in occasione dell’ Assemblea del 9 aprile 2003 su
“Violenza sociale e movimento pacifista”
acrati-bologna
L’attuale
sistema di dominio non ha timore alcuno che i suoi presunti oppositori ne
critichino gli aspetti più palesemente nefasti poiché tali critiche si danno
in quella maniera separata che esso stesso ha predisposto. In quanto tali, anche
le più sincere, rappresentano di fatto delle mezza verità e pertanto non
possono essere che delle menzogne.
L’idea
di incontrarci in assemblea prende lo spunto dai provvedimenti repressivi
notificati a quattro compagni a seguito dei fatti accaduti in occasione della
manifestazione di Ferrara del 22 Febbraio, indetta contro la guerra e contro l’allestimento
di alloggi per i militari NATO in quella città.
È
innanzi tutto necessario che si chiarisca sin da subito, che l’aspetto
poliziesco e giudiziario della repressione non è che l’espressione
fisicamente manifesta e indubbiamente difficile da tollerare, della costante e
diffusa coercizione che agisce sull’intera
quotidianità attraverso forme meno evidenti ma non per questo meno devastanti.
I
fatti di Ferrara, pur senza volerli eccessivamente enfatizzare, sono uno stimolo
buono per la discussione, quell’esperienza e le sue conseguenze ci permettono
di toccare molte questioni tutte attivamente presenti o positivamente assenti in
quella giornata.
Se
si vuole parlare di repressione purtroppo lo spunto è evidente ma come si è
detto ci interessa affrontarla nell’ottica della critica radicale all’esistente.
Se
si vuole parlare poi del modo di scendere nelle piazze del movimento
dei movimenti, no global prima e contro la guerra poi, possiamo vedere come
in sua assenza sia stato possibile portare un’altra pratica del dissenso nelle
strade.
Se
si vuole parlare del vizio di presentarsi alle manifestazioni bardati di
telecamere come se si fosse allo zoo safari beh!, in quella occasione la critica
a questa nefasta abitudine è stata portata costantemente lungo tutto il corteo,
e senza tregua.
Se
si vuole tentare di fare insieme un giro di discussione per capire come uscire
da questa situazione di crescita numerica delle manifestazioni ma di evidente
calo qualitativo, per non dire assenza, di contenuti e di obiettivi, la
condivisione gioiosa di quella occasione ci dà quantomeno il via per farlo.
Le
misure cautelari meritano un piccolo approfondimento. Pare che sia la prima
volta che a Bologna i tenutari dell’ordine si trovano a dover gestire misure
che, nel loro insieme, risultano a dir poco singolari. Non pensiamo che la
giudice di Ferrara sia stata colpita da una prematura insolazione quando ha
deciso di sostituire gli arresti domiciliari con una ridondanza di provvedimenti
alternativi da oscar per effetti speciali. Oltre all’obbligo di dimora nella
città di residenza, alla firma quotidiana e alla reclusione in casa dalle 14
alle 19, ha pensato bene di richiedere anche la reperibilità degli indagati in
ogni momento e luogo; in buona sostanza si devono comunicare ogni giorno ai
birri dell’anticrimine, entro le 13, tutti gli spostamenti, con dovizia di
particolari, fino al giorno successivo.
Ciò
appare evidentemente in linea con il controllo che il sistema capitalistico
tecnologico attuale esercita, ad ampio raggio, sull’intera vita dei suoi
sudditi. Non crediamo occorra ripetere delle telecamere in città, delle carte
telefoniche, delle tessere varie usate per i pagamenti e di tutti i modi
necessari che l’attuale sistema di dominio utilizza per seguirci dalla nascita
in poi in tutti i nostri spostamenti. Non ci vuole nemmeno molto per capire come
un tale tipo di restrizione della libertà
finisca per ridurre, chi ne è colpito, ad uno stato d’intollerabile
dipendenza attraverso la consegna della propria esistenza, fino nei particolari
più intimi, proprio nelle mani di chi difende quel disastro di vita contro il
quale ci si rivolta. Anche sotto questo aspetto l’originale idea della giudice
in questione non si allontana dal quadro generale che vede l’asservimento più
completo dell’uomo alla macchina del mercato la quale richiede di poter
contabilizzare i comportamenti, prevederli, guidarli, anticiparli, per inserirli
come meri parametri all’interno dell’unica logica socialmente accettabile,
quella della circolazione delle merci. La mercificazione ha colonizzato ogni
attimo del quotidiano agire umano. Merce tra le merci, non solo l’uomo è una
materia prima, all’interno del ciclo produttivo, a bassissimo costo,
abbondante addirittura esuberante e
flessibile, facilmente trasportabile e malleabile usata dal capitale a suo
piacimento, ma persino ogni aspetto del suo agire è stato messo a profitto.
Nulla è lasciato alla gratuità di una libera relazione tra uomini. In ogni
ambito della nostra esistenza le merci ci assediano e diventano la nostra unica
necessità, ovviamente indotta ma anche sciaguratamente introiettata. Una massa
schiacciante di merci ci lascia incapaci financo di capire quali sono i nostri
desideri e come fare per realizzarli. Il falso benessere ci perde e ci fa
perdere la forza di reagire. Siamo, come già diceva Anders, sovrani di una mera
passività “giacché quello che possediamo è solo il nostro poter essere
riforniti”. Anche nel tempo presunto libero siamo al servizio della produzione
che ci usa come consumatori, come alleati nella liquidazione di merci,
necessaria alla commercializzazione di altre, e nella creazione di ulteriori
falsi bisogni proprio attraverso l’utilizzo dei dati rilevati dai nostri
comportamenti coatti.
Aggiungendo
la beffa al danno, viene data pure la delega del controllo della nostra
quotidianità, quando si è invitati, in una presunta umanizzazione della pena,
a diventare secondini di noi stessi così obbligati a fornire, grati di non
essere rinchiusi in galera, dettagliate note su dove andiamo e cosa facciamo
allo stesso modo in cui ci prestiamo volontariamente
a muoverci nei luoghi deputati al nostro tempo libero.
La
logica del profitto si è dispiegata sull’intero spazio dell’esistenza e la
repressione di ciò che la potrebbe contrastare è costantemente attiva.
Non
ci sono quindi dissonanze tra il senso delle restrizioni inflitte e il
trattamento che ci viene riservato nella, apparentemente libera, vita
quotidiana.
Il
controllo è spietato poiché non c’è ambito nel quale sia possibile
fuggirlo, siamo sempre sorvegliati e, quel che è più tragico, è che ci
autopredisponiamo al controllo, incastrati come siamo dall’utilizzo delle
sirene tecnologiche. L’insieme delle nocività che avvelenano la nostra
quotidianità stringe il suo cerchio asfissiante attorno alle nostre gole.
Inondazione di merci, controllo e repressione fisica e mentale, sfruttamento
della risorsa uomo in tutte le sue potenzialità producono alienazione da sé e
dagli altri, mentre nello stesso momento le tossicità varie conducono verso l’alienazione
dal mondo naturale.
Non
si pensa di poter vivere in una sorta di mistico rifiuto di contatto con la
pattumiera di nocività che ci affligge e nemmeno di potersi creare un mondo a
parte in cui sperimentare modalità ancora umane di relazione, ma di
doverosamente non perdere mai di vista che il definitivo schiacciamento dell’uomo
sotto il macigno del dominio della tecnologia è imminente.
È
da qui che abbiamo inteso e intendiamo partire per portare il nostro attacco a
chi è artefice e a chi si fa difensore dell’attuale stato delle cose. Il
capitale sta ora gestendo il disastro che ha generato, ma non vogliamo farci
trascinare in analisi di tipo economicistico poiché sappiamo che sempre ci
sarà qualche forma economica che farà da sostegno alla volontà di potenza
sopraffattrice. In sostanza, capiamo bene che l’ansia di possesso dell’oro
nero fa strage di iracheni come la necessità di crearsi una via per conduzioni
di gas ha fatto strage di afhgani, che ci sono scontri
da mercato, tra nordamericani e europei, e così -squallidamente- via, ma
evitiamo di cadere nella trappola di un discorso che ci porta ad allontanarci
dalla questione focale.
Teniamo
pure in conto la necessità di sapere in che modo il capitale muove le sue
pedine, ma non per metterci a fare gli esperti tra gli esperti. Il nostro
compito è portare una pratica critica in ogni momento del quotidiano che miri
alla riappropriazione del senso della vita, e alla presa di coscienza che il
dominio, che in questa fase storica si esprime attraverso la spietata logica del
profitto propria del capitale, sta portando a compimento la sopraffazione sull’uomo
e sul mondo naturale. Per questo non c’interessa prendere partito per
obiettivi parziali, quali l’etichettatura dei cibi geneticamente modificati o
l’avallo ONU per le future possibili guerre, poiché così agendo si perde di
vista che questo mondo così com’è non è riformabile. Non lo è non perché
noi siamo utopisticamente radicali, ma perché chiunque provi a ragionarci con
attenzione non può non accorgersi che se non viene attaccata la base stessa su
cui tutto il sistema poggia, questo finirà per trovare sempre il modo di
recuperare qualunque attacco gli venga portato. Pensiamo alle posizioni no
global e vediamo subito come tanti, tra i più attenti e lungimiranti
sostenitori del mondo capitalistico occidentale, si siano prodigati per far
proprie le critiche per poi rilanciarle mentendo ovviamente sulle reali
intenzioni: correre ai ripari prima che il sistema finisca per vacillare
davvero. La logica recuperatrice ha sempre questa finalità: integrare per
azzerare la potenzialità sovversiva. Il dissenso privo di portata
rivoluzionaria, in quanto critica separata, si predispone a offrire nuove idee
riciclate poi dal capitale per sostenersi.
Denunciare
separatamente gli aspetti immediatamente percepibili come catastrofici o “cattivi
in sé” senza metterli in relazione con ciò che alla radice li produce e
produce anche ciò che, con buonistica rassegnazione, viene considerato il “male
minore”, equivale a non opporsi allo stato di cose esistente. Quel poco che
rimane dell’umano reagire al mondo diventa prontamente, e si lascia diventare,
altro ossigeno per il mercato. Messo di fronte alla pubblica indignazione di chi
protesta per tale o tal’altra nocività reclamando il suo intervento per porvi
rimedio, l’apparato tecnoindustriale subito si adopera per accaparrarsi l’onere
(o il profittevole onore?) dell’“eliminazione” del danno da esso stesso
causato sopravvivendo così proprio attraverso il circolo vizioso che dalla
necessità di far fronte ad un male passa attraverso l’invenzione del suo
palliativo che a sua volta si trasformerà in nuovo male in rinnovato palliativo…
e in guadagni strabilianti.
Così
pure chi apparentemente non chiede in prima istanza l’aiuto del carnefice per
salvare la vittima, ma passa egli stesso all’azione, come nel caso dei
boicottaggi, ricade in un errore fondamentale. Che senso ha lanciare campagne
contro uno specifico marchio alimentare, dell’abbigliamento, ecc., solo
perché visibilmente più compromesso rispetto agli altri nella generazione
degli orrori della “civiltà”? Così procedendo non si va molto lontano, si
arriva solo a dare per scontato il capitale e i suoi prodotti. Ad esempio, da
quando è iniziata la guerra in Irak, si stanno verificando diversi atti di
boicottaggio contro la Esso con i quali si vuole denunciare il mero aspetto del
coinvolgimento economico nella guerra in corso. La Esso è in realtà
responsabile, al pari delle sue consorelle, di ben altra guerra e non meno
cruenta. In quanto multinazionale del petrolio contribuisce ogni giorno al
perpetuarsi di un sistema incentrato su uno sviluppo tecno-industriale che ci
asfissia con le sue nocività. Ancora, proporre, come fanno gli ecologisti,
fonti rinnovabili e sostenibili di energia, significa affrontare il solo aspetto
tecnico del problema, e non quelli politici e sociali. Così facendo, si rimane
all’interno del quadro della società industriale, pensando che possa essere
sufficiente correggerne i difetti. Allora la domanda da porsi per centrare la
questione è: energia per far cosa? Con il termine “energia” occorrerebbe
invece definire la capacità degli uomini di ritrasformare il mondo in un luogo
di vita. Piuttosto che cercare energia fisica in abbondanza per continuare ad
alimentare l’industria del dominio, sarebbe meglio ritrovare l’energia
morale necessaria ad affermare che il mondo in cui viviamo non ci piace e che i
problemi con i quali cerca di imbrigliarci non sono nostri, nel senso che sono
quelli che subiamo ma che non tocca a noi risolvere, e non sono quelli che
intendiamo porci.
Diciamolo
una volta per tutte: il modo di vita occidentale è una miseria umana e sociale.
Più che di boicottaggio sarebbe invero necessario parlare di sabotaggio dei
fondamenti stessi di questo sistema.
Dell’aspetto
etico del movimento pacifista
Le
finestre italiane sono sempre più decorate con bandiere della pace,
segno di opposizione alla guerra in Irak. Però, se è ben chiaro che la
maggioranza degli italiani è contraria alla guerra, la mancanza di discussione
sul contenuto di questa protesta la rende puramente simbolica: detto pace, detto
tutto.
Ci
si oppone alla guerra perché produce stragi, dolori e drammi.
Ma
la guerra moderna produce anche altre cose: produce tout
court, produce “progressi” tecnologici. Quando gli Stati Uniti
vinceranno nella guerra in Irak, questo consentirà loro di impadronirsi del
petrolio irakeno. Esemplare è il caso del governo francese, ufficialmente
opposto al conflitto, e allo stesso tempo talmente attratto dal petrolio irakeno
da voler essere parte attiva nel “dopo Saddam”. È quindi una
contraddizione, o almeno un’imprecisione, parlare di guerra senza trattare il
tema dell’industria dell’armamento e della ricerca militare. Si protesta
contro la guerra e contro gli Stati Uniti, ma si considera normale convivere con
prodotti che non sarebbero mai esistiti senza guerra (non c’è nucleare senza
Hiroshima), o addirittura li si presenta come ardentemente desiderabili (non c’è
Internet senza Pentagono).
Il
movimento pacifista attuale è ben lontano dal livello di coscienza raggiunto
per esempio negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta. È vero che per
questa mancanza non si distingue dall’insieme dei movimenti che nascono a
seconda delle mode (dalla salvaguardia della foca monaca a quella dell’Art.18).
«Non è rimasta neanche una maledetta cosa che uno possa fare che non possa
venire trasformata in guerra», poteva dichiarare Jerome Letvin, del M.I.T., sul
New York Times Magazine del 18 maggio 1968. Si possono sottolineare le mancanze
del movimento pacifista attuale partendo dal rifiuto di individuare ciò che
nella vita quotidiana produce guerra, per esempio l’uso del petrolio su scala
industriale, la produzione di macchine da guerra e la ricerca scientifica.
Una
volta chiariti questi punti, si potrebbe parlare di un altro aspetto per il
quale si rifiuta la guerra: è disumana, è la peggiore cosa che possa accadere.
Siamo all’aspetto etico, vale a
dire al rifiuto della guerra per quello che è. È questo il volto del pacifismo
che ci interessa di più perché, anche se sincero, si basa su un errore
profondo: la distinzione tra uno stato di pace –che sarebbe quello che viviamo
nelle democrazie mercantili- e uno stato di guerra. Si tratta invece di due
facce della stessa medaglia, non solo per ciò che si diceva sopra a proposito
della miseria del quotidiano, ma anche per il fatto che la guerra si ritrova a
casa nostra sotto forma dei prodotti della stessa
industria. Si inorridisce di fronte all’uso delle armi chimiche, ma si accetta
l’uso a bassa intensità delle stesse armi nella vita quotidiana: dai farmaci
ai gas di scarico nell’aria ai veleni nei cibi. Uranio impoverito nel deserto
irakeno e nelle discariche un po’ dappertutto. Certo questa “guerra
economica” che viviamo ogni giorno è più insidiosa, meno spettacolare,
sicuramente non meno violenta. L’industria
dell’auto che uccide con statistica precisione migliaia di persone,
preferibilmente il sabato sera, le sostanze cancerogene sparse ovunque, la
disperazione che annienta la vita, non sono meno violenti di un bombardamento. E
questa vita quotidiana non è meno imposta di quanto lo siano le guerre. Dietro
ogni protesta c’è il fatto che il cittadino moderno è fondamentalmente
disposto a convivere con la guerra, come è predisposto per l’adattamento a
tutte le nuove esigenze della crescita economica. Un comportamento etico
consisterebbe piuttosto nel cercare di combattere questa guerra quotidiana e
quello che nella nostra vita produce guerra. In caso contrario, si raggiunge l’indecenza
dell’unire la protesta all’impotenza. Bisognerebbe iniziare a pensare come
uscire dal circolo di dipendenza energia-crescita-bisogno di energia, e agire
conseguentemente.
Sulla
questione della violenza o non violenza, aiutati ancora una volta da Anders,
possiamo dire che «la violenza non solo è permessa, ma anche moralmente
legittimata fintanto che viene usata dal potere costituito. Del resto il potere
stesso, da sempre, si fonda sulla possibilità di esercitare violenza. A noi
uomini di oggi invece – che non siamo interessati ad altro che ad impedire
definitivamente ogni violenza – ci viene rimproverato di pensare all’uso
della violenza; sebbene in verità, quando noi la prendiamo in considerazione,
non miriamo a nient’altro che alla situazione della non violenza….Ma non v’è
dubbio che la violenza debba essere il nostro metodo, se col suo aiuto e
soltanto col suo aiuto può affermarsi la nonviolenza».
L’agire insufficiente è una rinuncia all’agire e il movimento pacifista con i suoi generici richiami a un mondo migliore da costruire con le mani alzate sprofonda nella sua conseguente impotenza.
«Nessuno
di quelli – ed io mi riferisco soprattutto a politici, generali, scienziati e
giornalisti – nessuno di quelli che preparano la minaccia atomica di massa e l’eccidio
di massa, minacciando o solo con ciò accettando la possibilità dell’eccidio
di massa attraverso i cosiddetti impianti nucleari pacifici, nessuno di loro
potrà o dovrà più sentirsi sicuro per la propria vita. Poiché essi ci fanno
precipitare in modo programmatico e professionale in una incessante angoscia,
adesso, finalmente, anche loro devono poter vivere nell’ansia. Quelli che ci
minacciano, devono essere da noi minacciati. E mettendo in pratica qua e là le
nostre minacce, non solo devono essere minacciati, ma anche intimoriti;
affinché siano ricondotti al buon senso e indotti ad un cambio di rotta.
Perché alla fine più nessuno sia minacciato, né noi né loro. Non so se
questo ci riuscirà, non so se con le nostre controminacce potremo ancora
neutralizzare il pericolo che incombe sull’umanità. Ma so che senza la nostra
controminaccia non potremo farcela».