che quando tutti i mercati sono in equilibrio, tutti i lavoratori potrebbero
conseguire il livello desiderato di occupazione ad un determinato livello
salariale che emerge dal mercato del lavoro, ma per un' informazione non del
tutto perfetta e per le difficoltà esistenti sul mercato del lavoro, si
dovrebbe sempre verificare un certo
livello frizionale, quindi un certo livello "naturale", di
disoccupazione anche in condizioni di generale equilibrio (Matthews 1993, pag
247). Un tasso naturale di questo genere è
volontario in quanto proviene dalla
decisione degli individui di non lavorare a fronte delle spese per la ricerca di
lavoro, dei sussidi di disoccupazione, dello stato sociale e di altro. Così,
contrariamente alla opinione keynesiana, la mera esistenza della disoccupazione,
ed anche l’aumento della stessa, non dimostra che sia necessariamente
involontaria. Non deve sorprendere quindi che gli economisti neoliberali si
siano affrettati a proclamare che la disoccupazione esistente fosse di fatto
totalmente volontaria (Bennet 1995). In secondo luogo, veniva affermato che il
livello effettivo di inflazione dipendeva non solo dal livello di disoccupazione
ma anche dalle aspettative di inflazione. Così l'aspettativa di un inflazione
più elevata poteva dare luogo ad un livello di inflazione più elevato per ogni
determinato livello di disoccupazione. Finchè si assume che le aspettative di
inflazione varino lentamente (mostrano persistenza), per estirpare l' inflazione
dall'economia ne segue la necessità
di tollerare ( e forse anche indurre) un tasso di disoccupazione più elevato
del tasso "naturale" per un periodo sufficientemente lungo da
abbassare le aspettative di inflazione. Quando queste calano renderebbero
possibile l' abbassamento del tasso di inflazione compatibile con qualsiasi
livello di "disoccupazione non naturale" (disoccupazione in eccesso
rispetto al suo livello naturale), permettendone così anche una certa
diminuzione – fino a che l’economia non raggiunga uno stato di equilibrio di
lungo periodo in cui l'inflazione effettiva e quella attesa sarebbero pari a
zero ed il tasso di disoccupazione si porterebbe al tasso naturale (il tasso più
basso sostenibile). L’economia keynesiana propendeva per l’opinione secondo
cui "estirpare" inflazione poteva risultare costoso, nonostante che la
nozione per cui qualsiasi tasso di disoccupazione rilevato fosse sostanzialmente
volontario fosse decisamente lontana dalle concezioni originarie del keynesismo.
In ogni caso è stata ancora una volta la realtà ad infierire il colpo decisivo
all'economia keynesiana. Negli anni 70 e 80, via via tutte le nazioni del mondo
capitalista si sono bloccate manifestando inflazione, disoccupazione, crescita
modesta, aumento della povertà e della miseria sociale, nonostante il record
raggiunto dal deficit di bilancio. Sono stati soprattutto questi fenomeni
spiacevoli a generare la convinzione sempre più diffusa che la teoria
keynesiana della politica fiscale, nonostante le numerose modificazioni,
fosse assolutamente inadeguata per questa nuova epoca.
Il
contrasto tra la teoria convenzionale ed i modelli empirici dell'inflazione e
della disoccupazione.
Abbiamo
visto che la teoria neoclassica e quella keynesiana differiscono per la
spiegazione data all’inflazione e alla disoccupazione, ma è importante
nondimeno sottolineare che esse condividono un aspetto ossia che esiste un tradeoff
empirico tra l’inflazione e la disoccupazione. Ma tale affermazione viene
confermata dall’evidenza empirica? A tale riguardo occorre fare tre
puntualizzazioni: Primo, come dimostra la Fig 1 dalla prima metà alla seconda
metà del dopoguerra la crescita storica dei livelli di disoccupazione media nei
paesi dell'OCSE è associata direttamente ad una corrispondente diminuzione dei
tassi medi di crescita della produzione. Ho cercato di dimostrare in un altro
lavoro che tutto ciò può essere spiegato per il fatto che una caduta del
saggio del profitto mina alla base la crescita producendo così l’innalzamento
del tasso di disoccupazione. (Shaikh
1987).
Fig
1
Secondo. Come
mostra la fig. 2 in generale non esiste storicamente un tradeoff tra la disoccupazione e
l'inflazione. Come si può osservare gli andamenti per l'insieme dei paesi
dell'OCSE indicano che mentre un
tradeoff di questo genere sembra esistere per il periodo più recente, che va
dal 1975 al 1991, mentre nel primo periodo, che va dal 1964 al 1974, gli
andamenti appaiono decisamente opposti (non sono disponibili dati coerenti sulla
disoccupazione prima del 1964). In verità gli andamenti del primo periodo sembrano riproporsi nei
recentissimi periodi, come negli Stati Uniti ed in altri paesi dove la
disoccupazione è diminuita senza che vi sia stata una percettibile ripresa
dell'inflazione, a dispetto di coloro che proponevano l'ipotesi del tasso
naturale. Per esempio a partire dal 1995 il tasso di disoccupazione negli Stati
Uniti è sceso al 5,4% proprio nel momento in cui figure eminenti come Martin
Feldstein e Robert Gordon avevano fissato il tasso naturale di disoccupazione,
il punto in cui prende il via la pressione inflazionista, al 6% od anche al 6,5%
. Ma a partire dal 1997, nonostante l’ulteriore diminuzione del tasso di
disoccupazione, non si è ancora manifestata
alcuna ripresa evidente dell'inflazione (un'accelerazione o qualsiasi
altra cosa). Per lo meno Gordon ha reagito continuando a ridurre la stima del
punto di innesco del saggio naturale mano a mano che il saggio effettivo
scendeva al di sotto del suo valore.(Bennet 1995).
Fig
2
Tuttavia
dall'esame empirico sorge un indizio interessante ossia una relazione tra
inflazione e crescita economica come risulta dalla fig. 3. Nel primo periodo dal
1964 al 1973, anche se si dovesse introdurre l’improvviso rialzo del prezzo
del petrolio deciso nel 1973 dai paesi dell’OPEC nella parte alta a sinistra
del grafico, esiste una relazione assai limitata tra inflazione e crescita, al
massimo potremmo rilevare che a una crescita più bassa corrisponde una
inflazione minore, ma nel periodo successivo dal 1973 al 1991
una crescita più bassa è associata ad un' inflazione
più alta. Come nel caso precedente tale comportamento contrasta con
l’ipotesi delle teorie convenzionali mentre vedremo che ciò non accade per la
teoria classica dell’inflazione.
Fig 3
Rapporto tra inflazione e crescita OCSE 1965-199
Un approccio diverso con l'inflazione: in accordo con l'evidenza empirica
I
fenomeni presentati precedentemente sono compatibili con un approccio
all'inflazione e alla disoccupazione di tipo diverso che ha le sue radici nella
tradizione classica. Un approccio di questo genere è costituito da tre
elementi:
Il
primo riguarda l'equilibrio di breve periodo, infatti sia l'approccio keynesiano
che quello neoclassico tendono ad analizzare la produzione effettiva
ed il livello dei prezzi come se fossero in equilibrio associati alla
eguaglianza di breve periodo tra la domanda e l'offerta. Secondo questo punto di
vista, il ciclo economico è una fluttuazione
del prodotto nel breve periodo intorno al punto di equilibrio (Kalecki
1968). Ma ho rilevato chiaramente che il processo
di livellamento della domanda e dell'offerta aggregate è ciò che da luogo ad
un ciclo economico osservabile di 3-5 anni (crescita); quello che attualmente
viene definito come « il » ciclo economico non è altro che la fluttuazione
del prodotto effettivo (disequilibrio) nella continua ricerca di una domanda e
di una offerta entrambe oscillanti in una fase di crescita endogena ossia che le
fasi di innalzamento e di abbassamento
del ciclo sono associate rispettivamente alle fasi positive e negative degli
eccessi della domanda (Shaikh 1989,1991,1992)
Il
secondo elemento ha a che fare con la moneta e il credito. La spesa in deficit
di ogni unità produttiva ossia la spesa in eccesso rispetto al suo reddito
corrente, può essere finanziata solo con la riduzione delle sue attività
(ricavando capitale dalla vendita delle azioni) e
con l' indebitamento presso terzi (Early e Parson ed altri 1976). Per l'economia
nel suo complesso ciò si riduce alla richiesta di nuovi
prestiti alle banche private e all’allargamento della base monetaria da
parte della banca centrale. Finchè per soddisfare la domanda di denaro in
termini di liquidità non si da luogo a nuovo credito e ad una più ampia base
monetaria si possono facilmente verificare fenomeni
di eccesso della domanda aggregata generata da un eccesso endogeno di
offerta di moneta (Moore 1989, pag 483). Il disavanzo in deficit aggregato dello
stato e del settore privato (comprese le famiglie) combinati con l’aumento del
potere d’acquisto dei capitali provenienti dall’estero possono esercitare
una pressione sui mercati, in particolare sul mercato dei beni. In un progetto
di lavoro, stiamo sviluppando delle misurazioni dell'eccesso di domanda e della
finanza che le sta dietro ed intendiamo dimostrare il loro rapporto con la
crescita e l'inflazione nell'economia degli USA.
Il
terzo elemento riguarda le implicazioni dovute al persistere dell'eccesso di
domanda, infatti questo corrisponde all'eccesso di una domanda che generalmente
cresce più dell'offerta e stimola
quindi la crescita dell'offerta. I limiti di un processo di questo genere
derivano quindi dai limiti all'offerta. Secondo la tradizione neoclassica e
keynesiana, il limite generale dell'offerta di beni è determinato dalla
disponibilità di lavoro, ma entrambe
le scuole economiche si aspettano
che un eccesso di domanda dovrebbe in primo luogo stimolare l’inflazione solo
dopo avere praticamente raggiunto la condizione di pieno impiego, differiscono
soltanto per il significato che viene dato al pieno impiego e se questo è o
meno una condizione normale nel capitalismo, ma entrambi portano avanti la
nozione di un tradeoff tra disoccupazione ed inflazione. Il guaio, come abbiamo
visto, è che sono necessari notevoli contorsionismi per spiegare i periodi
persistenti di crescita tanto dell'inflazione che della disoccupazione.
Sia
la teoria classica sia la storia del capitalismo non ci forniscono alcuna
ragione per supporre che il prodotto venga limitato dall’offerta di lavoro.
Invece, secondo la tradizione classica esiste un limite intrinseco
alla crescita ben definito. In effetti anche
quando vi è disponibilità di lavoro a salario reale corrente il tasso di
accumulazione del capitale sostenibile all’interno dell’economia è dato dal
saggio del profitto alla normale capacità. Marx fu il primo a dimostrare che
per sostenere l’accumulazione occorre una crescita bilanciata e risulta chiaro
dai suoi schemi di riproduzione allargata che il massimo tasso di crescita
sostenibile si verifica quando tutto il plusvalore viene reinvestito – per
esempio quando il tasso di crescita equivale al tasso del profitto (Marx, 1981).
Si può arrivare allo stesso risultato attraverso un sistema Harrodiano**
garantito (ad esempio al normale utilizzo della capacità) con una funzione
classica del risparmio (Kaldoriana). A partire da ciò l’eguaglianza tra
investimenti e risparmio I = R = sc P implicca che il tasso di accumulazione
garantito gKW
= I/K = sc · r (P/K) , dove sc è la propensione al risparmio
dei capitalisti, P rappresenta i profitti aggregati (alla normale capacità), K
è lo stock di capitale ed r = P/K
è il saggio del profitto alla capacità normale. Da ciò ne segue che il tasso
massimo di crescita garantita si verifica quando tutti i profitti vengono
risparmiati (sc = 1). Finalmente i famosi articoli di von Neumann e di Leontief
dimostrano l’esistenza di questo stesso limite nei modelli multisettoriali (von
Neumann 1945-46, Leontief 1953)1
Il
massimo tasso di crescita sostenibile verrà definito come il "Throughput
limit" dell'economia.
Supponiamo
che in alcuni periodi vi sia stato un eccesso prolungato della domanda, e nello
stesso tempo un eccesso di lavoro non utilizzato, l'effetto principale sarà
quello di stmolare (accelerare) il tasso di crescita della produzione e del
capitale e di ridurre il tasso di disoccupazione – finchè il tasso di
crescita non verrà impedito dal limite di throughput. Ma
se per qualsiasi ragione la differenza tra il tasso di crescita effettivo ed il
limite di throughput dovesse restringersi, ci sarà sempre meno possibilità per
la crescita del prodotto e di conseguenza una pressione sempre maggiore sui
prezzi. Il rapporto tra il tasso di accumulazione corrente e il limite di
throughput limit (il saggio del profitto alla capacità normale r), che
chiameremo "throughput coefficient", è quindi un indice della
pressione inflazionista. Notare che il coefficiente di throughput equivale al
rapporto tra l'investimento ed i profitti a capacità normale in quanto lo stock
di capitale appare al denominatore sia nel tasso di accumulazione (l/K) sia nel
saggio del profitto (P/K).
Il
processo descritto non si verifica necessariamente solo con un aumento del tasso
di crescita. Se il saggio del profitto alla capacità normale fosse in
diminuzione, come è avvenuto negli Stati Uniti per la maggior parte del periodo
del dopoguerra, allora ci si dovrebbe aspettare una diminuzione dei tassi di
crescita del capitale (che dipende dalle aspettative di profittabilità degli
investimenti). Ma se il saggio di accumulazione è diminuito più lentamente del
saggio del profitto, il coefficiente di throughput (che equivale al rapporto del
primo con quest’ultimo) dovrebbe aumentare.
In tal modo è possibile capire come una
diminuzione di profittabilità può provocare sia un aumento della
disoccupazione, grazie ad una crescita più lenta, sia un aumento della
pressione inflazionista a fronte dell’aumento del coefficiente di throughput. Questo
è proprio il motivo per cui le economie più avanzate hanno sperimentato negli
anni 70 e 80 sia la stagnazione che l’inflazione – fenomeni che i
neoclassici ed i keynesiani hanno grosse difficoltà a spiegare.
Per
verificare il rapporto tra coefficiente di throughput ed inflazione, occorrono
dati sui profitti aggregati, sugli stock di capitale e sull’utilizzo della
capacità. Ho potuto utilizzare solo i dati degli USA poiché sono disponibili
moltissime serie delle variabili da utilizzare2.
Si può notare che i dati per gli USA costituiscono la parte preponderante
rispetto a tutti i paesi dell’OCSE.
La
fig 4 mostra il saggio del profitto alla capacità normale per le imprese
americane ed il corrispondente saggio di accumulazione (tasso di crescita del
capitale) diminuisce bruscamente dalla metà degli anni 60 agli inizi degli anni
80. Tale caduta spiega l’aumento del tasso di disoccupazione di questo
periodo.
Nella
fig 5 vengono messi a confronto l'andamento del tasso di inflazione degli USA e
quello del suo coefficiente di throughput, e si nota che gli stessi andamenti
spiegano anche l’inflazione di questo periodo. Ciò che ci si aspetta dal
punto di vista empirico è che il tasso di inflazione tenderà ad aumentare
allorché il tasso di accumulazione si avvicina al suo limite di throughput –
ad esempio quando il throughput aumenta. Possiamo sottoporre questa proposizione
ad un test emprico ancora abbozzato confrontando direttamente le due grandezze.
La fig 5 illustra il tasso di inflazione negli Stati Uniti (in termini di
deflattore del PIL) ed il coefficietnte di throughput definito in questo caso
come investimenti delle imprese sottoforma di impianti e strutture rispetto ai
profitti totali alla capacità normale delle imprese, questi ultimi vengono
definiti come il prodotto (potenziale) alla normale capacità facendo il
rapporto tra i profitti effettivi ed il livello di utilizzo della capacità,
basando quest’ultima sulle misure effettuate da Shaikh (1987)
Appare
evidente come il tasso di inflazione degli Stati Uniti segua perfettamente i
movimenti del coefficiente di throughput. Dalle figure 4 e 5 possiamo osservare
che dal 1947 al 1962 il saggio del profitto si mantiene elevato e che sia il
saggio di accumulazione sia il saggio del profitto rimangono stabili. Tuttavia
il coefficiente di throughput di tale periodo permane basso e stabile come il
tasso di inflazione (e quindi il tasso di disoccupazione). Qundi segue il berve
periodo della Guerra del Vietnam che ha provocato un boom dei profitti dal 1963
al 1965, nel quale si verifica un aumento del saggio del profitto ma il saggio
di accumulazione aumenta maggiormente e sostanzialmente aumenta anche il
coefficiente di throughput – seguito dal tasso di inflazione. Tuttavia dal
1966 al 1982 si verifica un declino del saggio del profitto alla capacità
normale seguito dal saggio di accumulazione, ma quest’ultimo diminuisc più
lentamente, cosicché il coefficiente di throughput continua ad aumentare ed il
tasso di inflazione fa la stessa cosa. E’ solo nell’ultimo periodo che va
dal 1983 al 1995 che il saggio del profitto delle imprese supera il tasso di
accumulazione, facendo di conseguenza ridurre bruscamente il coefficiente di
throughput e nello stesso periodo si può notare che il tasso di inflazione cade
anch’esso bruscamente. Nel complesso il coefficiente di throughput funziona
molto bene come indicatore della pressione inflazionista nell’economia
americana.
Sia
la teoria keynesiana che quella classica si aspettano che l’inflazione aumenti
solo in prossimità del pieno impiego e differiscono tra loro nel considerare il
pieno impiego come condizione normale del capitalismo. Condividono la nozione
per la quale una espansione della domanda viene limitata dalla disponibilità di
lavoro, cosicché aumenta la pressione sui prezzi in prossimità del pieno
impiego. Ciò fa presumere che il concetto di un tardeoff tra inlazione e
disoccupazione sia un elemento centrale in entrambe le teorie e le politiche
adottate nel periodo postbellico.
Ma
secondo l’economia classica non può esistere una supposizione di questo tipo,
infatti il concetto fondamentale per tale tradizione si basa sull’esistenza di
una certa quantità di lavoratori disoccupati (involontari) che si genera e si
mantiene in maniera endogena. Ciò implica che un aumento dell’offerta di
lavoro non determina un limite alla crescita del prodotto e l’evidenza storica
si incarica di confermare che l’inflazione non è necessariamente, o
comunemente, associata con il pieno impiego (effettivo).
Infatti
come si può spiegare il fatto che negli anni 70-80 l’aumento
dell’inflazione era associato con l’aumento della disoccupazione e che una
diminuzione dell’inflazione (in molti paesi dell’OCSE) era associata ad una
disoccupazione sostanzialmente immutata o addirittura in diminuzione in tempi più
recenti (come negli USA)? Ho verificato che il limite più importante della
crescita del sistema dipende dal saggio del profitto alla capacità normale in
quanto va a determinare il tasso di accumulazione massimo (saggio di crescita
del capitale). Il rapporto tra il tasso di crescita effettivo
dell’accumulazione ed il saggio del profitto normale, che ho definito
coefficiente di throughput, può quindi essere considerato come un estensimetro
della pressione inflazionista. Le diverse dinamiche delle due variabili in gioco
costituiscono la chiave per spiegare l’inflazione ed i suoi legami con la
disoccupazione, fenomeno questo confermato dai
dati dell’economia americana relativi al periodo postbellico che
mostrano inoltre una forte connessione tra il coefficiente di throughput ed il
tasso di inflazione (Fig 5).
Infine
vale la pena di menzionare che nonostante l’occupazione costituisca un limite
fondamentale alla produzione in condizioni statiche, come nella maggior parte
delle valutazioni della teoria keynesiana e kalechiana, il concetto di limite
intrinseco alla crescita è perfettamente compatibile con le versioni dinamiche
di queste stesse teorie. Ma a questo punto ovviamente ci viene in mente Harrod e
quindi non è utile mettere in evidenza le contraddizioni tra la le idee che
sono state esposte in questo lavoro e quelle della tradizione keynesiana e
kalechiana. Invece il coefficiente di throughput che è una maniera utile per
rappresentare il tasso di crescita potenziale, ci libera dai contorsionismi
adottati per cercare di dimostrare il tradeoff automatico tra inflazione e
disoccupazione.
RIFERIMENTI
Artis,
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