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La
nascita della corrente definita –operaista- può essere fatta risalire intorno
alla fine degli anni 50.
Negli
anni 50 nell’area occidentale il potere della borghesia industriale sembrava
eccezionalmente solido e capace di conquistare consenso attraverso un graduale
aumento dei salari e un corrispondente miglioramento delle condizioni di vita
della classe proletaria.
Il
movimento operaio ufficiale (i partiti e i sindacati di sinistra) viveva allora
un processo di adeguamento non solo nei fatti ma anche nell’identità e nella
progettualità alle regole della società occidentale che toccava gli stessi
partiti stalinisti il cui preteso antagonismo all’occidente, era tutto giocato
sulla dimensione dell’eterna attesa delle “condizioni favorevoli” per una
rottura rivoluzionaria, di fatto avvalendo una pratica socialdemocratica, in più
condita con uno stile autoritario e religioso.
In
questo contesto i fatti di Ungheria sconvolsero una buona parte dell’intelighenzia
di sinistra, italiana e internazionale.
Panzieri,
uno degli autori più rappresentativi di questa corrente militante del PSI,
intravedeva una crisi del movimento operaio tradizionale. Per arginare questo
processo era opportuno iniziare una ricerca autonoma, che si sganciasse dagli
elementi interpretativi tradizionali, in modo da permettere di riscoprire una
tradizione di classe autentica nel divenire storico del conflitto tra capitale e
lavoro, cercando in questo modo di scavalcare l’inquadramento organizzativo
del vecchio movimento operaio schiacciato dal controllo staliniano.
Nel
1959 Panzieri stringerà contatti con elementi di sinistra del PCI che operavano
nella FIOM a Torino, cioè Foa, Tronti, Asor Rosa e Della Mea. Iniziava in
questo modo una ricerca sul movimento operaio, dal “controllo operaio” alla
ricerca dell’oggetto, dall”inchiesta operaia” per una definizione di
“composizione di classe” alla definizione di “democrazia diretta”.
Panzieri
era consapevole dallo spartiacque che si era aperto nel 1956 con il XX Congresso
del PCUS (Destalinizzazione dell’URSS e via pacifica al socialismo) e dei
fatti di Ungheria, ma coglieva questa dimensione unicamente in funzione del
movimento operaio ufficiale. Dell’esperienza ungherese, non assimilava i
dettati di autorganizzazione proletaria che ne derivavano, ma si limitava a
constatare come l’URSS fosse definitivamente degenerata.
Questo
ritardo non si avrà nelle correnti extra-italiane dell’”operaismo”.
Socialisme ou Barbarie per la Francia, Correspondance per gli USA, Solidarity
per la GB (1), coglievano nelle giornate ungheresi lo scarto che esisteva tra il
movimento operaio e la sua controfigura ufficiale. Vedevano nello scontro tra
burocrazia e antiburocrazia (democrazia diretta) il liberarsi di prospettive
nuove per il movimento operaio. Focalizzavano la loro analisi sulla di manica
che esisteva tra la società burocratica capitalista e i movimenti di lotta
antiburocratici. La critica di queste esperienze all’URSS pur non essendo
sospetta temporalmente, era alquanto debole, in quanto pur definendo l’URSS un
regime a capitalismo di stato si limitavano ad una critica gestionista e di
forme, non toccando minimamente quali erano i rapporti di produzione e le
relative classi sociali (2). Il modo di produzione capitalistico, sempre più
integrato a livello nazionale ed internazionale, veniva analizzato con le
categorie della burocratizzazione e appariva come un’immensa macchina la cui
conduzione sfugge alla stessa borghesia e che si riduce ad un complesso organico
sociale capace di eliminare le classiche crisi di sovrapproduzione con i
conseguenti effetti di disoccupazione di massa, tagli dei salari, lotte
esplicitamente rivoluzionarie. Il blocco a capitalismo di stato veniva
interpretato come la variante più importante della burocratizzazione, che
faceva si che il fenomeno fosse un processo unitario. Ritornavano gli echi
antiburocratici di Trotski, invertendo gli ordini dei fattori, per Trotski
l’URSS in quanto stato operaio degenerato era il più vicino al
“socialismo”, per gli operaisti “extra-italiani” l’URSS era il modello
specifico che avrebbe rappresentato lo Stato per il capitalismo a livello
universale, e le lotte che in questo paese si sviluppavano erano le
anticipazioni delle lotte future. Nei fatti il capitalismo di Stato
rappresentava un anello debole della catena, che non poteva svilupparsi
altrimenti vista la concorrenza-equazione con “il mondo libero”. Nella
battaglia ciclopica del capitale, attraverso i monopoli, prendeva la luce un
sistema che basava la sua forza sulla produzione primaria, e introducendo un
sistema coloniale forzato si garantiva la sua sopravivenza. Le lotte nei paesi
dell’est pur essendo importanti, per la percezione dell’esperienza
proletaria, rimanevano imbrigliate in uno schema legato ad una arretrata
composizione sociale del capitalismo. La stessa forma consiliare che possiamo
osservare nei fatti di Ungheria dimostrava come tale forma, senza farne una
considerazione assolutista, era legata ad un tipo di organizzazione legata alla
grande industria meccanica, prevalentemente presente nei paesi dell’est, e
rappresentava un’evoluzione dell’organizzazione del lavoro superata in
occidente.
Panzieri
e la corrente operaista sul contenuto dei paesi socialisti non scrisse nulla che
mettesse in discussione il carattere socialista di quei paesi. Nello scritto del
1957 “Appunti per un esame della situazione del movimento operaio”
si evince come l’autore accettasse in toto l’ideologia staliniana del
socialismo in un paese solo. Per Panzieri se mai il problema era di umanizzare
questi regimi, dando maggiore democrazia, maggiore partecipazione operaia. La
sua tesi è che la necessita di difendere lo Stato socialista ha portato ad
anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista,
collettivizzando e industrializzando troppo in fretta l’URSS.
Panzieri
non a caso guardava con interesse alla esperienze Yugoslava e Cinese e della
Polonia, dove arrivavano suggerimenti di “autonomia e “liberazione”…
La
realtà si è dimostrata molto brutale e dissacrante.
La
rivista che coagula gli sforzi di Panzieri sarà Quaderni rossi. In questa
esperienza verrà chiarito il contenuto delle lotte. Per QR le lotte salariali
divenivano lotte per il potere. Alla rivista collaboravano militanti usciti dai
partiti di sinistra o che vi erano ancora iscritti. Al primo numero
collaborarono S.Garavini, Pugno, Foa e Alasia che però si allontaneranno
presto, la rivista, infatti suscita parecchie perpelessita nel movimento operaio
ufficiale.
Il
punto di partenza della riflessione di Panzieri è la centralità del rapporto
di produzione e la critica della pretesa neutralità dello sviluppo tecnico
scientifico, contestando l’idea di una razionalità del processo produttivo
distinta dalle necessità dell’accumulazione capitalista. “Sull’uso
capitalistico delle macchine nel neocapitalismo” è un articolo
comparso sul n.1 di Quaderni Rossi. Questo uso non è una deviazione da uno
sviluppo, per così dire “normale” della crescita capitalistica, ma
determina lo sviluppo tecnologico e con esso l’assoggettamento dell’operaio
alla macchina stessa, dove questa è la personificazione del dispotismo di
fabbrica sull’operaio divenuto ormai appendice della macchina. Non conta più
l’abilità dell’operaio nel maneggiare uno strumento parziale, perché la
tecnologia incorporata nel sistema capitalistico diventa “abilità” parziale
di massa dell’operaio nel servire una macchina parziale che lo incatena.
Il
progresso del capitale si presenta come esistenza del capitale e il processo di
industrializzazione si impadronisce di strati sempre più avanzati di progresso
tecnologico, da cui la necessità di un piano per legare gli operai al sistema
di macchine che è la fabbrica.
Allora
la tendenza della lotta degli operai va verso forme gestionali, ovvero verso la
gestione del potere politico ed economico nell’impresa e da quella
dell’intera società.
La
lotta investe l’intera società:”praticamente e immediatamente questa
linea può esprimersi nella rivendicazione del controllo operaio”.
Queste
tesi “gestioniste” trovarono alcuni echi in ambienti del movimento operaio
dei primi anni 60, ritenute un ritorno a Marx e al comunismo rivoluzionario,
tuttavia erano ben al di sotto della critica comunista del valore, non cogliendo
la radicalità dell’analisi marxiana.
Ricordiamo
che lontano dai riflettori della storia, già nel 1957 Bordiga aveva preso in
esame i Grundrisse per dimostrare come il lavoro collettivo dell’operaio viene
succhiato da quel Moloch che è il capitale fisso e che si accrese a spese del
lavoro vivo, per arrivare a prospettare non il dominio del lavoro vivo su quello
morto (tesi gestionista) dei Quaderni Rossi, sulla materia prima, ma il fatto
che lo sviluppo delle macchine e dell’automazione prepara la società che vede
il tramonto della misura del tempo di lavoro in valore.
Panzieri
in “Plusvalore e pianificazione, appunti di lettura del Capitale”
scriveva nel 1964: “C’è stato in effetti nel pensiero marxista dopo
Marx, un momento di riconoscimento della svolta verificatosi nel sistema con la
comparsa del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo interno agli anni
70 (e che oggi ci appare come un periodo di transizione rispetto alla -svolta
che, iniziatasi negli anni 30, va tuttora compiendosi). Ma l’analisi e la
rappresentazione della fase nuova nascente con quella svolta è stata messa
immediatamente in relazione con leggi che essa stessa tendeva a superare; ed è
stata quindi interpretata come ultima fase”. E in nota, aggiungeva: “La
mitologia dello stadio ultimo del capitalismo è presente con funzioni
ideologiche diverse, anzi opposte, sia in Lenin sia in Kautsky: in Lenin per
legittimare la rottura del sistema, i punti meno avanzati del suo sviluppo, in
Kautsky per sanzionare il rinvio riformistico dell’azione rivoluzionaria alla
pienezza dei tempi. Dacchè la rivoluzione nel 17 non riesce a saldarsi con la
rivoluzione nei Paesi avanzati, essa ripiega sui contenuti immediatamente
realizzabili al livello di sviluppo della Russia: e il mancato chiarimento circa
la possibile presenza del rapporto sociale capitalistico nella pianificazione (insufficenza
che permane in tutto lo svolgimento del pensiero leniniano) agevolerà in
seguito la ripetizione nei rapporti di produzione, sia di fabbrica, sia nella
produzione sociale complessiva, di forme capitalistiche, dietro lo schermo
ideologico dell’indentificazione del socialismo con la pianificazione e delle
possibilità del socialismo in un solo Paese”.
Panzieri
attaccava il modo in cui era venuta consolidando, dalla II Internazionale alla
III, la concezione ottimistica del processo storico che induceva all’attesa
del compiersi automatico della fase suprema del capitalismo; egli intendeva
recuperare tutto l’aspetto politico attivo, rivoluzionario, del discorso
marxiano, contro il positivismo volgare che riteneva la crisi mortale del
sistema un fatto ineludibile, connesso al semplice sviluppo quantitativo delle
forze produttive. Nella fattispecie storica, la polemica di Panzieri si
rivolgeva contro l’uso strumentale, che veniva fatto all’interno del
movimento operaio, del discorso sul carattere oggettivo e necessario delle leggi
che governano lo sviluppo capitalistico, uso strumentale che tendeva a mettere
in ombra o in secondo piano la contraddizione tra capitale e lavoro e
l’urgenza di favorire l’organizzazione del controllo operaio sull’intero
processo produttivo. La volontà di fornire una base teorica a questo progetto
portava Panzieri a scavare nei testi marxiani di critica dell’economia
politica per rintracciarvi le linee di uno sviluppo analitico che andasse nella
direzione di una identità senza residui di legge del piano e legge del valore.
Lo sviluppo del discorso di Marx dal primo al terzo libro veniva così a
coincidere con lo stesso sviluppo storico del capitalismo contemporaneo dalla
fase concorrenziale a quella monopolistica. Il piano non era qui inteso come un
singolo e particolare progetto di programmazione, quanto nella forma
storicamente determinata dello sviluppo. Si trattava dunque, per eliminare ogni
residuo naturalistico dalla teoria dello sviluppo, di dimostrare l’avvenuto
superamento della dicotomia (ancora presente in Marx, in specie nel primo libro
del CAPITALE) tra dispotismo in fabbrica e anarchia nella società
civile, di dimostrare che la “dinamica del processo capitalistico è in
sostanza dominata dalla legge della concentrazione” e andando oltre Marx,
che la fase più alta dello sviluppo e insieme dell’autonomizzazione del
capitale non è quella del capitale finanziario, ma quella del capitalismo
pianificato. Con la pianificazione generalizzata, secondo le conclusioni di
Panzieri, scompare ogni traccia dell’origine e della radice del processo
capitalistico, perchè viene radicalmente superato il modo di produzione
incosciente, anarchico. Giunto a questo livello, il processo storico di coesione
crescente del sistema si presenta nella sua interezza completamente autonomo
rispetto agli agenti della produzione, caratterizzato sul piano sociale
complessivo dalla stessa razionalità dispotica vigente nella fabbrica moderna,
che si avvale delle possibilità smisurate conferitele dall’uso capitalistico
della scienza e delle tecnica, si veda in proposito lo scritto di Panzieri: “Sull’uso
capitalistico delle macchine nel neocapitalismo”. A questo punto,
Panzieri saltando a piè pari un nodo fondamentale del discorso di Marx
(presente soprattutto nei Grundrisse), del quale egli aveva
sottolineato la complessità, arriva alla conclusione che le contraddizioni
immanenti hanno perduto il loro carattere naturalistico, proprio della fase
concorrenziale: le contraddizioni imminenti non sono nei movimenti dei capitali,
non sono interne al capitale: solo limite allo sviluppo del capitale non è il
capitale stesso, ma la resistenza della classe operaia.
Questa
conclusione di Panzieri opera una revisione totale dell’enunciato marxiano per
cui “il vero ostacolo della produzione capitalistica, è il capitale stesso”
e al tempo stesso nega i fondamenti metodici dell’impostazione dialettica
della critica dell’economia politica. La dialettica del modo di esposizione
prescelto da Marx consiste nella
comprensione del movimento delle categorie come movimento autocontradditorio del
capitale, come autocritica del sistema nell’ambito della stessa oggetualità
categoriale, dallo stesso punto di vista borghese. Autocritica che rimanda al
carattere storico, dunque caduco, del modo di produzione basato sullo scambio
delle merci. Per Marx “esiste anzitutto un limite, non inerente alla
produzione in generale ma alla produzione basata sul capitale” “Grundrisse”.
L’orizzonte di questo limite, che è rappresentato dal capitale stesso, il
movimento autocontradditorio del capitale è esposto da Marx nella dialettica di
limite e ostacolo: “Anzitutto: il capitale costringe gli operai a superare
il limite del lavoro necessario per effettuare un plusvalore. Solo così esso si
valorizza e crea plusvalore. Ma d’altra parte esso pone il lavoro necessario
solo in quanto e nella misura in cui è pluslavoro e questo a sua volta è
realizzabile come plusvalore. Esso pone dunque il pluslavoro come condizione del
lavoro necessario, e il plusvalore come limite del lavoro oggetualizzato, dal
valore in generale. Finchè non può porre quest’ulitmo, esso non pone nemmeno
il primo; nè può farlo sulla base di quello. Esso dunque limita -con un
ostacolo artificiale- il lavoro e la creazione di valore, e lo fa per la stessa
ragione e nella misura in cui esso crea pluslavoro e plusvalore. Esso dunque
pone, per sua natura, un ostacolo al lavoro e alla creazione di valore, il quale
contraddice la sua tendenza ad espanderli oltre ogni limite. Ma proprio perchè
da una parte esso pone uno specifico ostacolo, e dall’altra tende a superare
ogni ostacolo, esso è la contraddizione vivente”. “Perchè il valore
costituisce la base del capitale”, prosegue Marx “e questo esiste
necessariamente solo in quanto attua uno scambio con un equivalente, esso deve
necessariamente procedere ad un movimento do repulsione da sè stesso. Un
Capitale universale che non abbia di fronte a sè altri capitali con cui
scambiare -e dell’attuale punto di vista esso non ha di fronte a sè altro che
il lavoro salariato o se stesso- è perciò un assurdo. La repulsione reciproca
dei capitali è già implicita nel capitale in quanto valore di scambio
realizzato”.
E’
evidente che il profondo significato dialettico (non certo riducibile ad
allegoria o metafora) di questa esposizione verrebbe a cadere se il limite allo
sviluppo del capitale non fosse costituito dal capitale stesso. Caduta la
dialettica limite-ostacolo, cioè la possibilità per il capitale di
autocontraddirsi, verrebbe meno anche il movimento del capitale, e quindi la
stessa possibilità teorica di una critica dell’economia politica.
Per
i Quaderni Rossi la dipendenza del lavoratore della macchina si diffonde in
tutta la società ed è qui che Panzieri recupera il contributo della sociologia
come ricognizione della estraneità soggettiva dell’operaio al lavoro di
fabbrica. Ecco allora che troviamo lo strumento di “inchiesta operaia” il
cui scopo è la conoscenza del tipo di consapevolezza che gli operai hanno di se
stessi, ovvero dei propri atteggiamenti politici.
La
consapevolezza è il tipo di giudizio degli operai su diversi fatti che li
riguardano, mentre il comportamento pratico interessa i militanti di QR per
scoprire che si traduce in pratica un certo atteggiamento politico.
Agli operai verranno dunque formulate diverse domande, in maniera che
essi riflettano e diano giù un
giudizio. Vi era tutto l’idealismo la dove si dice che si potrebbe studiare il
rapporto esistente tra conoscenza, giudizio e comportamento e vedere se, in
genere, ad un tipo di conoscenza corrisponde un certo tipo di giudizio e, da
questo, un certo tipo di comportamento. Idealismo in quanto la classe operaia,
in genere, giudica e capisce dopo aver agito: in quanto classe non formula un
pensiero a cui adeguare un comportamento ma fa esattamente il contrario.
Quaderni
Rossi dedicò pagine e pagine all’analisi sociologica della composizione
operaia. Nel n.4 si definivano quattro livelli di identificazione della classe
operaia:
l’aspetto
economico, cioè il livello salariale
l’aspetto
lavorativo, cioè il tipo di mansione dell’operaio
l’aspetto
relazionale, cioè l’insieme delle relazioni sociali fuori dal lavoro
l’aspetto
normativo, cioè la visione che l’operaio ha della società
Dall’inchiesta si scopre che l’operaio ha migliorato la
sua posizione economica tanto da farla avvicinare a quella degli impiegati, ma
la sua mentalità è diversa ad esempio nei confronti del sindacato, rispetto
alle lotte.
L’articolo
prosegue analizzando le figure professionali dell’operaio metalmeccanico,
quello di mestiere, quello addetto al montaggio e l’addetto alle macchine
automatiche.
La
classe operaia viene così concepita come un insieme di unità senza relazioni
tra di loro, come mondi non comunicanti, la cui importanza risiede nel rapporto
con la macchina stessa, intesa come valore d’uso e non come capitale fisso che
succhia plusvalore all’operaio collettivo. Si arriva quindi all’apologia del
fabbrichiamo, dell’operaio in senso stretto, cioè dell’operaio manuale,
possibilmente sindacalizzato, ad un certo punto fatto coincidere unicamente con
quello metalmeccanico
La
dimensione dell’inchiesta operaia sottostimava le implicazioni delle altre
correnti operaiste dell’epoca, ricuperando solamente la dimensione sociologica
del marxismo, non riuscendo insomma a individuare nel proletariato un soggetto
storico/sociale in formazione.
Nell’”L’esperienza
proletaria” di Lefort (3), si assume il carattere della classe come
fusione di tutti gli strati sociali che cadono nella condizione salariata e che
vi portano cultura pratica, comportamenti, identità. La classe, quindi, è già
soggetto della storia e solo la divisione allienata del lavoro, operante,
all’interno dello stesso movimento operaio nella forma della separazione tra
teoria e prassi, fra classe e organizzazione, fra lotta immediata e critica del
capitalismo, tende a far sparire dalla riflessione e dalla conoscenza questo
dato. Funzione quindi di una forza che operi all’emancipazione del
proletariato è cogliere nell’esperienza proletaria stessa gli embrioni di
autocostruzione soggettiva in forza d’opposizione alla sfruttamento.
A
condizione di non fossilizzarsi nelle questioni di organizzazione e di gestione
del lavoro, l’osservazione della vita di fabbrica permette di mettere in luce
il senso comunista della lotta dei proletari (4). La testimonianza data con il
testo “L’operaio americano” (5) pubblicata nei primi numeri
della rivista di SouB andava in questa direzione. “L’esperienza
proletaria” di Lefort senza dubbio il testo più profondo di
Socialisme ou Barbarie cercava una mediazione tra la miseria della condizione
operaia e la sua rivolta aperta contro il capitale. Era, al suo interno che il
proletariato trova gli elementi della sua rivolta e il contenuto della
rivoluzione, non in un’organizzazione posta come preliminare, e che gli
apporterebbe la coscienza o gli offrirebbe una base di raggruppamento. Lefort
vedeva il meccanismo rivoluzionario nei proletari stessi, ma incentrandosi nella
loro organizzazione più che nella loro natura contraddittoria (il proletariato
come elemento di negazione-affermazione di capitale). Così finiva col ridurre
il contenuto del socialismo alla gestione operaia.
Per
Quaderni Rossi le lotte alla FIAT davano l’indicazione per il “potere
operaio” in fabbrica e indicavano nella FIOM locale l’organizzazione atta a
raccogliere il potenziale della lotta.
Ma
questo veniva concepito come potere contrattuale e gestionale all’interno del
rapporto capitalista e al tempo stesso come potere incompatibile e alternativo
alla società esistente. Ma QR non riusciva a capire che anche se il potere
operaio appare come incompatibile con il dominio di fabbrica, esso è comunque e
sempre all’interno del modo di produzione capitalistico che vede il suo centro
di potere nello Stato e non nella direzione della fabbrica, e se vogliamo
parlare più correttamente nei rapporti sociali capitalistici.
Il
gestionismo di QR si manifesta in tutta la sua ampiezza nell’indicare la
fabbrica come luogo fisico, e mai l’impresa come entità economica. Tale
distinzione è importante in quanto il comunismo è l’abolizione del lavoro
salariato e dello scambio e vedrà necessariamente la fine dell’impresa.
Per
QR nei primi anni 60, il problema è l’opposizione operaia alla pianificazione
del capitalismo italiano che aveva cooptato il PSI nel governo e il PCI
era restio ad opporvisi. La risposta secondo QR era stata data dalla
classe operaia, con la richiesta del potere operaio in fabbrica, chiedendo
implicitamente la gestione operaia che eliminerebbe i capitalisti e gli sprechi.
Questa era l’utopia di QR, il capitalismo senza capitalisti. Il capitalismo
gestito dai bravi operai che si autosfruttano. D’altra parte gia Marx aveva
detto che il capitalismo tende ad eliminare il capitalista come persona. QR non
concepiva la fine del lavoro salariato, bensì una gestione diretta delle
produzione da parte operaia.
Come
presso i compagni francesi il problema veniva ridotto al problema di chi
produce, di come ci si organizza, non della produzione in se. Questo
“ordinovismo” di ritorno, colpiva tanto gli italiani che altri gruppi,
incapaci di andare al di la della gestione del presente. Lo stacco storico con
le rivoluzioni passate era stato troppo profondo per concepire il processo
rivoluzionario come espressione dei rapporti sociali comunisti, che soppiantano,
innestandosi in quelli vecchi, i modelli di produzione. Se nelle correnti
extre-italiane vi fu una parziale capacità di individuare nelle lotte, la forza
trasformativa del presente, cioè individuando qui e oggi le forme di
cooperazione sociale che alludono a un superamento del modo di produzione
capitalista, queste sono rimaste allo stadio delle forme e non al contenuto del
comunismo. La stessa diversità di vedute rispetto alle organizzazioni ufficiali
vedeva le correnti extra-italiane più attente a cogliere i fenomeni di
autorganizzazione del proletariato antitetiche al presente, rispetto alla
versione di QR dove si dava per implicito l’utilizzo delle vecchie formazioni.
Un elemento comune a tutto questo arco politico era il quasi disinteresse per il
dibattito sulla crisi. Nati in un periodo di boom economico, la percezione della
crescente proletarizzazione sociale, e crisi economica, veniva relegata ad una
errata concezione marxiana dello sviluppo storico del sistema di produzione
capitalista.
Rimane
comunque un denominatore comune, l’impasse oggettivo che un pugno di militanti
si trovo a vivere nei freddi anni 50-60 schiacciati da uno sviluppo del
capitale, da una divisione monopolistica del pianeta, e con gli strali della
controrivoluzione ancora presenti. Questa rincorsa a individuare un soggetto,
una propria autonomia del proletariato, sconfinando inevitabilmente dal campo
delle critica dell’economia politica alla sociologia, era la dimostrazione che
il movimento operaio era fermo, incapace di esprimere a livello sociale una sua
forza propulsiva rivoluzionaria anticapitalista. Questa separazione nettissima
tra il progetto rivoluzionario e la materialità dello scontro di classe, sarà
il più grosso freno allo sviluppo di questa tradizione politica.
2
Il
secondo grande momento dell’operaismo nostrano è stato con il passaggio da QR
a Classe Operaia. Classe Operaia nasce come rivista del gruppo di Roma di QR nel
1964. Già in alcuni articoli di Tronti in QR era emersa una differenza di fondo
rispetto a Panzieri. Mentre per quest’ultimo è lo sviluppo che determina il
livello della lotta operaia, per Tronti è il livello di quest’ultima a
determinare lo sviluppo capitalista. Inoltre la mancata definizione dei partiti
detti operai porta QR ad una impasse da sui si forma una fronda che darà vita a
Classe Operaia.
La
firma del contratto aziendale alla FIAT, con relativa esclusione della CGIL
porta ai famosi fatti di Piazza Statuto a Torino con l’assalto della sede
della UIL. Il gruppo di Panzieri ha un atteggiamento più cauto negli obiettivi
e nei metodi di lotta per arrivare ad una ricomposizione della classe operaia,
mentre il gruppo di Tronti ritiene che sia possibile forzare la situazione
creando strumenti organizzativi per l’intervento diretto in fabbrica, cioè
una nuova organizzazione operaia. Non si tratta ancora di giudicare il PCI morto
per la lotta di classe ma di costruire una organizzazione che in maniera
autonoma si ponga come stimolo diretto al PCI e alla sinistra tradizionale.
Nasce così la nuova rivista che porta come sottotitolo “giornale politico
mensile degli operai in lotta”. Nel primo numero c’è uno dei più famosi
articoli di Tronti, “Lenin in Inghilterra”. Per Tronti non è
vero che prima c’è lo sviluppo capitalista e poi le lotte operaie, il
problema va rovesciato: in principio è la lotta di classe (6), lo sviluppo
capitalistico è subordinato ad essa e da essa determinato.
Per
Tronti quindi non esiste caduta tendenziale del saggio di profitto e la
sovrapproduzione. In principio era la lotta, ecco il suo motto. Tra i due poli
del rapporto di produzione capitalistico, Tronti riesce a vederne solo uno: il
proletariato, anzi la classe operaia di fabbrica. Nello stesso articolo Tronti
(siamo nel 1964) scrive che gli operai si trovano socialmente al di là delle
vecchie organizzazioni e al di qua di una nuova, quindi sono senza una
organizzazione politica, riformista o rivoluzionaria. Per Tronti il PCI non è
del tutto un partito borghese, ma un partito operaio in via di degenerazione,
anche se il centrosinistra potrebbe costringerlo ad opporsi al sistema. Esiste
un riformismo del PCI e un riformismo capitalista, la classe operaia deve
utilizzare il primo contro il secondo. Quindi urge, da parte operaia,
l’appoggio strategico allo sviluppo generale del capitale e l’opposizione
tattica ai modi particolari di questo sviluppo. Il soggettivismo trontiano si
vede anche nell’articolo “Vecchia tattica per una nuova strategia”,
dove si legge che la crisi capitalista del 1964 è dovuta ad una crescita dei
salari più alta di quella dei profitti, crisi provocata dalle lotte operaie.
L’esatto contrario di quello che scriveva Marx: “una rivoluzione non è
possibile se non in seguito ad una nuova crisi”.
Per
Tronti negli anni 50 la classe operaia riscopre la lotta economica, la impone al
sindacato, ed è questo tipo di lotta in grado di attaccare il potere
capitalista spingendo il capitale a svilupparsi. Dentro questo tipo di sviluppo
c’è spazio per la rivendicazione di potere operaio. Secondo Tronti la lotta
economica diventa lotta politica non per trascendenza, ma perché proprio in
quanto economica mette in crisi i padroni.
Scrive
infatti: “l’uso operaio della lotta sindacale ha superato e battuto, in
questi anni l’uso capitalistico del sindacato” e ancora “la legge
di sviluppo: quanto più cresce il livello politico della classe operaia e
l’unificazione del capitale tanto più il sindacato tende a separarsi
dall’interesse immediatamente operaio per integrarsi
completamente…nell’interesse capitalistico”. Per Tronti non si tratta
di arrestare questa tendenza ma di utilizzarla, con la richiesta di aumenti
salariali, cosa che incepperebbe il meccanismo di accumulazione capitalistico
con un risultato immediatamente politico, con un rapporto di forza favorevole
alla classe operaia in fabbrica. L’operaismo vede nella fabbrica il centro
dell’universo capitalista. La fabbrica da conquistare, non lo Stato da
abbattere!.
Non
è un caso che l’idealismo di Tronti porterà quest’ultimo a mitizzare
l’articolo di Gramsci “La rivoluzione contro il Capitale”,
articolo di chiara ispirazione soreliana, che misconosceva il rapporto tra crisi
mondiale e rivoluzione, per sbilanciarsi completamente nella capacità
organizzative del partito bolscevico.
Volendo
riassumere lo schema dell’operaismo trontiano, si può ridurlo alla seguente
formula: nella dialettica operai/capitale è sempre quest’ultimo a correre
dietro alla combattività dei primi. In ogni momento i rapporti di forza si
definiscono a partire dalla connessione esistente tra la figura materiale di
classe operaia e la corrispondente forma capitalistica di comando.
Vi
è quindi una successione di tipologie operaie che si scalzano storicamente. Il
passaggio delle catene di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro,
viene quindi letto come distruzione delle figura del lavoratore specializzato e
della sua forza contrattuale. Per la sua collocazione all’interno del processo
produttivo il nuovo operaio definito “operaio massa” si trova a differenza
dell’operaio professionale, che vive una dimensione più umana del lavoro, in
una situazione di separazione totale e di antagonismo rispetto al modo di
produzione capitalista. Nella catena di montaggio si consolida il “rifiuto del
lavoro”, fatto che ha però caratterizzato le lotte operaie nel corso di tutto
il secolo XIX.
Ogni
fase della lotta, per questo tipo di analisi, si trova in diretto rapporto con
un determinato livello di composizione della classe operaia. Vi è quindi una
continua ricomposizione-scomposizione che accompagna l’evolversi della lotta
di classe tra capitalismo e proletariato.
Nella
postilla al libro “Operai e Capitale” Tronti celebra le lotte
operaie del New Del come il massimo della radicalità, definendole le vere cause
della rivoluzione keneysiana. Il capitale deve cedere di fronte alla marea
montante. Gli operai strappano reddito al di fuori del rapporto immediato di
sfruttamento. Nascono il welfare, la mutua, il sussidio di disoccupazione, le
vacanze pagate, nasce il cosiddetto salario sociale.
Ma
la lezione storica crediamo sia completamente diversa. Questo ciclo di lotte
infatti, non sfuggira mai al controllo globale dello Stato. Il movimento degli
scioperi si scatena soprattutto dopo il 1933 ed è il prezzo calcolato che il
capitale paga per realizzare la riorganizzazione di se stesso.
Si
arrivava quindi a determinare una valutazione sociologica della composizione di
classe per poi trarne dei giudizi politici. Viene completamente ignorato quindi
il patrimonio del movimento comunista, che sta nell’aver posto con chiarezza
il problema dell’autonomia del proletariato rispetto non solo al capitale, ma
anche rispetto a tutte le istituzioni che, come partito e sindacato, pretendono
di rappresentare. Non è un caso che lo stesso Tronti, abbia finito per
giustificare il suo rientro nel campo della contro-rivoluzione (il PCI)
definendo l’utilizzo operaio delle istituzioni.
3
Dopo
Classe Operaia si apre per l’operaismo una serie infinita di gruppi, partitini
e riviste, stimolate anche dalla ripresa dirompente della lotta operaia in
Italia verso la fine degli anni 60. Il più importante e originale involucro
dell’operaismo è in quell’epoca senza dubbio Potere Operaio, dal cui
scioglimento nasceranno i gruppi-riviste che egemonizzeranno il cosiddetto
movimento “politico” autonomo.
PO
si dissolve nel 1973, ma il lavoro teorico continua. Con il ciclo di lotte della
fine anni 60 l’operaio massa ha messo in crisi lo Stato-piano. E’ necessaria
una nuova ricomposizione. Il centro delle lotte è la fabbrica: terziarizzazione
della produzione, automazione del lavoro e rivoluzione cibernetica. La crisi
dello Stato garantista della mutua e della cassa integrazione sbocca in una
nuova ristrutturazione che modifica profondamente la composizione della classe e
crea un nuovo soggetto: l’operaio sociale.
L’insubordionazione
operaia, prima confinata alla fabbrica, si estende ora ad altri soggetti. Se
nella nuova situazione si fa capillare il comando del capitale, si generalizzano
nel territorio –fabbrica diffusa- i comportamenti di rifiuto operaio. Questi
tendono a trasformare la valorizzazione capitalista in autovalorizzazione
operaia. Uno dei teorici che daranno vita a questa analisi sarà Toni Negri.
Secondo
Negri “le categorie marxiane contengono una permanente ed insopprimibile
dualità, dualità nella forma di antagonismo e l’antagonismo come
rovesciamento. Usare le categorie marxiana è quindi spingerle alla necessità
del rovesciamento”. L’antagonismo, oltre ad essere il motore dello
sviluppo del sistema, è una categoria centrale della conoscenza dello stesso.
Riconoscere l’antagonismo e portarlo fino al rovesciamento, questo è il
cammino proposto. Contro la valorizzazione capitalistica esisterebbe quindi una
autovalorizzazione operaia. Mentre la prima è incentrata sul movimento del
valore di scambio, la seconda si fonda sulla liberazione dei bisogni operai,
quindi sul valore d’uso. A questo punto il comunismo diviene come il percorso
di autovalorizzazione operaia e proletaria, cioè come rovesciamento pratico
delle categorie capitaliste.
Negri
credeva che il valore d’uso sia “null’altro che la radicalità
dell’opposizione operaia, la potenzialità soggettiva ed astratta di tutta la
ricchezza, la sorgente di ogni umana sensibilità”. Crede, quindi che
valore d’uso e valore di scambio si combattano come poli antagonisti delle due
classi in lotta. Per Marx questo dualismo è privo di senso. Il valore d’uso
costituisce solamente la base materiale del valore di scambio, la condizione
della sua circolazione ed accumulazione. Tra valore d’uso e valore di scambio
non esiste antagonismo bensì contraddizione. Questo vuol dire che la tendenza
del capitale alla valorizzazione selvaggia entra in contraddizione con le
possibilità reali di questa. Valori di scambio che non si convertono in qualche
luogo della circolazione in valori d’uso per qualcuno cessano di essere valore
tout court.
Quanto
ai bisogni operai, l’unica cosa da dire è che il capitale li suscita e quasi
mai può soddisfarli. E’ ovvio che qui si apre una possibilità di lotta.
Altra storia è costruire sui bisogni e sul valore d’uso un etica di
liberazione. Il valore d’uso viene trasformato in categoria umanistica che
legittima il progetto sovversivo dell’operaio sociale, appunto la sua
autovalorizzazione. In alternativa alla definizione marxiana di comunismo come
distruzione del valore e delle sue leggi, Negri ne propone un assurdo
rovesciamento.
In
quali comportamenti viene identificata questa autovalorizzazione?
Fondamentalmente si dà ovunque il proletariato strappa reddito al di fuori del
rapporto classico di sfruttamento, cioè il lavoro salariato. Così tutto è
autovalorizzazione: dai comportamenti extralegali dei giovani proletari, alla
spesa pubblica, all’economia sommersa.
Non
è un caso che gran parte dell’area cosiddetta “Autonoma” sia uscita con
le ossa rotte, nelle sue componenti ribelli, nel dibattito sul terzo settore,
incapace partendo dal comune maestro di offrire una seria critica
all’evoluzione riformista del medesimo movimento.
Da
questa presupposto politico di autovalorizzazione operaia si innesto un altro
paradigma teorico ossia la cosiddetta teoria dell’”esodo” e delle relativa
fine del lavoro innestandosi nell’analisi del ruolo crescente del lavoro
mentale, della produzione immateriale. Dopo il nesso sviluppo capitalista-lotte
operaie (che manteneva al centor la questione del lavoro salariato), dopo l’autovalorizzazione
operaia (il sorpassamento del piano salariale), si passava all’arricchitevi
operai (facciamo salario e nuovi salarizzati al nostro comando!)
Si
tratta di un modello che si rifà ad alcuni spunti presenti nell’opera di
Marx, agli accenni al general intellect.
Si
riassume tutto a questo: lo sviluppo stesso del capitalismo industriale, in
mancanza di transizione al comunismo, ha superato, in forma sua propria lo
stadio della divisione sociale del lavoro che caratterizzava la grande
industria.
In
questo contesto, l’oggetto del conflitto sociale si smaterializza, si tratta
di disalienare nella lotta la comunicazione produttiva, la produzione
immateriale.
Vi
è quindi l’ultima virata dell’operaismo nella nuova indicazione di
intervento nelle tipologie di lavoro “alternative” e “moderne”, dove la
separazione capitalista tra lavoro manuale e lavoro intellettuale finisce, dove
vi è la ripresa e riconquista del lavoro vivo da parte “operaia”. La
vittoria “operaia” in epoca capitalista, del controllo del valore d’uso
del lavoro e del suo relativo valore di scambio, liberato dalle leggi
mercantili. Una nuova NEP, la fase dove il partito bolscevico diresse e
implemento il sistema di produzione capitalista in Russia.
Una
simile analisi si presta a quattro sostanziali critiche:
-Non
esiste ancora una evidente effettiva capacità del computer di incorporare
l’intelligenza umana
-Il
dedurre un soggetto sociale come risposta speculare ad una trasformazione
produttiva, dimentica, il carattere storico/sociale del rapporto che si instaura
nel lavoro salariato. Ossia il suo non essere semplicemente adeguamento alla
struttura tecnica che il proletariato si trova di fronte e l’essere, invece,
un luogo denso di relazioni, interazioni, conflitti che dotano il lavoro stesso
di senso e ne determinano in gran parte la trasformazione.
-L’emancipazione
dei lavoratori e dei proletari in genere non è un problema di un ipotetico
soggetto sociale centrale nell’accumulazione (ieri era l’operaio massa oggi
il lavoratore mentale) e non è pensabile e praticabile che come ridefinizione
del senso e dello svolgersi della vita sociale ad opera dell’intera classe nel
suo modificare anche le sue interne relazioni.
-Ci
si dimentica delle leggi del sistema di produzione e la sua relativa capacità
espansiva e includente. Il cosiddetto lavoro liberato nasconde moderne forme di
controllo e servitù. Le recenti battaglie sui call center, modellati
sull’organizzazione industriale, e le forme storiche capitaliste
monopolistiche pone fine al mito neo-produttivista post moderno.
Rimane
a margine di queste critiche un'altra valutazione sostanzialmente quantistica,
la produzione di segni e linguaggi potrebbe essere tuttora una porzione
minoritaria nell’universo della produzione di merci e che la maggior parte del
lavoro immateriale potrebbe essere tutt’ora rivolta ad assicurare le condizioni della realizzazione del
plusvalore incorporato nelle merci-oggetto.
4
In
conclusione possiamo affermare che l’operaismo riusci ad imporsi in Italia, su
alcune questioni, come il ricostruire la teoria rivoluzionaria partendo dalla
realtà materiale dei nuovi comportamenti proletari sovversivi occidentali,
rompendo con la dietrologia terzomondista dilagante in quel periodo, svecchiando
sicuramente una prassi mutata dalla tradizione staliniana Ma su troppi punti
l’incapacità di rompere e di assumere una tenuta rivoluzionaria ha fatto
naufragare questa esperienza in un cortocircuito interno. I problemi legati al
partito, al ruolo della lotta sindacale, dello Stato, del contenuto del
comunismo non sono stati analizzati, l’operaismo innestatosi prevalentemente
all’interno del vecchio movimento operaio ha adeguato alcuni spunti ad una
nuova situazione sociale. L’essersi prodotto in una fase dove il proletariato
non ha manifestato la sua forza radicale, ha coinciso anche con un determinato
–gradualismo- con l’evolversi dell’operaismo nel riformismo di marca
socialdemocratica, ed in alcuni casi abbiamo visto proprio i suddetti teorici
divenire punte d’avanguardia dello schieramento parlamentare (7). In alcune
sue componenti è riuscito ad offrire spunti di analisi provocatorie, anche se
spesso troppo azzardate e non confermate dai fatti, per potersi smarcare da un
controllo capillare che il vecchio movimento operaio aveva, ma non è riuscito
ad essere cerniera con le correnti del movimento comunista radicale,
impantanandosi su questioni gia dibattute dal movimento rivoluzionario nato
nell’epoca delle rivoluzioni (8).
La
sbilanciamento soggettivista a fatto si che nell’operaismo l’analisi delle
realtà capitalista si risolvesse nel traslare il momento “oggettivo” del
valore, nell’altro “soggettivo” della determinazione di classe.
Non
cogliendo l’analisi di Marx che si muoveva tra due poli complementari in
continuo rapporto dialettico: da un lato il capitale come potenza sociale,
oggettività pura, dall’altro la classe operaia, parte di questo rapporto, ma
anche momento autonomo, soggettivista antagonista. In questo rapporto si può
leggere lo schema che vede nel rapporto crisi-rivoluzione comunista il
raggiungimento della comunità umana.
Non
è tuttavia importante per criticare l’operaismo contrapporre l’oggettività
di marca -seconda internazionalista- (9) ma cogliere la dialetticità del
movimento del capitale:
“La
conoscenza teorica del fatto che il capitalismo dovrà crollare a causa delle
sue contraddizioni, non impegna a sostenere che il vero crollo sarà un processo
automatico, indipendente dagli uomini. Senza gli uomini non esiste nemmeno
l’economia” scriveva Mattick.
Da un punto di vista marxiano non esiste dunque alcun problema “puramente
economico”, poichè la dialettica porta a concepire i processi come totalità:
il crollo reale è dunque concepibile solamente quando si sarà tenuto conto di
tutti fattori del processo storico. Molto probabilmente, aggiunge Mattick, le
masse avranno già fatto la rivoluzione prima che quel crollo del capitalismo
calcolato economicamente attraverso molti processi di astrazione possa trovare
riscontro nella realtà.
Le
lotte di classe, scrive Mattick, dipendono dalla situazione materiale della
classe operaia e per questo motivo avranno sempre necessariamente un carattere
economico. Solo all’inizio di quella fase che si potrebbe chiamare del
collasso, e cioè quando il capitale può continuare ad esistere solo sulla base
dell’immiserimento crescente del proletariato, la lotta economica si
trasformerà in lotta politica e, coscienti o no le masse operaie di questa
situazione, la questione del potere si porrà necessariamente. L’azione
rivoluzionaria della classe operaia non può essere spiegata da motivi diversi
da quelli che nascono dalle necessità materiali e vitali, e queste sono
strettamente legate alla situazione economica della società.
Il
nesso tra i limiti del capitalismo e la rivoluzione operaia, tra sviluppo
oggettivo e intervento oggettivo, e quindi il significato politico della
“analisi economica astratta”, vengono spiegati da Mattick nei termini che
rispecchiano fedelmente la concezione formulata da Grossmann in una lettera a
Mattick del 2 ottobre del 1934 “In quanto marxista dialettico so ovviamente
che entrambi i lati del processo, gli elementi oggettivi e quelli soggettivi si
influenzano reciprocamente. Questi fattori si fondano nella lotta di classe
[...] Ma ai fini dell’analisi devo applicare il procedimento astratto che
consiste nell’isolare i singoli elementi, per mettere in luce le funzioni
essenziali di ogni elemento. Lenin parla spesso della situazione rivoluzionaria
che deve oggettivamente essere data come presupposto dell’intervento
vittorioso attivo del proletariato. La mia teoria del crollo non mira a
escludere questo intervento attivo, ma si propone piuttosto di mostrare in quali
condizioni una tale situazione rivoluzionaria data oggettivamente possa sorgere
e sorga”.
Un
compagno del centro di ricerca per l’azione comunista
NOTE
1)
Questi gruppi nati prevalentemente dalla diaspora trotskista, rifiutavano la
definizione di URSS come stato operaio degenerato data dallo stesso Trotski.
Svilupperanno una loro propria analisi rispetto all’URSS e romperanno, anche
se non tutti, con lo schema leninista del partito, rispetto alla lotta economica
disgiunta da quella politica, daranno vita quello che possiamo definire una
sinistra autonoma antiburocratica. In Italia si avrà un piccolo gruppo che
favorirà questa interpretazione e si collocherà come interlocutore
internazionale di queste esperienze: Unita Proletaria di Cremona, dove militava
all’interno Danilo Montaldi. Per comodità definiamo questi gruppi operaisti
extra-italiani, ma è del tutto arbitraria questa definizione, visto che da un
punto di vista politico erano molto distanti dalla corrente italiana.
2)
Per un ventaglio dettagliato sulle interpretazioni dell’URSS, B.Bongiovanni,
l’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’URSS, Feltrinelli.
Recentemente è uscito sul medesimo argomento: Da Stalin a Gorbacev, classi
sociali e Stato nella Russia sovietica di Giancarlo Tacchi edizioni graphos, un
materiale che completa il testo di Bongiovanni e coglie il dibattito sulla
Russia in tutta la sua portata storica.
3)
E’ il testo più radicale di Socialisme ou Barbarie, è stato tradotto e
stampato per due volte nella rivista Collegamenti Wobbly
4)
Danilo Montaldi influenzato da questo autore e corrente scriveva a proposito
della pubblicazione del testo “L’operaio americano” di Paul
Romano: “l’operaio è innanzitutto un essere che vive nella produzione e
nella fabbrica capitalistica prima di essere l’aderente di un partito, un
militante della rivoluzione o il suddito di un futuro potere socialista; e che
è nella produzione che si forma tanto la sua rivolta contro lo sfruttamento
quanto la sua capacità di costruire un tipo superiore di società[..] per
questo noi invitiamo i compagni, gli operai, i lettori, a scrivere a Battaglia
Comunista confrontando la propria situazione con quella dell’-operaio
americano- vale a dire con l’operaio di tutti i Paesi, con l’operaio per
quello che è là, là dove essi la sentono simile e là dove la vedono diversa ”.
Di diverso avviso rispondeva G.Munis attraverso il FOR, Fomento Obrero
Rivoluzionario, che pur appartenendo in parte alla medesima area e tradizione di
Socialime ou Barbarie negava l’importanza data alla sociologia
ponendo immediatamente il problema della rottura tra capitale e lavoro in
termini immediati e radicali “A sua volta la tendenza socialismo o
Barbarie, ugualmente originata dalla IV Internazionale ammansita, si è lasciata
rimorchiare dalla deliquescente sinistra francese per tutti i problemi e nei
momenti più importanti: guerra di Algeria e problema coloniale, 13 maggio 1958
e potere gaullista, sindacati e lotte operaie attuali, atteggiamento nei
confronti dello stalinismo e del dirigismo in generale ecc. Così sebbene
riconosca nell’economia russa un capitalismo di stato, essa ha contribuito
soltanto a confondere le menti. Rinunciando a lottare contro corrente e
preferendo non dire alla classe operaia niente che essa possa non comprendere,
si è votata spontaneamente al fallimento. Priva di nerbo questa tendenza è
caduta in una versatilità che rasenta la balordia esistenzialista. Giungono a
proposito di questa e delle altre tendenze esistenti negli USA, le parole di
Lenin: Solo qualche penoso intellettuale pensa che agli operai sia sufficiente
parlare della vita della fabbrica seccandoli con ciò che sanno da molto tempo”
5)
Ora nel testo, D.Montaldi, Bisogna sognare, Colibri
6)
E’ impressionante la somiglianza di questo paradigma con l’impostazione di
G.Sorel, rispetto al rifiuto del materialismo e della concezione delle classi
come entità separate adialetticamente
7)
Un discorso a parte meriterebbe sulla determinazioni della prassi e il ruolo
reazionario che hanno tenuto riguardo alla lotta armata, giocando con il fuoco,
e cercando di trarre a proprio favore una situazione che non gli apparteneva,
producendo solamente dissociazione e permettendo un aumento della repressione.
8)
Le epoche delle rivoluzioni dove il proletariato a dimostrato la sua forza a
livello planetario coincidono con la fine della Prima Guerra Mondiale, molti dei
quesiti posti in quella epoca cadono, immeditamente nel presente, senza tuttavia
che debbano essere risolti o affrontati nel medesimo modo. Cosi si esprimeva in
proposito Montaldi “Non vorrei dare l’impressione di cadere anch’io
vittima di quello spirito maligno dell’assimilazione: quando accenno ai
problemi più o meno comuni tra questi gruppi o tendenze anni 30 e i nostri,
[…] Certo, a noi non si sono presentati questi problemi, nella stessa forma in
cui hanno dovuto risolverli, o cercare di risolverli, Trotski, Bordiga, Korsh, e
poi Leonetti, ecc.. ma è da allora che ci si dibatte sui medesimi argomenti. Se
si guardano certe relazioni sul dibattito in corso tra i gruppi comunisti di
sinistra in quegli anni, picchia come un dito nell’occhio la coincidenza con
il dibattito attuale tra “spontaneisti” e sostenitori della teoria del
partito”
9)
La Seconda Internazionale, nelle sue componenti maggioritarie, vedeva lo
sviluppo del capitalismo in modo strettamente postivista-deterministico, negando
nell’evolversi della lotta di classe l’ampliarsi delle contraddizioni, ma
ponendo come paradigma l’affievolirsi dei contrasti di classe e uno sviluppo
naturale del socialismo, in rapporto allo sviluppo delle forze produttive.