L’operaismo tra  mito e lustrini

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La nascita della corrente definita –operaista- può essere fatta risalire intorno alla fine degli anni 50.

Negli anni 50 nell’area occidentale il potere della borghesia industriale sembrava eccezionalmente solido e capace di conquistare consenso attraverso un graduale aumento dei salari e un corrispondente miglioramento delle condizioni di vita della classe proletaria.

Il movimento operaio ufficiale (i partiti e i sindacati di sinistra) viveva allora un processo di adeguamento non solo nei fatti ma anche nell’identità e nella progettualità alle regole della società occidentale che toccava gli stessi partiti stalinisti il cui preteso antagonismo all’occidente, era tutto giocato sulla dimensione dell’eterna attesa delle “condizioni favorevoli” per una rottura rivoluzionaria, di fatto avvalendo una pratica socialdemocratica, in più condita con uno stile autoritario e religioso.

In questo contesto i fatti di Ungheria sconvolsero una buona parte dell’intelighenzia di sinistra, italiana e internazionale.

Panzieri, uno degli autori più rappresentativi di questa corrente militante del PSI, intravedeva una crisi del movimento operaio tradizionale. Per arginare questo processo era opportuno iniziare una ricerca autonoma, che si sganciasse dagli elementi interpretativi tradizionali, in modo da permettere di riscoprire una tradizione di classe autentica nel divenire storico del conflitto tra capitale e lavoro, cercando in questo modo di scavalcare l’inquadramento organizzativo del vecchio movimento operaio schiacciato dal controllo staliniano.

Nel 1959 Panzieri stringerà contatti con elementi di sinistra del PCI che operavano nella FIOM a Torino, cioè Foa, Tronti, Asor Rosa e Della Mea. Iniziava in questo modo una ricerca sul movimento operaio, dal “controllo operaio” alla ricerca dell’oggetto, dall”inchiesta operaia” per una definizione di “composizione di classe” alla definizione di “democrazia diretta”.

Panzieri era consapevole dallo spartiacque che si era aperto nel 1956 con il XX Congresso del PCUS (Destalinizzazione dell’URSS e via pacifica al socialismo) e dei fatti di Ungheria, ma coglieva questa dimensione unicamente in funzione del movimento operaio ufficiale. Dell’esperienza ungherese, non assimilava i dettati di autorganizzazione proletaria che ne derivavano, ma si limitava a constatare come l’URSS fosse definitivamente degenerata.

Questo ritardo non si avrà nelle correnti extra-italiane dell’”operaismo”. Socialisme ou Barbarie per la Francia, Correspondance per gli USA, Solidarity per la GB (1), coglievano nelle giornate ungheresi lo scarto che esisteva tra il movimento operaio e la sua controfigura ufficiale. Vedevano nello scontro tra burocrazia e antiburocrazia (democrazia diretta) il liberarsi di prospettive nuove per il movimento operaio. Focalizzavano la loro analisi sulla di manica che esisteva tra la società burocratica capitalista e i movimenti di lotta antiburocratici. La critica di queste esperienze all’URSS pur non essendo sospetta temporalmente, era alquanto debole, in quanto pur definendo l’URSS un regime a capitalismo di stato si limitavano ad una critica gestionista e di forme, non toccando minimamente quali erano i rapporti di produzione e le relative classi sociali (2). Il modo di produzione capitalistico, sempre più integrato a livello nazionale ed internazionale, veniva analizzato con le categorie della burocratizzazione e appariva come un’immensa macchina la cui conduzione sfugge alla stessa borghesia e che si riduce ad un complesso organico sociale capace di eliminare le classiche crisi di sovrapproduzione con i conseguenti effetti di disoccupazione di massa, tagli dei salari, lotte esplicitamente rivoluzionarie. Il blocco a capitalismo di stato veniva interpretato come la variante più importante della burocratizzazione, che faceva si che il fenomeno fosse un processo unitario. Ritornavano gli echi antiburocratici di Trotski, invertendo gli ordini dei fattori, per Trotski l’URSS in quanto stato operaio degenerato era il più vicino al “socialismo”, per gli operaisti “extra-italiani” l’URSS era il modello specifico che avrebbe rappresentato lo Stato per il capitalismo a livello universale, e le lotte che in questo paese si sviluppavano erano le anticipazioni delle lotte future. Nei fatti il capitalismo di Stato rappresentava un anello debole della catena, che non poteva svilupparsi altrimenti vista la concorrenza-equazione con “il mondo libero”. Nella battaglia ciclopica del capitale, attraverso i monopoli, prendeva la luce un sistema che basava la sua forza sulla produzione primaria, e introducendo un sistema coloniale forzato si garantiva la sua sopravivenza. Le lotte nei paesi dell’est pur essendo importanti, per la percezione dell’esperienza proletaria, rimanevano imbrigliate in uno schema legato ad una arretrata composizione sociale del capitalismo. La stessa forma consiliare che possiamo osservare nei fatti di Ungheria dimostrava come tale forma, senza farne una considerazione assolutista, era legata ad un tipo di organizzazione legata alla grande industria meccanica, prevalentemente presente nei paesi dell’est, e rappresentava un’evoluzione dell’organizzazione del lavoro superata in occidente.

Panzieri e la corrente operaista sul contenuto dei paesi socialisti non scrisse nulla che mettesse in discussione il carattere socialista di quei paesi. Nello scritto del 1957 “Appunti per un esame della situazione del movimento operaio” si evince come l’autore accettasse in toto l’ideologia staliniana del socialismo in un paese solo. Per Panzieri se mai il problema era di umanizzare questi regimi, dando maggiore democrazia, maggiore partecipazione operaia. La sua tesi è che la necessita di difendere lo Stato socialista ha portato ad anticipare la trasformazione dei rapporti di produzione in senso socialista, collettivizzando e industrializzando troppo in fretta l’URSS.

Panzieri non a caso guardava con interesse alla esperienze Yugoslava e Cinese e della Polonia, dove arrivavano suggerimenti di “autonomia e “liberazione”…

La realtà si è dimostrata molto brutale e dissacrante.

La rivista che coagula gli sforzi di Panzieri sarà Quaderni rossi. In questa esperienza verrà chiarito il contenuto delle lotte. Per QR le lotte salariali divenivano lotte per il potere. Alla rivista collaboravano militanti usciti dai partiti di sinistra o che vi erano ancora iscritti. Al primo numero collaborarono S.Garavini, Pugno, Foa e Alasia che però si allontaneranno presto, la rivista, infatti suscita parecchie perpelessita nel movimento operaio ufficiale.

Il punto di partenza della riflessione di Panzieri è la centralità del rapporto di produzione e la critica della pretesa neutralità dello sviluppo tecnico scientifico, contestando l’idea di una razionalità del processo produttivo distinta dalle necessità dell’accumulazione capitalista. “Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo” è un articolo comparso sul n.1 di Quaderni Rossi. Questo uso non è una deviazione da uno sviluppo, per così dire “normale” della crescita capitalistica, ma determina lo sviluppo tecnologico e con esso l’assoggettamento dell’operaio alla macchina stessa, dove questa è la personificazione del dispotismo di fabbrica sull’operaio divenuto ormai appendice della macchina. Non conta più l’abilità dell’operaio nel maneggiare uno strumento parziale, perché la tecnologia incorporata nel sistema capitalistico diventa “abilità” parziale di massa dell’operaio nel servire una macchina parziale che lo incatena.

Il progresso del capitale si presenta come esistenza del capitale e il processo di industrializzazione si impadronisce di strati sempre più avanzati di progresso tecnologico, da cui la necessità di un piano per legare gli operai al sistema di macchine che è la fabbrica.

Allora la tendenza della lotta degli operai va verso forme gestionali, ovvero verso la gestione del potere politico ed economico nell’impresa e da quella dell’intera società.

La lotta investe l’intera società:”praticamente e immediatamente questa linea può esprimersi nella rivendicazione del controllo operaio”.

Queste tesi “gestioniste” trovarono alcuni echi in ambienti del movimento operaio dei primi anni 60, ritenute un ritorno a Marx e al comunismo rivoluzionario, tuttavia erano ben al di sotto della critica comunista del valore, non cogliendo la radicalità dell’analisi marxiana.

Ricordiamo che lontano dai riflettori della storia, già nel 1957 Bordiga aveva preso in esame i Grundrisse per dimostrare come il lavoro collettivo dell’operaio viene succhiato da quel Moloch che è il capitale fisso e che si accrese a spese del lavoro vivo, per arrivare a prospettare non il dominio del lavoro vivo su quello morto (tesi gestionista) dei Quaderni Rossi, sulla materia prima, ma il fatto che lo sviluppo delle macchine e dell’automazione prepara la società che vede il tramonto della misura del tempo di lavoro in valore.

Panzieri in “Plusvalore e pianificazione, appunti di lettura del Capitale” scriveva nel 1964: “C’è stato in effetti nel pensiero marxista dopo Marx, un momento di riconoscimento della svolta verificatosi nel sistema con la comparsa del capitalismo monopolistico e dell’imperialismo interno agli anni 70 (e che oggi ci appare come un periodo di transizione rispetto alla -svolta che, iniziatasi negli anni 30, va tuttora compiendosi). Ma l’analisi e la rappresentazione della fase nuova nascente con quella svolta è stata messa immediatamente in relazione con leggi che essa stessa tendeva a superare; ed è stata quindi interpretata come ultima fase”. E in nota, aggiungeva: “La mitologia dello stadio ultimo del capitalismo è presente con funzioni ideologiche diverse, anzi opposte, sia in Lenin sia in Kautsky: in Lenin per legittimare la rottura del sistema, i punti meno avanzati del suo sviluppo, in Kautsky per sanzionare il rinvio riformistico dell’azione rivoluzionaria alla pienezza dei tempi. Dacchè la rivoluzione nel 17 non riesce a saldarsi con la rivoluzione nei Paesi avanzati, essa ripiega sui contenuti immediatamente realizzabili al livello di sviluppo della Russia: e il mancato chiarimento circa la possibile presenza del rapporto sociale capitalistico nella pianificazione (insufficenza che permane in tutto lo svolgimento del pensiero leniniano) agevolerà in seguito la ripetizione nei rapporti di produzione, sia di fabbrica, sia nella produzione sociale complessiva, di forme capitalistiche, dietro lo schermo ideologico dell’indentificazione del socialismo con la pianificazione e delle possibilità del socialismo in un solo Paese”.

Panzieri attaccava il modo in cui era venuta consolidando, dalla II Internazionale alla III, la concezione ottimistica del processo storico che induceva all’attesa del compiersi automatico della fase suprema del capitalismo; egli intendeva recuperare tutto l’aspetto politico attivo, rivoluzionario, del discorso marxiano, contro il positivismo volgare che riteneva la crisi mortale del sistema un fatto ineludibile, connesso al semplice sviluppo quantitativo delle forze produttive. Nella fattispecie storica, la polemica di Panzieri si rivolgeva contro l’uso strumentale, che veniva fatto all’interno del movimento operaio, del discorso sul carattere oggettivo e necessario delle leggi che governano lo sviluppo capitalistico, uso strumentale che tendeva a mettere in ombra o in secondo piano la contraddizione tra capitale e lavoro e l’urgenza di favorire l’organizzazione del controllo operaio sull’intero processo produttivo. La volontà di fornire una base teorica a questo progetto portava Panzieri a scavare nei testi marxiani di critica dell’economia politica per rintracciarvi le linee di uno sviluppo analitico che andasse nella direzione di una identità senza residui di legge del piano e legge del valore. Lo sviluppo del discorso di Marx dal primo al terzo libro veniva così a coincidere con lo stesso sviluppo storico del capitalismo contemporaneo dalla fase concorrenziale a quella monopolistica. Il piano non era qui inteso come un singolo e particolare progetto di programmazione, quanto nella forma storicamente determinata dello sviluppo. Si trattava dunque, per eliminare ogni residuo naturalistico dalla teoria dello sviluppo, di dimostrare l’avvenuto superamento della dicotomia (ancora presente in Marx, in specie nel primo libro del CAPITALE) tra dispotismo in fabbrica e anarchia nella società civile, di dimostrare che la “dinamica del processo capitalistico è in sostanza dominata dalla legge della concentrazione” e andando oltre Marx, che la fase più alta dello sviluppo e insieme dell’autonomizzazione del capitale non è quella del capitale finanziario, ma quella del capitalismo pianificato. Con la pianificazione generalizzata, secondo le conclusioni di Panzieri, scompare ogni traccia dell’origine e della radice del processo capitalistico, perchè viene radicalmente superato il modo di produzione incosciente, anarchico. Giunto a questo livello, il processo storico di coesione crescente del sistema si presenta nella sua interezza completamente autonomo rispetto agli agenti della produzione, caratterizzato sul piano sociale complessivo dalla stessa razionalità dispotica vigente nella fabbrica moderna, che si avvale delle possibilità smisurate conferitele dall’uso capitalistico della scienza e delle tecnica, si veda in proposito lo scritto di Panzieri: “Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo”. A questo punto, Panzieri saltando a piè pari un nodo fondamentale del discorso di Marx (presente soprattutto nei Grundrisse), del quale egli aveva sottolineato la complessità, arriva alla conclusione che le contraddizioni immanenti hanno perduto il loro carattere naturalistico, proprio della fase concorrenziale: le contraddizioni imminenti non sono nei movimenti dei capitali, non sono interne al capitale: solo limite allo sviluppo del capitale non è il capitale stesso, ma la resistenza della classe operaia.

Questa conclusione di Panzieri opera una revisione totale dell’enunciato marxiano per cui “il vero ostacolo della produzione capitalistica, è il capitale stesso” e al tempo stesso nega i fondamenti metodici dell’impostazione dialettica della critica dell’economia politica. La dialettica del modo di esposizione prescelto da Marx  consiste nella comprensione del movimento delle categorie come movimento autocontradditorio del capitale, come autocritica del sistema nell’ambito della stessa oggetualità categoriale, dallo stesso punto di vista borghese. Autocritica che rimanda al carattere storico, dunque caduco, del modo di produzione basato sullo scambio delle merci. Per Marx “esiste anzitutto un limite, non inerente alla produzione in generale ma alla produzione basata sul capitale” “Grundrisse”. L’orizzonte di questo limite, che è rappresentato dal capitale stesso, il movimento autocontradditorio del capitale è esposto da Marx nella dialettica di limite e ostacolo: “Anzitutto: il capitale costringe gli operai a superare il limite del lavoro necessario per effettuare un plusvalore. Solo così esso si valorizza e crea plusvalore. Ma d’altra parte esso pone il lavoro necessario solo in quanto e nella misura in cui è pluslavoro e questo a sua volta è realizzabile come plusvalore. Esso pone dunque il pluslavoro come condizione del lavoro necessario, e il plusvalore come limite del lavoro oggetualizzato, dal valore in generale. Finchè non può porre quest’ulitmo, esso non pone nemmeno il primo; nè può farlo sulla base di quello. Esso dunque limita -con un ostacolo artificiale- il lavoro e la creazione di valore, e lo fa per la stessa ragione e nella misura in cui esso crea pluslavoro e plusvalore. Esso dunque pone, per sua natura, un ostacolo al lavoro e alla creazione di valore, il quale contraddice la sua tendenza ad espanderli oltre ogni limite. Ma proprio perchè da una parte esso pone uno specifico ostacolo, e dall’altra tende a superare ogni ostacolo, esso è la contraddizione vivente”. “Perchè il valore costituisce la base del capitale”, prosegue Marx “e questo esiste necessariamente solo in quanto attua uno scambio con un equivalente, esso deve necessariamente procedere ad un movimento do repulsione da sè stesso. Un Capitale universale che non abbia di fronte a sè altri capitali con cui scambiare -e dell’attuale punto di vista esso non ha di fronte a sè altro che il lavoro salariato o se stesso- è perciò un assurdo. La repulsione reciproca dei capitali è già implicita nel capitale in quanto valore di scambio realizzato”.

E’ evidente che il profondo significato dialettico (non certo riducibile ad allegoria o metafora) di questa esposizione verrebbe a cadere se il limite allo sviluppo del capitale non fosse costituito dal capitale stesso. Caduta la dialettica limite-ostacolo, cioè la possibilità per il capitale di autocontraddirsi, verrebbe meno anche il movimento del capitale, e quindi la stessa possibilità teorica di una critica dell’economia politica.

Per i Quaderni Rossi la dipendenza del lavoratore della macchina si diffonde in tutta la società ed è qui che Panzieri recupera il contributo della sociologia come ricognizione della estraneità soggettiva dell’operaio al lavoro di fabbrica. Ecco allora che troviamo lo strumento di “inchiesta operaia” il cui scopo è la conoscenza del tipo di consapevolezza che gli operai hanno di se stessi, ovvero dei propri atteggiamenti politici.

La consapevolezza è il tipo di giudizio degli operai su diversi fatti che li riguardano, mentre il comportamento pratico interessa i militanti di QR per scoprire che si traduce in pratica un certo atteggiamento politico.   Agli operai verranno dunque formulate diverse domande, in maniera che essi riflettano  e diano giù un giudizio. Vi era tutto l’idealismo la dove si dice che si potrebbe studiare il rapporto esistente tra conoscenza, giudizio e comportamento e vedere se, in genere, ad un tipo di conoscenza corrisponde un certo tipo di giudizio e, da questo, un certo tipo di comportamento. Idealismo in quanto la classe operaia, in genere, giudica e capisce dopo aver agito: in quanto classe non formula un pensiero a cui adeguare un comportamento ma fa esattamente il contrario.

Quaderni Rossi dedicò pagine e pagine all’analisi sociologica della composizione operaia. Nel n.4 si definivano quattro livelli di identificazione della classe operaia:

 Dall’inchiesta si scopre che l’operaio ha migliorato la sua posizione economica tanto da farla avvicinare a quella degli impiegati, ma la sua mentalità è diversa ad esempio nei confronti del sindacato, rispetto alle lotte.

L’articolo prosegue analizzando le figure professionali dell’operaio metalmeccanico, quello di mestiere, quello addetto al montaggio e l’addetto alle macchine automatiche.

La classe operaia viene così concepita come un insieme di unità senza relazioni tra di loro, come mondi non comunicanti, la cui importanza risiede nel rapporto con la macchina stessa, intesa come valore d’uso e non come capitale fisso che succhia plusvalore all’operaio collettivo. Si arriva quindi all’apologia del fabbrichiamo, dell’operaio in senso stretto, cioè dell’operaio manuale, possibilmente sindacalizzato, ad un certo punto fatto coincidere unicamente con quello metalmeccanico

La dimensione dell’inchiesta operaia sottostimava le implicazioni delle altre correnti operaiste dell’epoca, ricuperando solamente la dimensione sociologica del marxismo, non riuscendo insomma a individuare nel proletariato un soggetto storico/sociale in formazione.

Nell’”L’esperienza proletaria” di Lefort (3), si assume il carattere della classe come fusione di tutti gli strati sociali che cadono nella condizione salariata e che vi portano cultura pratica, comportamenti, identità. La classe, quindi, è già soggetto della storia e solo la divisione allienata del lavoro, operante, all’interno dello stesso movimento operaio nella forma della separazione tra teoria e prassi, fra classe e organizzazione, fra lotta immediata e critica del capitalismo, tende a far sparire dalla riflessione e dalla conoscenza questo dato. Funzione quindi di una forza che operi all’emancipazione del proletariato è cogliere nell’esperienza proletaria stessa gli embrioni di autocostruzione soggettiva in forza d’opposizione alla sfruttamento.

A condizione di non fossilizzarsi nelle questioni di organizzazione e di gestione del lavoro, l’osservazione della vita di fabbrica permette di mettere in luce il senso comunista della lotta dei proletari (4). La testimonianza data con il testo “L’operaio americano” (5) pubblicata nei primi numeri della rivista di SouB andava in questa direzione. “L’esperienza proletaria” di Lefort senza dubbio il testo più profondo di Socialisme ou Barbarie cercava una mediazione tra la miseria della condizione operaia e la sua rivolta aperta contro il capitale. Era, al suo interno che il proletariato trova gli elementi della sua rivolta e il contenuto della rivoluzione, non in un’organizzazione posta come preliminare, e che gli apporterebbe la coscienza o gli offrirebbe una base di raggruppamento. Lefort vedeva il meccanismo rivoluzionario nei proletari stessi, ma incentrandosi nella loro organizzazione più che nella loro natura contraddittoria (il proletariato come elemento di negazione-affermazione di capitale). Così finiva col ridurre il contenuto del socialismo alla gestione operaia.

Per Quaderni Rossi le lotte alla FIAT davano l’indicazione per il “potere operaio” in fabbrica e indicavano nella FIOM locale l’organizzazione atta a raccogliere il potenziale della lotta.

Ma questo veniva concepito come potere contrattuale e gestionale all’interno del rapporto capitalista e al tempo stesso come potere incompatibile e alternativo alla società esistente. Ma QR non riusciva a capire che anche se il potere operaio appare come incompatibile con il dominio di fabbrica, esso è comunque e sempre all’interno del modo di produzione capitalistico che vede il suo centro di potere nello Stato e non nella direzione della fabbrica, e se vogliamo parlare più correttamente nei rapporti sociali capitalistici.

Il gestionismo di QR si manifesta in tutta la sua ampiezza nell’indicare la fabbrica come luogo fisico, e mai l’impresa come entità economica. Tale distinzione è importante in quanto il comunismo è l’abolizione del lavoro salariato e dello scambio e vedrà necessariamente la fine dell’impresa.

Per QR nei primi anni 60, il problema è l’opposizione operaia alla pianificazione del capitalismo italiano che aveva cooptato il PSI nel governo e il PCI  era restio ad opporvisi. La risposta secondo QR era stata data dalla classe operaia, con la richiesta del potere operaio in fabbrica, chiedendo implicitamente la gestione operaia che eliminerebbe i capitalisti e gli sprechi. Questa era l’utopia di QR, il capitalismo senza capitalisti. Il capitalismo gestito dai bravi operai che si autosfruttano. D’altra parte gia Marx aveva detto che il capitalismo tende ad eliminare il capitalista come persona. QR non concepiva la fine del lavoro salariato, bensì una gestione diretta delle produzione da parte operaia.

Come presso i compagni francesi il problema veniva ridotto al problema di chi produce, di come ci si organizza, non della produzione in se. Questo “ordinovismo” di ritorno, colpiva tanto gli italiani che altri gruppi, incapaci di andare al di la della gestione del presente. Lo stacco storico con le rivoluzioni passate era stato troppo profondo per concepire il processo rivoluzionario come espressione dei rapporti sociali comunisti, che soppiantano, innestandosi in quelli vecchi, i modelli di produzione. Se nelle correnti extre-italiane vi fu una parziale capacità di individuare nelle lotte, la forza trasformativa del presente, cioè individuando qui e oggi le forme di cooperazione sociale che alludono a un superamento del modo di produzione capitalista, queste sono rimaste allo stadio delle forme e non al contenuto del comunismo. La stessa diversità di vedute rispetto alle organizzazioni ufficiali vedeva le correnti extra-italiane più attente a cogliere i fenomeni di autorganizzazione del proletariato antitetiche al presente, rispetto alla versione di QR dove si dava per implicito l’utilizzo delle vecchie formazioni. Un elemento comune a tutto questo arco politico era il quasi disinteresse per il dibattito sulla crisi. Nati in un periodo di boom economico, la percezione della crescente proletarizzazione sociale, e crisi economica, veniva relegata ad una errata concezione marxiana dello sviluppo storico del sistema di produzione capitalista.

Rimane comunque un denominatore comune, l’impasse oggettivo che un pugno di militanti si trovo a vivere nei freddi anni 50-60 schiacciati da uno sviluppo del capitale, da una divisione monopolistica del pianeta, e con gli strali della controrivoluzione ancora presenti. Questa rincorsa a individuare un soggetto, una propria autonomia del proletariato, sconfinando inevitabilmente dal campo delle critica dell’economia politica alla sociologia, era la dimostrazione che il movimento operaio era fermo, incapace di esprimere a livello sociale una sua forza propulsiva rivoluzionaria anticapitalista. Questa separazione nettissima tra il progetto rivoluzionario e la materialità dello scontro di classe, sarà il più grosso freno allo sviluppo di questa tradizione politica.

2

Il secondo grande momento dell’operaismo nostrano è stato con il passaggio da QR a Classe Operaia. Classe Operaia nasce come rivista del gruppo di Roma di QR nel 1964. Già in alcuni articoli di Tronti in QR era emersa una differenza di fondo rispetto a Panzieri. Mentre per quest’ultimo è lo sviluppo che determina il livello della lotta operaia, per Tronti è il livello di quest’ultima a determinare lo sviluppo capitalista. Inoltre la mancata definizione dei partiti detti operai porta QR ad una impasse da sui si forma una fronda che darà vita a Classe Operaia.

La firma del contratto aziendale alla FIAT, con relativa esclusione della CGIL porta ai famosi fatti di Piazza Statuto a Torino con l’assalto della sede della UIL. Il gruppo di Panzieri ha un atteggiamento più cauto negli obiettivi e nei metodi di lotta per arrivare ad una ricomposizione della classe operaia, mentre il gruppo di Tronti ritiene che sia possibile forzare la situazione creando strumenti organizzativi per l’intervento diretto in fabbrica, cioè una nuova organizzazione operaia. Non si tratta ancora di giudicare il PCI morto per la lotta di classe ma di costruire una organizzazione che in maniera autonoma si ponga come stimolo diretto al PCI e alla sinistra tradizionale. Nasce così la nuova rivista che porta come sottotitolo “giornale politico mensile degli operai in lotta”. Nel primo numero c’è uno dei più famosi articoli di Tronti, “Lenin in Inghilterra”. Per Tronti non è vero che prima c’è lo sviluppo capitalista e poi le lotte operaie, il problema va rovesciato: in principio è la lotta di classe (6), lo sviluppo capitalistico è subordinato ad essa e da essa determinato.

Per Tronti quindi non esiste caduta tendenziale del saggio di profitto e la sovrapproduzione. In principio era la lotta, ecco il suo motto. Tra i due poli del rapporto di produzione capitalistico, Tronti riesce a vederne solo uno: il proletariato, anzi la classe operaia di fabbrica. Nello stesso articolo Tronti (siamo nel 1964) scrive che gli operai si trovano socialmente al di là delle vecchie organizzazioni e al di qua di una nuova, quindi sono senza una organizzazione politica, riformista o rivoluzionaria. Per Tronti il PCI non è del tutto un partito borghese, ma un partito operaio in via di degenerazione, anche se il centrosinistra potrebbe costringerlo ad opporsi al sistema. Esiste un riformismo del PCI e un riformismo capitalista, la classe operaia deve utilizzare il primo contro il secondo. Quindi urge, da parte operaia, l’appoggio strategico allo sviluppo generale del capitale e l’opposizione tattica ai modi particolari di questo sviluppo. Il soggettivismo trontiano si vede anche nell’articolo “Vecchia tattica per una nuova strategia”, dove si legge che la crisi capitalista del 1964 è dovuta ad una crescita dei salari più alta di quella dei profitti, crisi provocata dalle lotte operaie. L’esatto contrario di quello che scriveva Marx: “una rivoluzione non è possibile se non in seguito ad una nuova crisi”.

Per Tronti negli anni 50 la classe operaia riscopre la lotta economica, la impone al sindacato, ed è questo tipo di lotta in grado di attaccare il potere capitalista spingendo il capitale a svilupparsi. Dentro questo tipo di sviluppo c’è spazio per la rivendicazione di potere operaio. Secondo Tronti la lotta economica diventa lotta politica non per trascendenza, ma perché proprio in quanto economica mette in crisi i padroni.

Scrive infatti: “l’uso operaio della lotta sindacale ha superato e battuto, in questi anni l’uso capitalistico del sindacato” e ancora “la legge di sviluppo: quanto più cresce il livello politico della classe operaia e l’unificazione del capitale tanto più il sindacato tende a separarsi dall’interesse immediatamente operaio per integrarsi completamente…nell’interesse capitalistico”. Per Tronti non si tratta di arrestare questa tendenza ma di utilizzarla, con la richiesta di aumenti salariali, cosa che incepperebbe il meccanismo di accumulazione capitalistico con un risultato immediatamente politico, con un rapporto di forza favorevole alla classe operaia in fabbrica. L’operaismo vede nella fabbrica il centro dell’universo capitalista. La fabbrica da conquistare, non lo Stato da abbattere!.

Non è un caso che l’idealismo di Tronti porterà quest’ultimo a mitizzare l’articolo di Gramsci “La rivoluzione contro il Capitale”, articolo di chiara ispirazione soreliana, che misconosceva il rapporto tra crisi mondiale e rivoluzione, per sbilanciarsi completamente nella capacità organizzative del partito bolscevico.

Volendo riassumere lo schema dell’operaismo trontiano, si può ridurlo alla seguente formula: nella dialettica operai/capitale è sempre quest’ultimo a correre dietro alla combattività dei primi. In ogni momento i rapporti di forza si definiscono a partire dalla connessione esistente tra la figura materiale di classe operaia e la corrispondente forma capitalistica di comando.

Vi è quindi una successione di tipologie operaie che si scalzano storicamente. Il passaggio delle catene di montaggio e l’organizzazione scientifica del lavoro, viene quindi letto come distruzione delle figura del lavoratore specializzato e della sua forza contrattuale. Per la sua collocazione all’interno del processo produttivo il nuovo operaio definito “operaio massa” si trova a differenza dell’operaio professionale, che vive una dimensione più umana del lavoro, in una situazione di separazione totale e di antagonismo rispetto al modo di produzione capitalista. Nella catena di montaggio si consolida il “rifiuto del lavoro”, fatto che ha però caratterizzato le lotte operaie nel corso di tutto il secolo XIX.

Ogni fase della lotta, per questo tipo di analisi, si trova in diretto rapporto con un determinato livello di composizione della classe operaia. Vi è quindi una continua ricomposizione-scomposizione che accompagna l’evolversi della lotta di classe tra capitalismo e proletariato.

Nella postilla al libro “Operai e Capitale” Tronti celebra le lotte operaie del New Del come il massimo della radicalità, definendole le vere cause della rivoluzione keneysiana. Il capitale deve cedere di fronte alla marea montante. Gli operai strappano reddito al di fuori del rapporto immediato di sfruttamento. Nascono il welfare, la mutua, il sussidio di disoccupazione, le vacanze pagate, nasce il cosiddetto salario sociale.

Ma la lezione storica crediamo sia completamente diversa. Questo ciclo di lotte infatti, non sfuggira mai al controllo globale dello Stato. Il movimento degli scioperi si scatena soprattutto dopo il 1933 ed è il prezzo calcolato che il capitale paga per realizzare la riorganizzazione di se stesso.

Si arrivava quindi a determinare una valutazione sociologica della composizione di classe per poi trarne dei giudizi politici. Viene completamente ignorato quindi il patrimonio del movimento comunista, che sta nell’aver posto con chiarezza il problema dell’autonomia del proletariato rispetto non solo al capitale, ma anche rispetto a tutte le istituzioni che, come partito e sindacato, pretendono di rappresentare. Non è un caso che lo stesso Tronti, abbia finito per giustificare il suo rientro nel campo della contro-rivoluzione (il PCI) definendo l’utilizzo operaio delle istituzioni.

3

Dopo Classe Operaia si apre per l’operaismo una serie infinita di gruppi, partitini e riviste, stimolate anche dalla ripresa dirompente della lotta operaia in Italia verso la fine degli anni 60. Il più importante e originale involucro dell’operaismo è in quell’epoca senza dubbio Potere Operaio, dal cui scioglimento nasceranno i gruppi-riviste che egemonizzeranno il cosiddetto movimento “politico” autonomo.

PO si dissolve nel 1973, ma il lavoro teorico continua. Con il ciclo di lotte della fine anni 60 l’operaio massa ha messo in crisi lo Stato-piano. E’ necessaria una nuova ricomposizione. Il centro delle lotte è la fabbrica: terziarizzazione della produzione, automazione del lavoro e rivoluzione cibernetica. La crisi dello Stato garantista della mutua e della cassa integrazione sbocca in una nuova ristrutturazione che modifica profondamente la composizione della classe e crea un nuovo soggetto: l’operaio sociale.

L’insubordionazione operaia, prima confinata alla fabbrica, si estende ora ad altri soggetti. Se nella nuova situazione si fa capillare il comando del capitale, si generalizzano nel territorio –fabbrica diffusa- i comportamenti di rifiuto operaio. Questi tendono a trasformare la valorizzazione capitalista in autovalorizzazione operaia. Uno dei teorici che daranno vita a questa analisi sarà Toni Negri.

Secondo Negri “le categorie marxiane contengono una permanente ed insopprimibile dualità, dualità nella forma di antagonismo e l’antagonismo come rovesciamento. Usare le categorie marxiana è quindi spingerle alla necessità del rovesciamento”. L’antagonismo, oltre ad essere il motore dello sviluppo del sistema, è una categoria centrale della conoscenza dello stesso. Riconoscere l’antagonismo e portarlo fino al rovesciamento, questo è il cammino proposto. Contro la valorizzazione capitalistica esisterebbe quindi una autovalorizzazione operaia. Mentre la prima è incentrata sul movimento del valore di scambio, la seconda si fonda sulla liberazione dei bisogni operai, quindi sul valore d’uso. A questo punto il comunismo diviene come il percorso di autovalorizzazione operaia e proletaria, cioè come rovesciamento pratico delle categorie capitaliste.

Negri credeva che il valore d’uso sia “null’altro che la radicalità dell’opposizione operaia, la potenzialità soggettiva ed astratta di tutta la ricchezza, la sorgente di ogni umana sensibilità”. Crede, quindi che valore d’uso e valore di scambio si combattano come poli antagonisti delle due classi in lotta. Per Marx questo dualismo è privo di senso. Il valore d’uso costituisce solamente la base materiale del valore di scambio, la condizione della sua circolazione ed accumulazione. Tra valore d’uso e valore di scambio non esiste antagonismo bensì contraddizione. Questo vuol dire che la tendenza del capitale alla valorizzazione selvaggia entra in contraddizione con le possibilità reali di questa. Valori di scambio che non si convertono in qualche luogo della circolazione in valori d’uso per qualcuno cessano di essere valore tout court.

Quanto ai bisogni operai, l’unica cosa da dire è che il capitale li suscita e quasi mai può soddisfarli. E’ ovvio che qui si apre una possibilità di lotta. Altra storia è costruire sui bisogni e sul valore d’uso un etica di liberazione. Il valore d’uso viene trasformato in categoria umanistica che legittima il progetto sovversivo dell’operaio sociale, appunto la sua autovalorizzazione. In alternativa alla definizione marxiana di comunismo come distruzione del valore e delle sue leggi, Negri ne propone un assurdo rovesciamento.

In quali comportamenti viene identificata questa autovalorizzazione? Fondamentalmente si dà ovunque il proletariato strappa reddito al di fuori del rapporto classico di sfruttamento, cioè il lavoro salariato. Così tutto è autovalorizzazione: dai comportamenti extralegali dei giovani proletari, alla spesa pubblica, all’economia sommersa.

Non è un caso che gran parte dell’area cosiddetta “Autonoma” sia uscita con le ossa rotte, nelle sue componenti ribelli, nel dibattito sul terzo settore, incapace partendo dal comune maestro di offrire una seria critica all’evoluzione riformista del medesimo movimento.

Da questa presupposto politico di autovalorizzazione operaia si innesto un altro paradigma teorico ossia la cosiddetta teoria dell’”esodo” e delle relativa fine del lavoro innestandosi nell’analisi del ruolo crescente del lavoro mentale, della produzione immateriale. Dopo il nesso sviluppo capitalista-lotte operaie (che manteneva al centor la questione del lavoro salariato), dopo l’autovalorizzazione operaia (il sorpassamento del piano salariale), si passava all’arricchitevi operai (facciamo salario e nuovi salarizzati al nostro comando!)

Si tratta di un modello che si rifà ad alcuni spunti presenti nell’opera di Marx, agli accenni al general intellect.

Si riassume tutto a questo: lo sviluppo stesso del capitalismo industriale, in mancanza di transizione al comunismo, ha superato, in forma sua propria lo stadio della divisione sociale del lavoro che caratterizzava la grande industria.

In questo contesto, l’oggetto del conflitto sociale si smaterializza, si tratta di disalienare nella lotta la comunicazione produttiva, la produzione immateriale.

Vi è quindi l’ultima virata dell’operaismo nella nuova indicazione di intervento nelle tipologie di lavoro “alternative” e “moderne”, dove la separazione capitalista tra lavoro manuale e lavoro intellettuale finisce, dove vi è la ripresa e riconquista del lavoro vivo da parte “operaia”. La vittoria “operaia” in epoca capitalista, del controllo del valore d’uso del lavoro e del suo relativo valore di scambio, liberato dalle leggi mercantili. Una nuova NEP, la fase dove il partito bolscevico diresse e implemento il sistema di produzione capitalista in Russia.

Una simile analisi si presta a quattro sostanziali critiche:

-Non esiste ancora una evidente effettiva capacità del computer di incorporare l’intelligenza umana

-Il dedurre un soggetto sociale come risposta speculare ad una trasformazione produttiva, dimentica, il carattere storico/sociale del rapporto che si instaura nel lavoro salariato. Ossia il suo non essere semplicemente adeguamento alla struttura tecnica che il proletariato si trova di fronte e l’essere, invece, un luogo denso di relazioni, interazioni, conflitti che dotano il lavoro stesso di senso e ne determinano in gran parte la trasformazione.

-L’emancipazione dei lavoratori e dei proletari in genere non è un problema di un ipotetico soggetto sociale centrale nell’accumulazione (ieri era l’operaio massa oggi il lavoratore mentale) e non è pensabile e praticabile che come ridefinizione del senso e dello svolgersi della vita sociale ad opera dell’intera classe nel suo modificare anche le sue interne relazioni.

-Ci si dimentica delle leggi del sistema di produzione e la sua relativa capacità espansiva e includente. Il cosiddetto lavoro liberato nasconde moderne forme di controllo e servitù. Le recenti battaglie sui call center, modellati sull’organizzazione industriale, e le forme storiche capitaliste monopolistiche pone fine al mito neo-produttivista post moderno.

Rimane a margine di queste critiche un'altra valutazione sostanzialmente quantistica, la produzione di segni e linguaggi potrebbe essere tuttora una porzione minoritaria nell’universo della produzione di merci e che la maggior parte del lavoro immateriale potrebbe essere tutt’ora rivolta  ad assicurare le condizioni della realizzazione del plusvalore incorporato nelle merci-oggetto.

4

In conclusione possiamo affermare che l’operaismo riusci ad imporsi in Italia, su alcune questioni, come il ricostruire la teoria rivoluzionaria partendo dalla realtà materiale dei nuovi comportamenti proletari sovversivi occidentali, rompendo con la dietrologia terzomondista dilagante in quel periodo, svecchiando sicuramente una prassi mutata dalla tradizione staliniana Ma su troppi punti l’incapacità di rompere e di assumere una tenuta rivoluzionaria ha fatto naufragare questa esperienza in un cortocircuito interno. I problemi legati al partito, al ruolo della lotta sindacale, dello Stato, del contenuto del comunismo non sono stati analizzati, l’operaismo innestatosi prevalentemente all’interno del vecchio movimento operaio ha adeguato alcuni spunti ad una nuova situazione sociale. L’essersi prodotto in una fase dove il proletariato non ha manifestato la sua forza radicale, ha coinciso anche con un determinato –gradualismo- con l’evolversi dell’operaismo nel riformismo di marca socialdemocratica, ed in alcuni casi abbiamo visto proprio i suddetti teorici divenire punte d’avanguardia dello schieramento parlamentare (7). In alcune sue componenti è riuscito ad offrire spunti di analisi provocatorie, anche se spesso troppo azzardate e non confermate dai fatti, per potersi smarcare da un controllo capillare che il vecchio movimento operaio aveva, ma non è riuscito ad essere cerniera con le correnti del movimento comunista radicale, impantanandosi su questioni gia dibattute dal movimento rivoluzionario nato nell’epoca delle rivoluzioni (8).

La sbilanciamento soggettivista a fatto si che nell’operaismo l’analisi delle realtà capitalista si risolvesse nel traslare il momento “oggettivo” del valore, nell’altro “soggettivo” della determinazione di classe.

Non cogliendo l’analisi di Marx che si muoveva tra due poli complementari in continuo rapporto dialettico: da un lato il capitale come potenza sociale, oggettività pura, dall’altro la classe operaia, parte di questo rapporto, ma anche momento autonomo, soggettivista antagonista. In questo rapporto si può leggere lo schema che vede nel rapporto crisi-rivoluzione comunista il raggiungimento della comunità umana.

Non è tuttavia importante per criticare l’operaismo contrapporre l’oggettività di marca -seconda internazionalista- (9) ma cogliere la dialetticità del movimento del capitale:

La conoscenza teorica del fatto che il capitalismo dovrà crollare a causa delle sue contraddizioni, non impegna a sostenere che il vero crollo sarà un processo automatico, indipendente dagli uomini. Senza gli uomini non esiste nemmeno l’economia” scriveva  Mattick. Da un punto di vista marxiano non esiste dunque alcun problema “puramente economico”, poichè la dialettica porta a concepire i processi come totalità: il crollo reale è dunque concepibile solamente quando si sarà tenuto conto di tutti fattori del processo storico. Molto probabilmente, aggiunge Mattick, le masse avranno già fatto la rivoluzione prima che quel crollo del capitalismo calcolato economicamente attraverso molti processi di astrazione possa trovare riscontro nella realtà.

Le lotte di classe, scrive Mattick, dipendono dalla situazione materiale della classe operaia e per questo motivo avranno sempre necessariamente un carattere economico. Solo all’inizio di quella fase che si potrebbe chiamare del collasso, e cioè quando il capitale può continuare ad esistere solo sulla base dell’immiserimento crescente del proletariato, la lotta economica si trasformerà in lotta politica e, coscienti o no le masse operaie di questa situazione, la questione del potere si porrà necessariamente. L’azione rivoluzionaria della classe operaia non può essere spiegata da motivi diversi da quelli che nascono dalle necessità materiali e vitali, e queste sono strettamente legate alla situazione economica della società.

Il nesso tra i limiti del capitalismo e la rivoluzione operaia, tra sviluppo oggettivo e intervento oggettivo, e quindi il significato politico della “analisi economica astratta”, vengono spiegati da Mattick nei termini che rispecchiano fedelmente la concezione formulata da Grossmann in una lettera a Mattick del 2 ottobre del 1934 “In quanto marxista dialettico so ovviamente che entrambi i lati del processo, gli elementi oggettivi e quelli soggettivi si influenzano reciprocamente. Questi fattori si fondano nella lotta di classe [...] Ma ai fini dell’analisi devo applicare il procedimento astratto che consiste nell’isolare i singoli elementi, per mettere in luce le funzioni essenziali di ogni elemento. Lenin parla spesso della situazione rivoluzionaria che deve oggettivamente essere data come presupposto dell’intervento vittorioso attivo del proletariato. La mia teoria del crollo non mira a escludere questo intervento attivo, ma si propone piuttosto di mostrare in quali condizioni una tale situazione rivoluzionaria data oggettivamente possa sorgere e sorga”.

Un compagno del centro di ricerca per l’azione comunista

NOTE

1) Questi gruppi nati prevalentemente dalla diaspora trotskista, rifiutavano la definizione di URSS come stato operaio degenerato data dallo stesso Trotski. Svilupperanno una loro propria analisi rispetto all’URSS e romperanno, anche se non tutti, con lo schema leninista del partito, rispetto alla lotta economica disgiunta da quella politica, daranno vita quello che possiamo definire una sinistra autonoma antiburocratica. In Italia si avrà un piccolo gruppo che favorirà questa interpretazione e si collocherà come interlocutore internazionale di queste esperienze: Unita Proletaria di Cremona, dove militava all’interno Danilo Montaldi. Per comodità definiamo questi gruppi operaisti extra-italiani, ma è del tutto arbitraria questa definizione, visto che da un punto di vista politico erano molto distanti dalla corrente italiana.

2) Per un ventaglio dettagliato sulle interpretazioni dell’URSS, B.Bongiovanni, l’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’URSS, Feltrinelli. Recentemente è uscito sul medesimo argomento: Da Stalin a Gorbacev, classi sociali e Stato nella Russia sovietica di Giancarlo Tacchi edizioni graphos, un materiale che completa il testo di Bongiovanni e coglie il dibattito sulla Russia in tutta la sua portata storica. 

3) E’ il testo più radicale di Socialisme ou Barbarie, è stato tradotto e stampato per due volte nella rivista Collegamenti Wobbly

4) Danilo Montaldi influenzato da questo autore e corrente scriveva a proposito della pubblicazione del testo “L’operaio americano” di Paul Romano: “l’operaio è innanzitutto un essere che vive nella produzione e nella fabbrica capitalistica prima di essere l’aderente di un partito, un militante della rivoluzione o il suddito di un futuro potere socialista; e che è nella produzione che si forma tanto la sua rivolta contro lo sfruttamento quanto la sua capacità di costruire un tipo superiore di società[..] per questo noi invitiamo i compagni, gli operai, i lettori, a scrivere a Battaglia Comunista confrontando la propria situazione con quella dell’-operaio americano- vale a dire con l’operaio di tutti i Paesi, con l’operaio per quello che è là, là dove essi la sentono simile e là dove la vedono diversa ”. Di diverso avviso rispondeva G.Munis attraverso il FOR, Fomento Obrero Rivoluzionario, che pur appartenendo in parte alla medesima area e tradizione di Socialime ou Barbarie negava l’importanza data alla sociologia  ponendo immediatamente il problema della rottura tra capitale e lavoro in termini immediati e radicali “A sua volta la tendenza socialismo o Barbarie, ugualmente originata dalla IV Internazionale ammansita, si è lasciata rimorchiare dalla deliquescente sinistra francese per tutti i problemi e nei momenti più importanti: guerra di Algeria e problema coloniale, 13 maggio 1958 e potere gaullista, sindacati e lotte operaie attuali, atteggiamento nei confronti dello stalinismo e del dirigismo in generale ecc. Così sebbene riconosca nell’economia russa un capitalismo di stato, essa ha contribuito soltanto a confondere le menti. Rinunciando a lottare contro corrente e preferendo non dire alla classe operaia niente che essa possa non comprendere, si è votata spontaneamente al fallimento. Priva di nerbo questa tendenza è caduta in una versatilità che rasenta la balordia esistenzialista. Giungono a proposito di questa e delle altre tendenze esistenti negli USA, le parole di Lenin: Solo qualche penoso intellettuale pensa che agli operai sia sufficiente parlare della vita della fabbrica seccandoli con ciò che sanno da molto tempo

5) Ora nel testo, D.Montaldi, Bisogna sognare, Colibri

6) E’ impressionante la somiglianza di questo paradigma con l’impostazione di G.Sorel, rispetto al rifiuto del materialismo e della concezione delle classi come entità separate adialetticamente

7) Un discorso a parte meriterebbe sulla determinazioni della prassi e il ruolo reazionario che hanno tenuto riguardo alla lotta armata, giocando con il fuoco, e cercando di trarre a proprio favore una situazione che non gli apparteneva, producendo solamente dissociazione e permettendo un aumento della repressione.

8) Le epoche delle rivoluzioni dove il proletariato a dimostrato la sua forza a livello planetario coincidono con la fine della Prima Guerra Mondiale, molti dei quesiti posti in quella epoca cadono, immeditamente nel presente, senza tuttavia che debbano essere risolti o affrontati nel medesimo modo. Cosi si esprimeva in proposito Montaldi “Non vorrei dare l’impressione di cadere anch’io vittima di quello spirito maligno dell’assimilazione: quando accenno ai problemi più o meno comuni tra questi gruppi o tendenze anni 30 e i nostri, […] Certo, a noi non si sono presentati questi problemi, nella stessa forma in cui hanno dovuto risolverli, o cercare di risolverli, Trotski, Bordiga, Korsh, e poi Leonetti, ecc.. ma è da allora che ci si dibatte sui medesimi argomenti. Se si guardano certe relazioni sul dibattito in corso tra i gruppi comunisti di sinistra in quegli anni, picchia come un dito nell’occhio la coincidenza con il dibattito attuale tra “spontaneisti” e sostenitori della teoria del partito

9) La Seconda Internazionale, nelle sue componenti maggioritarie, vedeva lo sviluppo del capitalismo in modo strettamente postivista-deterministico, negando nell’evolversi della lotta di classe l’ampliarsi delle contraddizioni, ma ponendo come paradigma l’affievolirsi dei contrasti di classe e uno sviluppo naturale del socialismo, in rapporto allo sviluppo delle forze produttive.