IRAK
1991: storia
di un’occultazione moderna
A
partire dal 2 marzo 1991, comincia in Irak una delle più grandi insurrezioni
moderne. Questa insurrezione può essere considerata come quella che al mondo,
in rapporto alla sua importanza, ha fino ad oggi subito la più grande
occultazione. Eccone di seguito i due elementi probanti.
In
superficie, il numero dei morti. I due bilanci a nostra disposizione concordano
sullo stesso numero: 750.000 morti. Se nulla può contraddire questo numero,
nulla anche può confermarlo.
Sappiamo,
e anche voi sapete, che i numeri possiedono un mero valore quantitativo e, di
conseguenza, vengono considerati privi di valore qualitativo. Tuttavia, se i
750.000 morti fossero veri, cosa che la Bibliothèque des Emeutes stenta
a credere, non tanto perché le fonti siano poco attendibili (il che è vero),
quanto perché 750.000 morti sembrano qualcosa di insensato, un simile
“punteggio” infrangerebbe tutti i parametri finora conosciuti. Per fornire
ordini di grandezza generalmente ignorati, le insurrezioni più sanguinose
riscontrate dalla Bibliothèque des Emeutes sono state, per il 1989,
quella della Cina, i cui 1.400 morti sembrano di regola esagerati, e, per il
1990, quella di Ayodhya (Pakistan), con i suoi 453 morti. Il termine genocidio
è stato utilizzato da tutti per qualificare e giudicare la repressione rumena,
di cui all’epoca si disse che procurò 70.000 morti (il massimo dichiarato);
tale termine non è stato eliminato dal linguaggio usuale allorché il totale
delle vittime è sceso a 1.000. Nel corso degli ultimi due anni, il numero di
morti nelle rivolte è stato, a livello mondiale, di circa 20.000, trentasette
volte meno di quelli che ci sono stati nel corso dell’insurrezione delle città
dell’Irak nel marzo del 1991. Per trovare ordini di grandezza paragonabili,
bisogna andare a frugare fra avvenimenti altri da una rivolta senza capi. A
Hiroshima, vi sarebbero stati un sesto dei morti. Dal 1945, un solo conflitto
armato al mondo ha avuto più di 750.000 morti: la guerra Iran-Irak, il cui
milione di morti (300.000 solo tra gli irakeni) si è prodotto nell’arco di
otto anni e che, per quanto avvolta in una grande discrezione, ha fatto piangere
assai più spirito umanitario di quanto non l’avesse fatto l’insurrezione
irakena di marzo. La Guerra cosidetta del Golfo, che ha preceduto
quest’insurrezione, e i cui bilanci sono sistematicamente limati alla
perfezione, fece registrare un numero cinque volte inferiore di morti rispetto
alla successiva repressione. A titolo d’esempio, le sanguinose guerre del
Vietnam, del Mozambico e dell’Etiopia arrivano ognuna, in un arco di tempo di
più di dieci anni, a circa metà dei 750.000 morti e il massacro della Cambogia
ad opera dei Khmer rossi (sulla base dell’unica fonte critica, Vickery)
avrebbe fatto 700.000 morti, cioè in quattro anni quello che è accaduto
nell’insurrezione irakena in quattro settimane. Infine, la celebre
catastrofe curda (aprile 1991) e l’inondazione del Bangladesh, che l’ha
rimpiazzata nello spettacolo della pietà occidentale, hanno fatto in totale,
ambedue, solo un terzo dei morti dell’insurrezione irakena per i quali
l’indifferenza è stata così stoica. Il futuro ci dirà forse che i disordini
in Cina nel 1966-70, e intorno al 1976, sono stati più sanguinosi, o forse ci
proverà il contrario, poiché da questi 750.000 morti sono esclusi gli affamati
e i relativi malati e il milione (almeno) di rifugiati in Iran e nei pantani a
nord di Bassora.
Sullo
sfondo si nota la vicinanza, nel tempo e nello spazio, della rivoluzione
iraniana. È incredibile fino a qual punto appaia oggi difficile spiegare la
differenza, per altro fondamentale, tra la rivoluzione e la contro-rivoluzione
iraniana. Da Khomeini ai mujahedin (che hanno appena combattuto gli insorti
irakeni al fianco di Saddam Hussein), passando per Shariatmadari, Bakhtiari,
Talegani, Bani Sadr, il Tudeh, Khalkhali, Rafsanjani, Khamenei, i feddayn,
Shariati, Qasemlu e Yann Richard, ecco fatta la controrivoluzione iraniana.
Quest’ultima ha avuto bisogno del neoislamismo, della presa di ostaggi
all’ambasciata americana, della guerra contro l’Irak e di un lungo e duro
periodo di tempo (commerciale, spirituale e poliziesco) per soffocare la
rivoluzione iraniana. La rivolta irakena sembra aver costituito l’immediato
rifiuto di questa sconfitta, priva ancora della profondità di un proprio
dibattito ma con l’estensione della sua prospettiva già tracciata. È per
questo che tutti i partiti del vecchio mondo […] si sono rifiutati di
riconoscere l’esistenza stessa di questa rivolta, ancor più sanguinosa della
rivoluzione iraniana che ugualmente preferiscono ignorare. È per questo che
tutti gli Stati del vecchio mondo, quello neoislamico iraniano in testa,
riconoscendo l’odore, il suono e il sapore della minaccia di una sovversione
in corso da tredici anni, si comportano da nemici di questa grande insurrezione.
L’insurrezione
irakena è nata da una guerra, e questo fatto è di notevole importanza. Non
esistono esempi paragonabili dopo il 1918, in cui uno Stato sconfitto in una
guerra tra Stati divenga immediatamente teatro di un’insurrezione.
Ciò
rivela per prima cosa che lo Stato irakeno era un chiavistello, uno strumento
difensivo e non offensivo. È evidente che i poveri del mondo lo ignoravano, è
notevole che gli Stati l’hanno dimenticato o non l’hanno mai creduto. Questo
chiavistello bloccava la rivoluzione iraniana, per due motivi. All’inizio è
servito, in quanto guerra Irak-Iran, a promuovere la prima indiretta repressione
degli insorti iraniani; in seguito è servito a bloccare la rivolta stessa,
poiché le ragioni per ribellarsi sono le medesime in Iran e in Irak. Se si teme
la rivoluzione iraniana fuori dell’Iran, curiosamente ciò avviene molto meno
in Irak. Qui, in verità, tutte le ragioni di tale rivolta erano solo
paralizzate. L’insurrezione irakena mostra quanto poco esse abbiano
accompagnato la crepa operatasi nello Stato irakeno. Il suo grado d’intensità,
insieme con la sua velocità, ha terrorizzato tutti coloro che ne hanno preso
coscienza e che combattono la rivoluzione iraniana nel mondo. Costoro non sono
molti e sono rimasti più che discreti, taciturni. Contrariamente alla Comune di
Parigi, repressione sorprendentemente cruenta, opera di un vincitore di guerra
che delimita i confini del campo di battaglia, l’insurrezione irakena sembra
essere passata del tutto inosservata e il partito degli insorti non ha trovato
la minima eco, anche tra coloro che per principio simpatizzano con tutti gli
insorti. Questo prodigio, che svergogna tali simpatizzanti, si spiega qui di
seguito.
È
necessario cominciare sottolineando, come parte di questa generalizzata perdita
di coscienza, che se la guerra è stata così ben preparata ed eseguita
militarmente dagli americani, nessuna della sue conseguenze è stata presa
pubblicamente in considerazione. Né gli stessi americani, né gli irakeni, né
l’informazione occidentale hanno pensato che una rivolta di tale portata
potesse esplodere in seguito alla sconfitta irakena. A breve termine, i gestori
del mondo, così come gli insorti, sembrano oggi condannati all’ atrofia delle
prospettive, alla goffaggine del panico improvviso.
La
guerra non ha quindi abbattuto gli irakeni, perché non appena quella è venuta
a cessare li si è ritrovati in rivolta. Le cause dirette della rivolta sono
sconosciute. Peraltro, è da notare che, a fianco delle manifestazioni contro il
regime, il primo gesto offensivo a Bassora è stato l’attacco delle prigioni e
la liberazione dei detenuti. È la libertà che, in maniera evidente,
costituisce il primo obiettivo della rivolta. Ad essa si aggiunge, come sembra
rivelare l’odio contro l’Occidente assieme a quello contro Saddam Hussein,
l’onore (l’umiliazione per la sconfitta dell’Irak, ma anche il mancato
rispetto verso le popolazioni civili irakene, che per altro ha permesso di
metterle a tacere anche quando queste si sono ribellate). Bisogna inoltre
considerare che tutto il movimento si sviluppa sotto l’impronta evidente della
necessità: Bassora, che ne è la culla, dopo essere stata bombardata per otto
anni dagli iraniani, è stata incessantemente presa a cannonate dall’aviazione
americano-onusiana ogni giorno, dal 17 gennaio al 28 febbraio 1991. L’acqua,
il cibo e i medicinali mancano da prima che iniziasse l’insurrezione, l’aria
è pressoché irrespirabile come nel vicino Kuwait, mentre le truppe d’élite
di Saddam Hussein, che hanno qui il loro quartier generale, si accaparrano per
primi tutti gli approvvigionamenti.
Un
contesto improvvisamente così spoglio impedisce d’immaginare che vi siano
state pazze gioie al momento delle brevi vittorie degli insorti, per altro
giovani come ovunque nel mondo. L’amore e il coraggio si sono certo dati degli
appuntamenti fulminei ai quali tutti noi manchiamo, presi dall’urgenza.
L’urgenza, è vero, non è necessariamente propizia allo sviluppo in profondità
dell’intelligenza critica; tuttavia, poiché nulla prova che quella nuoccia a
questa, prendiamo semplicemente atto che è un peccato che il discorso su questa
insurrezione, (ancora) troppo breve per diventare la rivoluzione iraniana, ci
sia arrivato ancor meno del discorso sulla rivoluzione iraniana.
Infine
la paura, con cui l’incredibile durata della repressione ha ininterrottamente
irrigato l’insurrezione, è in ugual modo straripata e ha sommerso l’altro
campo, come testimonia l’incredibile durata della repressione. Ma sappiamo
anche che la perdita delle illusioni relative al sostegno dei vincitori della
guerra statale non si è trasformata in rassegnazione, quanto in odio
inestinguibile; e che i sopravvissuti sanno di non avere amici al mondo. Quando
la morte è così diffusa, e quando la si è vista colpire coloro che sembravano
al sicuro, le persone inoffensive e quelle che godono di buona posizione, la
paura della morte cessa di essere la peggiore delle paure.
La
rapidità e l’estensione della sconfitta irakena hanno manifestatamente
sorpreso tutti quanti, salvo, probabilmente, lo stato maggiore americano. Il
governo di Saddam Hussein, il Baas[1]
irakeno, la guardia repubblicana e la polizia segreta paiono un paniere di
granchi che hanno da poco capito che non potranno sopravvivere tutti. Ma il
discorso di propaganda è ancora quello, trionfalista e orwelliano, che può
fare la comparsa che da sopra un piedistallo dà del tu al pubblico. Saddam
Hussein, che incarna tale contraddizione, si manifesta adesso dittatore accorto.
All’esterno, cede a tutte le esigenze dei vincitori, all’interno si ripiega
su Baghdad e conta rapidamente le proprie forze. Assai presto ha compreso che le
guerriglie curde non attaccheranno mai Baghdad, che sono incapaci di
impadronirsi dello Stato irakeno, e che anzi costituiscono un bastione
poliziesco e militare contro un’insurrezione nelle città del Nord. Egli
abbandona loro quindi tutto il Kurdistan e con tutte le sue forze lancia
un’offensiva contro gli insorti del Sud; nello stesso tempo, espelle la stampa
occidentale, senza dubbio con la complicità americana. Verso il 7 o l’8 marzo
1991 (quinto o sesto giorno dell’insurrezione), argina il contagio; al più
tardi il 10, sa che ha ristabilito le sue possibilità; il 16 marzo, al momento
del suo discorso televisivo, sa che ha vinto e cosa gli resta da fare.
È
assai poco probabile che un simile successo potesse essere ottenuto senza
l’aiuto attivo del mondo intero. Inizialmente, gli Stati Uniti hanno fermato
la guerra prima di aver distrutto l’esercito irakeno che volevano solo
indebolire. Il loro comportamento nel Sud dell’Irak è stato di respingere
quelli che fuggivano la repressione, di respingerli verso la repressione. Se il
governo americano, come è stato affermato, temeva uno smembramento dell’Irak
(uno Stato curdo e uno Stato sciita ad esempio), tale paura non aveva molto
senso. Quel che realmente era da temere, e che il governo americano è stato
obbligato a prendere in considerazione, era la fine dello Stato in Irak, e
quindi una rivoluzione capace di abolire le frontiere, kuwaitiane innanzitutto,
ma anche turche, iraniane, giordane, poi siriane e perché no saudite. Questo
governo ha un’altra ragione, meno confessabile, per non sostenere
un’insurrezione in Irak: l’ampiezza e la brutalità delle distruzioni
americane avvenute durante la guerra devono rimanere nascoste, almeno fino alle
prossime elezioni presidenziali. Il modo migliore per ottenere ciò è un lungo
e distruttivo disordine all’interno dell’ Irak, cui potrà essere attribuita
una parte delle distruzioni compiute dall’aviazione americana; e una vittoria
di Saddam Hussein il quale, al contrario di una qualsiasi insurrezione
vittoriosa, non farebbe nessuna pubblicità. D’altra parte, la lobby texana
del presidente Bush, che ha interesse a che il prezzo del petrolio, e di
conseguenza anche del petrolio texano, salga e che per la medesima ragione gli
tornava utile che il dittatore irakeno invadesse il Kuwait, ha interesse che il
petrolio kuwaitiano bruci a lungo e che quello irakeno non sia in grado di
colare sul mercato. Infine, l’amministrazione americana conosce Saddam Hussein,
lo tiene saldamente in pugno e lo sa manipolare. Essa preferisce interlocutori
conosciuti a quelli sconosciuti, e quelli vinti in una guerra ai vincitori di
un’insurrezione. Durante tutto il marzo 1991, gli Stati Uniti hanno abbattuto
due aerei irakeni (che probabilmente erano stati pilotati da alcuni insorti) e
hanno consentito a tutti gli altri di bombardare i rivoltosi (con napalm,
fosforo, acido solforico). Ben pochi osservatori si sono interrogati sul riarmo
e sul finanziamento, avvenuto in qualche giorno, di un esercito in rotta, i cui
resti miserabili sono in gran parte finiti all’insurrezione. Se le truppe d’élite
del Baas hanno potuto non solo mangiare, ma anche camminare e sparare,
difficilmente ciò poteva accadere senza l’aiuto straniero che là non poteva
che essere americano. Interessi tanto forti stanno evidentemente in contrasto
con il discorso morale che il governo americano è obbligato a fare. Ed è per
questo che le fonti ufficiali americane, obbligate a far buon uso di tali
interessi e discorsi, sono paradossalmente le più moderate e quindi le più
deboli riguardo a questa rivolta.
Le
fonti più numerose su di essa sono state quelle iraniane. Lo Stato iraniano ha
visto nella rivolta irakena il più grottesco degli incubi. Si tratta
dell’espressione di una lunga e pericolosa lotta contro una rivoluzione che,
tredici anni prima, assomigliava sotto molti aspetti a questa improvvisa rivolta
alle sue porte. È per il fatto che lo Stato iraniano è il più intimo nemico
di questa rivolta, quello che la conosce meglio per averla combattuta e
soggiogata nel corso degli anni, che esso ha sempre vissuto con la paura di non
averla completamente annientata, ed è per il fatto che tra il suo pubblico
vivono ancora numerosi attori che hanno l’esperienza di ciò che comincia a
Bassora, che esso è obbligato a parlarne di più. Ma l’Iran è stato molto
chiaro: non ne vuole mezza di questa rivolta. Il neoislamismo iraniano non
sopporta le rivolte più di quanto le tollerassero i bolscevichi e i giacobini
al loro tempo, dal momento che non l’ha intrapresa. E siccome il neoislamismo
– non più dei bolscevichi o dei giacobini – non ha mai intrapreso
una rivolta, ciò che accade in Irak nel marzo 1991 ne è l’esatta
contraddizione. È per ciò che esso accetta volentieri nei suoi campi i
fuggiaschi della rivolta; gliene si può affidare il controllo. Se c’è uno
che la sa maneggiare, trattenere e nuocerle, questo esperto è proprio lui.
Gli
Stati vicini al Sud dell’Irak hanno scelto di diventare vassalli degli Stati
Uniti ancor prima della guerra. Il Kuwait è una nuvola nera, dove regna la
xenofobia e dove, sull’esempio dell’esercito americano, si chiudono le
frontiere a tutti i fuggiaschi irakeni; allo stesso modo, in Arabia Saudita,
pare che si preferisca una puttana alcolizzata, che si ingozza di carne di
maiale, a un ribelle. Al Nord, Siria, Turchia e Iran non vogliono nemmeno
rischiare un’autonomia curda in Irak, che la minima insurrezione supererebbe
fatalmente. La radicalità dell’insurrezione irakena, d’altra parte, se è
sfuggita agli specialisti europei in rivoluzioni, ha messo su un’intransigente
difensiva le polizie che controllano queste prime frontiere che essa minaccia di
abbattere. Come gli Stati Uniti hanno fatto sapere, e tutti gli altri Stati sono
d’accordo, il colpo di stato militare, vale a dire un Hussein Saddam, è
l’unica alternativa a un Saddam Hussein.
L’informazione
negli Stati arabi aveva dato vita a una sorta di scissione all’interno
dell’informazione dominante nel corso della Guerra del Golfo. Spesso contro la
posizione ufficiale dei loro Stati, i giornalisti avevano preso partito, con
virulenza, per Saddam Hussein. Tale fedeltà lusingava un dittatore arabo, cosa
che rassicurava coloro che, come il re del Marocco, si erano schierati a fianco
degli americani. Ma soprattutto lusingava, inquadrava e teorizzava
l’entusiasmo popolare per Saddam Hussein, il quale finiva così per mascherare
la critica, permettendo grandi raduni contro il tiranno e lo Stato locale.
Questa informazione, evidentemente, si è zittita immediatamente al momento
dell’insurrezione contro il suo vessillo, Saddam Hussein. Dalla Mauritania,
passando per Algeri e Tunisi, fino a Gaza e Nablus, il silenzio dei poveri
dimostrava che oggi, anche in quei paesi, è possibile spostare le persone per
far posto allo spettacolo oltraggioso di una guerra tra Stati, ma che è
possibile nascondere loro le rivolte che potrebbero liberarle. Così, la
scissione filo-Saddam nell’informazione araba scopre di aver essenzialmente
rafforzato l’informazione occidentale.
L’informazione
occidentale ha decisamente bisogno di rinforzi. Essa non aveva osato dichiararsi
in aperto conflitto con gli Stati belligeranti, il che ha costituito la
debolezza del suo spettacolo sulla Guerra del Golfo. Ha sostenuto la guerra in
una messinscena di una portata finora senza eguali, che testimonia della sua
recente potenza. Ma questa informazione che oggi dà al mondo intero lezioni di
morale, di politica, di gestione, di spettacolo non ha osato far uso di questa
potenza per darne agli eserciti irakeni e americani. Vero è che si trattava di
un primo contatto con un avversario misterioso, che essa teme fin da quando è
nata, e che a giusto titolo può considerare come l’alleato che le ha fatto
raddoppiare, triplicare, le vendite e gli indici d’ascolto. Dopo essersi
accontentata di dare a questa guerra più forma che sostanza, essa venne
facilmente messa da parte dall’insurrezione ad opera degli eserciti
americano e irakeno, alleati nell’impresa. Alla prima eco della rivolta di
Bassora, quaranta giornalisti lasciarono il Kuwait alla volta dell’Irak, come
se si trattasse di una terra già conquistata. Vennero arrestati e scomparvero.
Il 6 marzo, l’Irak concede quarantott’ore di tempo a tutti i giornalisti per
lasciare il paese; i quaranta arrestati riappaiono, e vengono espulsi. Questa
doppia violenza irakena contro la santa stampa non poteva darsi che con
l’accordo americano, se non per necessità americana, perché gli Stati Uniti
non volevano pubblicità sull’Irak. L’informazione occidentale non sfidò più
l’avvertimento. Ha dunque fatto apparire questa grande insurrezione più
piccola, in proporzione allo spazio che le ha concesso. La guerriglia curda, che
da anni le mendica piccole briciole d’attenzione, l’ha condotta in seguito
nei suoi furgoni, nel nord dell’Irak, per uno speciale spettacolo curdo.
L’opposizione
ufficiale irakena, interamente in esilio, è divisa tra entità di natura
incomparabile: individui dissidenti del Baas (potenzialmente golpisti
anti-Saddam Hussein), comunisti in pieno tracollo dello stalinismo, nazionalisti
arabi, guerriglie curdi e organizzazioni islamiche sciite. A dire il vero,
dissidenti del Baas, nazionalisti arabi e stalinisti decomposti emanano solo
odore di cloaca. I curdi raggruppati e gli sciiti raggruppati sono stati quelli
maggiormente utili. All’inizio, hanno dato il loro epiteto alla rivolta. Dato
che c’è un’opposizione curda, e una sciita in esilio, si è
parlato di rivolta curda al Nord e sciita al Sud. Ma in se stessa la rivolta
delle città del Nord non aveva nulla di specificatamente curdo e quella delle
città del Sud nulla di specificatamente sciita. Come in molte rivolte
spontanee, queste due sono state ufficialmente preconfezionate secondo i
parametri dei recuperatori preesistenti, e sono state attribuite a tali
recuperatori. Coloro che volevano avere informazioni sono andati a vedere le
opposizioni curda (in particolare l’informazione occidentale, che non aveva
neanche bisogno di spostarsi, tanto i curdi strisciano sul suo zerbino) e sciita
(in particolare l’informazione iraniana), dato che le principali fonti, dopo
quella americana e quella iraniana, sono “curde” e “sciite”. Le
organizzazioni di recuperatori hanno assolto il compito di sostituire la loro
versione dei fatti ai fatti reali. Si trattava di un compito gradevole e facile:
non avrebbero rischiato di essere tacciati di bugiardi. Anche quando i fatti li
contraddicevano in maniera flagrante, vennero giustificati dalle “difficili
circostanze”, dalle voci più folli e, certamente, dal loro interesse che li
rende parziali. In quest’ambiente è lecito mentire un pochino per la propria
causa.
Esiste
una grossa differenza tra la zona del recupero sciita e quella curda. I
dirigenti islamici non hanno mai potuto farsi filmare sul campo in armi, al
contrario dei curdi, per i quali il fatto di farsi filmare era stata una delle
prime disposizioni prese. L’opposizione sciita è palesemente rimasta in
esilio, e la sua appropriazione a distanza dell’insurrezione può sembrare
possibile solo se si mantiene la quantità d’informazione al più basso
livello. Gli sciiti irakeni non hanno guerriglie, non hanno polizia costituita
nel Sud dell’Irak. La loro influenza è pertanto limitata alla necessità che
tutti i partiti del vecchio mondo hanno di nominare colui che dirige questa
insurrezione. Le guerriglie curde, al contrario, che non avevano preparato nulla
(esse sembrano tuttavia in permanente tournée diplomatica), hanno rapidamente
conquistato le città del Kurdistan insorte spontaneamente, e vi hanno garantito
l’ordine, salvo apparentemente a Mossul, principale città del Nord dove
l’insurrezione viene segnalata a intermittenza dopo l’arrivo delle
guerriglie curde. Nel resto del Kurdistan, siccome Saddam Hussein l’ha assai
bene anticipato, l’insurrezione si ferma con l’arrivo della guerriglia. E lo
spettacolo occidentale curdo comincia quando tale guerriglia viene di nuovo
attaccata dall’esercito irakeno. Perché, in quel momento, si tratta di una
nuova guerra classica tra partiti statalisti che viene a sostituirsi
all’iniziale insurrezione urbana.
Bassora,
seconda città dell’Irak, costituisce il punto di partenza e il centro della
rivolta. I primi insorti sembrano essere giovani (in età premilitare) ben
presto raggiunti da moltissimi disertori, probabilmente meno radicali. Non
sappiamo con certezza di nessuna città che sia stata liberata per più di
quarantott’ore, cosa che sembra essere avvenuta a Bassora, il 3 e il 4 marzo.
È probabilmente questo fatto che ha propagato il movimento in tutto l’Irak.
Il 5, le principali città curde sono insorte. Il 6, il movimento sembra aver
raggiunto la sua massima estensione, dato il numero delle città insorte
simultaneamente. Le diserzioni vanno moltiplicandosi. Solo a Baghdad, ogni volta
che la rivolta conquista una periferia (come nel primo giorno
dell’insurrezione, il 2 marzo), il fuoco non divampa o, piuttosto, brucia i
rivoltosi. Fino a quel momento l’organizzazione sembra orizzontale e raggruppa
gli spontanei senza federazione. La repressione si è presa cura di impedire le
comunicazioni tra gli insorti, e tra insorti e mondo esterno. Anche in tale
occasione, la complicità americana è tanto discreta quanto efficace.
L’informazione occidentale rivela il grado di sovversione di questa prima
settimana attraverso l’incoscienza della sua disinvoltura e attraverso il modo
con cui essa è stata messa da parte dall’avvenimento, troppo importante per
lasciare questi irresponsabili nel ruolo di protagonisti.
Dal
7 al 14, tutti trattengono il respiro. È allora che si gioca la battaglia. Non
esiste più informazione precisa sui luoghi, non esiste più bilancio di vittime
dopo quello, del giorno 7, dell’opposizione irakena in esilio: 30.000 morti!
Il 7, le guerriglie curde cominciano a riconquistare le città curde in mano
agli insorti. Apparentemente Nadjaf e Karbala sono diventate campi di battaglia
permanenti, a fianco di Bassora. Ma forse si tratta di un effetto pubblicitario
perché queste due città sono le città sante sciite, per cui lo Stato iraniano
punta i suoi riflettori su di esse, e per cui trasferisce il centro di gravità
verso le città sante islamiche e moralizza l’insurrezione (Saddam Hussein
non è più un volgare dittatore, bensì un volgare miscredente che bombarda le
città sante). Il 13, sembrava che ci fosse stata una seconda e decisiva
sconfitta dell’insurrezione a Baghdad. Impossibile, in questa silenziosa
devastazione, sapere qualcosa sull’organizzazione, l’approvvigionamento, il
morale, le idee e le prospettive, dato che tutto ciò non erano, palesemente,
mancate completamente fino al dodicesimo giorno consecutivo di insurrezione.
Adesso,
l’aviazione irakena decolla e bombarda massicciamente, con l’ufficioso
permesso degli Stati Uniti. Il 15, un ribelle “stato maggiore” sciita (ma
potrebbe trattarsi dell’opposizione sciita in esilio) si esprime attraverso
l’agenzia di stampa iraniana. È l’unica volta che si sente parlare di una
struttura organizzata nata dall’insurrezione. Il 16, l’insurrezione di
Mossul, durata quattro giorni, termina. Sempre il 16, Saddam Hussein si sente
sufficientemente rassicurato per comparire in televisione. Il 17, per la prima
volta dal giorno 2, i combattimenti sono forse cessati a Bassora. Il 18, le
guerriglie curde prendono Kirkuk.
Nelle
città riconquistate, la repressione è all’altezza del terrore diffuso dal
governo irakeno. Ma nel momento in cui una città viene ripulita e la guardia
repubblicana si sposta in quella successiva, l’altra si solleva di nuovo, così
come, in particolare, è accaduto a Nadjaf e soprattutto a Karbala. Bassora,
pacificata durante il giorno sotto gli elicotteri (che non sono mai comparsi
nella Guerra del Golfo!), insorge durante la notte. Siccome i fuggiaschi sono
presi nella morsa tra l’esercito americano a Sud, la guardia repubblicana a
Nord e la carestia dappertutto, costoro si battono nuovamente fin’anche a
Baghdad, dove l’informazione iraniana segnala una violenta repressione
avvenuta il 23. A fine marzo, e durante il mese di aprile, gli incendi si
riaccendono ovunque, sempre più deboli, sempre più silenziosi ma
sbalorditivamente tenaci. Ecco quei sopravvissuti il cui odio non si spegnerà
mai.
A
partire dalla riconquista di Kirkuk da parte del Baas, il 28 marzo ha inizio lo
spettacolo curdo. Esso segna nel mondo il ritorno dell’informazione
occidentale in prima linea. Né in Cina, né in Romania e nemmeno durante la
Guerra del Golfo, l’arbitrarietà di tale informazione, che costituisce tutta
l’informazione, è apparsa talmente assurda. Se il cinismo ne è esente, la
malafede e lo stress (cioè l’angoscia del giornalista) sono ovunque.
Il
meccanismo di tale spettacolo è semplice: le guerriglie curde, attraverso i
loro esiliati, carrieristi occidentali, corteggiano da decenni l’informazione
occidentale. Queste canaglie, quasi tutte staliniste, praticano l’imbonimento
dei mendicanti: è necessario far piangere e non far riflettere; sono il
lacrimogeno e il morale ad essere venduti dall’informazione occidentale. Esse
hanno dunque preso l’abitudine di esagerare i loro malesseri, speculando, e
non completamente a torto, sul fatto che dipingendo molto sangue, un qualsiasi
giornale ne farà trasudare una goccia.
Questa
volta, non è stato difficile pregare l’informazione occidentale, tanto essa
stessa aveva bisogno di ritornare sul terreno. E le guerriglie curde le hanno
preparato il terreno. Una settimana dopo che le città curde erano state
riconquistate dall’esercito irakeno, ne scappavano più fuggiaschi che prima
del suo arrivo. Vale a dire che essi partivano dopo l’arrivo e con il
permesso dell’esercito che si supponeva dovesse massacrarli! I curdi che
fuggivano sapevano, dall’informazione mondiale, che nei campi in cui andavano
a rifugiarsi morivano dalle 400 alle 1.000 persone al giorno. Impossibile
compiere questo percorso di agonia senza portare un fucile in spalla. E in tal
caso, se il fucile fosse stato irakeno, chi non l’avrebbe denunciato!
Pertanto, era curdo.
Le
guerriglie curde hanno costruito lo spettacolo di un popolo unito, cosa che di
certo i curdi dell’Irak non sono, di un popolo non in ginocchio, quanto
servile, senza onore né coraggio, un gregge di bambini e di vecchi decrepiti.
Tale spettacolo, evidentemente, è necessario solo alle guerriglie, tra i curdi
che sognano da così tanto tempo di controllare i sopravvissuti di un’
autonomia, e ad una pietà, tanto più muscolosa quanto lo spettacolo è penoso,
che alla fine andrà loro a garantire.
Non
è che i curdi non avessero alcun motivo di fuggire dalle città irakene. La
repressione dell’insurrezione urbana non era ignorata, ed essa era tale che
c’era poco da sperare dall’esercito che marciava verso il Nord.
L’estensione della repressione irakena, laddove le guerriglie curde non
esercitavano il controllo, era possibile solo attraverso l’occultazione di ciò
che essa reprimeva. E da quando l’informazione occidentale si è paracadutata
sul Kurdistan, non è stata riferita testimonianza alcuna di una simile
repressione. Se l’esercito di Saddam Hussein, confidando nella guerriglia e in
questa informazione, avesse torto un solo capello a un civile curdo, se ne
sarebbe venuti a conoscenza. La repressione dei curdi che fuggivano verso i
campi televisivi e gli orrori dello spettacolo è quindi stata solo
condizionale! Se essi non fossero fuggiti… tortura, gas, ecc. L’unica
cifra sul totale delle vittime proviene dai professionisti curdi
dell’esagerazione e non la si ritrova altrove: 100.000 morti. Questo bilancio,
ancor meno credibile di quello dell’insurrezione irakena, e che
l’informazione occidentale, tuttavia presente sul posto, non si è mai presa
il rischio di confermare o di smentire, tiene ancora conto di tutti coloro che
gli spettatori del mondo hanno visto morire nei campi dove, per il successo
delle loro guerriglie, essi non soltanto perdevano la propria vita, ma anche la
propria dignità.
La
carestia rappresenta l’altra causa che ha fatto fuggire i curdi verso i campi
allestiti dal vecchio mondo liberal-umanitario. Anche lì appare la parzialità
senza limiti dell’informazione: gli irakeni fuggivano verso l’ Iran e la
Turchia; tra coloro che fuggivano, una minoranza era curda; e tra i curdi, una
minoranza fuggiva verso la Turchia. È nei confronti di questa minoranza della
minoranza che si è rivolto tutto lo spettacolo che ha comunicato
un’impressione contraria della realtà: i curdi che fuggivano in Iran
apparivano una frangia di coloro che giungevano alla frontiera turca; e i non
curdi, essendo fuggiti in Iran o nei pantani nel Sud dell’Irak tra il martello
di Saddam Hussein e l’incudine dell’esercito americano di occupazione, che
impediva loro di oltrepassare le sue linee, non sono neanche una frangia di
questa frangia: non esistono.
L’odio
di questa informazione per la rivoluzione iraniana è tale che, non contenta di
confondere il governo iraniano e la rivoluzione, fa apparire necessariamente
cattivo tutto ciò che il governo fa. Così essa non può affermare che questo
governo ha accolto calorosamente tutti i rifugiati, e ancor meno con quel
secondo fine. Al contrario, il governo turco, che li respinge e li ammassa,
viene vergognosamente trattato con riguardo. Il fatto è che, anche in questo
caso, si sarebbe dovuto parlare della sola eco dell’insurrezione irakena fuori
dalle sue frontiere, debole se paragonata alle rivolte del Kurdistan turco,
rivolte che sono riuscite ad andare oltre la guerriglia turca curda. È per
separare l’esodo irakeno da questa emozione, non ancora uscita dalle memorie
turche e dai timori polizieschi, che sono stati eretti i reticolati dei campi.
Ma
in Turchia come in Irak, i curdi sono divisi in moderni poveri e guerriglieri
nazionalisti. I moderni poveri si mostrano come nemici spontanei del mondo
mercantile e dello Stato, qualunque esso sia; i guerriglieri nazionalisti
sostengono il mondo mercantile, aspirano all’unità di un popolo curdo che
avrebbe il diritto dei popoli di disporre di se stesso, vale a dire che essi
avrebbero, loro, il diritto di disporre di questo popolo curdo per mezzo di uno
Stato. La differenza tra queste due posizioni è quella che c’è tra il 5 e il
7 marzo 1991. Il 5, le città di Arbil e di Sulaimaniya, con una popolazione
ritenuta “curda”, sono insorte. Il 6, le rivolte hanno conquistato Kirkuk e
Raniyah. La guerriglia curda si è presa particolarmente cura di riscrivere,
sulla stampa occidentale, la storia della sollevazione “curda”, durante lo
spettacolo curdo. Questa sollevazione ha inizio, invariabilmente, il 7 marzo con
l’arrivo della guerriglia curda a Raniyah.
L’informazione
occidentale ha quindi ritrovato con estasi nel Kurdistan lo specchio che le dice
che è lei la più bella, attraverso la verifica del suo eccezionale potere di
illusione. Essa ha creato uno spettacolo patetico e morale, di fronte al quale
sa che il suo pubblico è da molto tempo disarmato. Con la complicità di
guerriglie carrieriste, ha montato un esodo tragico e assassino, senz’altra
utilità e funzione di quella di questo spettacolo della tragedia assassina; ha
fatto credere a una repressione immaginaria dei curdi, nel momento in cui essa
taceva una reale repressione dei pezzenti dell’Irak, curdi e non; ha forzato
la mano a una violazione senza precedenti di uno Stato, invaso a Nord dalle
truppe della sua morale; ha forzato, in quest’occasione, il presidente degli
Stati Uniti, vincitore di una guerra da cui era appena uscita umiliata, a
prestarsi a tale violazione territoriale, contraria alle regole dei gestori di
questo mondo, pericolosa per l’istituzione stessa che è lo Stato, contro la
quale Bush si era pronunciato con fermezza.
Lo
spettacolo curdo rappresenta una repressione tutt’ora senza precedenti. Ha
seppellito nel silenzio la più grande insurrezione dopo la rivoluzione iraniana
e vi ha sostituito la sua messinscena: l’esodo curdo è la parodia, la vetrina
vergognosa e penosa, della sollevazione urbana dell’Irak, la cui ricchezza e
grandezza sembrano andate perdute perché prostituitasi. Ma lo spettacolo curdo
rappresenta anzitutto la repressione mondiale dell’insurrezione irakena. Sono
i poveri del mondo, i ribelli del mondo, […] che sono separati dai loro amici
di Bassora, Karbala, Baghdad e Mossul da una cortina di lacrime. Quel che manca
alle rivolte di questo mondo diviso in etnie, popoli, Stati, paesi, in
altrettante latrine del pensiero che si ha sullo spettacolo di Tien’anmen, di
Timisoara, del “Golfo” (arabico? islamico? persico? d’Oman? del Kuwait?
del petrolio? Domandatelo attorno a voi) e dei curdi, è di praticare l’antica
forma che, rinnovata, strappa le cortine di lacrime: RIVOLTOSI DI TUTTI I PAESI,
UNITEVI!
*
* *
[L’avvenimento]
che abbiamo descritto non riguarda una guerra locale densa di insegnamenti. [È]
una critica del nostro mondo e dellla nostra epoca. […] in Irak ha avuto luogo
quella che probabilmente è stata la più sanguinosa insurrezione spontanea di
tutti i tempi, per il suo fine di dissolvere lo Stato e iniziare un dibattito
nonostante il muro del silenzio. Qualcuno forse prenderà tutto ciò per dei
paroloni, ma lo Stato siamo noi, il muro del silenzio siamo noi. Il massacro e
la censura […] sono la nostra tolleranza e la nostra ignoranza, i nostri
paraocchi di poveri sottomessi. Mentre i gestori del massacro e della censura
vanno riorganizzandosi da un Muro di Berlino a un Kuwait liberato, e la fine
delle loro scissioni simulate li impoverisce,
i ribelli di questo mondo hanno superato una soglia qualitativa: la
profondità della loro rivolta obbliga nuovamente i loro nemici a farli tacere e
questa nuova scissione li arricchisce. Giacché il meccanismo
dell’occultazione approfondisce la distanza tra i due campi: i rivoltosi
moderni contro tutti gli altri. […]
La
quarantena si è stabilita attorno […] all’Irak. Vi si brucia l’erba
cattiva. Ma la radice di questa cattiva erba è la mano che brucia chi la
semina. Se è vero che la comunicazione generalizzata impedisce la comunicazione
diretta, è altrettanto vero il contrario. L’alienazione provoca la critica
dell’alienazione. La critica dell’alienazione si aliena a sua volta ([…]
la sollevazione irakena si trasforma nello spettacolo curdo). Per circolare, la
rivolta è astratta nel suo negativo. Ma essa semina, come la rivoluzione
irakena. Difformi, mostruose, quanto ad ormoni e a ideologia, le radici
trasportate da questo vento crescono lontano dalla loro mandragola d’origine.
Essa cresce nelle strade di Saint Denis, Bamako, Kwangju, Washington, Delhi,
Algeri.
[L’ignoranza reciproca tra i poveri del mondo] di appartenere allo stesso partito ha permesso di strangolare, soffocare e uccidere [ogni esempio offensivo] contro la cappa di silenzio […] dell’epoca che comincia. La vendetta di tale perdita appartiene a coloro che sapranno abolire questa ignoranza.
RIBELLI
DI TUTTI I PAESI, VENDICATEVI!
Bibliothèque
des Émeutes,
1991
Articolo
pubblicato sul n.3 del bollettino della Bibliothèque des Emeutes di
Parigi.
Versione rivista della traduzione già apparsa in Italia sul n.70 della rivista “Anarchismo”
[1] Il Baas (Partito socialista della rivoluzione araba) è nato dalla fusione, nel 1953, tra Al-Baas Al-Arabi (Resurrezione araba) e il Partito socialista arabo. Inseritosi all’interno della corrente nazionalista panaraba degli anni 1950-60, il Baas sostiene che i popoli arabi formano un’unica nazione avente la “missione storica” di unirsi in uno Stato socialista libero da qualunque dominio straniero. Inesorabile conseguenza di tale discorso ideologico mistificatore e della relativa pratica, il Baas sarà all’origine di numerosi colpi di stato (in Siria e in Irak particolarmente) e fornirà dal 1963 ai nazionalisti palestinesi di Al Fatah l’aiuto indispensabile per costituire uno Stato palestinese. Al potere in Siria e in Irak, il Baas, grazie alle sue riforme “sociali”, sarà il più fedele servitore degli interessi capitalisti nella regione e farà subire ai proletari le conseguenze del ruolo che gli è proprio: quello di cane da guardia della schiavitù salariata e del dispotismo statale.