Note
su Esercito europeo e dintorni
Una
volta tanto sono tutti d’accordo. Divisi senza rimedio sul tipo di rapporto da
sviluppare con gli States, i governi dell’Ue e i diversi schieramenti
che animano il dibattito politico nel continente, sembrano aver ritrovato
l’unità attorno ad un obiettivo concreto. Quello della creazione di una
difesa europea. Essa viene vista con favore da settori che, se si sono opposti
all’impresa irachena, lo hanno fatto senza agitare questioni di principio, riferendosi
ad una razionale ipotesi di gestione e risoluzione delle controversie
internazionali. Un’ipotesi che può esser sintetizzata con la formula del
“concerto delle potenze”. Ma sulla possibilità di dar vita ad un esercito
europeo, convergono anche le componenti che hanno sostenuto l’aggressione
all’Iraq da parte delle forze angloamericane e che ora, senza remore,
forniscono appoggio all’amministrazione coloniale impostasi in quel paese a
guerra finita. Va sottolineato che all’interno di questo schieramento
filoyankee a caldeggiare la prospettiva di una Difesa targata UE sono
soprattutto i realisti. Quelli, per intenderci, che non fondano l’approvazione
della aggressiva politica estera degli USA sulla esaltazione delle virtù della
“Civiltà americana”. Certo, qualche richiamo –sia pur non troppo
insistito- al ruolo degli americani liberatori d’Europa dal giogo nazifascista
si trova anche nei discorsi dei “realisti”. Ma essi –si pensi
all’italiano De Michelis, tra i consiglieri del Berlusca in politica estera-
più che di ideali e di nobili imprese, amano parlare di rapporti di forza.
Giungendo alla conclusione che la attuale debolezza dell’Ue non le consenta di
agire, oggi, senza gli USA o di contrapporsi nettamente ai loro disegni. Non
stiamo parlando, quindi, di un settore filoamericano in senso stretto. Lo stesso
De Michelis, non lo si scordi, ha criticato a suo tempo la fuoriuscita
dell’Italia, per volontà dell’esecutivo Berlusconi, dal progetto di
realizzazione degli Airbus A-400m, definendola un colpo alla possibilità di
realizzare una difesa europea. Poi, certo, per quanto i realisti siano meno
amanti dell’unilateralismo yankee di quanto non sembri, il loro modo di
intendere un possibile esercito continentale risulta affatto diverso da quello
degli europeisti veri e propri. I “realisti” discettano sul conseguimento di
una “autonomia relativa”
dagli States. Lo ha ricordato il già citato De Michelis in un talk show
televisivo condotto da Gad Lerner qualche settimana fa. In quella occasione
l’ex esponente craxiano –anticipando i contenuti di un successivo intervento
sul “Corriere della Sera”- ha anche invitato i diversi paesi europei a
concentrarsi sulle spese militari a scapito di quelle sociali, ritenute inutili.
Sarebbe il caso di complimentarsi per tanta chiarezza, distante anni luce dagli
infingimenti propri della retorica europeista. Francia
e Germania, nonché il grosso della sinistra istituzionale europea, mirano
–infatti- all’obiettivo di una autosufficienza militare che sia il tassello
definitivo di un progetto di totale autonomia dagli States. Ma, chiaramente, si
guardano bene dall’esplicitare i possibili costi sociali del cammino verso la
realizzazione di così ambiziosi propositi. Ora, della questione debbono
iniziare ad occuparsi le forze antagoniste, quelle che si sono opposte alla
recente mattanza in Iraq muovendo da una impostazione nitidamente
anticapitalista ed antimperialista. Occorre disvelare cosa nasconde il verbo
europeista cui una certa stampa vorrebbe conquistare il movimento contro la
guerra. Occorre farlo adesso, perché –dall’altra parte- non ci si ferma al
solo livello delle parole e delle dichiarazioni di principio. E’ vero, Francia
e Germania hanno chinato il capo dopo la vittoria statunitense nella terra che
fu l’antica Mesopotamia. Le loro esternazioni pubbliche, nel campo della
politica estera, si sono fatte più prudenti. Ma ciò non toglie che esse stiano
agendo concretamente per trovarsi, in un
prossimo futuro, più preparate a sostenere la sfida col cosiddetto
unilateralismo yankee. Il 29 aprile a Bruxelles, in compagnia di Belgio e
Lussemburgo, i due paesi più importanti dell’Unione hanno definito un
effettivo progetto di esercito europeo, proponendosi –nel campo in questione-
come vera e propria avanguardia continentale. Il loro intento risulta chiaro.
Essi hanno definito una Difesa raccordata alla NATO, ma autonoma da essa e
pronta, quindi, ad intervenire anche senza la storica alleanza militare. I tempi
di attuazione di siffatto progetto sono piuttosto ravvicinati e, nei confronti
di esso, non sono mancate le critiche da parte dei filoamericani. Non si è
avuta, però, contrapposizione frontale, nonostante il segno inequivocabile
della nuova iniziativa franco-tedesca. E ciò risulta significativo. Indicativo
del fatto che il progetto in questione sarà fatto rientrare negli attuali
binari della costruzione europea, magari stemperandone il latente connotato
antiamericano. In realtà, si sta già procedendo in questa direzione. Lo
conferma la riunione dei ministri degli Esteri dell’UE
tenutasi in Grecia pochi giorni dopo il minivertice di Bruxelles, dove lo
slancio franco-tedesco è stato assunto come contributo alla realizzazione di
una Difesa Europea. La quale, sia chiaro, non comporterà la messa in comune di
tutti i mezzi militari di cui dispongono i singoli paesi europei, ma solo di una
parte di essi. Il tutto, nel quadro di una cooperazione militare assai più
stretta dell’attuale e di una condivisione delle spese militari volta a
recuperare –parzialmente, si intende- il gap tecnologico con gli USA. A
qualcuno, ai più febbricitanti tra gli europeisti, potrà sembrare poco. A noi
sembra molto. Anche perché delucida sul carattere che concretamente assumerà
l’UE. Che non sarà quello sociale di cui hanno blaterato per anni
intellettuali affermati e molto ascoltati nella sinistra critica. La drastica
riduzione delle spese sociali cui si accennava prima, sulla base delle
dichiarazioni di De Michelis, non può che essere all’ordine del giorno. E ciò
non fa che demistificare i discorsi di chi ha preteso da un lato che l’Europa
conti di più sul piano planetario, dall’altro che essa si configuri come
continente dei diritti civili e sociali. Come si fa a contare di più se alla
moneta unica non si affiancano le cannoniere? Altro che Welfare, altro che
tradizione europea diversa da quella statunitense perché più rispettosa delle
conquiste dovute a decenni di lotte sociali! Tuttavia, sebbene i fatti li
smentiscano e la storia recente abbia dimostrato in modo incontrovertibile
l’infondatezza delle oro tesi, i teorici egemoni nel movimento, quelli che
hanno fantasticato per anni su un’Europa chimerica, non rinunciano ad osannare
l’UE, inebriati dalla opposizione di Chirac e Schroeder all’ultima impresa
yankee. Antonio Negri, in un recente scritto (“Il
continente della democrazia assoluta”), arriva addirittura a stravolgere
realtà che sono sotto gli occhi di tutti. Francia e Germania sarebbero, secondo
lui, addirittura portatrici di un modello alternativo al liberismo! E ciò in un
momento in cui, nel partito di Schroeder, diviene più forte l’emarginazione
della sinistra di Lafontaine e nella potenza d’oltralpe, l’esecutivo si
produce in una seria riforma del sistema previdenziale.
Che
ci si può fare.
Non
si può pretendere aderenza al reale da parte di chi –assieme al fido Hardt-
giunge a parlare di un golpe all’interno dell’Impero, portando avanti da
quegli USA che avrebbero così risuscitato il fantasma di un ormai logoro
imperialismo. In tale contesto fittizio -creato appositamente da Negri per
coprire gli abbagli analitici del suo best-seller-
non rimarrebbe che perseguire l’obiettivo tattico di una alleanza con
Francia, Germania e –perché no- Russia e Cina. Così da ritornare, dopo una
nefasta parentesi di unilateralismo imperialista, ad un sano multilateralismo
imperiale. Insomma, un autentico delirio, che non stiamo neanche rendendo
pienamente. Il breve scritto cui ci riferiamo, infatti, sembra
presentare in alcuni punti addirittura una identificazione tra le
moltitudini e i governi europei non allineati agli States. Il che porta con sé
un’autentica contraddizione. E tale prima ancora sul piano logico che su
quello teorico. Si pensi al fatto che, nella conclusione Negri sostiene che
l’alleanza tattica cui si è già accennato non può non portare al rinvio del
raggiungimento della meta ultima delle moltitudini. Ossia della attuazione
dell’utopia spinoziana di una
democrazia assoluta in Europa. Ma se moltitudini e governi si identificano,
l’azione geopolitica dei secondi e l’inarrestabile sforzo costituente delle
prime dovrebbero coincidere magnificamente. A meno che…Negri non stia un po’
prendendo in giro i suoi lettori. D’altra parte, la sua elaborazione risulta
di questi tempi piuttosto funzionale ad interessi diversi da quelli propri delle
sue pur indefinite moltitudini. Nella trasmissione televisiva citata in
principio, oltre a De Michelis risultava anch’egli presente, riabilitato non
solo come intellettuale eccelso, ma anche in quanto protagonista del dibattito
democratico. Non stupisce che a prodursi in questa operazione sia stato quel Gad
Lerner che ha parlato del movimento contro la guerra come di un movimento
“oggettivamente europeista”. Non
stupisce e dimostra quanto Negri renda un prezioso servigio a quei settori della
politica italiana che invocano un legame più forte col carro europeo.
Tuttavia, il suo valido contributo non
può far dimenticare ch’egli non è il solo a mischiare le carte in tavola, in
quella che, per comodità, chiamiamo sinistra critica. Nella componente
togliattiana di Rifondazione Comunista non manca chi lo scavalca, inneggiando
addirittura al carattere progressivo dell’esercito europeo, in funzione
antiamericana.
Di più, rivendicando lo stesso arco di alleanze proposto dal Professore,
intellettuali organici a quella corrente come Losurdo arrivano a trasfigurare
realtà come quella cinese. Il colosso emergente della economia mondiale non
sarebbe, secondo loro, un paese capitalista. E pensare che –a parte ciò che
da anni, sulla Cina, scrivono le forze rivoluzionarie- anche nella borghesia
nostrana la potenza in questione è stata analizzata e descritta per quello che
è. In un momento di onestà intellettuale unico, in una carriere segnata da uno
zelo eccessivo verso le direttive padronali e dalla apologia del liberismo,
Piero Ostellino, all’indomani della strage di Piazza Tien an Men, scrisse sul
“Corsera” che la Cina aveva da tempo intrapreso la strada della economia di
mercato. Però quel che già nell’89, mentre il Partito Comunista Cinese
commetteva un autentico crimine, ebbero a riconoscere lorsignori, viene ora
smentito in altri settori, che si ritengono interni più che al movimento no
global, al tradizionale movimento operaio. Insomma gli
attuali epigoni di Togliatti confermano –a partire dallo scarso
entusiasmo verso tutto ciò che si è determinato da Seattle in poi- il loro
rifiuto di ogni nuovismo, suffragato
da un impianto teorico che con quello di Negri poco ha a che spartire. Eppure
giungono ad una curiosa convergenza con l’ex esponente di Potop. E non tanto
nella comune spinta a stravolgere la realtà (la Francia è antiliberista, la
Cina è anticapitalista ecc.), quanto nell’antiamericanismo politico che di
certe mistificazioni abbisogna e che porta ad un puntuale schieramento con
l’Europa Unita contro gli States. Certo, l’affinità negli obiettivi non
comporta eliminazione delle differenze su altri piani. I togliattiani –al
contrario di Negri- condiscono il loro antiamericanismo anche con una sterile e
gretta contestazione culturale, ancorata al falso presupposto che l’Europa sia
portatrice di un’altra “idea di civiltà”. Ma, soprattutto, essi, nella
rituale fedeltà alle terminologie tradizionali, usano, seppur svuotandole di
senso, le parole giuste. Non esitano, insomma a parlare di imperialismo, anche
se alcuni di loro lo identificano con i soli Stati Uniti. L’autore di “Impero”,
invece, non
solo nega all’attuale, sempre più evidente, conflitto tra gli USA e il nucleo
duro dell’UE il carattere di conflitto interimperialistico; non solo pensa
allo stesso imperialismo americano come ad una parentesi o ad un accidente che
non corrisponde alla naturale linea evolutiva della politica estera di quel
paese, ma fa di più. In uno sconcertante passaggio del libro appena citato il
nostro, assumendo l’idea di “fine della storia” elaborata da un Francis
Fukuyama incredibilmente preso sul serio, la corregge sostenendo che essa non
coincide –come nei sogni del “teorico” nippo-peruviano- con l’avvento
della pace nell’espansione del capitalismo . Bensì con la fine delle
“guerre imperialiste, interimperialiste e antimperialiste”, sostituite da
“conflitti interni e minori”, da operazioni di polizia svolte dal potere
imperiale in varie parti del pianeta. Ovviamente, la realtà risulta essere
molto diversa. E non perché si possano configurare scontri tra le potenze
totalmente espliciti. Ma perché la cosiddetta guerra preventiva altro non è se
non prevenzione –da parte degli USA- dell’ascesa di altri soggetti
politico-economici nello scenario mondiale. Tentativo di contenere la Cina,
attaccando la Corea del Nord o di arginare l’UE, creandosi –mediante
l’operazione in Iraq- un avamposto in un’area dove l’offensiva dell’EURO
è così forte da far temere che esso ne diventi la moneta di riferimento. Ora,
in un conflitto siffatto non ci si può assolutamente schierare, neanche a
partire dalle posizioni dei più illuminati tra gli intellettuali togliattiani. Quelli, per
intendersi, che non riferiscono l’imperialismo ai soli USA, ma che considerano
la potenza più forte enormemente più pericolosa di quelle emergenti, con le
quali ci si può alleare tatticamente. Parliamoci chiaro:
è ovvio che faccia inorridire la politica americana, fondata com’è
sull’arroganza di chi pretende di definire quali Stati siano civili e quali
canaglie. Essa può e deve suscitare una opposizione permanente, che in questo
momento dovrebbe tradursi nel rifiuto dell’atteggiamento coloniale che sta
distinguendo gli States nell’Iraq liberato. Ma tale battaglia deve saldarsi
con i moti di resistenza nei confronti dello strapotere yankee diffusi ovunque e
non con la rivendicazione di un maggiore ruolo, nello scacchiere internazionale,
dell’UE e di altre potenze. Proprio la previsione, non difficile, su come
funzionerà il futuro esercito europeo, può risultare illuminante al riguardo.
Essa non disegna uno scenario unico, ma diverse possibilità, comunque di
carattere negativo. Nel caso dovesse prevalere l’idea di “autonomia
relativa” cui si è accennato prima, l’UE, partecipando con proprie forze
alle imprese militari “contro il terrorismo” guidate dagli USA, arriverebbe
–rimanendo impedita nella propria proposizione come polo imperialista- ad
accaparrarsi quote sempre maggiori dei bottini derivanti dalle prossime guerre
di conquista. Qualora si verificasse invece la situazione auspicata dai più
ferventi europeisti, ossia quella di una autonomia totale del “Vecchio
Continente”, le prospettive non sarebbero comunque buone, anzi. Da un lato si
condividerebbero comunque aggressioni imperialiste con gli States laddove non vi
sia una divaricazione di interessi tra le 2 sponde dell’Oceano e risulti
possibile accordarsi per la spartizione della torta. Dall’altro si
promuoverebbero iniziative in proprio, sul modello, magari di quelle che la
Francia già porta avanti a sostegno dei propri interessi in Africa. Si pensi
all’ingerenza militare nella Costa d’Avorio in crisi, volta a mantenere il
proprio controllo sul paese che Charles de Gaulle definiva la perla francese in
Africa e che costituisce –da sempre- una base d’appoggio per l’intervento
delle multinazionali d’oltralpe in quel continente. Parigi, oltre ad inviare
proprie truppe in quella che viene definita terra
eburnea, è giunta sino a spingere per modificare la compagine governativa
di quello che da alcuni è stato definito come “protostato”, creazione vera
e propria dell’imperialismo, mai dotata di autentica autonomia. E lo ha fatto
attraverso “trattative di pace” svoltesi con il beneplacito dell’ONU di
Kofi Annan. In sostanza, il rilancio di una politica schiettamente
imperialistica in Africa, nel segno del superamento della prudenza di Jospin,
incontra l’incoraggiamento del
luogo cardine dell’auspicato “concerto delle potenze”. Lo stesso
segretario generale dell’ONU, dopo aver benedetto l’interessamento francese
alle vicende ivoriane, ora richiede un altro intervento nel più martoriato tra
i continenti. Stavolta il suo teatro dovrebbe essere la Repubblica democratica
del Congo, dilaniata da quella che Madeleine Albright definì “prima guerra
mondiale africana” e che appare come un perenne scontro tra fazioni interne,
sostenute, dall’esterno, dai diversi paesi circonvicini. In realtà, per vie
indirette, e cioè attraverso il rapporto privilegiato con alcuni degli Stati
africani che soffiano sul fuoco congolese, ad appoggiare le fazioni della guerra
in un paese ricchissimo di materie prime ci pensano anche gli Stati Uniti e la
Francia, come abbiamo già accennato nel volantino “La
ragione e la forza” (distribuito il 12 aprile) e come il 23 maggio
specificava un bell’articolo di “Liberazione”, tardivo ma comunque gradito
contributo ad un più corretto inquadramento della politica estera parigina.
Peraltro, l’intervento francese nell’ex Zaire, sul cui carattere
imperialista non è lecito –alla luce di quanto detto- avere dubbi,
dovrebbe preparare la strada ad una missione gestita dall’UE nel suo
complesso. Il che dimostra in modo lampante cosa comporterà la definitiva
realizzazione di un esercito europeo. Esso porterà svantaggi –in prima
battuta- ai proletari di questo continente, che lo pagheranno in termini di
spese militari. Ma quando la difesa europea giungerà ad un minimo di operatività,
rivolgerà la sua azione principalmente contro gli sfruttati di quei “paesi in
via di sviluppo” dove forte è la spinta alla razzia da parte dei paesi e dei
poli imperialistici in concorrenza tra di loro. E’ il piano militare, quindi,
a far luce sulla autentica essenza dell’Unione Europea, “potenza dal volto
umano”. Più si va avanti nel dibattito sull’Europa della difesa, più certi
discorsi risultano in tutta la loro ambiguità e nocività. Stiamo parlando
naturalmente di tutte le dissertazioni sul fatto che l’UE rinvigorita potrebbe
frenare –almeno in parte- la terribile offensiva imperialista americana. Esse
sono quanto di più incompatibile con una autentica prassi internazionalista.
E’ vero, una UE più forte potrebbe arginare lo strapotere militare yankee. Ma
solo per recare vantaggio ad una Europa capace di proporre un miglior dosaggio
di bombardamenti e dialogo. Il che ci porta a concludere che la geopolitica, per
il movimento, deve essere più che altro oggetto di sforzo analitico. E mai
terreno nel quale individuare alleanze. Il movimento, i settori di classe in
esso operanti, non possono essere distolti dal più importante dei piani su cui
operare. Quello della unificazione delle spinte contestative verso l’esistente
in atto in tutto il pianeta. Una unificazione che può e deve coincidere con
quella dei settori sociali che pongono in essere tali istanze di superamento di
una realtà fondata sullo sfruttamento. Il terreno che stiamo individuando,
risulta meno impervio di quanto non sembri a tutta prima. Su di esso si può
agire qui ed ora, a partire da quelle metropoli dei paesi a capitalismo avanzato
dove è possibile, attraverso l’unità d’azione con gli immigrati, creare a
un tempo le basi materiali e le condizioni di scambio culturale necessarie
all’unità su scala planetaria tra chiunque subisca le scelte del capitalismo
e dell’imperialismo. Proprio il processo, appena accennato, di unificazione
delle lotte e delle spinte contestative, deve poi collegarsi,
inquadrandola diversamente, alla attuale prassi internazionalista. La quale, in
questo modo, può perdere il proprio connotato genericamente solidaristico.
Valorizzando maggiormente le esperienze più significative degli ultimi anni.
Per fare un esempio: le mobilitazioni a sostegno dei palestinesi, hanno portato
molti giovani nella terra più amata. Giovani che hanno conosciuto la rete di
solidarietà ed il tessuto di rapporti comunitari sviluppatisi in territori
sotto occupazione militare. Ma anche e soprattutto, giovani che –esponendosi
in prima persona, in casi come quello di Rachel Corrie pagando con la vita-
hanno espresso un totale distacco dagli interessi del paese di appartenenza,
dell’imperialismo di casa propria, nel caso specifico vicino
ad Israele e comunque ostile all’Intifada. Proprio l’esperienza
palestinese, l’interscambio che in essa si sta verificando tra realtà che si
è portati a vedere come lontane tra
loro e cioè tra una battaglia di massa per l’autodeterminazione e il
movimento partito da Seattle, conferma una possibilità. Una possibilità,
appunto, che va sostanziata nelle nostre metropoli con lotte comuni tra gli
sfruttati, tra coloro che risultano essere –sia pure in forme molto diverse-
“sotto attacco” da parte del sistema economico che domina il pianeta e della
sua inevitabile spinta imperialistica. Ma soprattutto una possibilità che
rimanda alla concretezza di un’utopia –quella della unità tra coloro che
subiscono le logiche dello sfruttamento e del dominio-
immediatamente rivolta contro ogni velleitario discorso di alleanza, da
parte dei movimenti, con una o più potenze in concorrenza con gli USA.
Corrispondenze
metropolitane –collettivo
di controinformazione e di inchiesta (Roma)
2003