Crisi
della liquidità internazionale e lotta fra le classi.
Prima
approssimazione.
di
Loren Goldner
Nel momento in cui scrivo queste righe, fine ottobre
1998, l’ultima fase della crisi finanziaria mondiale sembra segnare una pausa.
Questo testo, di taglia ridotta, non pretende
fornire un’analisi delle cause ultime di questa crisi. Secondo me, la
situazione attuale è solo l’ultimo sussulto di una crisi nel processo di
accumulazione che si era già manifestata verso il 1965 al tempo delle
recessioni simultanee negli Stati Uniti, in Germania e in Giappone (1967), la
quale annunciava che il boom del dopoguerra volgeva alla fine. Questo boom, che
non era nient’altro che la ripresa economica conseguente alla crisi degli anni
’30, si è avviato nel 1938 ed è terminato dappertutto nel mondo con la crisi
del 1973-75. Di conseguenza esso dev’essere a sua volta ricollocato nel
contesto della “guerra di trent’anni” del periodo 1914-1945, durante la
quale la vitalità del capitalismo come sistema mondiale per la prima volta è
stata rimessa in questione e che lo ha visto uscirne attraverso le guerre
inter-imperialiste, la recessione, il fascismo, lo stalinismo, i fronti
popolari, i “Fronti di liberazione nazionale” e più recentemente nel
1989-1991 attraverso il trionfo mondiale, effimero e illusorio, di un
“capitalismo democratico liberale” rattoppato per le circostanze.
Non
intendo inoltrarmi troppo avanti nei dibattiti sulla teoria marxiana delle crisi
e nelle opposizioni tra Hilferding, Luxemburg, Bukharin e Grossman. Pertanto,
non si tratta in alcun modo di dibattiti “teologici”: ogni affermazione
“empirica” riflette una presa di posizione, implicita o esplicita, in
rapporto a una teoria e a differenti proposizioni di natura programmatica.
Prendendo conoscenza delle note che seguiranno, i lettori vedranno subito che io
mi colloco in una variante della corrente Luxemburghiana. Penso che la maggior
parte fra essi gioirà con me per la scomposizione, in questi ultimi 25 anni,
della scuola di pensiero del “capitalismo monopolistico”, che va da
Hilferding, Hobson, Lenin e Bukharin, fino ai suoi ultimi partigiani negli anni
’70, Amin, Emmanuel, Bettelheim e Mandel, passando per Baran, Sweezy e Magdoff.
Il “marxismo keynesiane” ibrido di Robinson, Kalecki, Sraffa etc., che aveva
raggiunto il suo apogeo con la teoria delle crisi detta della “spinta
salariale” in autori come Hirst e Hindness e in trattati autenticamente
teologici sul preteso “problema delle trasformazioni”, ha perso anch’esso
tutto il suo credito.
A
mio parere, si può essere in disaccordo su certi elementi fondamentali e
tuttavia trarre profitto da un dibattito su un numero ristretto di analisi
dell’attualità e degli sviluppi contemporanei.
Il
capitalismo è un sistema di valorizzazione. Il capitale è innanzitutto una
relazione sociale, in seno alla quale la forza-lavoro è trasformata in una
merce: il lavoro salariato. Ma in pratica, il capitale si presenta ai
capitalisti soltanto come una capitalizzazione di attivi che producono profitto,
interessi e rendita fondiaria. Da un punto di vista più approfondito, il
profitto, l’interesse e la rendita fondiaria sono solo una ripartizione di
quello che i marxisti chiamano il “plusvalore” disponibile. Dal punto di
vista più superficiale della pratica quotidiana, il profitto, l’interesse e
la rendita fondiaria si presentano come azioni, obbligazioni, contratti etc.,
tanti pezzi di carta, che sono “titoli di ricchezza” e dannagli
imprenditori, ai banchieri e ai proprietari fondiari il diritto ad una parte del
plusvalore.
Se
si resta alla superficie delle cose, il termine “valorizzazione” traduce il
fatto che i capitalisti individuali “iniettano” una quantità M di denaro in
investimenti da cui aspettano, a scadenza, che questi riportino loro una quantità
accresciuta di denaro M’. Finché un plusvalore sufficiente è disponibile per
sostenere i tassi di rendimento attesi, in profitto, interesse e rendita
fondiaria, la “valorizzazione” procede. Quando questo plusvalore non è più
disponibile, è la crisi, e questi “titoli alla ricchezza” sono distrutti o
svalutati. Dal momento in cui un nuovo equilibrio è ristabilito fra il
profitto, l’interesse, la rendita fondiaria da un lato, e il plusvalore
disponibile dall’altra e questo a qualunque costo materiale per la società
(recessione, guerra, miseria, malattie, diminuzione delle speranze di vita) può
cominciare un nuovo ciclo. Una crisi come quella che conosciamo attualmente si
produce perché tutti i titoli al profitto, all’interesse e alla rendita
fondiaria non possono essere “valorizzati” dal plusvalore disponibile.
Questi titoli sono FINZIONI che devono essere distrutte dalla “svalorizzazione”.
Ecco, in prima approssimazione, quello che determina una “fusione finanziaria
mondiale”.
Oggi
possiamo osservare queste finzioni (capitale fittizio) nei vasti “attivi non
sfruttati” delle banche giapponesi, nei debiti esteri che la Thailandia,
l’Indonesia, la Russia, la Corea del Sud, il Messico e il Brasile non potranno
mai rimborsare; nei fondi di pensione che subito si rivelano insolvibili, come
il “Long Term Capital Management” la cui liquidazione avrà ripercussioni su
più di un miliardo di dollari di attivi; nei beni immobiliari dello stato non
ancora liquidati in Giappone, in Cina, a Hong Kong, negli Stati Uniti e in
Ruropa; nei miliardi di dollari in buoni del tesoro americani detenuti, in una
larga misura, da stranieri; nella riserva del debito, quella del governo degli
Stati Uniti, quella del Terzo Mondo, quella delle imprese, quella dei
consumatori a tutti i livelli della società; e per finire questa lista con
quello che è forse il più importante a lungo termine, nel capitale fisso delle
fabbriche il cui valore si è sciolto in seguito all’innovazione tecnologica o
a una sovracapacità importante del settore. Tutti questi titoli alla ricchezza
devono essere valorizzati da un plusvalore disponibile o devono essere distrutti
(e miliardi sono già stati distrutti). Ma la svalorizzazione non è una
semplice procedura contabile, brutale, anarchica e dispendiosa: avendo di mira
il salario sociale totale, i capitalisti tentano con tutti i mezzi di riportare
sulla classe operaia i costi necessari al mantenimento di quei valori
minacciati. Keynes aveva indicato già molto tempo fa che i lavoratori
accetterebbero più facilmente un’erosione del proprio reddito ad opera
dell’inflazione e dell’imposta piuttosto che ad opera di una trattenuta
effettuata direttamente sul salario dai datori di lavoro, ma è stato necessario
aspettare gli anni ’60 perché il sistema mettesse a frutto i suoi
consigli nella pratica. Per esempio, quando il governo degli Stati Uniti
“nazionalizza” i prestiti bancari incerti al Brasile e al Messico, come ha
fatto nel 1982, o ancora le decine di miliardi di dollari del fallimento delle
casse di risparmio, come ha fatto nel 1991, tutti i lavoratori sono costretti a
contribuire per pagare queste ulteriori lievitazioni del debito nazionale, come
se essi dovessero già pagare il 15% delle spese governative oggi dedicate di
fatto al servizio del debito. Quando l’équipe di “aiuto” del FMI chiede
all’Indonesia di impegnarsi in una svendita dei beni nazionali, la sua sola
preoccupazione è che questa continui a pagare i suoi debiti, qualunque ne sia
il costo per gli Indonesiani.
Quel
che abbiamo potuto osservare dopo luglio, è una crisi di liquidità classica,
del tipo di quelle descritte da Marx nelle sezioni IV e V del III volume del
Capitale (se si prescinde, evidentemente, dalla questione dei flussi di oro,
oggi sorpassata). Una crisi di liquidità è una fuga panica verso il
denaro liquido o quasi liquido. Il direttore della Banca Federale di Riserva
degli Stati Uniti, Alan Greenspan, ha dichiarati di non aver mai visto nulla di
simile alla situazione attuale da 50 anni che egli studia l’economia
americana. Con questo vuol dire che per la prima volta nella storia del
dopoguerra, la minaccia principale non è una inflazione ma una deflazione
mondiale. Le recessioni del dopoguerra (e particolarmente quelle del
’73-’75, ’80-’82 e ’89-’92, le più profonde dalla fine del boom)
sono state provocate tutte da un’impennata brutale dei tassi d’interesse che
mirava a stroncare sul nascere ogni minaccia d’inflazione galoppante.
Certamente, un’esplosione inflazionista come quella che ha minacciato il
sistema fra il 1978 e il 1980 sarebbe stata automaticamente seguita da
un’implosione deflazionista se non fosse stata contenuta da una politica
draconiana di gestione dei crediti, che, in definitiva, ha schiacciato il
livello di vita della classe operaia. Ogni “minaccia inflazioniste” nasconde
la “minaccia deflazionista” più grave della svalorizzazione. Ma ancora sei
mesi fa, l’attenzione della maggior parte degli analisti ufficiali, sempre in
ritardo di una battaglia, era fissa su un possibile ritorno dell’inflazione;
oggi lo spettro che agita apertamente le banche centrali e le sale di consiglio
delle grandi imprese, è una caduta deflazionista altrettanto importante di
quella del 1929, o ancor più importante.
Vorrei
attirare l’attenzione su un aspetto centrale, benché spesso trascurato, della
crisi, di cui non abbiamo avuto ancora che un assaggio. Si tratta della
questione della liquidità internazionale. Per far questo, come nella nostra
introduzione, dovremo mettere fra parentesi certe questioni fondamentali, non
perché non sarebbero veramente fondamentali, ma per il fatto che, a mio parere,
non possono essere affrontate né trattate in modo serio nei limiti di questo
testo. Si tratta
1.
dei limiti “profondi” del modo di produzione capitalista, o dello
scadimento della legge del valore;
2. della
questione dei “modelli chiusi” dei volumi I e II del Capitale (un modello in
cui i soli attori sono i capitalisti e i lavoratori, tutte cose uguali da un
altro lato) opposti al “modello aperto” del III volume, con in particolare
la questione dell’interazione fra il “sistema chiuso” e gli strati sociali
non-capitalisti – piccoli produttori e contadini – (cfr., anche per questo,
Rosa Luxemburg);
3. del
ruolo dell’attività autonoma della classe operaia nello sviluppo della crisi;
4. della
questione del lavoro produttivo opposto al lavoro improduttivo (che stimo come
minimo al 40-50% della forza-lavoro nei paesi come quelli dell’OCDE);
<!--[if !supportLists]-->5. <!--[endif]-->del modo in cui il capitale fittizio trova la sua
origine nella sfera della produzione stessa (ciò concerne essenzialmente il
passaggio dai libri I e II al libro III).
Ogni
partecipante potrebbe certamente aggiungere ancora altri punti. La questione
della liquidità internazionale è da un altro lato “al primo punto”
dell’attualità perché abbiamo appena superato una tappa supplementare
nell’ingranaggio di una crisi mondiale di liquidità di cui siamo lungi
dall’aver visto la fine.
La
questione della liquidità internazionale ha svolto un ruolo fondamentale dalla
fine degli anni ’50, benché non sia mai stata posta apertamente, se non in
circoli specializzati e da un pugno di marxisti. In modo intermittente
essa è stata per lo meno portata sul proscenio, per essere in seguito
dimenticata fino allo stadio successivo della crisi. Penso tuttavia che si
tratti di una questione centrale, perché è segnatamente là che si può vedere
il “capitale fittizio” nascere fino all’attualità, dettando le modalità
d’intervento dei diversi attori.
Porsi oggi
la questione della liquidità internazionale è innanzi tutto porsi la questione
del “dollaro campione” sul quale il mondo si è fondato dall’instaurazione
del sistema di Bretton Woods nel 1944, e in modo più evidente dall’abbandono
di questo sistema nel 1973 che fu l’annuncio ufficiale della più forte
recessione dal 1938. Certo, il sistema di Bretton Woods era basato su un
campione “scambio-oro” nel quale il dollaro era considerato come
“ugualmente buono come l’oro”. Ma gli stati Uniti hanno fatto pressione
dal 1967 sui detentori di dollari stranieri affinché non li convertissero in
oro, come avrebbero potuto fare per principio e come certi fecero
effettivamente. Nell’agosto 1971, gli Stati Uniti decidono allora – ed è
solo una delle numerose misure unilaterali caratteristiche del nazionalismo
economico americano – di “chiudere lo sportello della convertibilità
dell’oro in dollaro”, imponendo una rivalutazione forzata dello yen e del
marco del 30%. La riforma del dicembre 1971 del sistema di Bretton Woods, che
Nixon riteneva “il migliore accordo monetario della storia” ha retto appena
14 mesi (fino a marzo 1973) ed è stato immediatamente seguito dalla più
profonda recessione mondiale dalla depressione degli anni ’30. (Il
riaggiustamento dei rapporti yen-dollaro, attualmente in corso, solleva
inquietudini simili).
In che cosa
una questione all’apparenza così sofisticata come quella della liquidità
internazionale è di interesse centrale per i marxisti? Molti altri approcci,
ricardiano, keynesiano, monetarista (senza parlare di quella dei “gold bugs”
o di quei navigati di populisti che hanno teorizzato il “funny money”)
possono andare d’accordo su numerosi punti con quel che seguirà. E autori così
divergenti come Robert Triffin, Jacques Rueff, Hyman Minsky, o Harry Magdoff,
per citare solo questi, hanno già abbordato certi aspetti di quel che qui ci
interessa. Si possono ugualmente richiamare gli scritti meno noti di Keynes
sulle “balances sterling”, la questione della moneta indiana, le riparazioni
di guerra tedesche, e sugli aspetti più significativi del sistema di Bretton
Woods che egli ha contribuito a creare. A quell’epoca, nessuno aveva ancora
osato, come fecero degli universitari americani nel dopoguerra, la rivisitazione
da teorico bacchettone di un capitalismo sbarazzato delle crisi grazie agli
“stabilizzatori organici” e alla “gestione della domanda”. Quel che ci
distingue da questi approcci, noi marxisti, è la convinzione che c’è una
contraddizione fondamentale nell’accumulazione capitalista, essendo il
capitale stesso il limite del modo di produzione capitalista. Le procedure
tecnocratiche di eliminazione di questo “capitale fittizio”, per quanto
siano brillanti, non potranno mai risolvere una tale contraddizione, ma soltanto
farla rimontare alla superficie delle cose.
Ciò
significa che il capitale “fittizio” ha proprio una esistenza reale, e
uccide, come possiamo renderci conto tutti i giorni. La questione che ci si pone
oggi è quella dell’interazione fra questa “contraddizione fondamentale”
soggiacente da una parte, e gli avvenimenti in corso e la lotta delle classi
dall’altre parte.
Fra il 1958
e il 1968, quando la questione dei rapporti dell’oro e del dollaro erano il
campo riservato dei soli specialisti, la “bolla fittizia” – che si contava
all’epoca in decine di miliardi di dollari, e non in migliaia di miliardi di
dollari come ora, ha per la prima volta attirato l’attenzione. Ma quanti
militanti del 1968 ne avevano sentito parlare all’epoca o potrebbero
darne anche ora una definizione significativa, senza spiegare anche come questa
realtà ha potuto modellare gli avvenimenti che sono seguiti? Quel che ha fatto
uscire la questione della liquidità internazionale dal dibattito accademico di
specialisti per portarla in primo piano, è il fatto che essa si situa al cuore
del commercio internazionale, dell’investimento, dei flussi di capitali ecc.,
e finalmente al cuore dell’accumulazione come appare ai capitalisti, che
sfortunatamente, e fino alla rivoluzione a venire, hanno un’influenza
preponderante sulle nostre vite. Quel che oggi osserviamo, e che rischia di
provocare un panico generale, si è di fatto prodotto numerose volte e già
quasi portato a un tale panico nel marzo 1968, durante l’estate 1964, e
durante la corsa all’oro fra il 1978 e il 1980. Come ha descritto Marx nel
capitolo sulla “moneta mondiale” all’inizio del I volume (cito a memoria),
“il denaro non raggiunge il suo concetto che in quanto denaro mondiale”. Dal
XV secolo almeno, il capitale ha sempre implicato un sistema di prestiti
internazionali strettamente legato alle banche e al debito degli Stati.
Quest’ultimo è garantito dal potere d’imposta dello Stato, il che
costituisce una spiegazione di fondo alla natura politica, in ultima istanza,
del capitale.
La storia
del sistema bancario è istruttiva a questo titolo. Al primo inizio
dell’Europa moderna, le fiere commerciali internazionali – che duravano
parecchie settimane – si finanziavano con l’annullamento dei crediti e dei
debiti fra tutti i commercianti, mentre l’eccedente era pagato in oro. Allo
stesso modo, in un periodo del XIX secolo, in cui il campione in oro classico
aveva una certa realtà, i paesi che formavano il cuore del capitalismo –
principalmente nel Nord Atlantico – definirono delle bilance commerciali.
L’oro come “denaro mondiale” – denaro che ha “raggiunto il suo
concetto” – era un “totem”, vale a dire la rappresentazione di un
eccedente nel commercio internazionale la cui presenza o assenza poteva decidere
dell’espansione o della contrazione dell’economia interna di un paese. Si
ritrova questo concetto di totem fino nel settore tessile di New York nel XX
secolo applicato alle balle di abiti che transitavano fra i magazzini. Finché
tutte le persone coinvolte si accordano sul valore di questo “totem” e sulla
forma materiale particolare che esso deve rivestire, tutto può servire da
“merce universale”, da campione o da equivalente per tutte le altre merci in
seno a un sistema commerciale. (La questione di sapere come l’oro ha acquisito
questo statuto nel capitalismo non ci interessa qui).
Mettendo da
parte la questione spinosa sulla realtà pratica del campione oro nel XIX
secolo (cfr , anche per questo, il volume III, sez. IV e V, del Capitale), il
capitalismo del XX secolo ha conosciuto una innovazione sotto l’egemonia
britannica prima del 1914, che sarà in seguito perfezionata sotto l’egemonia
americana dopo il 1944: l’ “egemone” del sistema mondiale impose la sua
moneta come “carta oro”. L’oro cesso, anche in teoria, di essere il
“totem” che serviva a raddrizzare i conti delle bilance commerciali, e
divenne una “moneta di riserva” internazionale detenuta dalle banche
centrali dei paesi dotati di un eccedente commerciale. Ancora più forte, i
paesi che disponevano di un eccedente commerciale reinvestivano questo
“totem” sui mercati dei capitali, sui mercati azionari, delle obbligazioni
di stato, ecc. di questo “egemone”- vi erano spesso obbligati – rendendo
così possibile un ulteriore allargamento del credito e un’accentuazione del
deficit commerciale di questo. Quel che l’Inghilterra era riuscita ad imporre
solo alle sue colonie e al mondo semicoloniale, per es. in Argentina – la
famosa questione delle “balances sterling”-, gli Stati Uniti l’hanno
imposto nel mondo intero con il dominio del sistema di Bretton Woods e ancora,
in seguito, dopo la scomparsa di questo sistema. Il risultato netto permette
all’ “egemone” di finanziare l’insieme del suo sistema di credito, del
suo investimento (ivi compreso l’investimento all’estero) e del suo
commercio con il defici della propria bilancia di pagamenti. (Alla metà degli
anni ’60, le società americane compravano l’industria europea con dollari
sopravvalutati riciclando i deficit dei pagamenti americani). Jacques Rueff,
principale consigliere economico di De Grulle nelle sue periodiche velleità di
resistenza nazionalista all’egemonia americana, descriveva così la posizione
degli Stati Uniti nel sistema di Bretton Woods (nuovamente cito a memoria):
“Compro un costume al mio sarto, e gli do un soldo. Egli mi presta questo
soldo, che io utilizzo per comprargli un nuovo costume, e cosi via
all’infinito”. Michael Hudson, descrivendo la caduta del sistema di Bretton
Woods fra il 1971 e il 1973, riteneva che il mondo fosse passato da un
“sistema di carta oro a un sistema di carta carta”.
La maggior
parte degli economisti – e di troppo numerosi marxisti – prende il denaro
per un semplice strumento di rappresentazione di transazioni commerciali
reali. Ma le lunghe sezioni IV e V del III libro del Capitale dimostrano bene
come, attraverso il sistema di credito, “si crea una domanda fittizia” che
entra in circolazione senza una contropartita in beni reali. All’epoca
di Marx, nessuna banca centrale aveva ancora introdotto l’ingegnosa “carta
oro” che le loro partner avrebbero ricevuto in sostituzione di beni reali. Si
era ancora lontani dal “carta carta” e da quelle migliaia di miliardi di
dollari oggi detenuti da stranieri e che rappresentano almeno 50 anni di deficit
della bilancia dei pagamenti americana, ancora ben lontani dai 30 anni di
bilancia commerciale americana. Questo “dollar overhang” (= superfetazione
del dollaro) è oggi al cuore della questione della liquidità internazionale.
E’ l’equivalente moderno, a doppio taglio, del “totem” utilizzato per
regolare le transazioni, salvo che, a differenza del suo predecessore, l’oro,
o anche l’umile balla di abiti del settore tessile newyorkese, questo totem
rappresenta ormai una “patata bollente” fittizia che non corrisponde al
alcuna produzione reale né ad alcuna merce tangibile. Questi attivi in dollari,
che siano detenuti in azioni, in obbligazioni, in buoni del tesoro americano, o
come riserva presso la Banca del Giappone, esigono un tasso di rendimento, una
valorizzazione, come ogni capitale in denaro. La quantità M di denaro investita
in questi attivi deve, dopo un certo periodo, ritornare ai suoi detentori sotto
forma di una quantità di denaro M’ accresciuta. La ricchezza richiesta per
far perdurare questo “circolo virtuoso” dev’essere strappata
all’accumulazione mondiale allo stesso titolo degli altri diritti al profitto,
all’interesse o alla rendita fondiaria. Questa bolla d’aria calda che plana
al di sopra del mondo economico e minaccia d’implodere da 40 anni, non ha
cessato di gonfiarsi, distendendo sempre più la sua “zona elastica”, a tal
punto che oggi ha oltrepassato le previsioni più pessimiste della fase prima
della crisi.
Lungi da me
l’idea che la crisi mondiale potrebbe essere risolta da una nuova conferenza
di “Bretton Woods” che riformasse la finanza internazionale, benché una
tale conferenza potrebbe certamente attenuarne gli effetti – come si è visto
in questi ultimi 40 anni – con misure di rattoppo ad hoc che sono in
definitiva pagate dai lavoratori. Ma la storia mostra che tali conferenze si
producono solo quando le parti in conflitto abbiano regolato i loro contenziosi
in una catastrofe economica, nelle guerre commerciali o militari ecc., perché
la situazione che ne deriva può essere formalizzata in trattati internazionali.
E dubito che gli Stati Uniti abbandonino, senza esservi forzati, i vantaggi che
la loro posizione egemonica conferisce loro. Di contro, penso che, se vogliamo
comprendere quel che distingue questa crisi di liquidità da quelle che
l’hanno preceduta, dobbiamo cominciare ad analizzare la liquidità
internazionale nelle sue forme attuali.
Avendo la
“carta” oro, poi la “carta carta”, rimpiazzato l’oro come
“totem” per la regolazione dei conti internazionali, si era instaurata una
certa contraddizione fra l’utilizzo interno della moneta di una nazione e la
sua utilizzazione internazionale. Da qualunque punto di vista ci si ponga,
queste due dimensioni non erano state regolate anticipatamente per funzionare in
armonia.
A partire
dal 1958, e soprattutto attorno al 1968, i detentori stranieri di dollari hanno
visto il valore dei loro attivi erosi dall’inflazione americana, mentre la
politica di credito degli Stati Uniti doveva subordinare sempre più la crescita
economica interna alla minaccia di vedere questi detentori stranieri far cadere
massicciamente il dollaro. Nel 1978-1980, questo rischio era palpabile.
Nell’ottobre 1979, la Banca Federale americana dovette aumentare d’un colpo
solo il suo tasso di sconto del 2% per prevenirlo, provocando così una
contrazione del credito che ha portato alla grave recessione degli anni
1980-1982. All’inizio del secolo, l’economia britannica era stata similmente
accoppata da un tasso d’interesse elevato che serviva gli interessi finanziari
della City e privava l’industria degli investimenti necessari. Il denaro, in
quanto “denaro mondiale”, in quanto denaro “che raggiunge il suo
concetto”, non è che un semplice strumento; questo “totem” fittizio
implica una gestione che, in certi momenti, rovina la produzione reale. E questo
appare alla luce del sole, ancor più che altrove, nei problemi che l’
“egemone” incontra nella gestione della finanza internazionale.
Come ho già
indicato più sopra, nessuna delle analisi citate è specificamente marxista; se
ne possono trovare delle varianti sia in certi commentari borghesi di qualità
che nelle teorie marginali del “funny money” (senza parlare delle teorie
fasciste). Come dicevo nell’introduzione, auspico, in questo scambio di
vedute, di ridurre al minimo il posto di questo tipo di “teologia” di cui
qui vediamo i limiti. Esporrò ora brevemente la mia posizione e spero che
ognuno darà prova della stessa concisione nella risposta. Diversamente ci
lanceremmo in grandi dissertazioni sulla composizione organica del capitale, il
significato della caduta del saggio di profitto, i problemi connessi alla
nozione di transizione introdotta da Rosa Luxemburg fra i libri I e II del
Capitale da una parte e il III libro dall’altra (la questione della
riproduzione allargata), il prezzo e il valore, l’opposizione tra Grossman e
Luxemburg, ecc. E rischiamo così di vedere le nostre discussioni sprofondare
rapidamente nella noia delle equazioni differenziali e altre discussioni delle
pagine dello schema di riproduzione della fine del II libro del Capitale. La
“critica dell’economia politica”, proprio come l’ “economia”, può
facilmente volgere verso la “scienza funesta” (la “merda economica” con
la quale Marx sperava di farla finita nel 1857!) se essa non è strettamente
legata a un impegno sensibile nelle questioni poste dall’epoca, e a una
strategia d’intervento. All’opposto, per privilegiare troppo quest’ultimo
aspetto, il commento degenera in un giornalismo impressionista senza fondamento
teorico serio. Insisto ancora una volta: non intendo in nessun caso trattare
queste questioni in modo semplicistico, vorrei semplicemente che esse siano
discusse senza una rimessa in questione dei “fondamenti”. Auspico che
si dibatta, se possibile, delle “zone grigie” di accavallamento piuttosto
che della solidità della fondamenta.
Eccoci
dunque. Il “sistema chiuso” dei libri I e II si compone esclusivamente dei
capitalisti e dei lavoratori salariati. Ricordiamo che Marx suppone nella sua
esposizione che:
1.
c’è
riproduzione semplice;
2. non
esiste nessuna popolazione non-capitalista (piccoli produttori, contadini), né
alcun altro modo di produzione;
3. tutte
le merci si scambiano al loro valore reale;
4. non
c’è sistema bancario.
Il
“sistema aperto” del III libro (affrontato alla fine del II con
un’esposizione sulla riproduzione allargata) comincia a introdurre ciascuna di
queste realtà. Se al mondo ci fossero soltanto capitalisti e lavoratori
salariati, se non ci fosse sistema di credito, si potrebbe allora osservare, a
livello stesso della pratica capitalista quotidiana, una specie di relazione
algebrica fra la composizione organica del capitale e la “caduta del saggio di
profitto”.
Ma un tale
mondo non esiste e non è mai esistito, donde la necessità di questo dibattito.
Quel che
distingue un’analisi marxista della “liquidità internazionale” da tutti
gli altri approcci dello stesso “mammut”, è l’affermazione che il
“totem” fittizio – la bolla “d’aria calda” formata da quelle
migliaia di miliardi di dollari che circolano oggi e costituiscono il “dollar
overhang” detenuto da stranieri – proviene dal “sistema chiuso” composto
dai capitalisti e dai lavoratori salariati.
La pratica
capitalista, lo ripeto, non conosce nulla delle categorie della nostra analisi.
Essa non conosce che la “capitalizzazione” di attivi che producono un
“cash-flow” (=flusso di cassa) in profitto, interesse o rendita fondiaria
(la “capitalizzazione” si calcola rapportando il cash-flow generato da un
titolo in profitto, interesse e rendita fondiaria, al saggio generale di
profitto: per es., un’obbligazione che produce 5$ d’interesse annuo in un
ambiente in cui il saggio di profitto disponibile è del 5%, si vede attribuito
un “valore” di 100 $). Una catapecchia o un’officina decretita
“valgono” allo stesso modo una certa “capitalizzazione” del loro
cash-flow. Per riprendere il vocabolario qui utilizzato, una tale
“capitalizzazione” è “fittizia”, perchè il “valore netto” di un
attivo può benissimo avere solo poca relazione con il costo sociale reale della
sua riproduzione. In realtà, il “prezzo” capitalizzato di un bene non
coincide con il valore sociale della sua riproduzione se non al termine di una
recessione economica. In questi ultimi mesi (più precisamente dalla
svalutazione del bath tailandese nel luglio 1997), l’osservazione dei sobbalzi
dei valori fittizi ci ha dato un assaggio di un tale processo. Posta in altro
modo, la questione delle “finzioni” che più sopra abbiamo accennato si
riduce dunque a quella dell’allineamento delle capitalizzazioni sul plusvalore
realmente disponibile.
Nell’ambito
del “sistemi puri” dei libri I e II – dove esistono soltanto i capitalisti
e i lavoratori salariati – la bolla fittizia originale fa la sua apparizione
nelle capitalizzazioni di questi beni fissi costantemente svalutati
dall’aumento di una produttività del lavoro acuita dalla competizione. A
causa della natura anarchica del sistema, questi attivi non sono regolarmente
svalutati per render conto dell’aumento di produttività che traduce il costo
reale della loro riproduzione. Al contrario, essi richiedono una valorizzazione
al saggio di profitto prevalente in quel momento, calcolato sulla base della
capitalizzazione di un cash-flow che non tiene alcun conto del valore reale
implicato nella riproduzione delle basi materiali.
Questo
spinta alla capitalizzazione fittizia si mette in seguito a circolare ben
al di là del mondo “chiuso” dei soli capitalisti e lavoratori salariati,
grazie al credito che dilata la “zona elastica” del processo produttivo
complessivo. E’ grazie al credito che i beni fissi sopravvalutati, generati
nella sfera della produzione stessa, si mettono a circolare e diventano
impossibili da distinguersi da altre capitalizzazioni dello stesso genere,
interesse, rendite, ecc., e da tutti gli altri strumenti mediante i quali il
cash – flow totale, e dunque una parte del plusvalore, viene captato. Il
sistema dei prestiti internazionali, garantito in ultima istanza dai debiti e
dal potere di imposta dello Stato, permette alla bolla fittizia uscita dalla
sfera della produzione di circolare a livello mondiale, così a lungo che può
essere “valorizzata” da un plusvalore generato altrove nel sistema. Non è
più possibile oggi, e noi subiamo le conseguenze infinitamente pericolose di 40
anni di credito senza limite e di racket sui salari mirante a mantenere a
galla i valori fittizi. Nella nostra epoca come ai tempi di Marx, quando “il
signor Capitale e la signora Terra danzavano la loro danza macabra”, la
valorizzazione delle azioni, obbligazioni, contratti, “prodotti derivati”,
e altri prodotti finanziari deve continuare ad ogni costo, quand’anche tutte
le Indonesie , le Tailandie, le Coree, i Messico e altre Russie dovessero essere
devastate da quest’ultimissima macina del dominio del morto sul vivo.
Molti punti
di cui sopra richiederebbero un’attenzione particolare, cosa che lo spazio qui
consentito non permette:
1. la
situazione specifica della liquidità in Giappone, particolarmente nel sistema
bancario;
2. il
significato possibile di un “ritorno a Keynes” sollevato dal centrosinistra
attualmente dominante in Europa, ossia la possibilità di una deflazione;
3. la
questione dell’euro e della liquidità mondiale;
4. la crisi
asiatica;
5. il
recente rallentamento in Cina, e l’eventuale svalutazione della moneta cinese
(che per ora tiene ancora grazie alla forza dello yen);
6. la
resistenza sociale alle misure di austerità in diverse parti del mondo;
7. le
prospettive di un nuovo “Bretton Woods” e il ruolo eventuale della sinistra
benpensante nel suo avvento;
8. la rivalità
fra le tre principali zone commerciali, che si esprime con la crisi monetaria
(per esempio, la recente rivalutazione dello yen);
9. le
trattenute effettuate sui redditi della classe operaia attraverso le pressioni
sul mercato della proprietà fondiaria (la rendita) i un momento in cui il
capitale fittizio ha oltrepassato l’investimento produttivo;
10.
la questione della liquidità internazionale in dollari, in
un’epoca in cui abbandoniamo l’era dell’inflazione per entrare nell’era
della deflazione.
Ecco dunque
le questioni che mi vengono in mente, ma ognuno potrà porne altre. Secondo me,
nessuna di esse è puramente accademica. Al contrario, sono un primo passo
indispensabile nello sviluppo di prospettive tattiche e strategiche per
intervenire negli anni a venire. Tuttavia concluderò esponendo certi
orientamenti in cui la prospettiva riassunta precedentemente assumerà un
interesse pratico per un movimento che mira ad abolire il capitalismo.
Finora ci
siamo occupati dell’ “economia”, di quella che Marx ha chiamato la critica
dell’economia politica. Ma quel che accade nell’ “economia” è
strettamente legato all’azione o all’inazione della classe operaia durante
la crisi. Dubito che chiunque possa negare che il fatto che la classe operaia
americana abbia accettato con una certa indolenza una caduta del 20% del suo
livello di vita, un aumento dal 10 al 20% della sua settimana lavorativa e molti
altri attacchi sul salario sociale totale dal 1973, è stato un elemento
essenziale della “restaurazione della profittabilità” del capitale, nel
boom della borsa, e nell’importante redistribuzione della ricchezza verso
l’alto da 30 anni a questa parte. Tuttavia, benché la classe operaia degli
Stati Uniti rappresenti un caso estremo fra quelli dei paesi “sviluppati”,
si deve pur riconoscere che nessuna classe operaia ha avuto più successo nella
sua lotta contro l’austerità. Fino ad oggi, la maggior parte delle azioni è
stata difensiva: attraverso queste, i lavoratori hanno tentato di mantenere il
capitale nelle regole in vigore all’epoca del boom economico del dopoguerra,
invece di porre la classe operaia in quanto base di un tipo di ordine del tutto
diverso. Gli scioperi del dicembre 1995 in Francia, le lotte dei due ultimi anni
in Corea sono, a mio parere, casi esemplari di queste lotte difensive. In quanto
tali, esse non possono realizzare gran che a lungo termine, se non forzare i
capitalisti a coalizzarsi per un nuovo attacco. Per diventare una “classe
per sé, piuttosto che una “classe in sé” (una classe per il capitale), la
classe operaia deve mostrare la via di un’altra società, che essa deve
inizialmente incarnare nel proprio movimento, il che implica la formulazione di
un programma di transizione per uscire dal capitalismo. Questa transizione
non sarà istantanea, ma potrà, felicissimamente, essere breve. E’ certamente
impossibile prevedere i mille modi contingenti in cui essa nascerà, ma, quali
che siano, è necessario fin da ora confrontarsi con certi problemi. Non è
evidentemente compito nostro far girare il capitalismo meglio dei capitalisti.
Nostro compito è abolire il capitalismo, il che significa in primo luogo
abolire il lavoro salariato. E intavolando questo dibattito sulla liquidità
internazionale, spero di indurre a trasferire tutti i nostri sforzi su un
apprezzamento più preciso della congiuntura, pur tentando di capire più
concretamente, da un punto di vista strategico, come la classe operaia può
diventare la classe dirigente. Il che suppone, fra l’altro, un programma.
Trent’anni
fa, il programma della classe operaia sembrava chiaro. Occorreva lottare contro
la “burocrazia”, nelle sue varianti democratiche liberali keynesiane,
socialdemocratiche, staliniane o terzomondista. La classe operaia si sarebbe
impadronita dei mezzi di produzione, avrebbe imposto la democrazia dei soviet, e
la “libera associazione dei produttori” avrebbe sostituito il mercato e lo
Stato nella regolazione delle produzione e della riproduzione. Le avanguardie
(essenzialmente, varianti del trotskismo o correnti che ne sono derivate) e
l’ultra-sinistra (che trova la sua origine in varianti del consiliarismo)
potevano certamente opporsi sul ruolo devoluto al “partito” nella “presa
del potere da parte dei soviet” (senza parlare delle differenze di
interpretazione quanto al ruolo svolto da questo nella decomposizione degli
antichi soviet), ma essi erano quasi tutti d’accordo sul “fine”: la
gestione diretta dei mezzi di produzione da parte dei produttori, che si
potrebbe forse riassumere con la formula “nazionalizzazione sotto controllo
operaio”. Nell’atmosfera lirica del 1968, dei puristi dell’ortodossia
potevano aggiungervi, al di sopra del mercato, l’ “abolizione del lavoro
salariato” e della produzione mercantile (chi avrebbe preteso di essere
“per” il lavoro salariato?). Ma era dare a queste questioni un carattere
centrale per lo meno discutibile nella comprensione di cosa è il comunismo. Per
rovesciare la burocrazia, la soluzione era la “democrazia”, più
precisamente i soviet. Questa “utopia sindacalista”, in quel che ha avuto
di peggio, non ha oltrepassato molto il progetto di una classe operaia che
gestisce democraticamente questa stessa società che i capitalisti gestivano
burocraticamente.
La
questione della “liquidità internazionale” e gli argomenti che vi si
collegano divennero d’interesse crescente dopo il ’68 in un’epoca in cui
le “vecchie fortezze operaie” (Detroit, Manchester, Renault-Billancourt,
Alsazia, Ruhr, Torino-Fiat, luoghi di tanti sollevamenti operai negli anni
’60) subivano gli assalti simultanei della robotizzazione, della
ristrutturazione in piccole unità high-tech, dell’esternalizza-zione e della
delocalizzazione della produzione di massa nelle zone a bassi salari del terzo
mondo, che tendevano ad annientare il nodo storico dei mezzi di produzione di
cui si supponeva che i lavoratori americani ed europei si sarebbero impadroniti
per porli sotto il controllo dei soviet. Al presente, particolarmente nel mondo
“sviluppato”, ci sono tanti lavoratori che compiono un lavoro improduttivo
nelle sfere del “capitale fittizio” (banche, assicurazioni, burocrazia di
Stato e delle società private, pubblicità), e una così gran parte della
produzione che si situa in settori di distruzione sociale (produzione di
armamenti, rafforzamento della legge, costruzione di uffici, prigioni) che un
gran numero di “impieghi” dovrebbero semplicemente essere soppressi, e non
posti sotto controllo operaia. Troppi proletari sono già stati espulsi
dall’antico processo produttivo, o non vi entreranno mai. L’attacco contro
il salario complessivo ha prodotto su scala mondiale un movimento di
razionalizzazione estremo che i lavoratori si sono rivelati finora praticamente
impotenti a combattere. Marx dice nel III libro del Capitale che “il modo di
produzione capitalista non trova il suo limite nella produzione, o allora un
limite molto elastico”. Oggi meno che mai, il problema della lotta delle
classi non può limitarsi alla questione della produzione. E’ piuttosto
ponendosi dal punto di vista del “capitale sociale complessivo” (come mostra
il III libro del Capitale), della riproduzione e della valorizzazione del
capitale nel suo insieme, che ci si accorge dell’estrema vulnerabilità del
sistema e che si può sperare di vedere rinascere una “immaginazione
programmatica” che vada al di là della “nazionalizzazione sotto il
controllo operaio”.
Questo
orientamento che caratterizza il III libro del Capitale porta direttamente, fra
l’altro, alla questione della liquidità internazionale perché è
precisamente là che il denaro “raggiunge il suo concetto” e il capitale è
riprodotto e valorizzato.
Per
concludere, richiamiamo un caso concreto: quello degli scioperi massicci del
gennaio 1997 in Corea del Sud e del crollo dell’economia coreana che ne seguì.
Tutte quelle lotte avevano per parola d’ordine: “salvate i nostri posti di
lavoro”. Questo grido di guerra che ci è familiare, lo abbiamo sentito in
questi ultimi venti anni nel mondo intero, nelle piccole e grandi lotte, e più
recentemente negli scioperi sconfitti dei dockers di Liverpool, nel
sollevamento, alla fine insabbiato, dei dockers australiani, nelle migliaia di
battaglie (per la maggior parte perse) condotte contro le chiusure di fabbriche,
lo “sgrassamento”, l’esternalizzazione, le delocalizzazione.
Nell’ottobre 1997, la Cina ha annunciato 100 milioni di licenziamenti per il
2002.
Immaginate
ora che in un paese come la Corea o in non importa quale altro paese industriale
importante, dei lavoratori superino l’alternativa “occupazione di
fabbrica” – “sciopero generale” e si impongano come l’unico potere
proclamando: “Al diavolo tutti questi grassoni, molti fra essi sono
socialmente inutili e certi sono decisamente nocivi. Rifiutiamo i debiti esteri
della Corea e chiamiamo i lavoratori degli altri paesi a fare la stessa cosa.
Rifiutiamo il dollaro campione internazionale e invitiamo i lavoratori di tutto
il mondo intero a unirsi a noi per abolirlo. Lo sostituiremo con un ‘Bretton
Woods’ della classe operaia mondiale che dovrà stabilire un programma globale
di transizione per uscire il più rapidamente possibile dal capitalismo. Il
mondo ha oggi una capacità produttiva che gli permette di abolire dappertutto
il lavoro salariato e stabilire così la legge del valore capitalista come
regolatore della produzione e della riproduzione. Questo si può portare a
termine solo su scala mondiale, e non su scala di un solo paese o di un piccolo
gruppo di paesi. Chiamiamo ad abolire tutti gli impieghi socialmente inutili o
nocivi (che esistono solo per riprodurre il capitale) e a liberare questa forza
lavoro per impiegarla in un lavoro socialmente utile. Così, il
miglioramento ulteriore della produttività del lavoro che riteniamo socialmente
necessario potrà liberare l’umanità dal bisogno della “relazione di
valore” nella regolazione degli scambi. Noi proponiamo di ricostruire il mondo
da cima a fondo affinché lo scopo della vita sociale sia ormai l’attività
creatrice e non l’accumulazione del capitale”.
E, per
parafrasare quel che una certa persona proclamava 150 anni fa, “lasciate
scrivere loro sulla loro bandiera non ‘salvate i nostri posti di lavoro’ ma
piuttosto ‘aboliamo i nostri posti di lavoro e insieme il sistema del lavoro
salariato’
Anche se
questo scenario può sembrare molto utopico, sono le “necessità” di oggi
che lo impongono alla classe operaia, se essa vuole superare la posizione della
“classe in sé” che chiede ai capitalisti di “rispettare le vecchie
regole”, e diventare una “classe per sé” ponendosi come la nuova classe
dirigente di un nuovo tipo di società. Se questo dovesse oggi prodursi in
paese, sarebbe secondo ogni verosimiglianza la “Comune di Parigi” dei nostri
tempi. Sarebbe forse disfatta in modo sanguinoso, ma come la Comune di Parigi,
essa lancerebbe un’onda di choc, attraverso la storia, e farebbe sparire la
credenza ideologica oggi quasi onnipresente secondo la quale “non c’è
alternativa al capitalismo democratico liberale e al mercato”, proprio come la
crisi di liquidità ha fatto sparire quest’anno il trionfalismo neo-liberale.
Se la classe operaia mondiale non arriva a eliminare la bolla d’ “aria
calda” fittizia in circolazione, essa dovrà pagare il pesante tributo
della propria messa in fallimento sotto il colpo del capitale.