Indice del numero speciale sulla guerra - inverno 2002


Guerra e crisi

 La crisi economica tanto citata nei giornali, nelle televisioni, sui posti di lavoro, non è provocata da questa guerra, ma essa stessa genera la guerra.

Il capitalismo non è un sistema pacifico, esso si basa sulla concorrenza e sui monopoli, nello svilupparsi di queste due dinamiche vi sono vari livelli di conflitto che arrivano a provocare guerre mondiali.

La guerra in Afghanistan, così come in altre parti del mondo, non è scaturita dall’11 settembre, dopo questa data è solo l’intensità che cambia. E’ l’attacco allo Stato con il capitalismo più forte che rende quella data alquanto “spettacolare”.

Il volume di fuoco degli USA e la loro capacità di mobilitazione sono eccezionalmente elevate, ma la guerra che dicono di iniziare a combattere adesso, già li vedeva da svariate decine di anni in prima linea, in Sud America, in Africa, in Asia ecc...tesi a ridefinire, prima con l’URSS e poi quasi soli, i confini di influenza nel mondo, praticando un moderno neocolonialismo che supera i vecchi schemi colonialisti della GB e della Francia.

Il termine guerra al “terrorismo” è fuorviante in quanto l’azione dell’11 settembre è un atto di guerra. E’ più facile e semplice demonizzare la “pazzia” di un piccolo gruppo che spiegare la spaccatura verticale di un sistema che sta andando in pezzi, e che si sta divorando. Dietro i continui convegni, strette di mano tra Cina, Russia, Usa, ecc... si nascondono aspre guerre per ridistribuire i confini di influenza e sfruttamento. I Taleban e Bin Laden, o altre frazioni della borghesia mussulmana che recriminano la possibilità di un autonomo e indipendente sfruttamento senza vincoli occidentali, sono  ingranaggi dello stesso sistema, nati e prodotti dal medesimo meccanismo. Dopo il panarabismo degli anni 60 assistiamo all’islamismo militante, il secondo come il primo privo di una prospettiva di classe.

In questo tragico schema il proletariato è il grande assente, trascinato dentro questo mercato di morte e fame, incapace di offrire un suo punto di vista, un suo programma che rompa con il capitalismo. La sua passività, la sua arretratezza, gli viene fatta pagare con gli effetti della crisi: in occidente con licenziamenti, abbassamento delle condizioni di vita, maggiore militarizzazione e controllo; in “oriente” con guerra e stenti. Se il dato che sovrasta è la passività, che non vuol dire né scomparsa né residualità, dall’altra vediamo una biforcazione quasi inevitabile: da un lato la classe operaia occidentale che si imbarca nella guerra con i propri governi per difendere le proprie condizioni di relativo benessere, dall’altra la classe proletaria dei paesi “dell’oriente” che si affida al catalizzatore religioso o nazionale per migliorare la sua infima condizione, posizioni, entrambi, che rimangono interne al capitalismo e a un suo possibile sviluppo, non cogliendo la crisi intrinseca che sta avvenendo nel sistema di produzione.

In questa fase del capitalismo non c’è spazio per nessuna alleanza strumentale da parte del proletariato con settori della borghesia, in quanto il meccanismo di relazioni sociali che abbiamo davanti è così complesso e ramificato, che porterebbe i proletari ad essere carne da macello, meri esecutori di ordini per novelli generali, come già avviene per una parte minoritaria della popolazione.

Possiamo indicare questa fase sotto il termine di imperialismo, che vede inizio quasi un secolo fa e produsse la prima guerra mondiale, rompendo l’illusione di uno sviluppo pacifico del capitalismo e di una via altrettanto pacifica al socialismo.

Non abbiamo di fronte un impero, ma un insieme di capitali che si fronteggiano l’uno con l’altro (1). Non è quindi la politica degli Stati Uniti, tesa a dominare economicamente e politicamente in Medio Oriente e in altre parti del pianeta, a determinare le dinamiche del capitalismo e le guerre che ne conseguono, ma la condizione materiale dello sviluppo capitalista stesso che rendono necessarie per il dominio e la sopravvivenza degli Stati più forti una politica estera sempre più aggressiva che scaturisce in guerre locali (2). La dinamica è la stessa che vide l’Inghilterra soppiantata dalla Germania prima e dagli Stati Uniti successivamente, cambia semplicemente il ruolo degli attori, nell’imperialismo vi è un salto quantitativo non qualitativo del capitalismo, che fin dalle sue origini è incentrato sulla concorrenza e sulla ricerca di monopoli per ricavare maggiori profitti (3).

 

Le politiche di guerra e le ripercussioni sui proletari

Con la guerra il capitalismo, paradossalmente, mostra il suo lato più debole, nell’utilizzo della forza manifesta la sua debolezza.

E’ un vecchia ma sempre valida definizione della Sinistra Comunista (4) ritenere la democrazia la forma di dominio di classe più efficiente per il capitalismo e la dittatura una forma politica di un capitalismo “debole”, lo stesso si può dire per la guerra e l’intervento militare nel capitalismo nella sua “fase decadente”.

Le crepe di questo conflitto iniziano ad affiorare nell’inquietudine del proletariato americano e nell’esasperazione del proletariato arabo e del “terzo mondo”.

Ma il capitale ha ancora ampi margini e molte armi da utilizzare: lo sciovinismo che porta i proletari a combattere uno contro l’altro (la classe operaia “occidentale” a difendere i suoi interessi contro la classe del “terzo mondo”), politiche economiche tese al contenimento dei salari e una più intensa militarizzazione del territorio (giustificate della crisi e dalla guerra). In questa tenaglia il proletariato si trova schiacciato, incapace di offrire un suo punto di vista autonomo.

Paradossalmente è proprio nel protrarsi del conflitto che si possono aprire sempre più crepe nel capitalismo, non è quindi nella pace, che sarebbe la pace dei più forti, ma nella distruzione del capitale che sta la risoluzione del conflitto. L’unica pace plausibile, in questo momento, che ne dicano i pacifisti nostrani, sarebbe o l’annientamento dei palestinesi e degli afgani, fino a ipotizzare un genocidio, da parte sionista contro i palestinesi, oppure una maggiore vessazione economico-politica contro le popolazioni arabe, per risolvere il conflitto.

Non è schierarsi tra opposti capitalismi il compito dei rivoluzionari, ma saper cogliere gli eventi nella loro tragica oggettività. Negli anni trenta  la Germania e il Giappone per ingrandirsi e strappare l’egemonia Inglese e Americana dovettero muovere guerra, per non diventare stati satellite. La cosiddetta pace non esiste nel capitalismo, che entrato in una fase imperialista trova il suo essere nell’epoca delle guerre e delle rivoluzioni.

Queste contraddizioni sono le stesse che possiamo osservare nella zona afghana, dove vi è da parte di molti Stati un differente interesse. Il regime del Pakistan è contrapposto a quello indiano nella contesa del Kashmir, a sua volta deve contrastare i taleban, suoi vecchi alleati, rispettando l’alleanza con gli USA. La Cina e la Russia, per fra parte dell’alleanza contro il terrorismo, hanno costretto gli USA a fare concessioni alle loro politiche espansioniste, la catena potrebbe continuare. Vi sono nuovi soggetti che si affacciano nello scacchiere del pianeta rendendo ancora più instabile la situazione, la potenza economica della Cina e dell’India iniziano a farsi sentire e la forza d’urto della loro economia e popolazione può rompere vecchi equilibri.

Avremo delle politiche di guerra che chiameranno al razzismo, allo sciovinismo contro il diverso, contro il proletario immigrato. Vi è una coincidenza tra la raffigurazione del nemico esterno con quello interno, le recenti politiche contro l'immigrazione, i raid della polizia contro i quartieri periferici, dimostrano che vi è una strategia che vuol far coincidere il proletario immigrato con il “terrorista”, quindi maggiore galera, e più controlli!. Taglieranno ulteriormente i nostri salari, in nome della guerra al terrorismo ci chiameranno a fare sacrifici, vi sono svariati settori politici che chiamano ad una politica di unità nazionale.

Le lotte contro gli effetti della crisi, sono determinate dalla capacità della classe di manifestare il suo potere. Vi sono nell’immediato varie scadenze contrattuali, la più importanti è quella dei metalmeccanici, o l’applicazione di nuove leggi sul lavoro e l’immigrazione. Se la classe, all’interno di queste date, riuscirà a promuovere momenti di lotta, potrà incrinare le politiche di guerra. In queste date i rivoluzionari devono cercare di mettere in relazione l’azione della classe con la crisi del capitalismo e uno dei suoi effetti: la guerra.

L’estensione temporale della guerra e la sua maggiore presenza sul territorio renderà obbligatorio per il proletariato e le sue organizzazioni promuovere azioni tese al disfattismo rivoluzionario.

Il nemico, come scrivevano i rivoluzionari svariati anni fa è sempre quello di casa propria e va distrutto partendo dal proprio territorio.

 

La falsa alternativa del pacifismo

In questi giorni la sinistra si sta interrogando sul da farsi rispetto alla guerra. Possiamo riassumere in tre posizioni la divisione che è avvenuta:

Con il prolungarsi di questo conflitto, e con l’affiorare sempre maggiore dell’inquietudine sociale la sola possibilità che ha il proletariato e le organizzazioni da esso prodotte è quella del disfattismo rivoluzionario, della distruzione del capitale, partendo dal rifiutare una sottomissione alle regole economiche e politiche capitaliste. Creare dei fronti interni, che rompano la compattezza sociale, è in questo modo che gli operai “occidentali”, i proletari palestinesi nell’intifada, gli operai coreani, ecc.. possono arrivare a trasformare il sogno di una vita libera in realtà. Per ora bisogna sognare, il sogno è la raffigurazione di una realtà più profonda.

Contro la guerra e la pace imperialista

Per la guerra di classe internazionale

 

CRAC

 

Note

  1. Osservate, per esempio, la concentrazione delle banche e delle case automobilistiche e la loro continua guerra, provocata dalle centralizzazioni, fusioni e acquisizioni di aziende. “Le megafusioni hanno caratterizzato il recente slancio di attività. Fino a poco tempo fa l’affare tipico era l’acquisizione in cui l’acquirente dominava la società acquisita; diverso è il tipo degli accordi recenti, fusioni tra eguali che producono enormi riduzioni dei costi e trasformano l’equilibrio competitivo nei settori in cui vengono effettuati”, scriveva il Financial Time. I motivi, spiega il quotidiano, sono tre: sono stati già inglobati i concorrenti minori; è aumentato il valore delle azioni; la sovrapproduzione delle attività permette un forte risparmio sui costi. I grandi attori di questo mercato sono i grandi fondi di investimento (come quelli pensione). Questo significa che: il criterio principale non è lo sviluppo produttivo ma la riduzione dei costi; il motore principale sta nel funzionamento dei mercati finanziari; il primo effetto positivo è l’aumento, talvolta spettacolare, del valore delle azioni. A questo bisogna aggiungere un quarto motivo, che la mondializzazione impone non solo di essere “grosso”, ma di dominare un settore, portando velocemente verso dimensioni gigantesche di imprese, gruppi, conglomerati e holdings”. - P.Tagliazucchi, Piccolo è stupido, la città del sole, Napoli, 1999. Per una ricerca specifica del mercato dell’automobile e delle fusioni-guerre di questo settore consultare: F.Palumbieri, La battaglia mondiale dell’automobile, edizioni Lotta Comunista, Milano, 2001.

  2. “L’imperialismo non è una “politica” di qualcuno, ma un assetto economico materiale. .....Nella disposizione delle forze sullo scacchiere mondiale dobbiamo vedere una “catena di interessi” (Lenin) mossa dal Capitale mondiale e non certo dalla volontà dei governi, che ne sono lo strumento” da “N+1”, numero 5, settembre 2001, - L’anti-imperialismo bla bla - pag. 70, per un veloce approfondimento rimandiamo al testo.

  3. Gli interessi degli Stati uniti in questa guerra sono riassumibili in:

  1. Per Sinistra Comunista intendiamo le minoranze espulse o uscite dalla Terza Internazionale, che si opposero al parlamentarismo al sindacalismo e al concetto di socialismo in un paese solo, formalizzatesi in Germania, GB, Bulgaria, Russia e in Italia. Attualmente non esistono organizzazioni che si richiamano esplicitamente a questa tradizione, se si escludono le organizzazioni che si rifanno al programma di fondazione del PCdI del 1921 e la Corrente Comunista Internazionale. Successivamente la Sinistra comunista non si presentò come un corpo omogeneo, ma come un insieme di autori e di gruppi che si opposero allo stalinismo e alla controrivoluzione dagli anni 30. Crediamo che il contributo dato da questi compagni sia stato prezioso, ma definito nel tempo. Compito dei rivoluzionari non è celebrare l’ideologia, ma sviluppare la teoria. Per maggiori informazioni su queste correnti:

  1. Umanità Nova, settimanale anarchico


 

Il testo che presentiamo è stato prodotto dal gruppo Prospettive Internationaliste; il gruppo PI è presente in Belgio, GB e USA. Dalla presentazione del gruppo:

Prospettive Internationaliste è un gruppo rivoluzionario rivendicante il marxismo come teoria vivente capace di tornare alle proprie origini, di produrre la sua stessa critica e di svilupparsi in funzione dell'evoluzione sociale storica. In questo, se riprendiamo la maggior parte delle esperienze teoriche delle Sinistre Comuniste, noi consideriamo che il nostro compito principale è di oltrepassare le debolezze e le insufficienze delle Sinistre in uno sforzo di sviluppo teorico incessante. Non concepiamo questo compito come nostro, ma piuttosto come il frutto di un dibattito e di uno scambio con l'insieme dei rivoluzionari. Tale dinamica condiziona la chiarezza del nostro contributo alla lotta e allo sviluppo della coscienza di classe del proletariato. Il nostro gruppo non intende portare alla classe un programma politico chiuso, ma partecipare al processo generale di chiarificazione che si svolge in seno alla classe operaia.

Per contatti: Destryker BP 1181 centre Monnaie 1000 Bruxelles, Belgio.

E-mail: contacts@interperspective.com

Anche se possono essere  mosse delle critiche al testo, rimane nel complesso un materiale utile per aumentare la comprensione del fenomeno islamico inerente allo scontro in atto in Medio Oriente.

Islamismo: ideologia politica e movimento

A partire dall’invasione dell’Egitto da parte delle armate napoleoniche nel 1798, che inaugurò il coinvolgimento dell’Occidente nel Mondo Arabo, fino al presente, il Nazionalismo Arabo-Islamico ha assunto tre successive modalità, sebbene in qualche modo si siano sovrapposte: nazionalismo liberale, socialismo arabo e islamismo (1)

Il nazionalismo liberale, come movimento politico, fu esemplificato dal regime statalista di sviluppo nazionale di Muhammed Ali in Egitto, che aveva come obbiettivi il rovesciamento del Feudalesimo Orientale, e un progetto per la modernizzazione (in definitiva fallito), e per l’introduzione del capitalismo. Ideologicamente, questo nazionalismo liberale cercava, negli scritti di Jamal al-Din al-Afghani, di unificare la nazione musulmana, la Umma, e di resistere all’Imperialismo occidentale attraverso la riconciliazione dell’Islam con il moderno razionalismo. Attraverso quest’ultimo poteva essere forgiata una potente nazione musulmana; visione elaborata da Muhammed Abduh, il quale confidava che la ragione e la rivelazione (islamica), l’Islam e la scienza moderna, fossero conciliabili, sebbene ciò richiedesse lo smantellamento delle istituzioni tradizionali dal punto di vista sociale, economico e politico del mondo islamico, che erano, in questa visione, deformazioni dell’Islam. Vale la pena notare che i discepoli di Abduh, come Qasim Amin, sostenevano l’emancipazione delle donne, con la rivendicazione che il Sari’a fornisse una base per l’uguaglianza delle donne, che egli interpretava come cruciale nel progresso della società umana. Quello che è significativo in queste ideologie e progetti politici è che furono integralmente collegati al processo di introduzione del capitalismo che si era diffuso dall’Europa al mondo islamico; che essi erano inseparabili dal progetto della rivoluzione borghese come sviluppo economico antifeudale e nazionale, che fu il marchio del capitalismo nella sua fase ascendente. Forse l’ultimo colpo di coda di questo liberalismo nazionale nel mondo islamico può essere visto nei movimenti politici come il Wafd in Egitto, e nel suo leader Sa’d Zaghlul. In quanto erede di Abduh, Zaghlul e il Wafd cercavano inoltre di creare le condizioni di uno stato moderno, democratico e borghese in Egitto. Ma, mentre Muhammed Ali, agli esordi del XIX secolo, era preparato a sfidare direttamente l’imperialismo occidentale, che si mobilitò per schiacciarlo, il Wafd negli anni 30 venne a patti con l’imperialismo britannico. Quel compromesso dimostrò che i progetti di introduzione del capitalismo e industrializzazione delle società a predominanza agraria, come quelle del mondo islamico, avrebbero da quel momento in poi rotto col liberalismo dei nazionalisti arabo-islamici nella fase ascendente del capitalismo.

I precursori del Socialismo Arabo furono quei movimenti che negli anni 30 si ispirarono al fascismo italiano e al nazismo tedesco. Movimenti come le Camicie Verdi del Giovane Egitto, o il Partito Popolare Siriano di Antun Sa’ada erano decisi a rompere con l’imperialismo franco-britannico dominante in Medio Oriente, e a imbarcarsi in un progetto statalista per promuovere l’industrializzazione capitalistica. Il fallimento dell’imperialismo tedesco nel soppiantare il rivale anglosassone, condusse nazionalisti come Michel Aflak e il suo partito Ba’ath in Siria e Iraq, e Gamal Abdel Nasser e i Liberi Ufficiali in Egitto, ad abbracciare il "socialismo" come la strada verso l’industrializzazione e la modernità, e ad allinearsi alla Russia stalinista nel suo conflitto contro l’Occidente. Tutti questi movimenti furono risolutamente laici nella loro ideologia, spesso con dei Cristiani, come Sa’ada e Aflak, alla loro guida. La nazione araba, e non la Umma musulmana, forniva la base sociale che questi movimenti cercavano di mobilitare negli interessi del modello statalista-modernista che essi esemplificavano. Il socialismo arabo di Nasser, e la sua alleanza con la Russia, esemplificavano questo vano progetto. Esso non fruttò né lo sviluppo economico nazionale, né l’eliminazione dell’imperialismo occidentale dal mondo arabo-islamico. L’ardito trasferimento di Sadat dell’Egitto dall’orbita russa a quella americana, il trattato di pace con Israele, e la subordinazione del Cairo alla West Bank, al FMI, e alle altre istituzioni dell’egemonia globale americana, significarono il fallimento del socialismo arabo nel portare a compimento quanto Muhammed Ali non era riuscito a realizzare più di un secolo prima. Nel vuoto creato dalla bancarotta del socialismo arabo si inserì una nuova ideologia politica e un nuovo movimento: l’Islamismo.

Il precursore dell’Islamismo contemporaneo fu La Fratellanza Musulmana di Hassan el-Banna in Egitto (fondata nel 1928), che, a differenza dei nazionalisti liberali i quali cercavano di riconciliare l’Islam e la modernità, o i Socialisti arabi i quali erano decisamente laici, fu determinato a respingere la modernità e restaurare la legge della virtù islamica. Eppure l’Islamismo pervenne al potere statale non attraverso la Fratellanza musulmana sunnita (decapitata prima dal regime wafdista, da quello britannico, e poi dai nasseristi), ma dalla regola dello sciita Ayatollah Khomeini in Iran. Mentre Khomeini cercava di guadagnare i Shia del mondo arabo alla sua causa, il fatto che gli Shia fossero una minoranza, disprezzata e odiata nella maggioranza del mondo islamico sunnita, limitava decisamente il successo di Khomeini e degli Iraniani, nuove, sunnite, versioni dell’Islamismo si dimostrarono più efficaci nella mobilitazione delle masse musulmane sia nel mondo arabo che in quello dell’Asia centrale e meridionale: il Gruppo Armato Islamico in Algeria, la Jihad islamica e al-Gama al-Islamyya in Egitto, Hamas in Palestina, i Taliban in Afghanistan, e la rete al-Qaeda di Osama bin Laden. Mentre l’Islamismo sembra essere un’ideologia e un movimento politico irremovibilmente opposto alla modernità, e che cerca di rinvigorire le credenze e le istituzioni tradizionali islamiche, esso è altrettanto il prodotto della distruzione del mondo arabo-islamico pre-capitalista, e sia in quanto ideologia sia in quanto progetto politico è irreparabilmente bollato col marchio della modernità e del capitalismo. Sotto questo punto di vista, l’Islamismo ha molto in comune col Nazismo, col suo ideologico ricorso ad una Gemeinschaft pre-capitalista, alla religione ariana, pur avendo esemplificato le realtà più brutali del capitalismo e dell’imperialismo nelle sue relazioni sociali e nel suo progetto politico.

Questa connessione sostanziale tra l’Islamismo e il capitalismo può essere vista nelle due dimensioni dell’Islamismo come ideologia e come progetto politico. Malgrado il suo appello alla tradizione islamica, l’Islamismo costituisce una forma di proto-stato o di razzismo di stato. Qui, non stiamo parlando del razzismo nel senso del linguaggio comune, dove è una questione di colore (neri, bianchi, ecc.), ma piuttosto come ideologia affermata sulla base di una biforcazione, di una incisione nel tessuto sociale basata sulla nascita, la biologia, la genetica in quanto qualità inerenti l’essere stesso dell’individuo, in opposizione alle scissioni nel tessuto sociale basate su credenze, visioni del mondo, o come nel marxismo sulle relazioni sociali di produzione (classi), antitesi della biologizzazione delle scissioni nel tessuto sociale dell’umanità, sulla quale l’Islamismo è basato. La visione misogina delle donne come biologicamente inferiori, sostanziale nell’ideologia dei Taliban e di al-Qaeda (e che non ha base alcuna nell’islam tradizionale), il distintivo giallo che il regime taliban ha imposto alla minoranza indù in Afghanistan, la razionalizzazione dell’Umma su basi genetico-biologiche, (in opposizione ad una comunità di fede), che è strutturale alla visione del mondo di Bin Laden e dell’Islamismo: tutto, nel cuore di questa ideologia, concorre alla razializzazione dell’Islam. Il razzismo di stato e la biologizzazione delle relazioni sociali sono immanenti all’ossessione di "purificazione" che anima l’Islamismo. Non la purificazione dell’anima individuale, ma la purificazione del tessuto sociale stesso. Le dissertazioni sulla purificazione che caratterizzano l’Islamismo, sono in sé l’anticamera della pulizia etnica e del genocidio. Il destino degli Indù nell’Afghanistan talibano (una minoranza di varie centinaia solamente), o la difesa dalla pulizia etnica degli Sciiti Hazaraz, prefigura la catastrofe che spetterebbe ai Copti d’Egitto (una minoranza di sei milioni, in sé immagine sinistra) se la Jihad Islamica dovesse prendere il potere. Questo razzismo di stato, e la biologizzazione delle relazioni sociali, sono caratteristiche di una fra le dimensioni della modernità capitalistica, il suo lato oscuro, esemplificato da Auschwitz, Babi Yar, Dresda e Hiroshima, tutti prodotti quintessenziali dell’alta civiltà capitalistica, ed inseparabili da essa. Lo sviluppo dell’Islamismo testimonia la diffusione delle medesime relazioni sociali e ideologie capitalistiche nel mondo Arabo-Islamico, quantunque in forme storicamente e culturalmente specifiche, che hanno informato il mondo capitalistico nella sua fase di decadenza (o di crisi permanente).

Nonostante la rivendicazione del suo progetto politico sia semplicemente ottenere la ritirata dell’Occidente dal suolo della "Nazione Musulmana" (qui reinterpretata biologicamente), e la sua conseguente purificazione, l’Islamismo può solamente sperare di realizzare tale scopo (per quanto vano) cercando di competere col suo nemico occidentale economicamente e militarmente. Tale progetto non significa l’arresto del processo capitalistico nel mondo islamico, ma il suo compimento, la sua apoteosi da parte dei regimi islamisti stessi. Così il regime di Khomeini in Iran, dopo il rovesciamento dello Shah, ha sviluppato l’industria del petrolio, integralmente collegata all’economia capitalistica globale, e necessitante di un brutale regime di sfruttamento del proletariato, e ha sviluppato industrie e istituti scientifici per la produzione di armi di distruzione di massa per elevarsi al rango di maggiore potenza imperialistica della regione. Gli Ayatollah hanno imboccato la strada dello sviluppo scientifico, tecnologico, economico e militare capitalistico, che, nonostante le loro affermazioni di purezza islamica, completeranno la distruzione del mondo islamico tradizionale del passato iraniano. Gli stessi imperativi sono al lavoro nella branca sunnita dell’Islamismo rappresentata da al-Qaeda, sebbene sia solamente un proto-stato. Il progetto di Bin Laden di estirpare l’imperialismo Occidentale dal suolo della nazione musulmana sembra implicare due obiettivi a breve termine: usare il regime talibano in Afghanistan come testa di ponte per destabilizzare il regime laico pakistano, assumere il potere di stato in Pakistan, e con esso una potenzialità nucleare sulle cui basi progettare un potere "islamico", rovesciare il regime saudita, dipendente com’è quest’ultimo dagli Stati Uniti, e con ciò assumere il controllo della maggior riserva di petrolio nel mondo. (2) La questione non è la probabilità di successo di questo progetto (probabilmente infima), quanto piuttosto la sua natura e il suo contenuto di classe propriamente capitalistici. Una potenzialità nucleare (la Bomba islamica), e il controllo del petrolio, richiedono una tecnologia, una scienza e rapporti sociali tipicamente capitalistici, contro i quali gli Islamisti a parole inveiscono, ma che sono inseparabili dall’Islamismo come movimento e progetto politico.

Nell’analizzare l’Islamismo come fenomeno politico è necessario concentrarsi su tre elementi distinti ma collegati: le condizioni socio-economiche che alimentano il fertile suolo all’interno del quale una tale ideologia e movimento politico possono afferrare e conquistare il sostegno popolare; le classi e gli strati sociali che sono portatori di questa ideologia e i quadri e la dirigenza di questo movimento; il contenuto di classe di questo fenomeno socio-politico. Le condizioni socio-economiche che generano l’Islamismo sono il depauperamento e la disperazione di masse sradicate da un’esistenza pre-capitalistica o di villaggio e artigianale, dallo sviluppo del capitalismo, anche se quest’ultimo è incapace di provvedere all’occupazione di una popolazione da poco urbanizzata e in rapida crescita, condannata ad abitare in baraccopoli sorte attorno alle disordinate metropoli capitalistiche, una massa di gente mancante dell’istruzione senza la quale una vita di disoccupazione quasi permanente e di emarginazione è tutto quello che hanno da sperare. Tale è il risultato della traiettoria del capitalismo nel Terzo Mondo in generale, e del mondo arabo-islamico in particolare, e che fornisce le condizioni socio-economiche per la diffusione dell’Islamismo. Le classi e gli strati che alimentano i quadri e la dirigenza dei movimenti islamisti sono i piccolo borghesi e gli intellettuali. Non è una coincidenza se l’ideologo e l’organizzatore di al-Qaeda (il braccio destro di Bin Laden) Ayman el Zawahiri, era un importante chirurgo, il rampollo di una famiglia di punta dell’intellettualità egiziana. Mentre il sostegno popolare dell’Islamismo deriva dai molto poveri, la dirigenza e i quadri di questo movimento sono altamente istruiti, un prodotto del mondo laico della medicina e dell’ingegneria, per esempio. (3) Tuttavia la classe d’origine dei quadri o della dirigenza di un movimento politico, non determina il suo contenuto di classe. L’elemento più cruciale in un’analisi dell’Islamismo, come abbiamo sostenuto più sopra, è capitalistico nella sua natura di classe; un’espressione o una manifestazione del capitalismo in condizioni storiche e culturali determinate: il mondo arabo-islamico nell’epoca del capitale globale e dell’egemonia statunitense. L’Islamismo è la reazione violenta e brutale a quella egemonia, un’egemonia che preannuncia la morte di massa o la brutale oppressione per i popoli di quella terra, un risultato che può essere prevenuto solamente da una lotta di classe per rovesciare la relazioni sociali capitalistiche stesse che l’hanno generata e della quale l’Islamismo è la corrente manifestazione locale.

 

Prospettive Internationaliste

Note:

  1. Tutte queste tre forme di nazioni arabo-islamiche sono integralmente collegate alla traiettoria del capitalismo, in quanto questo assoggetta il mondo agli imperativi della produzione di valore: il nazionalismo liberale nella fase ascendente del capitalismo; il socialismo arabo nella fase fordista di produzione capitalistica; e l’Islamismo all’impatto del post-fordismo e della globalizzazione che ora regna sovrana. Una questione che vale la pena porre, malgrado, o forse a causa dell’opposizione di massima al nazionalismo della Sinistra Comunista, è se sia mai stato possibile un nazionalismo subalterno, un nazionalismo delle classi sfruttate; se un nazionalismo non completamente legato al progetto del capitalismo sia mai stato possibile. Per esempio, come si devono vedere la ribellione indiana del 1857, la guerra intrapresa da Shamil e dai Ceceni contro la Russia zarista nel XIX secolo, per non citare che due esempi? Furono manifestazioni delle classi subalterne? Non stavano forse al di fuori dell’ambito del capitale? Furono "progressiste" o reazionarie? Marx stesso sembra aver cambiato il suo punto di vista verso la fine della sua vita, nel suo carteggio con Vera Zasulich. Non è un argomento che vale la pena esaminare, sebbene non cambi il fatto che le forme successive del moderno nazionalismo arabo-islamico che stiamo qui esaminando, sono tutte manifestazioni del capitale.

  2. Questo è anche il caso degli stati confinanti a Nord con l’Afghanistan, Turkmenistan, Uzbekistan e Tajikistan, tutti prossimi al Mar Caspio ricco di petrolio, e tutti aventi propri movimenti islamisti con stretti legami con al-Qaeda.

  3. Non dovrebbe sorprendere che il leader dell’Islamismo in Giordania, Laith Shubaylat, è stato in precedenza a capo del sindacato degli ingegneri. Queste sono le classi e gli strati sociali dai quali la dirigenza e i quadri dei movimenti nazionalistici sono tipicamente estratti -allorché quei movimenti furono liberali, quando furono laici, ed ora che sono islamici.