Lotta
sociale e organizzazione nella metropoli
Indice
1.
Il movimento spontaneo delle masse e l'autonomia proletaria
MOVIMENTO
DI MASSA E AUTONOMIA PROLETARIA
LE
LOTTE DI MASSA DEL 1968-1969
LA
SINISTRA ITALIANA E LE LOTTE 1968-1969
2.
Ristrutturazione socialcapitalista e lotta di classe
SINDACATI
E PARTITO DI FRONTE AL MOVIMENTO AUTONOMO DELLE MASSE
CARATTERISTICHE
ESSENZIALI DEL PROGETTO SOCIALCAPITALISTA
3.
Dalle "lotte sociali" alla lotta sociale
LA
CONDIZIONE SALARIALE ESSENZA DELLA CONDIZIONE SOCIALE
RESTRIZIONE
DELLO SPAZIO POLITICO E APERTURA DELLO SPAZIO RIVOLUZIONARIO
4.
Movimento di massa e organizzazione rivoluzionarla
L'AUTONOMIA
PROLETARIA DI FRONTE AL SALTO DI QUALITA'
LOTTA
RIVOLUZIONARIA E «RIVOLUZIONE»
IL
LIVELLO D'ORGANIZZAZIONE NELLA SITUAZIONE ATTUALE
5. Alcune note di metodo sul lavoro del collettivo politico metropolitano
La
chiusura delle lotte contrattuali, la crisi del movimento studentesco, lo
scatenamento della repressione hanno generato smarrimento, confusione, fughe in
avanti o
indietro. E' questa la conseguenza del rifiuto di guardare in
faccia
la realtà, sfuggendo
sia alla sterilità di un attivismo sempre più contraddittorio con i fini che
si propone,
sia alla sclerosi ideologica che si ostina a cercare lontano (nel passato o
in situazioni molto diverse dalla nostra) modelli d'azione che dobbiamo ricavare
dalla realtà che ci sta sotto il naso.
La
discussione che si è sviluppata all'interno del Collettivo politico metropolitano,
e che viene qui riassunta nelle sue linee essenziali, ha avuto come tema centrale
il problema dell'organizzazione
nella metropoli. Appare
infatti ormai chiaro che
diatribe teoriche e iniziative pratiche si misurano nelle forme d'organizzazione
e di lotta organizzata che sapranno produrre. E d'altra parte il cosiddetto «problema
dell'organizzazione»
diventa un gioco di formulette se non si fonda sulla valutazione
del presente, dei suoi probabili sviluppi, delle forze in gioco, dei compiti
che dobbiamo affrontare.
Questo documento costituisce il bilancio di un'esperienza politica concreta e la progettazione di un lavoro futuro. Abbiamo ritenuto opportuno stamparlo e diffonderlo come contributo a un più generale dibattito che si impone oggi alle forze della sinistra extraparlamentare italiana ed europea, e come definizione della nostra posizione politica.
1.
Il movimento spontaneo delle masse e l'autonomia proletaria
Il
dato storico concreto dal quale partire è il
movimento spontaneo delle masse che si è
sviluppato, a partire dal 1968, in Europa, nel
cuore stesso della metropoli tardocapitalista
accerchiata dall'immensa «periferia» africana, asiatica e
latino-americana.
Prodotto
dello sviluppo delle forze produttive
materiali, il movimento esprime, in forme
ancora embrionali e parziali (spontanee, appunto),
una contraddizione antagonistica con
il sistema generale di sfruttamento economico,
politico, culturale.
La
sua base sociale è costituita principalmente
dalla nuova forza-lavoro: classe operaia
«giovane», tecnici, studenti: il moderno proletariato
europeo.
I
punti più alti del suo sviluppo: le lotte studentesche
del 1968, il maggio francese, le lotte
operaie «selvagge» della Pirelli, della Renault,
della Hoesch, della FIAT, le lotte dei
tecnici, dei ricercatori, degli operatori culturali,
ecc.
Le
sue prime forme organizzative: comitati di base, gruppi di studio, comitati
d'azione, movimenti
studenteschi di sede, ecc.
Stretto
in una morsa tra l'organizzazione capitalistica
del lavoro e le organizzazioni tradizionali
del movimento operaio, tra i miti della
società del benessere e le irrigidite ideologie
degli apparati burocratici, il movimento conosce momenti esplosivi, dove tutto
sembra possibile, e momenti di riflusso, dove sembra sparire.
E'
in questo quadro complessivo che si inserisce
la nostra lotta. E' dall'analisi di questa realtà
storica, dalla comprensione delle sue ragioni
più profonde, che si può ricavare una
traccia che guidi l'azione futura. E' dall'inserimento
organico, interno,
nel movimento
che deriva la possibilità di un'iniziativa
politica reale.
MOVIMENTO
DI MASSA E
AUTONOMIA PROLETARIA
Le
lotte di massa del 1968 e 1969 costituiscono
un fenomeno storico complesso che, come
tale, non si presenta ammantato di quella
«purezza ideologica» che tanto piace ai
rivoluzionari da biblioteca. Espressione dell'attuale livello di contraddizioni
all'interno
dell'area capitalistica europea, il movimento
di
massa presenta caratteristiche contraddittorie
che non è possibile racchiudere
in una formula prefabbricata. Nè, d'altra
parte, per assenza di parametri d'interpretazione
bell'e fatti, possiamo rinunciare a
discriminare, all'interno di quelle lotte, ciò
che appartiene al passato e ciò che tende
verso il futuro, ciò che è vivo da ciò che è
morto. In parole povere: non possiamo rinunciare
a distinguere quegli elementi deboli,
velleitari, facilmente recuperabili dal sistema,
da quegli elementi che tendono a svilupparsi
in direzione della lotta rivoluzionaria.
Noi
vediamo nell'autonomia proletaria il contenuto
unificante delle lotte degli studenti, degli
operai e dei tecnici che hanno permesso
il salto qualitativo 1968-1969.
L'autonomia
non è un fantasma o una formula
vuota alla quale oggi, di fronte alla controffensiva
del sistema, si aggrappano i nostalgici delle lotte passate. L'autonomia è il
movimento
di liberazione del proletariato dall'egemonia
complessiva della borghesia, e
coincide con il
processo
rivoluzionario. In
questo senso
l'autonomia non è certamente una
cosa nuova, un'invenzione dell'ultima ora, ma una categoria politica del
marxismo rivoluzionario,
alla luce della quale valutare la
consistenza e la direzione di un movimento
di massa.
Autonomia
da: istituzioni politiche borghesi (stato,
partiti, sindacati, istituti giuridici, ecc.),
istituzioni economiche (l'intero apparato
produttivo-distributivo capitalistico), istituzioni culturali
(l'ideologia
dominante
in tutte le sue
articolazioni), istituzioni normative
(il costume, la «morale» borghese).
Autonomia
per: l'abbattimento del sistema globale di sfruttamento e la costruzione
di un'organizzazione
sociale alternativa.
Questo
processo, naturalmente, non si presenta
in modo inequivoco, nello stesso momento
e con la stessa intensità, ma è appunto
un processo che si sviluppa in un tempo
storico determinato e che, vincente sul piano
strategico, può conoscere gravi sconfitte
tattiche.
Manifestazioni
dell'autonomia furono, ad esempio,
le lotte della socialdemocrazia tedesca
nella seconda metà del secolo scorso, l'azione
dei bolscevichi nella Russia rivoluzionaria, la formazione dei partiti comunisti
in Europa
dopo la prima guerra mondiale, la lunga
marcia della rivoluzione cinese, ecc. E,
per venire più vicini a noi, l'autonomia proletaria
ha saputo esprimersi, seppure in modo
soltanto episodico, in vari momenti del
dopoguerra: basti citare la reazione popolare
all'attentato a Togliatti, e i moti di piazza contro il governo Tambroni.
Non è neppure cosa
nuova che l'ostacolo principale
allo sviluppo dell'autonomia sia costituito
proprio dalle organizzazioni «tradizionali»
del movimento operaio e da tutte le
tendenze opportunistiche. La lotta di Marx contro
il «socialismo borghese», dei bolscevichi
contro i menscevichi, la stessa rivoluzione
culturale cinese sono gli esempi storici
più lampanti.
Tuttavia,
una volta esplicitati questi elementi
di continuità storica, è necessario misurarsi
con il presente, e rispetto a questo definire
il proprio comportamento politico. E' necessario
cioè fare i conti con le lotte di massa
del 1968 e del 1969 e con l'autonomia proletaria
così come si è manifestata in questo periodo.
LE
LOTTE DI MASSA DEL 1968-1969
Seppure
diverse nei modi e contraddittorie nei
contenuti le lotte di massa che si sono sviluppate
in Europa negli ultimi due anni vanno
considerate come un fenomeno complessivo,
espressione di una realtà sostanzialmente
omogenea.
Il
movimento ha avuto inizio con le lotte de
gli studenti, lotte che hanno avuto una duplice
funzione:
-
hanno
riattivato a livello di massa Il movimento
autonomo del proletariato, dimostrando
praticamente che
l'intero sistema di sfruttamento
economico-politico non è più
in
grado di contenere e canalizzare istituzionalmente
le contraddizioni da esso prodotte.
Il fenomeno si colloca in una più generale
rottura degli equilibri economico-politici
mondiali, caratterizzata dalle lotte rivoluzionarie
del terzo mondo e dallo smascheramento
del revisionismo;
-
hanno
dimostrato come la fisionomia dei proletariato
fosse profondamente mutata nel corso
degli ultimi decenni. Il movimento degli
studenti non ha avuto una funzione di «detonatore»,
fiancheggiatore, precursore e alleato
della classe operaia, ma si è rivelato
come elemento dinamico nel processo di
formazione dei proletariato moderno in regime
tardo-capitalistico. Che
i revisionisti e i loro epigoni abbiano tentato
di isolare il movimento degli studenti
nell'ambito della contestazione (e quindi
fenomeno sovrastrutturale) e di sottolinearne
il carattere di «alleato» della classe operaia
(naturalmente rappresentata dai partiti
«storici» e dai sindacati) ciò dimostra soltanto
come la lotta teorica contro le
manipolazioni
ideologiche costituisca un fronte
di lotta per il movimento autonomo.
Che
una parte del movimento studentesco -
e
soprattutto le incrostazioni burocratiche
e leaderistiche che si sono formate al suo
interno - continui a concepire se stesso
come «ceto medio», significa soltanto che
la coscienza di classe può e deve svilupparsi
attraverso una dura lotta fra destra e
sinistra del movimento.
I
contenuti generalizzabili (non particolari o episodici)
del movimento degli studenti: rifiuto
dell'aspetto puramente rivendicativo delle
lotte,
riscoperta
dei metodi Illegali e violenti
di lotta, superamento delle organizzazioni
tradizionali, si
sono estesi alle lotte operaie
attraverso l'opera soggettiva organizzata
di gruppi di studenti e operai.
E'
qui inutile rievocare le grandi lotte operaie che si sono svolte su tutta l'area
europea nel
corso del 1968 e del 1969. Importa piuttosto
intendere quanto vi era in esse di
nuovo,
quanto usciva dall'ambito della conflittualità
istituzionalizzata e tendeva a porsi in
antagonismo
col sistema.
Il
punto di partenza è la denuncia
della condizione
di fabbrica, attaccata
globalmente in termini
di rifiuto. La classe operaia acquista coscienza
che lo sfruttamento nella giornata lavorativa
in fabbrica non è che un momento dello
sfruttamento più generale cui i lavoratori
sono soggetti.
Coscienza
che
si
traduce
praticamente
in
questi
termini:
-
necessità
di legare l'aspetto economico e
politico della lotta, affermando la priorità del
secondo sul primo. E' questo il frutto di una
tendenza oggettiva del tardocapitalismo, in
cui
gli
aspetti economici
e politici non
solo sono
interdipendenti (constatazione che
sta alla base del metodo marxista) ma tendono
a identificarsi. Le scelte del capitale
sono cioè immediatamente economico-politiche
a tutti i livelli, da quelli della programmazione
nazionale e internazionale, a
quelli delle singole unità produttive. La classe
operaia italiana, del resto, ha fatto fino
in fondo questa esperienza negli ultimi vent'anni: constatando che ogni «vittoria»
sul piano economico si capovolgeva in una sconfitta
politica, che consentiva quindi al capitale
di recuperare quanto era stato «concesso»
e di intensificare lo sfruttamento.
In
nome della «ricostruzione nazionale» di togliattiana
memoria la classe operaia aveva
rinunciato al suo potere in fabbrica, conquistato
durante la resistenza, dovendo così subire la repressione delle sue
avanguardie.
Dopo
di che un sindacato indebolito e un partito
estromesso dovevano accettare le dure
condizioni del padronato. II tentativo di rompere
questa meccanica è alla base delle lotte
autonome negli ultimi due anni;
-
capacità
dell'autogestione della lotta. Gli organismi di base, sorti non in concorrenza
ai sindacati ma come espressione organizzativa
dei nuovi contenuti, rifiutano il ruolo di mediazione assunto dalle organizzazioni
tradizionali e si pongono come strumenti
ed espressione insieme della lotta. La
loro opera ha contribuito a sviluppare enormemente nella classe operaia
l'esigenza di
autonomia, di democrazia diretta, di una
lotta continua e globale che attacchi lo sfruttamento
continuo. Comprendere, come abbiamo
compreso, che i comitati di base e
i gruppi di studio sono insufficienti per affrontare
la dimensione attuale della lotta, e
che si rende necessario un salto di qualità, non
significa... fare due passi indietro, negando
i contenuti stessi delle lotte autonome. E'
per sviluppare quei
contenuti che si
rende necessario il salto politico-organizzativo.
Nota.
Di
fronte
al «recupero»
sindacale e
alla crisi
degli
organismi di base
alcuni «rivoluzionari»
che si
dichiarano marxisti-leninisti
(non sembri
ironico!) si
sono affrettati
a prosternarsi davanti al sindacati e
al PCI,
riconosciuti come
attuali uniche organizzazioni della
classe operaia. Naturalmente in
attesa che caschi
, dal cielo il partito marxista-leninista vero, il
quale -
lui sì -
sconfiggerà i revisionisti e farà la rivoluzione. Può servire a questo
punto una citazione di
Lenin: «Di
fatto, la particolare rapidità e
il carattere particolarmente
ripugnante dello sviluppo dell'opportunismo
non ne garantiscono la sicura vittoria, così come
la rapidità dello sviluppo di un
ascesso
purulento su
un organismo sano non può far altro che accelerarne
la maturazione e liberarne più rapidamente l'organismo.
Più pericolosi di tutti, da questo punto di vista, sono coloro che non vogliono
capire che la lotta contro
l'imperialismo, se non
è indissolubilmente legata con
la lotta
contro l'opportunismo,
è
una frase vuota e
falsa».
Le
lotte dei tecnici costituiscono, da un certo
punto di vista, il fenomeno più nuovo di questa
fase di lotte.
Esse
hanno contribuito a rendere politicamente evidenti le caratteristiche della metropoli,
che tende a «modellarsi» sullo schema
di funzionamento e di potere delle aziende
ad alto livello tecnologico. In modo più specifico,
queste lotte hanno dimostrato che l'automazione delle funzioni, cioè la parcellizzazione
e la canonizzazione in schemi «scientifici
e razionali», ha determinato la fine della distinzione tra lavoro manuale e intellettuale,
e la loro sostituzione con una unica
catena in cui è impossibile distinguere
le mansioni manuali da quelle intellettuali. In questo senso è da Intendersi
l'affermazione,
che spesso ricorre nel corso delle lotte dei
tecnici: il tecnico che opera in una struttura
aziendale moderna non è altro che un operaio inserito
in un'azienda ad alto livello
tecnologico.
Ma
proprio nei confronti delle lotte dei tecnici si manifesta l'impotenza e
l'ottusità del
movimento operaio «tradizionale». Infatti,
a parte la moda di un momento e la sopravvalutazione
verbale delle «lotte dei tecnici», e l'abuso del termine «proletarizzazione»,
quasi nessuno, nè i sindacati e i partiti, e
neppure, salvo eccezioni, il movimento studentesco,
ha saputo stabilire un rapporto politicamente
fondato
con
i
nuclei
agenti (gruppi
di studio, ecc.) che esprimono il più alto
livello di coscienza e di impegno di questa
parte fondamentale del moderno proletariato.
Il
riferimento alla decrepita categoria dei «ceti
medi» e lo stesso concetto di proletarizzazione,
che presume staticamente determinata
la fisionomia del proletariato (confuso con la categoria sociologica
degli operai),
impediscono anche la rilevazione teorica del problema. Ma è sul piano
pratico che casca
l'asino. L'incapacità di accettare l'originalità
espressiva dei comitati di base, e quindi di intendere realmente le radici socio-economiche
del movimento spontaneo delle masse, poteva essere apparentemente superata
nei rapporti con i nuclei operai, facendo
leva sull'inerzia della tradizione. Ma ciò
è risultato impossibile nei confronti dei gruppi
di studio e dei comitati di tecnici: la novità
del fenomeno, le sue caratteristiche sperimentali, i suoi fondamentali caratteri
politici (crisi
di fiducia nel meccanismo della
delega, unità immediata di obiettivi politici
ed economici, globalità dell'opposizione al
sistema) ne hanno impedito il recupero parassitario
o strumentalizzatore.
E,
d'altra parte, qualunque lavoro politico che prescinda,
in Europa, dal movimento dei tecnici,
si
pone automaticamente alla periferia politica della metropoli. Viceversa,
affrontare
in modo corretto il superamento della fase
spontanea dell'autonomia proletaria, e delle sue parti componenti: operai,
studenti, tecnici,
significa porsi al livello reale dei problemi
dell'iniziativa rivoluzionaria metropolitana.
LA
SINISTRA ITALIANA E LE LOTTE 1968-1969
Chi
voglia collegarsi con le lotte o si consideri
loro espressione deve oggi saper cogliere
nel suo insieme ciò che implica il manifestarsi
dell'autonomia, dal livello più appariscente
fino ai significati più profondi e alle conseguenze a lungo termine.
Tuttavia
i gruppi della sinistra italiana emersi
dalle recenti lotte ne sfruttano soltanto aspetti
parziali, limitando così gravemente l'efficacia
della loro azione.
Un
primo modo,
elementare ma immediato, di
essere presenti nelle lotte sta nel rincorrere
gli scoppi di lotta ovunque essi si manifestino
(università, Battipaglia, Fiat, Pirelli,
tecnici, bancari, ecc.) con un unico fine: produrre
una «radicalizzazione» della lotta attraverso
l'esaltazione delle forme in cui si manifesta;
i contenuti della lotta
sono lasciati
in secondo piano. Questa
prassi politica è fondata sulla tesi spontaneistica
che la lotta di classe è possibile
solo creando lotte di massa, non importa
su quali obiettivi, purchè tali lotte si facciano
in modo violento. Una volta che il movimento sarà generalizzato, allora
sarà possibile dargli
una dimensione politica rivoluzionaria
e organizzata. In questo modo, facendo
precedere la lotta all'azione politica, si mantiene la frattura tra esse, si
ripropone la
vecchia distinzione tra lotte economiche e
lotta politica.
Un
secondo modo,
più
politico e accorto, vede
le forme della lotta come condizione della
lotta di classe, ma indica come condizione non meno importante gli obiettivi della
lotta, soprattutto per arrivare alla unificazione
e alla generalizzazione dello scontro.
Gli obiettivi devono essere non integrabili,
contenere tutto l'antagonismo di classe
possibile, ed essere dunque di per sè
capaci di mettere in crisi l'equilibrio economico-politico
del sistema (es. 120.000 lire di
salario uguale per tutti). Sugli
obiettivi si generalizza la lotta: alla classe
operaia spetta il compito di radicalizzarla
e farla giungere al massimo livello di scontro.
Nella lotta di classe vengono quindi
distinti tre elementi: gli obiettivi, le forme
di lotta, l'organizzazione. Alla
classe operaia spetta di radicalizzare la
lotta sugli obiettivi unificanti, ma l'organizzazione
è il risultato delle lotte.
Le
organizzazioni di base sono solo strumento
funzionale e transitorio delle lotte, ma
la dimensione politica è costituita in un primo
stadio dagli obiettivi e in un secondo,
più importante, dall'organizzazione generale.
La lotta viene quindi considerata avanzata
o arretrata nella misura in cui esprime
obiettivi unificanti e forme radicali. L'organizzazione
emerge dopo, come esigenza
di «conservare» i risultati conseguiti durante
la lotta, al livello di coscienza e di combattività
che si sono prodotte. Si giunge così
a un rafforzamento
del fronte operaio commisurato
al rafforzamento del fronte padronale.
L'ipotesi è quindi quella di una lunga
«guerra di posizione»,
nel corso della quale
la classe operaia si rafforza nella misura in cui si organizza. Per
entrambe le due posizioni analizzate (alla
prima appartengono, in linea di massima, Lotta
continua e
le assemblee operai-studenti;
alla seconda Potere
operaio) l'autonomia
è la
condizione preliminare perchè si ponga la
lotta stessa. L'autonomia è intesa come «indipendenza»
dal sindacato e dal partito, e
poichè si sa che sindacati e partito non sono
stati sconfitti dai moti d'indipendenza, si
progettano guerre d'indipendenza (attraverso l'organizzazione generale delle
lotte, capace di
«conservare» l'autonomia in tutte le
sue manifestazioni, anche in seguito al riflusso
delle lotte).
Lo
sviluppo dell'autonomia è inteso dunque come
sviluppo organizzativo da contrapporre
alle organizzazioni tradizionali.
Noi
riteniamo restrittiva e superficiale questa
concezione dell'autonomia, la quale, così
considerata, diventa unicamente strumento
e condizione per far sviluppare le lotte, senza
costituirne, insieme la loro dimensione
politica di opposizione radicale e rivoluzionaria
al sistema.
Nel
momento in cui si chiude un ciclo di lotte
- e
se ne riapre un altro che avrà, a nostro
parere, caratteristiche molto diverse - ci
è sembrato utile fare un riesame critico delle lotte. Per riassumere, possiamo distinguere,
all'interno del movimento operaio,
due atteggiamenti fondamentali rispetto
alle lotte autonome di massa del 1968-69:
-
di chi non ne intende
l'aspetto di rottura e
tenta di recuperarne e sfruttarne le potenzialità
ai fini di una sorta di «restaurazione politica».
La forma di questa restaurazione è varia: da quella revisionista che tende a trasformare
una sconfitta politica in una vittoria
organizzativa (anche a prezzo di una definitiva
rinuncia alla propria collocazione di
classe), a quella dei gruppi ideologici minoritari
che si sono affrettati a riproporre i loro
vecchi schemi, senza intendere che proprio
il movimento autonomo costituisce la più
radicale critica pratica di massa a tutte le
posizioni imperniate sulla rimasticatura ideologica e sulla riproposta delle
linee perdenti
del movimento operaio. Queste posizioni,
seppure fortemente concorrenziali tra loro,
concordano su un punto: la sottovalutazione
e il rifiuto del frutto politico più maturo
delle lotte: l'autonomia proletaria;
-
di chi, pur essendo di
varia derivazione e
tendenza, ha compreso che l'autonomia proletaria
è il punto nodale dal quale partire per
il lavoro politico futuro. Sarebbe fin troppo
facile ricordare gli errori, le avventatezze,
i settarismi, le ingenuità e perfino le scorrettezze che hanno
danneggiato, ritardato
e spesso deviato i gruppi che si ricollegano all'autonomia. Tuttavia noi
- che in questo
ambito ci collochiamo - riteniamo
che sia questa
l'unica posizione feconda, l'unica
in grado di sviluppare la lotta
rivoluzionaria nella metropoli europea.
Perchè di questo si tratta. Non tanto di vincere subito e di conquistare tutto (i facili slogan degli apprendisti manipolatori), ma di crescere in una lotta di lunga durata, utilizzando gli stessi potenti ostacoli che il movimento incontra sul suo cammino per compiere il salto da movimento spontaneo di massa a movimento rivoluzionario organizzato.
2.
Ristrutturazione socialcapitalista e lotta di classe
Scrive
Marx in Le
lotte di classe in Francia dal
1848 al 1850:
«Ad eccezione di alcuni pochi
capitoli, ogni periodo importante degli annali rivoluzionari dal 18-48 al 1849
porta come titolo: Disfatta
della rivoluzione!
Chi
soccombette in queste disfatte non fu la
rivoluzione. Furono i fronzoli tradizionali prerivoluzionari,
risultati di rapporti sociali che
non si erano ancora acuiti sino a diventare
violenti contrasti di classe, persone, illusioni,
idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario
non si era liberato prima della rivoluzione
di febbraio e di cui poteva liberarlo
non la vittoria di febbraio ma solamente
una serie di sconfitte.
In
una parola: il progresso rivoluzionario non si
fece strada con le sue tragicomiche conquiste
immediate, ma, al contrario, facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente,
facendo sorgere un avversario, combattendo
il quale soltanto il partito dell'insurrezione
raggiunse la maturità di un vero partito
rivoluzionario».
SINDACATI
E PARTITO DI FRONTE AL
MOVIMENTO AUTONOMO DELLE MASSE
L'azione
sindacale si è articolata -
a partire dal
1967, quando iniziano le prime lotte spontanee
consistenti - in
tre momenti:
-
In un primo momento si
è avuto il tentativo
di sfruttare la nuova potenzialità di lotta della classe operaia per poterne
ricavare maggiore
incidenza organizzativa e un più alto potere contrattuale. In generale le lotte
spontanee
venivano sottovalutate ed attribuite
a deficienze locali del sindacato. E' il momento
in cui si tenta l'integrazione all'interno
di sindacati e partiti degli elementi più
«giovani» e più combattivi.
-
La seconda fase, caratterizzata principalmente
dalle grandi lotte alla Pirelli e a Porto
Marghera, vede il sindacato impegnato in una
affannosa rincorsa dei comitati di base in chiave puramente difensiva. E' Il
momento del
disorientamento, in cui gli attivi sindacali
passano da tentazioni repressive a fughe
in avanti e demagogiche. Nelle situazioni
più arretrate, iniziativa autonoma della classe operaia e azione
sindacale si mescolano
ambiguamente.
E'
per esempio in questo periodo che si consolida
all'interno della CISL il gruppo dirigente
FIM che costituisce un po' l'ala marciante
del futuro recupero sindacale.
-
E' nel periodo
contrattuale che i sindacati
buttano tutto il loro peso organizzativo e politico sulla bilancia per
trasformare una tattica
difensiva in una strategia offensiva.
Gli
elementi sui quali puntano sono fondamentalmente:
1)
Unità
sindacale: è
la forma attraverso la
quale si sfrutta e si combatte l'unità di base,
contenuto essenziale dei movimento spontaneo
delle masse. «Uniti si vince» è uno
slogan che interpreta un'esigenza profonda
della classe operaia, rovesciandone però
il significato: l'unità si realizza al punto più
basso, isolando le avanguardie reali, puntando
contemporaneamente sulle illusioni
massimalistiche dei vecchi militanti PCI e
sul qualunquismo della destra operaia. In nome
dell'unità si controlla e si limita la lotta,
si svirilizzano le manifestazioni all'esterno
della fabbrica, riducendole spesso a vuote processioni, si accusano i nuclei extra-sindacali
di essere «venduti» al padrone,
si denuncia ogni azione politicamente creativa
come estremista.
2)
Democrazia sindacale: è
l'alternativa arretrata,
riformista alla democrazia diretta. Così
come la democrazia diretta è la forma che
viene assumendo l'autonomia operaia, e che
tende a trasformarsi in democrazia rivoluzionaria, la democrazia sindacale è la
forma
del
controllo,
l'istituzionalizzazione
e la
cristallizzazione
di un
potere verticalizzato
e centralizzato, il risucchio della democrazia
operaia nella spirale della democrazia formale borghese. Non a caso
contemporaneamente al lancio degli
strumenti di democrazia sindacale si sviluppano le forme più dure della
repressione contro i
comitati di base, i gruppetti esterni, i «cinesi». Contemporaneamente
la democrazia sindacale
alimenta l'illusione di un
utilizzo operaio del sindacato.
CGIL
e CISL si spartiscono i compiti: mentre
la prima porta avanti la linea di un «centralismo
democratico» che sembra l'aggiornamento
dello stato corporativo (una democrazia
di tipo nuovo, dice Ingrao, che si sviluppa
su una linea ininterrotta dal delegato di linea fino al presidente della
repubblica), la
CISL recupera, nelle sue punte più avanzate,
contenuti autonomistici e anarco-sindacalisti.
3)
Socializzazione
delle lotte: E'
la trasposizione della
tensione operaia dall'interno delle
fabbriche all'ambiente sociale, dove autonomia
e democrazia diretta sembrano trovarsi
privi di strumenti adeguati. Ma è anche, e soprattutto, il porsi di un
ruolo radicalmente nuovo del sindacato. Al
di là del significato contingente di queste
«lotte sociali» si ipotizza la costruzione di un'organizzazione
unitaria di massa della
classe operaia (e ancora «sindacato»). Un'ipotesi
quindi che darebbe un senso politico strategico a quella riunificazione delle sinistre
portata avanti da Amendola e dalla destra
PCI.
Ma
proprio il terreno della socializzazione può
rivelarsi minato e assai pericoloso per il
progetto politico, ancora incertamente delineato nei suoi momenti tattici, della
classe dirigente
riformista. Perchè la sua attuazione comporta una radicale trasformazione di tutta
la struttura socio-politica italiana, provocando quindi conflitti sempre più
acuti fra le
forze (sindacati-partiti-padronato-burocrazia
imprenditoriale) che ne sono coinvolte. Superficiale
appare così il pessimismo di quei gruppi extraparlamentari che soltanto qualche
mese fa apparivano tanto ottimisti sulla
funzione «rivoluzionaria» delle lotte contrattuali.
Le parole d'ordine trionfalistiche
sulla classe operaia che avrebbe dovuto
«spazzar via»
i sindacati per «attaccare fino
in fondo» il sistema dei padroni e quindi «fare la rivoluzione in 80
giorni», si tramutano
- proprio per
l'inconsistenza delle ipotesi e della prassi di quei gruppi - in
una resa
politica immotivata. Che il sindacato si sia rafforzato numericamente,
che la logica contrattuale
sia sfociata necessariamente nella
gestione sindacale del contratto, che il peso organizzativo dei sindacati
abbia bloccato l'iniziativa dei Cub, dei gruppi di studio
e dei gruppi
esterni non significa che la lotta
di classe sia rifluita, ma soltanto che essa
ha assunto e tenderà sempre più ad assumere forme nuove di espressione.
Proprio nel corso dei
contratti i sindacati si sono
caricati di contraddizioni irrisolvibili in una logica interna:
contraddizione tra la mobilitazione
della destra operaia e il tentativo di
recupero delle sinistre, tra la delimitazione rivendicativa della lotta e la
proclamazione
del suo significato politico, tra manipolazione
della democrazia operaia e la sua
reale spinta eversiva, tra la necessità
di garantire
al padronato periodi di tregua sindacale e la «conquista» della contrattazione
articolata,
ecc.
Contraddizioni
conflittuali, tra le forze che reggono
il sistema, e contraddizioni antagonistiche,
costituiscono oggi, all'interno del mondo
del lavoro, un groviglio che è compito
della sinistra operaia organizzata fare esplodere.
Nel
corso delle lotte contrattuali il PCI si è mantenuto
in sordina, limitandosi ad appoggiare
l'iniziativa sindacale, fornendo con i suoi
attivisti un massiccio aiuto alla repressione
di fabbrica, qualificando l'Unità
come il
giornale sindacale, facendosi portatore, nelle
singole situazioni, di un atteggiamento sostanzialmente moderato. Questa
linea ha provocato
qualche contrasto all'interno, soprattutto
fra i quadri intermedi e i dirigenti locali, timorosi che il predominio dei
sindacati e dei sindacalisti svuotasse la funzione del
Partito e del suo apparato.
Alla
base il discorso unitario ha incontrato la
blanda resistenza dei vecchi stalinisti, insofferenti
alla collaborazione con i «traditori»
di ieri. Ma proprio in questo periodo di scarsa
iniziativa esterna del partito esso ha consolidato
l'unità interna in preparazione del
ciclo di lotte politiche che l'attendono in vista della nuova maggioranza e
della complessa
operazione che vi è
sottesa.
L'occasione
è stata
offerta principalmente
dal dibattito
sulla questione del Manifesto,
che si è
svolto a tutti i livelli e in tutte le istanze. In tal modo il gruppo
egemone del PCI ha definito la sua strategia che, se esclude
la partecipazione al governo a breve scadenza,
pone il problema di una nuova maggioranza
nell'ambito di una ristrutturazione del
sistema che dovrebbe impedire disavventure
come quella occorsa ai socialisti. Il
PCI
è
indisponibile, cioè, a un'operazione puramente
parlamentare ma dichiara, in questo
pressochè unanime al suo interno, la piena
disponibilità a un mutamento di regime
che dovrebbe realizzare alcune delle rivendicazioni
storiche del movimento operaio italiano
e che potrebbe consentire al capitale avanzato
di inserirsi tempestivamente nel nuovo
quadro economico internazionale.
Si
prepara così il blocco tra sfruttamento economico
e sfruttamento politico della classe
operaia
all'interno
di un sistema che, per sottolineare
le differenze
da precedenti
esperimenti socialdemocratici classici, potremmo definire come socialcapitalismo.
Sarebbe
un grave errore considerare gli elementi
portanti della strategia sindacale: unità,
democrazia sindacale, socializzazione, come
meri strumenti repressivi e difensivi. Il movimento
spontaneo delle masse che è dilagato
impetuosamente nell'area europea nel
corso degli ultimi due anni ha costretto il
sistema ad accelerare quel processo di ristrutturazione
economica, politica e culturale
che le parti più avvedute del capitalismo internazionale già da tempo
vedevano necessario e
funzionale allo sviluppo delle strutture
produttive.
Comprendere
le dimensioni, la portata storica,
le linee di sviluppo e soprattutto le contraddizioni
che tale processo è destinato a suscitare
significa uscire dalle generiche rimasticature delle analisi «storiche» del movimento
operaio e dall'angustia delle valutazioni strettamente «nazionali».
La
«simmetria sociale» di
Brandt, la «società
corporata» di Wilson, le proposte golliste di
gestione sociale e la «via italiana
al socialismo»
di Longo sono le forme specifiche e
nazionali della ristrutturazione generale dell'area
economico-politica europea.
Ad
essa
sono chiamati a collaborare forze politiche
eterogenee che proprio nella lotta contro
i movimenti spontanei di massa hanno scoperto fino in fondo l'affinità dei loro
interessi e la necessità e possibilità di convergere
a non lunga scadenza.
La
parte più
avanzata del capitale internazionale
e le organizzazioni del movimento operaio
hanno avviato un processo di alleanza
obiettiva
che ha come sbocco un nuovo assetto
strutturale della società e dello Stato.
Un
processo che si sviluppa tra gravi contraddizioni,
che spaccherà verticalmente l'intero
corpo sociale e che tende a creare tensioni
- si
pensi all'intero «affare» della bomba
di Piazza Fontana - che
possono portare
la società sull'orlo, e forse oltre l'orlo,
della guerra civile.
Così
un processo - imposto
al capitale dalle
stessi leggi obiettive del suo sviluppo - volto
a garantire la pace sociale attraverso l'uso sociale del salario e
l'istituzionalizzazione
della lotta di classe tende a rovesciarsi
dialetticamente nel suo contrario: nella crisi
delle strutture politiche dello Stato, nello
squilibrio delle istituzioni, nella conflittualità
interna più radicale dal vertice alla base del sistema.
Assumere
oggi l'area politica
europea come spazio
politico
unitario non significa compiere
un'astrazione ideologica, ma riconoscere
la realtà di
una situazione tendenzialmente omogenea sia sul piano dello sviluppo
delle forze
produttive sia sul piano generale
della società politica.
Esistono
indubbiamente
differenze vistose ma esse sembrano piuttosto
corrispondere a differenti fasi di sviluppo
che a linee di tendenza divergenti.
Sono
noti i principi di politica estera che guidano
l'amministrazione Nixon: alla bipolarità
militare (USA, URSS) corrisponde la multipolarità
politica, assecondando la quale competerebbe all'Europa occidentale la gestione
dei rapporti economico politici con l'Europa
orientale e con parte dei paesi africani.
Ciò dovrebbe consentire a Stati Uniti e
ad Unione Sovietica di stringere un rapporto
di cooperazione atto a garantire l'«ordine internazionale». Cosa significhi
ordine internazionale
in questo senso è ben noto: unificazione
del mercato mondiale, ripartizione
controllata delle aree di sfruttamento, blocco
della
tensione
rivoluzionaria,
programmazione
della repressione.
Nel
quadro di questa Santa Alleanza USA-URSS
e delle funzioni in essa dell'Europa quale
posto spetta all'Italia? Gli
ultimi anni hanno aumentato la forza politica
del partito comunista: il procedere dell'unità
sindacale, la pressione dell'autonomia
operaia, la duttilità tattica del partito, il
suo radicamento in centri di potere fondamentali
come gli Enti locali, la debolezza della
classe politica direttamente legata alla borghesia,
le stesse arretratezze strutturali dell'Italia
rispetto alle esigenze del capitalismo avanzato pongono in modo obiettivo l'esigenza
di una «nuova maggioranza» imperniata (con la partecipazione diretta o con l'appoggio
esterno variamente configurato) sul PCI. Potrebbe essere questo il banco
di prova di una
collaborazione più stretta tra USA
e URSS, un'esperimento che avrebbe ben
altra importanza di quello finlandese e che
contribuirebbe in modo decisivo alla realizzazione
del progetto politico precedentemente
esposto. Funzione analoga, ma in modo
e tempi diversi, potrebbe avere il riavvicinamento tra Repubblica Federale Tedesca
e Repubblica Democratica Tedesca, tra Brandt
e Ulbricht.
Ma
è proprio in Italia che le contraddizioni sembrano
esplodere con maggiore violenza. L'urto
tra destra economico-politica (da Costa
al PSU) e sinistra (da Agnelli a Longo), o
meglio fra le tendenze che ad essi fanno capo,
perchè è chiaro che gli schieramenti sono
tutt'altro che definiti e irreversibili, è violento
e tende a radicalizzarsi sempre di più.
Una prima avvisaglia della durezza dello scontro
sono stati gli avvenimenti relativi alla
morte del poliziotto Annarumma in via Larga
e allo scoppio della bomba in Piazza Fontana. I colpi non si risparmiano.
La vecchia destra si
mobilita per i funerali del poliziotto,
tende a creare un clima di linciaggio
degli «estremisti» che è però rivolto principalmente
al Partito Comunista. Scoppia la
bomba e si scatena un'incredibile caccia all'uomo,
mentre si riparla di colpo di stato. Il
PCI e i suoi alleati ricorrono alto «spirito della
resistenza». Circolano voci sul presidente della repubblica (articolo dell'Observer),
partono
indignate smentite, la stessa inchiesta
sull'attentato sembra mostrare incertezze,
fratture, contraddizioni che passano
all'interno delle istituzioni fondamentali dello
stato. Vengono poi le denuncie contro gli
scioperanti e contro i sindacalisti, che a parte
il loro aspetto «spettacolare», rivelano tensioni
già esistenti e minacciano di crearne di ancora più gravi.
Sono
queste le forme di una guerra civile latente,
implicita; sono
questi gli aspetti iniziali
di un periodo politico che sarà caratterizzato,
non bisogna essere profeti per prevederlo,
da una lotta che investirà tutta la area
europea, ma principalmente l'Italia, fra una
linea di destra che si ispira ai metodi della
destra internazionale, (dal colpo dei colonnelli
greci agli attentati ai Kennedy, alle soluzioni
legalitarie autoritarie) e una linea di
«sinistra» impegnata nella ristrutturazione
socialcapitalista della società.
CARATTERISTICHE
ESSENZIALI DEL PROGETTO SOCIALCAPITALISTA
Questa
nuova fase dell'organizzazione sociale
capitalistica tende a realizzare una vecchia
utopia della borghesia: la possibilità di pianificare il comportamento della
forza lavoro
sia dentro che fuori la fabbrica, nel momento
della produzione come in quello del consumo
e in tutte le espressioni della vita sociale
e dei rapporti umani. Nell'attuale
fase di sviluppo capitalistico la vecchia
combinazione di riforme e repressione,
composta all'interno della democrazia
formale borghese, non basta più. La centralizzazione
del potere necessaria alla gestione
del tardocapitalismo riduce sempre più gli
spazi di potere reale da «concedere» ai quadri
direttivi subordinati, il dinamismo verticale
elimina gli strati intermedi e lo scontro di classe tende a prodursi in modo netto
e radicale tra una borghesia che ha esaurito
ogni possibilità di espressione sociale complessiva
(cioè non può più presentarsi in
alcun modo come «portatrice» di ideali democratici,
nazionali, di valori etici o culturali)
e un proletariato urbano che si estende
alla maggioranza della popolazione attiva. A
questo punto è necessario per il sistema che
la contestazione sociale stessa venga organizzata
e incanalata, preparando una soluzione
che salvaguardi i presupposti irrinunciabili
della società dello sfruttamento e
contemporaneamente accolga le richieste popolari
di mutare il quadro istituzionale complessivo.
Ciò significa da un lato il riconoscimento
aperto
della dinamica di classe e
dall'altro l'istituzionalizzazione della lotta di
classe, la riduzione di interessi oggettivamente
antagonistici nell'ambito di una logica
di conflittualità interna. Il conflitto viene quindi condotto entro regole
precise (regolamentazione degli scioperi, delle
manifestazioni, tolleranza verso la contestazione
e il dissenso) atte a mantenere lo
scontro di classe nei canali della contrattazione
del prezzo economico, politico e culturale
della forza-lavoro.
Al
riformismo passivo messo in atto per attenuare
le contraddizioni nel momento in cui sono
già trasformate in lotta sociale, si sostituisce
un riformismo attivo che promuove
le lotte, ne sollecita lo sviluppo controllandone l'esito.
Il
riformismo non si pone più come un risultato
delle lotte (più o meno possibile) ma
ne è la condizione stessa.
Questo
significa che le lotte dovrebbero svolgersi
(e già si sono parzialmente svolte nel corso delle lotte contrattuali)
su un palcoscenico
fisso, con parti e protagonisti fissi.
Questa
ristrutturazione complessiva dell'assetto
sociopolitico capitalista, che ha per agente
la dinamica controllata del riformismo
attivo, si manifesta come artificiale estensione
dei limiti della «legalità» borghese, fino a recuperare formalmente le
istanze prodotte
dall'autonomia operaia.
In
questo senso il progetto social-capitalista viene
a coincidere con la strategia «rivoluzionaria»
del PCI: estensione progressiva dei
limiti della legalità fino a imporre un uso sociale
delle strutture capitalistiche. Così partito
e sindacato si apprestano a mettere in
cantiere una serie di lotte al livello sociale,
riformiste nel contenuto, radicali nella
forma: lotta per una politica dei trasporti pubblici
(non paghiamo il biglietto sul tram), lotta
per ristrutturare il sistema assistenziale
(non paghiamo il medico) o ancora sciopero
degli affitti come forma di pressione per ottenere l'equo canone.
Appare
evidente come tali lotte anzichè incidere
sulla sostanza della condizione dello sfruttamento delle masse
lavoratrici tendano ad
adeguare la società tardocapitalista
allo sviluppo delle forze produttive, e ad
inserire sempre di più le masse nell'area del
consenso. II
sistema infatti può tranquillamente decidere
oggi che i trasporti e l'assistenza medica
siano gratuiti, stabilire un equo canone per
la casa o un calmiere per i prezzi: questo
è il prezzo che esso deve pagare per garantire
la pace sociale. Ciò che non può assolutamente tollerare è che la forma di lotta
divenga contenuto (che l'attacco «violento»
contro i crumiri diventi attacco violento
alla struttura del potere), perchè a questo
punto sarebbe... la rivoluzione.
L'attacco
al riformismo
è oggi l'unica condizione
per la difesa e lo sviluppo dell'autonomia
proletaria: nel momento in cui il riformismo
diventa lo strumento principale (accanto
alla repressione) per bloccare lo sviluppo
dell'autonomia proletaria, cessa ogni giustificazione
per una strategia anche «tatticamente» riformista.
E'
quanto non hanno ancora compreso non solo
molti che continuano a coltivare l'entrismo
sindacale (soprattutto nella FIM-CISL, ala
contestatrice dei sindacati) ma anche una
parte del M.S., che
sotto l'utilizzo di un linguaggio
marxista-leninista-maoista
nasconde
una tendenza opportunistica che va combattuta
nel modo più radicale.
Ciò
che assicura al capitalismo il sopravvivere
della sua sostanza è da un lato una più
capillare organizzazione del consenso, dall'altro
la centralizzazione del potere che si esprime principalmente attraverso la repressione
globale. Le vecchie forme di organizzazione
del consenso, dalla pubblicità agli strumenti di comunicazione di massa, non
sono più di per sè sufficienti per un controllo così capillare e diretto
quale è quello
richiesto dall'attuale fase capitalistica. La centralizzazione estrema del
potere (per
cui la stragrande maggioranza del popolo
è alienata da ogni reale possibilità di decidere
della vita individuale e pubblica) rischia
di isolarne i gestori e di creare un abisso
che solo la rivoluzione potrebbe colmare.
L'organizzazione
del consenso deve quindi risolvere
questo problema, acquistando sempre
più un carattere dinamico. Non si tratta
più soltanto di assicurare consenso o passiva
accettazione rispetto all'organizzazione sociale
esistente, ma di utilizzare le istanze di base per attuare quelle «profonde
riforme di struttura»
che trovano consenzienti e obiettivamente
alleati
Partito
Comunista,
sindacati, ceti
imprenditoriali
progressisti,
capitale
finanziario
internazionale «avanzato».
Gli
obiettivi
fondamentali
sono
la
creazione
di una frattura profonda tra i contenuti politici
propri dell'autonomia proletaria e il falso
miraggio della società del benessere, di
impedire che la democrazia diretta si sviluppi
verso forme di democrazia rivoluzionaria
manipolandola entro strutture di democrazia
formale, di realizzare un'alleanza strutturale
tra sfruttamento economico e sfruttamento politico, tra capitale e riformismo.
La tendenza
è quindi verso una
società totalitaria in cui centralizzazione del potere, organizzazione
del consenso, contestazione istituzionalizzata,
legalità repressiva combacino
perfettamente come parti di un mosaico.
Ma,
come già si è detto, questa è soltanto grottesca
utopia.
3.
Dalle "lotte
sociali" alla lotta sociale
Sindacati
e partiti
hanno proclamato
che questo è il
momento delle lotte sociali. Le spinte
del movimento di massa e la necessità
per le organizzazioni revisioniste di passare a un'ulteriore fase della
scalata al potere
coincidono. Si apre così un nuovo spazio
politico che le organizzazioni tradizionali del
movimento operaio si apprestano a occupare
per intero, proponendo contenuti molto aperti e ambigui: la casa, il caro-vita, l'assistenza
sanitaria, la difesa delle garanzie
costituzionali ecc. Le forme di lotta imposte sono quelle che meglio
garantiscono il controllo burocratico: mobilitazione
generale come coincidenza temporale
delle lotte (lottare tutti, dappertutto
lo stesso giorno) l'unità vista come unità
delle sigle, persino l'Azione Cattolica. L'obiettivo
è suscitare un movimento d'opinione e un dibattito parlamentare che ponga
in crisi l'azione governativa e che freni la
possibile involuzione a destra.
Il
proletariato si trova di fronte ad un livello
superiore di lotta: l'attacco alla condizione
di sfruttamento generale nella società.
L'avversario
non è più, se mai lo è sembrato,
il padrone singolo, ma il sistema dei padroni.
L'ostacolo non è più il controllo sindacale
delle lotte, ma il complesso sistema di
integrazione che si presenta sotto l'aspetto
di una nuova legalità (Statuto dei lavoratori,
ecc.). Le provocazioni repressive non sono
più le serrate di Agnelli e Pirelli, ma un
piano preordinato della destra nazionale e internazionale.
E'
tuttavia proprio di fronte a questo livello superiore
di lotta che il momento spontaneo può
raggiungere «la maturità di un vero movimento
rivoluzionario».
Spetta
alla sinistra proletaria, ai nuclei di avanguardia
che essa ha espresso, intendere
la reale dimensione dello scontro, generalizzarne
i contenuti, trovare nella pratica le
mediazioni capaci di far assumere alle lotte
rivendicative i connotati della lotta di classe.
LA
CONDIZIONE SALARIALE ESSENZA DELLA CONDIZIONE SOCIALE
Arriviamo
così al centro dei nostri problemi e
cioè alla identificazione di quei contenuti politici
unificanti, capaci di denunciare lo sfruttamento così come esso si manifesta nell'arco
dell'intera giornata naturale e non solo nel momento, pur fondamentale, della giornata
lavorativa. In tal senso va ripresa l'indicazione
strategica di Marx: «Invece
della parola d'ordine conservatrice "un equo salario per un'equa giornata
lavorativa"
gli operai devono scrivere sulla loro bandiera
il motto rivoluzionario "soppressione
del lavoro salariato"». Essa
va ripresa soprattutto perchè esistono
oggi le
condizioni materiali per
la sua realizzazione.
Dire che esistono le condizioni materiali
perchè sparisca il lavoro salariato significa:
1)
che il livello delle forze produttive materiali
è tale da permetterne l'abolizione, mentre
la struttura politica e sociale (social-capitalistica-imperialistica)
del sistema esige, per
la sua stessa sopravvivenza, che il rapporto
di produzione rimanga così come esso è.
2)
Che il livello delle forze produttive reali-rivoluzionarie è in progressiva
crescita ed esige,
anche se per ora in modo contraddittorio
e scollegato, che il rapporto di produzione
sia soppresso.
II
rifiuto della condizione salariale (condizione
sociale e politica prima che economica),
il rifiuto della contrattazione di questa condizione,
sta alla base del nostro discorso rivoluzionario.
Un attacco globale alla condizione
sociale è in primo luogo così un attacco
alla struttura politica del salario e ai meccanismi
che la vincolano tanto alla produttività
che al consumo. L'ipotesi di fondo è
che: l'elemento oggettivo capace di definire
il proletariato dentro e fuori la fabbrica è
la struttura politica del salario.
Viene abbandonata
la tesi che l'operaio e il tecnico sono
tali solo in fabbrica e che fuori da essa
diventano «cittadini». La socializzazione delle
lotte si presenta con tutta la sua pregnanza
come attacco all'organizzazione del lavoro
e alla condizione salariale nella fabbrica,
nella scuola e nella società. Anche
nelle lotte «sociali» l'autonomia proletaria
trova sulla sua strada le tentazioni del sindacalismo a rialzo, cioè la
proposizione di
obiettivi rivendicativi alternativi a quelli portati avanti dal PCI e dai
sindacati. Tentazioni
che portano al disastro; l'iniziativa operaia
ha già fatto in fabbrica giustizia di questa
falsa linea politica, ma nelle lotte sociali
si trova nuovamente esposta alle sue insidie:
proposte demagogiche, umanitarie, mobilitanti.
L'attacco
alla condizione salariale
si presenta dunque all'autonomia proletaria
come il contenuto fondamentale delle lotte
sociali, capace cioè di impegnare tutti i singoli contenuti del disagio
sociale, tutti i
singoli momenti dello sfruttamento globale. L'attacco
alla struttura politica del salario nella
sua duplice faccia di salario-produttività
e salario-consumo permette non solo di legare
lo sfruttamento nella fabbrica allo sfruttamento
fuori dalla fabbrica, ma genera un
processo di coscienza che, lungi dal fermarsi
alla contrattazione dei singoli problemi,
pone il proletariato di fronte a tutta la sua condizione e gli impone la
scelta decisiva: o
accettazione dello sfruttamento, o rifiuto
della società capitalistica. Per
non cadere in una visione idealistica, dobbiamo
aver chiaro che tale processo di coscienza
non matura attraverso prediche, dibattiti,
discussioni e volantini,ma solo
attraverso la lotta.
Il
proletariato, mobilitato per risolvere i suoi problemi
nella fabbrica, nella scuola e nella società,
ha la grande occasione per prendere
coscienza che la sua capacità di rifiuto e
di lotta è
vincente solo se è generale, continua, organizzata.
Questo
significa che l'autonomia è una posta
in giuoco che la classe operaia, i tecnici,
gli studenti giocano in questi anni in modo
forse definitivo. Cioè, se non saremo in
grado di operare il salto qualitativo dall'attacco
alla condizione di sfruttamento nella fabbrica
e nella scuola all'attacco della condizione
di sfruttamento nella società, nella città,
marceremo a grandi passi verso la gabbia
che il capitale ci ha preparato.
II
nostro vero problema è dunque non tanto l'estensione
orizzontale quantitativa dello scontro (dalla lotta di fabbrica per un
maggior salario alla
lotta sociale per la difesa del
salario), ma un
salto politico della
lotta, che
contemporaneamente difenda ed estenda
il livello di autonomia faticosamente conquistato
in questi ultimi anni di lotta. Estendere
la lotta continua dai centri produttivi alla
società, dalle manifestazioni dello sfruttamento
diretto alle manifestazioni complessive
dello sfruttamento, realizzare questa estensione
comprendendo tutti i termini, i vincoli
e i problemi che il nuovo ambito sociale
di lotta pone all'autonomia è la condizione perchè l'esigenza espressa
dalle lotte, esigenza
d'organizzazione rivoluzionaria, si traduca
in realtà operante.
Sempre
più si evidenzia il fatto che il salario
è in primo luogo una variabile politica: esso
remunera, infatti, non solo il lavoro umano
nella sua forma immediata o «il tempo
di lavoro necessario», ma piuttosto, attraverso una serie di opportune
mediazioni, una esigenza essenziale del sistema: la
pace sociale.
L'organizzazione
del consenso delle masse ai
fini del sistema capitalistico è un'esigenza
imprescindibile dei padroni, e il sindacato, oggi
più che mai, svolge in questa direzione una
funzione decisiva. La
«pace sociale» è indispensabile al sistema
dei padroni oltre che per l'ovvio motivo di
preservare a questi il loro potere, per il livello
raggiunto dall'organizzazione tecnologica
della produzione che richiede ormai una minuziosa
programmazione aziendale del lavoro;
per il grado d'integrazione dei differenti
centri di produzione delle imprese multinazionali
(la cui programmazione produttiva è necessariamente rigida); per
le esigenze del commercio estero in un clima di forte
competitività; ecc. La
progressiva ristrutturazione del sistema capitalistico
di produzione
(concentrazione e
centralizzazione monopolistica, alta intensità
del capitale, suddivisione internazionale
del lavoro) ha come presupposto fondamentale
una sempre più precisa pianificazione
a lungo termine (2-5-10 anni), per cui è indispensabile
che le variabili in gioco siano il
più possibile sotto controllo e previste nei loro
mutamenti.
La
variabile più difficile da controllare e da prevedere
è il comportamento della forza-lavoro,
la quale, negli avanzati sistemi produttivi,
anche se non interviene più come la principale componente di produzione e di lavoro
(trasferita invece alle macchine) rimane
pur sempre l'elemento essenziale perchè
le macchine producano. Per
il sistema quindi, realizzare la «pace sociale»
significa di fatto impedire che la «variabile
forza lavoro» abbia ad esprimere cioè un
autonomo comportamento politico.
Pace
sociale, maggior livello di consumi, crescita programmata dei livelli salariali,
non sono «vittorie» del proletariato ma segnano
il passaggio al ciclo dello sfruttamento
globale (fase metropolitana dello sviluppo del capitale e fase della
dimensione imperialistica-mondiale
dello sfruttamento). Questa
fase più matura del capitale, che si va
preparando con il «balzo
tecnologico» nel
nostro paese, ha come risvolto necessario un
«balzo repressivo» che,
già lo vediamo, tende a chiudere ogni spazio all'azione sviluppata
dalla autonomia operaia organizzata. Ma
è proprio nei confronti della repressione che il sistema rende più evidenti le
contraddizioni che lo lacerano.
Convivono
oggi due forme di repressione, che
svolgono tra loro una macabra concorrenza:
a)
la repressione tipo vecchio, punitiva, fondata
sulla violenza aperta, sulle cariche della polizia, sull'uso terroristico delle
squadracce fasciste: essa è al servizio della destra
(della destra interna al potere, saldamente
insediata nei centri fondamentali della
società e dello stato) e tende a coinvolgere
direttamente anche le masse, in un attacco
che colpisce prima i nuclei autonomi ma
che non esita a colpire sindacati e partiti. I
quali, oltretutto, vittime della loro stessa logica
parlamentare «pacifica», si rivelano e sempre
più si dimostreranno incapaci di garantire
alle masse almeno quelle garanzie democratiche
formali delle quali menano gran
vanto. Che dopo 25 anni dalla liberazione,
dopo 25 anni di «vittorie» della classe operaia
(ultima delle quali la vittoria contrattuale),
sia ancora possibile una repressione
indiscriminata sulla classe operaia, conferma fino in fondo, se ce n'era
bisogno, l'inconsistenza
della «via italiana al socialismo».
b)
La repressione attiva, legalitaria, tecnologicamente
qualificata. La sua prassi consiste
nel prevenire le azioni realmente incisive del proletariato, stroncandone
sul nascere le
iniziative per mezzo dei sindacati e del partito,
e ricorrendo al braccio armato soltanto
quando questi falliscono la loro opera. Anche
il braccio armato dello stato borghese tende ad assumere, ove controllato
dalla «sinistra»,
caratteristiche e metodi di lavoro
nuovi: tende cioè ad agire dentro i confini
della legge colpendo i trasgressori con un
uso combinato dei «tutori dell'ordine» e della
magistratura. Gli applausi ai carabinieri
durante i funerali del poliziotto Annarumma,
morto durante gli scontri di via Larga,
sono l'orchestrato riconoscimento di una
funzione dei tutori dell'ordine pubblico e
della pace sociale verso cui altri strumenti organizzano
il consenso delle masse popolari.
E'
questa la repressione che il social-capitalismo
tende a mettere in atto. Ma questi metodi
si scontrano con altri, più rozzi, provocano
rotture all'interno della magistratura, delle
stesse forze dell'ordine, dei massimi ordinamenti
dello stato. La repressione, e le
organizzazioni ad essa preposte, non appaiono più come una funzione del
sistema, e un loro
strumento, ma occupano un posto centrale
della vita politica italiana, ne costituiscono
un momento
organico. Che l'ondata repressiva attuale abbia caratteristiche
completamente diverse da quelle precedenti è ammesso da tutti, anche dalle
organizzazioni revisioniste. Ma in che cosa consiste
questa diversità? A noi sembra che la repressione
attuale sia strategica
e non tattica.
Anche
la più forte repressione del dopoguerra,
quella legata al nome di Scelba, non era altro che lo strumento
di
un sistema sostanzialmente
solido per difendere il proprio equilibrio
interno dall'attacco dell'opposizione.
La repressione
attuale va collegata più direttamente
alla controrivoluzione mondiale,
e cioè alla lotta armata del sistema capitalistico
contro i movimenti di massa e contro
i pericoli di un'iniziativa rivoluzionaria
a livello mondiale. Ciò significa che, anche se spesso si conserva il
paravento della
democrazia parlamentare, il capitale internazionale
tende a ricorrere a forme dittatoriali di dominio. Così
la repressione in Italia
è obiettivamente una rottura della stessa
legalità costituzionale,
promossa
dalla destra che
è passata all'offensiva. Si
tratta in sostanza dell'inizio di
una guerra civile
strisciante,
nel corso della quale la lotta
per il potere tra «destra» e «sinistra» si farà sempre più dura, anche se
tenderà a
svolgersi «sopra la testa delle masse», e con
la possibilità di compromessi istituzionali
(la repubblica presidenziale, i governi d'ordine,
le tregue sindacali o politiche, ecc.). E' questo il duro terreno di lotta sul quale
dovremo misurarci.
RESTRIZIONE
DELLO SPAZIO POLITICO E
APERTURA DELLO
SPAZIO RIVOLUZIONARIO
Le
lotte sociali proposte dai sindacati e dai partiti
revisionisti partono da questo presupposto:
che le masse pongano all'opinione
pubblica e al parlamento i loro problemi, in
modo che le organizzazioni di sinistra ne possano gestire la soluzione parziale
e settoriale. E'
questa la
prassi riformistica
classica.
Ma
lo sviluppo della repressione sposta i termini
del problema. Il processo di unificazione
dell'area di mercato mondiale, la cooperazione
tra USA e URSS, l'assegnazione di
una funzione precisa all'area europea, hanno
provocato e sempre più aggraveranno la
spaccatura radicale fra destra e sinistra economico-politica.
Non
si tratta più, neppure per il movimento operaio
tradizionale, di affrontare lotte particolari,
appunto «lotte sociali», ma di affrontare
una lotta complessiva, la lotta sociale.
E'
proprio su questo terreno che le mediazioni
sono meno possibili, la manipolazione
delle masse meno efficace, che l'utopia
socialcapitalista rivela la sua infondatezza.
La lotta sociale complessiva, che secondo
Marx è la forma di lotta propria del proletariato,
tende a porsi in modo sempre più
globale, a radicalizzarsi: proprio il terreno sul quale il PCI è più debole.
Infatti la strategia
togliattiana, che oggi viene coerentemente
continuata dall'attuale dirigenza del
PCI, ha proprio escluso tanto la globalità dello
scontro (accettando il terreno della democrazia
borghese come dato), quanto la sua
radicalizzazione (in conformità alla politica
internazionale dell'Unione Sovietica). L'appello
allo spirito della Resistenza è più un
segno di debolezza reale che una manovra a uso e consumo dell'opinione
pubblica. Sarebbe
tuttavia assurdo non tenere conto che
le contraddizioni di classe passano con violenza
all'interno del movimento operaio, e
che all'interno del PCI e del PSIUP esistono
larghe forze proletarie disponibili ad affrontare
la lotta sociale complessiva, cioè rivoluzionaria.
E'
tuttavia altrettanto assurdo pensare che il movimento operaio tradizionale (e
cioè una
realtà storica con
una sua
origine e con un «destino»
preciso, se il materialismo storico non è un'opinione) costituisca una
specie di serbatoio
vuoto da riempire con linee politiche diverse. Il PCI non ha che due alternative:
o concludere la logica iniziata nel
1945 con il suo inserimento organico nella
gestione del potere capitalistico; o essere
spazzato via, in quanto organismo politico,
da una situazione storica nuova, da una
dinamica della lotta di classe che ne renda
impossibile la sua funzione di «sfruttatore
politico» della classe operaia. I
compiti delle forze autonome proletarie non
consistono quindi nel porsi in concorrenza
col PCI, nella prospettiva di una lunga guerra di posizione dalla quale dovrebbe
scaturire il «vero»
partito marxista leninista, ma
di lottare perchè la chiusura dello spazio
politico tradizionale coincida con l'apertura
dello spazio rivoluzionario.
I risultati dell'autunno caldo: controllo sindacale delle lotte contrattuali e scatenamento della repressione attiva, non sono incidenti da dimenticare al più presto, o una sconfitta definitiva che giustifichi il peggiore opportunismo, ma il punto di partenza di un processo che porti la sinistra proletaria dalla genericità rivendicativa (le rivendicazioni possono essere di qualunque tipo, politiche, economiche, culturali religiose, ma restano sempre interne al sistema) alla specificità della lotta rivoluzionaria.
4.
Movimento di massa e organizzazione rivoluzionarla
Il
movimento
delle
masse
in
Europa
e in
Italia
è giunto
a una
svolta
fondamentale. Il
suo
sviluppo
spontaneo
e impetuoso
è stato arrestato dalla manovra a tenaglia della
repressione poliziesca e della repressione
sindacal-partitica. Quanto è successo in Francia,
Germania e Italia, in tempi e modi diversi,
non è un «caso avverso», ma è frutto della
logica stessa della lotta di classe.
E'
necessario intendere con chiarezza i termini
dei problema:
-
sconfitto
non è stato il movimento autonomo del proletariato europeo, che si fonda
sulla contraddizione fondamentale tra lo sviluppo
attuale delle forze produttive e i rapporti
di produzione esistenti in regime tardocapitalista,
ma, appunto, la spontaneità
e l'impeto
del
movimento.
-
Le forze conservatrici hanno imparato dalla
realtà prima di noi. Dalla repressione «spontanea»
della prima fase (il singolo padrone, rettore, questore che si arrangiava
a risolvere
i suoi problemi specifici) il sistema
è rapidamente passato a una seconda fase;
quella della lotta continua, repressiva, organizzata a livello
nazionale e internazionale
contro
il movimento autonomo del proletariato,
e contro tutte le sue espressioni dirette
e indirette.
-
L'autonomia
proletaria ha oggi un solo modo per svilupparsi: organizzarsi. Il
salto da
movimento spontaneo a movimento organizzato
non implica l'abbandono dei contenuti
dell'autonomia proletaria ma ne costituisce
l'unica possibilità di sviluppo.
-
L'esigenza
di organizzazione (da tutti percepita)
deve tradursi in lotta per l'organizzazione,
che
va condotta su due fronti: contro
la repressione globale del sistema, contro
le tendenze erronee all'interno del movimento.
-
La
lotta per
l'organizzazione va
condotta su
un nuovo terreno: quello della lotta sociale complessiva. Il salto di qualità
è duplice:
da movimento spontaneo a movimento organizzato,
dalla lotta nella fabbrica e nella scuola,
a lotta sociale complessiva.
L'AUTONOMIA
PROLETARIA DI FRONTE AL SALTO DI QUALITA'
Autonomia
non è una parola vuota, un'aureola
sulla testa del proletariato, un mito da vendere al mercato delle idee.
L'autonomia si
esprime in una forma politica, in una parte
definita del proletariato che ha saputo affermare,
al di sopra delle divisioni sindacali e
partitiche, l'interesse reale della classe sfruttata.
Il
movimento operaio tradizionale, nel momento
in cui ha sferrato l'attacco ai nuclei politici
che portano avanti la prassi autonoma,
si è assunto la grave responsabilità storica
di rompere l'unità reale del proletariato (che
si stava affermando nella lotta), sostituendovi
un'unità fittizia, sloganistica. Mentre
si affermava che «finalmente la classe operaia è unita contro i padroni»
si cercava di amputare la classe operaia delle sue avanguardie
di lotta. Col bastone della repressione
e con la carota della democrazia sindacale,
con gli slogan di sinistra e la pratica
conservatrice, l'offensiva sindacale portava
di fatto alla spaccatura fra destra e sinistra
operaia.
La
sinistra operaia ha tardato a intendere quanto
stava avvenendo, vittima essa stessa del
contenuto dell'«unità»
che
non era stato sufficientemente
approfondito sul piano teorico-pratico.
I nuclei politici (Cub,
Gds, gruppi
studenteschi, ecc.) tentavano di ricollegarsi
spontaneamente
con la classe operaia
ma finivano per trovare davanti a loro la destra
schierata e organizzata. Una destra che
non ha affatto il reale controllo della situazione
ma che ha saputo sfruttare al massimo il
terreno
di
lotta favorevole
(la
lotta
contrattuale) e che ha puntato cinicamente
(sottovalutando i pericoli a lunga scadenza)
sul qualunquismo.
La
sinistra, dal canto suo, ha commesso alcuni
errori: in certe situazioni si è ripiegata su
se stessa, rinunciando alla lotta, in altre ha
radicalizzato lo scontro su contenuti sindacali,
autoisolandosi, in altre ancora ha cercato
un ambiguo rapporto con i sindacati.
Diversamente
sono andate le cose nell'Università e nelle scuole. La debolezza organizzativa
dei partiti revisionisti ha imposto qui una
tattica più subdola e indiretta, fondata principalmente
sulle contraddizioni interne del movimento studentesco. Contraddizioni tra
i caratteri autonomi del movimento e il controllo
esercitato su di esso da gruppetti burocratici,
dal suo «intellettualismo» verboso
e l'assenza di un'elaborazione teorica a
livello dei problemi attuali, dalle sue vittorie
tattiche e dall'assenza di prospettive strategiche.
Il PCI e le organizzazioni neorevisioniste
hanno offerto un'organizzazione, una
teoria e una strategia bell'e fatta. Su
questo è avvenuta una spaccatura che tenderà
ad approfondirsi sempre più. Da
un lato
una destra del movimento, che sotto gli slogan «rivoluzionari» nasconde
l'obbiettivo
opportunismo di chi accetta le regole del
gioco, giustificandosi col fatto che... le masse
non sono mature (quelle operaie perchè
sono egemonizzate da partiti e sindacati, quelle
studentesche perché non hanno ancora
acquisito la coscienza marxista-leninista);
dall'altro una sinistra che accetta la sfida del sistema e tende a
sviluppare una lotta sociale complessiva che ha come termine
di riferimento l'autonomia proletaria. La
spaccatura fra destra e sinistra del proletariato
non è un gesto volontaristico, che riguarda
soltanto pochi militanti, ma è un riflesso
dei livelli disomogenei di coscienza delle masse. La
lotta decisa e implacabile contro
la destra proletaria è la condizione per
conquistare le masse alla lotta rivoluzionaria.
E'
necessario combattere il malinteso «unitarismo»
di chi dice: siamo in pochi, siamo una
minoranza, quindi non combattiamoci tra di
noi; accettiamo le condizioni del più forte (la
destra attualmente), e in un secondo tempo
svilupperemo le contraddizioni. Nello
stesso tempo è necessario che la lotta
non sia soltanto ideologica, verbale, o combattuta a livello degli intrighi di
corridoio,
ma si sviluppi all'interno delle lotte
dì massa,
sia
un momento delle lotte di massa. L'estensione
dell'autonomia proletaria dalla fabbrica
e dalla scuola alla società non è un'operazione quantitativa ma un salto
politico
fondamentale.
La
lotta continua contro la
pace sociale, contro la legalità repressiva,
contro l'organizzazione del consenso, contro
la
dittatura
tecnopolitica
socialcapitalista
ha un solo nome: lotta rivoluzionaria
per abbattere il potere borghese.
LOTTA
RIVOLUZIONARIA E «RIVOLUZIONE»
La
stessa parola «rivoluzione» ha oggi un destino particolare: da un lato
se ne abusa per definire qualunque avvenimento o atteggiamento
non conforme alle norme della convivenza
borghese (per esempio tra gli studenti),
dall'altro se ne terne persino l'espressione
(per esempio tra la classe operaia «vecchia»).
Definire
a priori un processo rivoluzionario è
impossibile; in esso confluiscono tali e tanti
elementi che prefigurarne dettagliatamente lo sviluppo significa fare opera di
mistificazione piuttosto che opera scientifica. Ma chi si richiama al
marxismo rivoluzionario
non può rinunciare a intendere le linee del
processo rivoluzionario in cui è inserito, non
può rinunciare a tracciare una linea strategica,
a portare il proprio contributo alla creazione
di una teoria rivoluzionaria nella metropoli.
Nota
-
Alla
frase
«senza
teoria
niente
rivoluzione»
è necessario
aggiungere, «senza teoria niente organizzazione, o meglio niente organizzazione
rivoluzionaria.
A parole tutti d'accordo; ma in pratica prevalgono oggi nel movimento due
tendenze da
combattere:
1)
II praticismo
spontaneista,
che
tende a
confondere la
teoria con la propria prassi politica. E' In questo modo
che una soggettiva volontà rivoluzionaria si trasforma
in opportunismo
oggettivo: la
misura della
propria azione
diventa il successo, raggiunto a qualunque
costo e a prezzo
di qualunque compromesso. La
lotta, qualunque lotta, viene sopravalutata; ad esse
si applica l'etichetta più utile. Si passa così di vittoria
in vittoria, il padrone subisce continue sconfitte,
sindacati e partiti sono ormai ridotti al lumicino,
la rivoluzione è a portata di mano! Salvo poi scoprire
che tutto questo era un sogno a occhi aperti!
Allora crisi di sconforto, pessimismo, rinuncia. Da cui
se
ne
esce
con
una
nuova ondata
di successi,
vittorie, ecc.
In
tal modo, è vero, non ci si «chiude in casa a studiare,
non si elaborano «teorie a tavolino», ma si pensa
per luoghi comuni, si danno per scontate miserabili
parodie di «tesi politiche», si agisce con gli occhi bendati finendo nel
vicolo cieco dell'attivismo. Si
finisce per «far politica» invece di «fare la rivoluzione».
2)
L'ideologismo dogmatico. Funziona così. Recita della
litania: «marxismo, leninismo-pensiero di Maotsetung,
adattato alle peculiari condizioni storiche. Dopo
di che due sono le alternative: o si rimette il m-l-maoismo
nel cassetto e si naviga nelle acque più calme
della politica spicciola da corridoio; o si aderisce
a un partito che si proclama l'unico, vero erede di
Marx, di Lenin, di Mao e si aspetta che le masse si
convincano di questo.
Questi
due errati atteggiamenti «teorici» hanno una origine
pratica: costituiscono entrambe la base di potere
della dirigenza burocratica e leaderistica insediata
parassitariamente nel movimento di massa. La crescita
pratica e teorica del movimento, la sua trasformazione
in movimento rivoluzionario organizzato, costituirebbe
la fine di un privilegio che assume spesso
le forme dello sfruttamento politico. Noi crediamo che il fronte di lotta
teorica sia fondamentale
per lo sviluppo del movimento proletario. La
lotta è su due piani: per l'elaborazione di una teoria
rivoluzionaria nella metropoli (che attualmente non esiste, anche se molte
indicazioni fondamentali sono contenute nel patrimonio teorico del marxismo rivoluzionario),
per la propaganda militante delle idee giuste
e per la loro applicazione nell'autogestione delle
lotte dei proletariato.
E'
necessario oggi ridefinire il concetto stesso
di rivoluzione, alla luce delle condizioni oggettive
e dello sviluppo reale del movimento
autonomo del proletariato europeo. Due
punti ci sembra importante mettere in evidenza:
1)
Processo
rivoluzionario e
non momento rivoluzionario.
Scrive
il rivoluzionario brasiliano Marcelo De
Andrade: «Prima della unificazione del capitalismo
mondiale da parte dell'imperialismo
Yankee, il proletariato aveva la possibilità
di armarsi attraverso vie non armate, cioè
poteva prima
organizzarsi
politicamente e
sviluppare fino ad un certo punto la
lotta
politica
e la violenza non armata, per poi approfittare
della disfatta sociale, politica e militare
delle classi dominanti dei rispettivi paesi
per armarsi e prendere il potere... Oggi,
dato che la possibilità di una guerra interimperialista
è storicamente esclusa, una alternativa
proletaria del potere, deve essere,
sin
dall'inizio,
politico-militare,
dato che la
lotta armata è la via principale della lotta di
classe».
E'
necessario capire fino in fondo questa tesi
perchè essa sta alla base di tutti i movimenti
rivoluzionari operanti nel mondo. Nella
concezione corrente oggi in Italia del rapporto
fra movimento di massa e organizzazione
rivoluzionaria, è implicita un'immagine
del processo di questo genere: prima sviluppiamo la lotta politica, conquistando
le masse alla
rivoluzione, poi, quando le masse
saranno diventate rivoluzionarie, faremo la
rivoluzione. Quindi: oggi non esistono le condizioni oggettive rivoluzionarie;
non ci resta ché
fare politica in
modo più o meno tradizionale.
Obiettivo intermedio: costruzione
del partito marxista-leninista.
Implicita
è anche la tesi che la rivoluzione in
Europa non possa che coincidere con un momento
insurrezionale che porterà al potere il proletariato. Dopo la presa del potere
si trasformerà la società. I revisionisti obiettano:
l'insurrezione generalizzata è una utopia;
quindi non resta che inserirsi all'interno
delle strutture di potere borghese e trasformarle
dall'interno. In effetti l'ipotesi dell'insurrezione generalizzata
è oggi assolutamente illusoria. Ma questo
non significa rinunciare al proprio compito
di rivoluzionari.
E'
la realtà stessa che ci sottrae alle suggestioni
di una falsa alternativa. La dimensione sociale
della lotta, e il punto più alto del suo sviluppo:
la lotta contro la repressione
generalizzata,
costituisce
già un momento rivoluzionario. Il processo rivoluzionario tende a svilupparsi
fin dall'inizio su tutti i piani: non è
una scelta volontaristica ma una condizione imposta
dalla realtà. Quando ci si può beccare
quattro anni di galera per non
aver aggredito
un poliziotto, si impone una scelta: o
ci si rifugia nel pantano del riformismo rinunciatario,
o si accetta il terreno
rivoluzionario
dello scontro.
La borghesia
ha già capito fino in fondo la situazione
e si comporta di conseguenza. La
borghesia ha
già scelto l'illegalità. La
lunga marcia
rivoluzionaria nella metropoli è l'unica risposta adeguata. Essa deve
cominciare oggi e qui.
2)
Processo
rivoluzionario metropolitano. Non
è stato ancora sufficientemente inteso che
cosa significhi sviluppare un processo rivoluzionario
in
un'area metropolitana a sviluppo
tardocapitalistico. I
modelli rivoluzionari del passato o delle aree periferiche sono
inapplicabili. II nostro problema è oggi prendere
atto della realtà in cui ci troviamo a
operare; la difficoltà di questa ricerca non deve
indurci a fingere d'essere nella Russia del
1917 o nella Cina del 1927. Ci sembra necessario
lavorare in modo teorico-pratico su questi
punti:
a)
Nelle aree metropolitane nordamericana ed
europea esistono già le condizioni
oggettive per il passaggio
al comunismo: la
lotta è
essenzialmente rivolta a creare le condizioni
soggettive. Questo
implica che il proletariato
deve portare avanti in modo diretto la
sua rivoluzione,
e che non può più, come è
avvenuto nel passato, innestare la propria azione su obiettivi essenzialmente borghesi:
democrazia
parlamentare, indipendenza, unità
nazionale, sviluppo industriale, ecc. I revisionisti hanno oggi assunto la
difesa di questi
valori; il nostro problema è attaccare
su un
obiettivo direttamente rivoluzionario: rovesciamento
del sistema di potere borghese
e trasformazione della stessa essenza del potere
(autoritario, centralizzato, gerarchico, repressivo, manipolatore, ecc.).
b)
Il mutato (rispetto al capitalismo classico)
rapporto fra struttura e sovrastruttura, che
tendono sempre più a coincidere, fa sì che
oggi il processo rivoluzionario si presenti
come globale, politico e «culturale» insieme.
Il che significa che mutano sostanzialmente
i rapporti tra movimento di massa e
organizzazione rivoluzionaria, e che di conseguenza
vengono a mutare radicalmente anche
i principi d'organizzazione.
Nota
-
Si
impone a questo punto una critica al «partito marxista-leninista» così come
viene inteso, o frainteso.
Richiamarsi al marxismo rivoluzionario significa
oggi sviluppare
il
patrimonio teorico del movimento
operaio, e fargli compiere quel salto dialettico che la realtà impone. Secondo
Marx il partito politico
del proletariato coincide con l'intero proletariato
(che
«o è rivoluzionario o non è»). Ciò non ha
impedito a Lenin, di sviluppare, in epoca e in condizioni
diverse, la teoria del partito bolscevico che è l'avanguardia del proletariato,
nè a Mao di promuovere
la rivoluzione culturale, che è, nella sua essenza,
la proposta di una nuova
forma di
organizzazione
proletaria.
La tradizione marxista è per noi un punto di riferimento, un patrimonio dal
quale attingere, ma non
deve in nessun modo paralizzarci di fronte ai nostri
compiti attuali.
Per
venire nello specifico. I fondamenti del partito leninista sono tre: 1)
distinzione tra momento economico
e momento politico; 2) distinzione tra lotte della classe
operaia e coscienza
socialista della
quale sono depositari
gli intellettuali; 3) distinzione tra avanguardia
e massa. Nessuno di questi tre elementi è presente
nella realtà attuale dell'area metropolitana europea.
Bisogna
tuttavia fare un discorso chiaro: il superamento
del partito non può consistere nel ritorno a quelle
forme che il leninismo ha superato: operaismo, spontaneismo, economicismo,
terrorismo. Il superamento
del partito non è un lavoro da tavolino, che si
può esaurire nella ricerca di formulette, ma è un'opera
collettiva per la ricerca di una forma organizzativa
nuova, sviluppo e superamento delle attuali forme
organizzative embrionali assunte dall'autonomia proletaria.
c)
Il
terreno essenzialmente urbano
della
lotta.
Un dato obiettivo: nel 1961 14.481.000
italiani
erano concentrati in otto aree urbane;
si prevede che entro il 2001 essi saliranno
a 29.153.000, metà della popolazione totale.
A
questo dato statistico corrisponde un dato
politico: la città è oggi il cuore del sistema,
il centro organizzatore dello sfruttamento
economico-politico, la vetrina in cui viene esposto
«il punto più alto», il modello che dovrebbe
motivare l'integrazione proletaria. Ma
è anche il punto più debole del sistema: dove
le contraddizioni appaiono più acute, dove
il caos organizzato che caratterizza la
società tardocapitalista appare più evidente,
dove le spaccature politiche fendono
verticalmente l'intero tessuto sociale. E' su
questo terreno che il proletariato moderno
emerge più impetuosamente, dove acquista coscienza della sua unità. E' qui,
nel suo cuore, che il sistema
va colpito.
La
città deve diventare per l'avversario, per gli
uomini che esercitano oggi un potere sempre
più ostile ed estraneo all'interesse delle
masse, un terreno infido: ogni loro gesto
può essere controllato, ogni arbitrio denunciato, ogni collusione tra
potere economico e
potere politico messa allo scoperto.
«Agire
nelle masse come pesci nell'acqua»
vuol
dire per noi impedire al potere di avere un'immagine
definita della sua forza, braccarlo
nelle sue tane e rivolgere contro di esso
e i suoi rappresentanti (o contro chi ne
assume in modo cosciente o incosciente la
difesa, e
se ne rende complice) tutta la violenza
che esso sputa ininterrottamente contro
la grande maggioranza del popolo. Alla
violenza globale di un sistema che tende
a controllare il cittadino in ogni suo atto pubblico e privato, bisogna
contrapporre l'impegno
globale del rivoluzionario, capace dì
trasformare ogni suo gesto, ogni sua collocazione
di lavoro o d'abitazione in un centro di lotta. La rivoluzione culturale fa oggi
tutt'uno
con la rivoluzione politica: a
questa
opposizione globale che è in grado di
trasformare
in forza la sua immensa superiorità
politica, culturale e morale, il sistema può
opporre soltanto il peso della sua oppressione,
dei suoi ricatti, della sua corruzione.
Con queste armi nessun sistema è
mai
riuscito a sopravvivere.
IL
LIVELLO D'ORGANIZZAZIONE NELLA
SITUAZIONE ATTUALE
Le
caratteristiche della situazione
attuale possono
essere così riassunte:
Le
lotte particolari, spontanee hanno esaurito
a loro funzione trainante. La
dimensione reale dello scontro è oggi sociale,
complessiva; il suo punto più alto è la
lotta contro la repressione, che è lotta
contro
la violenza
globale del sistema,
e quindi
già direttamente rivoluzionaria.
Le
organizzazioni revisioniste sono incapaci di
scendere su questo terreno: l'appello resistenziale
alla legalità costituzionale, la tattica
difensiva, denunciano praticamente
la
«via
italiana al socialismo» per quello che è:
una strategia riformistica di inserimento del
proletariato
nell'ambito dell'egemonia
economico-politica borghese. Praticamente: ciò
significa che sempre più nel futuro le
organizzazioni
sindacali e i partiti
«operai» appariranno
alle masse per quello che sono, e si riveleranno incapaci di fronteggiare
l'offensiva capitalistica.
Dal
canto loro le forze rivoluzionarie soggettive
affrontano lo scontro in una condizione
di estrema debolezza: questa debolezza
che è teorica e pratica insieme si esprime
vistosamente sul
piano organizzativo. La
paralizzante «attesa del partito» e la pratica
sostanzialmente spontaneista costituiscono
un circolo vizioso che si esprime nella
falsa alternativa fra:
-
Contestazione
istituzionalizzata,
e
cioè lotte
particolari che sollecitano soluzioni particolari,
«rivoluzioni culturali» che si affidano
alla tolleranza del sistema, manifestazioni
«ordinate e pacifiche» che dietro gli slogan
pseudorivoluzionari nascondono la resa al
riformismo.
-
Estremismo
spontaneista che
si esprime attraverso
la radicalizzazione degli
stessi contenuti politici riformisti. Si chiedono più
soldi,
più libertà
in fabbrica, più
energia nella
lotta contro la repressione, nell'illusione di
battere sindacati e partiti in questa «gara al
rialzo».
Queste
posizioni si giustificano con un solo argomento: che le masse non sono preparate
ad affrontare lo scontro al livello imposto
dal capitale. Valutazione che contiene
un
doppio errore: da un lato miticizza le
masse,
ritenendole capaci di affrontare (un
giorno
o l'altro) spontaneamente
la
lotta
rivoluzionaria;
dall'altro sottovaluta le masse ritenendole
incapaci di intendere i
termini di
una lotta rivoluzionaria, che
è compito delle
avanguardie intraprendere.
Nota
-
E'
necessario distinguere tra:
Masse:
che sono costituite dalla cosiddetta «maggioranza
silenziosa»,
manipolata e manipolabile, vittime
di
un'oppressione che le riduce al livello di «opinione pubblica»,
principale campo d'intervento dell'organizzazione
dei consenso.
Nenni,
per esempio, giustificò il centro-sinistra con
un
argomento più o meno di questo genere: le masse
oggi vogliono raggiungere un più alto livello
di consumi,
e se ne fregano di cambiare radicalmente la
società; quindi io, socialista, che
sto sempre con le
masse, opero per creare la società dei benessere.
Movimento
di massa:
è
l'elemento dinamico in cui si
esprime immediatamente la lotta di classe in termini
di conflittualità fra la forza-lavoro e i datori di
lavoro, fra le classi dirigenti e i subordinati, fra gli oppressori
e gli oppressi. Rispetto al movimento di
massa
due possono essere gli atteggiamenti: di
chi sfrutta
il movimento, restandone sostanzialmente alla coda;
di chi ne interpreta le esigenze più profonde, ancora
latenti e inespresse, e opera soggettivamente per
uno sbocco rivoluzionario della lotta. E' la distinzione,
vecchia come il movimento operaio, tra riformisti e rivoluzionari.
L'alibi dei riformisti è sempre
stato:
le masse non sono mature. In realtà è assurdo
chiedere alle masse una maturità che le cosiddette
«avanguardie» non riescono a esprimere.
Organizzazione
rivoluzionaria:
E' l'organismo politico espresso
dai contenuti più avanzati del movimento di massa,
il suo più alto grado di coscienza collettiva. Che
non possa e non debba «staccarsi dalle masse» è
addirittura ovvio; ma è altrettanto vero che questa
unità masse-organizzazione rivoluzionaria è
una unità
dialettica, il frutto di una lotta, non un
dato aprioristico, mancando il quale si resta fermi. Sottoporsi
alla spontaneità del movimento significa restare, di
fatto, fermi. Può essere significativo ricordare che durante
la rivoluzione cinese il vecchio incitamento degli ufficiali: «Andate
avanti»,
era stato sostituito
col
più corretto «Venite avanti».
L'organismo politico che non sia in grado di rivolgersi alle masse col
motto:
«Venite avanti»,
è la ridicola parodia, verbalmente
rivoluzionaria, dei partiti revisionisti.
Dobbiamo
porci il problema concretamente. Quale livello d'organizzazione è oggi
possibile e necessario? E' utile paragonare questo
momento con la fase iniziale delle lotte spontanee
1968-1969. Come allora si dovevano
«inventare» i modi e gli strumenti organizzativi capaci di contenere ed
esprimere
il nuovo discorso politico dell'autonomia, così oggi occorre realizzare
un salto qualitativo
nello sviluppo delle strutture organizzative,
capace di commisurarsi alla nuova prospettiva
di lotta: lotta sociale generalizzata
contro la società capitalistica. Lo strumento
organizzativo, per non diventare un giogo burocratico, deve essere sempre
funzionale
ai contenuti e agli obiettivi politici che
si vogliono perseguire.
Cub,
Gds, movimenti
studenteschi di sede,
ecc. hanno avuto
una funzione: essere gli
strumenti della rinascita
del movimento autonomo
del proletariato, attraverso lotte autodeterminate
e autogestite.
L'ambito
politico di tale lotta era collocato fondamentalmente nella scuola e nella fabbrica,
cioè all'interno delle istituzioni. Lo strumento
organizzativo non poteva quindi che
essere interno a tale ambito. Nel momento
in cui le lotte si sono generalizzate, e
in cui molti dei contenuti politici dell'autonomia
sono stati acquisiti (al punto che sindacati
e partiti sono costretti a mistificarli), nel
momento in cui le lotte non hanno più come
ambito politico di riferimento solamente
la fabbrica e la scuola, lo strumento organizzativo interno, settoriale, non ha
più funzione
politica reale e giustamente viene travolto
dalle stesse lotte che ha generato. Sviluppare
l'autonomia proletaria oggi significa
superare le lotte settoriali e gli organismi
settoriali. Questo
superamento non può
che avvenire attraverso la lotta contro le
tendenze «conservatrici», presenti all'interno
del movimento, che confonde l'autonomia
con il suo primo livello di espressione
organizzata: appunto i Cub, Gds, i MS. Qual'è
oggi il reale spazio politico degli organismi
di base? L'esperienza delle lotte contrattuali e la paralisi del movimento studentesco,
ci dimostrano che lo spazio politico
all'interno della lotta rivendicativa si è ristretto a tal punto che l'azione
degli organismi
settoriali è sì funzionale allo sviluppo della lotta, ma nella stessa
direzione e verso
gli stessi obiettivi dei sindacati dei partiti.
In altri termini, con queste strutture organizzative
settoriali, si finisce per potenziare
la gestione sindacal-parlamentare delle
lotte proletarie.
La dimensione sociale della lotta richiede organismi di base a livello sociale. Per quello che ci riguarda, l'unità di base primaria del nostro lavoro politico è costituito dall'area metropolitana milanese. Non si tratta quindi di fare un salto da organizzazione di base a organismo di vertice, o di estendere quantitativamente una rete di collegamenti costituendo una specie di federazione dei gruppi di base, ma di costruire organismi politicamente omogenei per intervenire nella lotta sociale metropolitana. II superamento dell'operaismo e dello studentismo (le tendenze conservatrici del movimento) non può, a nostro parere, avvenire attraverso la unione spontanea, sporadica e apolitica di operai e di studenti (oppure rinviata al mitico partito marxista-leninista), ma attraverso la creazione di nuclei organizzativi che si pongano a livello dei problemi sociali complessivi. La confluenza in essi di operai, studenti e tecnici non è un fatto meccanico, organizzativistico, ma il frutto della coscienza dei nuovi contenuti e dei nuovi obiettivi che si pongono al movimento.
5.
Alcune note di metodo sul lavoro del
collettivo politico
metropolitano
1)
Il
collettivo non si propone come organismo
dirigente, ma come nucleo agente.
il
nostro problema non è quindi quello di porci
in concorrenza con sindacati, partiti, partitini,
gruppi, per «dirigere le masse», ma di
esercitare un'azione dialettica che contribuisca alla crescita politica delle
masse, allo
sviluppo dell'autonomia, alla trasformazione
delle lotte sociali specifiche e settoriali
in lotta sociale generalizzata.
Ci
poniamo quindi come strumento teorico-pratico
all'interno del movimento generale del
proletariato che -
seppure in forme embrionali
e ancora assai limitate - tende
a una
trasformazione globale della società.
Il
collettivo non è un'associazione di gruppi, ma
ad esso si partecipa individualmente, come
militanti. Non si tratta quindi di «egemonizzare»
o «catturare» Cub, gruppi di studio
o altri organismi di base, per poi gestirli a
livello generale, ma di costituire un organismo
politico, di militanti attivi, che si impegnano
à svolgere un lavoro politicamente
omogeneo all'interno di situazioni sociali e
nel più generale tessuto metropolitano.
Militanti
attivi: non ci interessa quindi organizzare
un consenso passivo, da spettatori,
di individui che delegano ad altri la responsabilità politica delle loro azioni
e dei loro
pensieri. La misura e il riferimento delle
nostre azioni va cercata nella capacità di sviluppare
le contraddizioni antagonistiche tra
il movimento complessivo delle masse e il
sistema capitalistico, nella capacità di colpire
il sistema borghese.
2)
Attaccare al punto più alto.
Tra
i vari problemi che il lavoro politico ci ha
posto in questi mesi uno è molto importante
e può essere formulato in questi termini:
in una situazione in cui siano presenti vari
livelli di coscienza dobbiamo attaccare il
punto più alto o il punto più basso?
Un
esempio chiarirà il problema e la risposta.
Un
militante rivoluzionario che si trovi a dover
lavorare in un organismo di base politicamente
eterogeneo, una volta individuata la
sinistra e la destra di quella situazione da
dove partirà per sviluppare il suo lavoro politico?
-
Se parte dalla «destra»
cioè dal punto più
basso, egli si preclude la possibilità di sviluppare
un'azione emancipante, trainante, rivoluzionaria,
e comunque si pone ad un livello
di problemi già «scontato» nell'esperienza
complessiva del gruppo. E' questa una
posizione opportunista, che consente di lavorare
con degli «operai» o con degli «studenti»,
ma non con l'autonomia proletaria.
-
Se attacca a partire
dal punto più alto, e cioè
dalla sinistra, egli si mette in grado di verificare
e il suo discorso e la sua forza reale,
consentendo all'autonomia una dialettica
chiarificatrice.
E'
questa seconda risposta che deve informare
le nostre scelte ed il nostro lavoro.
3)
I militanti non partecipano al collettivo ma
costituiscono il
collettivo.
Se
nel 1968-69 essi hanno costituito degli organismi
di base (Cub, Gds, gruppi del MS, ecc.)
collocati politicamente oltre che organizzativamente
nelle situazioni specifiche (fabbrica,
scuola, quartiere, ecc.) oggi essi concepiscono
come proprio organismo di base
il collettivo. Il che significa:
a)
Il punto di riferimento della propria azione politica non è più l'ambito
specifico ma diventa
quello generale metropolitano. Il superamento
degli
organismi
particolari,
settoriali,
si
materializza
in una
nuova definizione
del militante che assume su di sè e sulla
propria azione tutta la complessità di un
intervento politico generale. La militanza
rivoluzionaria infatti o è generale e complessiva
o non è.
b)
I militanti del collettivo devono individuare
all'interno di un'analisi politica complessiva
i punti nodali di sviluppo e gli ambiti
strategici di intervento sulla metropoli.
Occorre
cioè determinare per punti
di forza lo
sviluppo del lavoro politico del collettivo all'interno
delle strutture produttive e dei gangli
fondamentali della vita sociale metropolitana.
Agire
per punti di forza significa anche concentrare
in modo articolato le esigue forze
di cui si dispone per renderle incisive nell'azione
politica. Concretamente: se un compagno,
volendo svolgere un'azione rivoluzionaria,
si trova isolato nel suo ambito specifico,
è meglio che si renda disponibile per la costruzione dell'organizzazione
generale del collettivo
e per concentrarsi in altri
ambiti di lavoro politico più produttivi.
4)
Lotta politica e rivoluzione culturale.
Il
proletariato occidentale si aggira per la Europa
in cerca di ricomposizione. Gli strumenti che aveva creato per instaurare la sua
«dittatura» gli stanno ora di fronte, contrapposti,
estranei, e lo coinvolgono in un processo
privo nel contempo di ragione e di storia.
Ancora una volta ragione e storia delle
classi dominanti si sono impossessate anche
del suo cervello. Il padrone gli ha preso
tutto, il presente e il passato, la testa
e le palle: un esproprio globale che ammette
solo una risposta globale.
E'
così che una storia ignobile come quella delle
nostre classi dominanti non alimenta il
nostro odio per esse. E' così che a un presente
intollerabile, se commisurato con le nostre
possibilità, non corrisponde un'adeguata
coscienza della sua intollerabilità.
Noi
siamo profondamente segnati da una vita
sociale alienata in cui la «separazione»
sembra essere la
legge dominante: separazione
tra pubblico e privato, separazione tra essere
e coscienza, separazione tra la testa e le
palle. L'io ultradebole, nevrotico, alienato,
egoista, individualista, manipolato, e
un
dato col quale fare i conti: è un dato della
nostra rivoluzione.
La
lotta per un «mondo nuovo»
è anche la
lotta
per un «uomo nuovo».
La rivoluzione politica
coincide finalmente con un reale e
profondo
processo di rivoluzione sociale e culturale.
La rivoluzione uscita dall'utopia diventa attuale in primo luogo nella
comunità
rivoluzionaria. Essa passa contemporaneamente
«dentro» e «fuori» ognuno di noi; dentro
e fuori ogni
comunità rivoluzionaria, dentro
e fuori ogni collettivo di lavoro. Essa esige
una reale contemporaneità fra la trasformazione
dell'uomo e la trasformazione delle
sue istituzioni, tra la trasformazione dei
bisogni e la trasformazione dell'apparato di
produzione e consumo. Nella comunità rivoluzionaria il lavoro collettivo è il
primo momento
dell'indispensabile riunificazione dell'essere sociale con la sua coscienza. Lavoro
collettivo è responsabilità collettiva, è assunzione
in prima persona dei problemi complessivi
di tutti.
Due
elementi generali sostanziano questo lavoro.
Essi sono: fiducia e disponibilità reciproca.
Fiducia:
non
si tratta di un dato psicologico, fondato
sul «conoscersi bene», su vaghi aspetti
di cameratismo, ma di una fiducia
politica
che
si conquista attraverso la prassi comune. Non dobbiamo mai dimenticare che
viviamo in una società capitalista che aliena
costantemente i valori fondamentali del
rapporto pubblico e privato, in una società
tardocapitalista che produce «io» debolissimi.
Non
siamo buoni selvaggi in una società buona,
ma «a priori» figli di puttana in una società
malata. Un militante non ha il diritto di
dimenticare questo nè
per chiedere nè per
concedere una
fiducia a scatola chiusa che
può mettere in pericolo lo sviluppo del lavoro
politico organizzato.
D'altra
parte la sfiducia illimitata -
anche questa
elargita su
basi
psicologiche -
e paralizzante e non
consente di sviluppare il processo
di collaborazione.
Quindi:
costruiamo strutture di lavoro nelle quali
sia possibile tradurre progressivamente
le nostre esigenze in capacità, le nostre curiosità
in conoscenza, la nostra buona volontà in partecipazione effettiva.
Disponibilità
reciproca:
vi
è un unico modo di
rendersi reciprocamente disponibili: definire
e accettare una disciplina
collettiva,
offrire
cioè la garanzia agli altri che si è nel
posto in cui si dovrebbe essere, che si fa
quello che ci si
è
impegnati di fare. L'improvvisazione
e l'indisciplina
sono le caratteristiche
organizzative dello spontaneismo (non
già della
spontaneità
di massa capace di
un altissimo, anche se per ora sporadico, grado
di disciplina collettiva). Parlare di disciplina, per gli spiacevoli echi che
suscita, significa trovarsi di fronte alla obiezione:
ma allora la libertà? Una vecchia risposta
marxista per una vecchia domanda: la
libertà borghese è la libertà dell'individuo isolato
nei confronti di altri individui isolati,
tutti schiacciati da una spietata (anche se
oggi imbellettata e infiocchettata) macchina
di dominio. Voler richiamare in vita questa
«libertà»
illusoria significa rinunciare alla
realizzazione della libertà reale.
Questa
forma superiore (seppure ancora imperfetta)
di libertà che è la disciplina militante
esclude ogni passiva accettazione di ordini,
ma si fonda sulla partecipazione costante e cosciente di ognuno al lavoro collettivo.
Sono gli spettatori, i passivi (che non
significa i compagni meno esperti o meno
capaci) che permettono il formarsi delle gerarchie
burocratiche.
gennaio
1970
Collettivo
Politico Metropolitano