per il teppismo comunista
contro la civiltà democratica
Dal
punto di vista negativo, tutto quel che serve a demolire le varie mistificazioni
del capitale, che venga dallo Stato, dal Partito Comunista, dai «gauchisti» è
ugualmente una pratica comunista, sia che questa propaganda si faccia con le
parole, con dei testi o con gesti. L'attività teorica è pratica. Da un lato,
non bisogna fare nessuna concessione ideologica. Ma d'altra parte il solo modo
di portare avanti il programma e di permettere al comunismo teorico di svolgere
il suo ruolo pratico, è quella di partecipare all'agitazione e all'unificazione
che i movimenti sociali intraprendono da varie parti. A suo modo, il comunismo
è già passato all'attacco” (da Le Mouvement Communiste, n. 3)
E'
passato un anno dalle giornate di Genova, e al di la del ricordo per un giovane
proletario (teppista per i più) ucciso dalla polizia, questa data ci rimanda
immediatamente alle sfilate ossequiose dei democratici e civilizzanti cittadini
di sinistra indignati dalle brutture di un sistema troppo poco democratico...
In
un anno molte cose sono cambiate, la crisi sociale e economica del sistema di
produzione capitalista avanza e inghiotte sempre più porzioni di terra e di
classe. La guerra lambisce sempre più da vicino il civilizzato occidente.
La
crisi in Italia avanza, non come la valanga argentina, ma come un fiume, che si
muove lentamente ma trascina con se ogni cosa, riempiendosi sempre di più.
Se
il fiume non è ancora in piena, la paura di un simile cataclisma incombe sui
proletari: maggiore inquietudine per il futuro, problemi abitativi, lavori
sempre peggiori, la para-noia, la disoccupazione…
Il
passaggio dall'impiego stabile dei lavoratori all'impiego precario espresso
nello slogan ideologico della cosiddetta flessibilità, non è soprattutto
dovuto alla lotta condotta dai padroni contro i lavoratori, attuata sfruttando
la concorrenza tra i lavoratori stessi (immigrati, giovani, vecchi operai), né
men che meno all'arrivo delle “nuove tecnologie” . Dal lato dei padroni la
lotta non manca (l'arroganza dell'attuale Confindustria e Governo ne sono una
conferma) ed ha visto sinora i proletari incapaci di difesa, ma a sua volta
tutto il processo è dipeso da un
altro fattore basilare: la fine dell'accumulazione di capitale fisso di lungo
periodo (macchinari, impianti, strutture) e degli investimenti a lungo termine,
la loro quasi integrale sostituzione con miserandi investimenti occasionali e,
soprattutto, con l'investimento in capitale puramente speculativo anche e
soprattutto da parte dei capitalisti produttivi.
La
speculazione è nata con il capitalismo e ne rappresenta la vera chiave di
lettura per indicare i limiti interni del sistema di produzione capitalista.
La
precarizzazione del lavoro altro non è che l'effetto naturale di un sistema
economico-sociale sempre più precario.
A
livello internazionale, il braccio armato del capitale nel mondo, gli USA,
subisce un lento ma inesorabile declino. Sul fronte interno gli USA devono
gestire una situazione che vede processi di polarizzazione sociale sempre più
avanzati: se gli echi di Los Angels del 92 si sono spenti questo non ha
fermato il processo di militarizzazione delle metropoli con l'edificazione di
cittadelle fortificate per i ricchi.
Mentre
sul fronte esterno, sentono minaccioso il capitalismo asiatico, nuovo e
gigantesco contendente dello scettro mondiale (la crescita del PIL nella sola
Cina per il primo trimestre 2002 si aggira sul 7,5%).
Paradossalmente
la fine della divisione mondiale tra il bene e il male (USA e URSS), ha
accelerato questo processo di disgregazione del potere USA, che al di la della
continua e ossessiva chiamata alle armi contro il terrorismo, non può più
nascondere la guerra sociale in atto nel pianeta.
Tale
processo storico vede la classe proletaria come l'agente principale delle
trasformazioni in atto: tanto nello sviluppo di nuovi rapporti sociali, come nel
caso delle lotte del proletariato argentino, quanto nella progressiva
distruzione delle "tranquille comunità" occidentali ad opera dei
flussi di immigrazione.
Chi
grida per la mancanza di democrazia, non si accorge che mai come ora è
la democrazia che trionfa. Il diritto è lo specchio di un rapporto di
forza, che si esprime nella lotta di classe.
Chi
ha gioito per gli arresti dei poliziotti a Napoli, si dimentica che questo
legittima le pallottole democratiche contro i proletari arrabbiati. Chi chiama
all'arresto dei poliziotti che hanno sparato o che hanno dato l'ordine di
sparare, nasconde il ruolo sociale della polizia e del carcere: essere servi e
struttura dello Stato e agenti armati del padronato.
Vedervi
ambivalenza, vuol dire credere alla favola del padrone buono, quello che ti fa
lavorare ma che in compenso ti permette di dargli del tu e una volta all'anno di
mangiare con lui a tavola; del carcere spazioso e luminoso; del poliziotto che
ferma lo zingaro che ti aveva rubato il portafoglio…
E'
solo in questo modo che si può spiegare l'atteggiamento demente e criminoso di
chi davanti agli sbirri alzava le mani, di chi permetteva la dissociazione, le
calunnie contro i proletari che lottavano. Questa concertazione con la polizia
si è infranta di fronte ai rapporti di forza tra le classi.
E'
abbastanza semplice vedere una similitudine tra l'angosciosa battaglia della
CGIL - prima precarizziamo e gestiamo questo processo con i padroni, poi
chiamiamo alla lotta quando la concertazione non sembra più necessaria ai
padroni - rispetto all'evoluzione del cosiddetto Movimento dei movimenti.
A
Genova un anno fa vi era ancora la presunzione che si potesse rappresentare il
conflitto in piazza, magari prendendo qualche bastonata ma poi tutti a casa,
nella migliore tradizione della commedia all'italiana (dalla tragedia alla
farsa... al trash).
La
polizia ha ricordato a sedicenti sinistri, comunisti e anarchici quale è il suo
ruolo: è sull'assoluto monopolio della violenza che lo Stato e il padronato
esercitano la propria forza. Violenza che si esprime in tanti modi, nelle
fabbriche, nei penitenziari, nelle scuole, nei ghetti di cemento o di lamiera,
nelle aride terre o davanti ad un freddo monitor.
E'
presuntuoso permettersi di indicare una forma di lotta “perfetta”. Il
proletariato nella lotta di classe non si pone il problema della violenza cosi
come quello della non-violenza.
Poche
settimane fa i detenuti del carcere di Marassi hanno dato vita ad una protesta
rispetto alle condizioni di vita penitenziarie, utilizzando forme di lotta che
andavano ben oltre il dipingersi le mani di bianco ed alzarle davanti ai
secondini…
E'
dentro il rapporto di forza tra le classi che il proletariato rivoluzionario
muta e si trasforma rispetto alle esigenze sociali in atto. Non vi è quindi
nessuna formula fissa, ne organizzazione perfetta da costruire o in cui
militare.
Che
gli scontri delle giornate di Genova siano state provocate dagli sbirri o da
giovani proletari arrabbiati, questo non cambia nulla per noi!
Non
vogliamo giudicare la polizia, perché non siamo giudici, cosi' come non
vogliamo giudicare l'azione dei proletari che combattono contro i padroni e lo
stato.
Lasciamo
questo ai nuovi e vecchi giustizialisti e alla sempre più nauseante merda della
Politica!
Di
fronte all'acuirsi delle contraddizioni capitaliste e alla conseguente
polarizzazione sociale, il movimento dei movimenti si trova necessariamente a
dover gestire una involuzione legalitaria adagiandosi nei tranquilli lidi della
politica parlamentare, visti i margini di mediazione che le sinistre storiche
conservano ancora come agenti del capitale.
E'
forse questo che può spiegare quel
livello di impotenza e di conseguente vittimismo che si respira dentro il
movimento dei movimenti, che viene mascherato con un vuoto attivismo. Ma al di
la delle sue manifestazioni e rappresentazioni politiche un tale insieme è
figlio di una crescente polarizzazione sociale.
Negli
anni 80-90 strati di giovani proletari chiedevano globuli rossi, i centri
sociali autogestiti, erano costretti a difendere una riserva indiana, che aveva
al suo interno una grande tradizione (la memoria degli anni 70).
Ma
la proletarizzazione dovuta al crescente sviluppo del capitale, ha fatto si che
ogni contesto sociale assumesse un respiro più ampio.
Non
è nel nostro lessico il termine globalizzazione, ma vi è un salto di qualità
che sarebbe stupido non cogliere: il termine No Global allude alla ricerca di
globalizzazione delle lotte e di estensione internazionale dello scontro di
classe che si da il proletariato.
Dal
particolare si assume il tutto. Si può vedere questo nella mutazione che ha
avuto la giovane classe operaia in Italia in questi ultimi anni. Da un rapporto
fisso con l'azienda, all'estrema mobilità
della condizione precaria e alla percezione che il nemico-padrone è
sempre più un sistema sociale complessivo.
Questo
movimento è ancora ad uno stadio democraticista, non tanto perché manca di
illuminazione divina di un qualche gruppo o partito ma più semplicemente, perché
non è stato ancora attraversato dal proletariato rivoluzionario, dal
manifestarsi dell'autonomia proletaria nello scontro di classe.
Il
proletariato non è un essere mitologico ma piuttosto una classe conservatrice,
che suo malgrado nei momenti d'azione tende a supera le vecchie forme sociali.
Non parliamo di uno zenit risolutivo ma di un processo continuo che vede il
proletariato lottare ad oltranza per difendere ciò che possiede
nell'impossibilità sempre più
manifesta di preservare condizioni ormai superate.
All'interno
di una crisi socio-economica questa potenzialità assume maggiore vigore.
Attualmente,
ogni lotta sia salariale classica sia sulle abitazioni che sui permessi di
soggiorno, non è importante su quali basi parta, ne qual'è il suo obiettivo
dichiarato, che necessariamente è condizionato dal passato ma è importante nel
suo divenire, laddove sedimenta nuovi rapporti sociali: l'autonomia proletaria.
L'elemento
centrale è la forza della comunità di
lotta, non tanto le forme che questa assume che sono il prodotto dello stato
generale del conflitto tra le classi.
E'
storicamente finita l'epoca del militantismo, il suo cadavere camminando ha
prodotto mostri sociali quali la burocrazia partitica, la demagogia assembleare
o l'autoritarismo dell'informalità.
Non
è importante erigere differenze o moralistiche divisione in base alla dose di
sfiga che il capitale ci regala. E' necessario acquisire la percezione della
storicità della guerra di classe, e la passione che anima il movimento
comunista. Non c'è da gridare all'indignazione per il povero, ma prendere
consapevolezza della forza sociale del proletariato.
Il
movimento comunista partecipa alle manifestazioni di conflitto in quanto
elemento vivo nato all'interno della lotta del proletariato contro il capitale.
Si può manifestare, dentro un collettivo operaio quanto in un gruppo informale.
Ancora una volta non sarà la forma ma la forza a determinare l'agire del
proletariato e con esso del movimento comunista.
Il
proletariato non ha da vincere nulla dentro il capitalismo, è questo il
significato che porta con se il movimento comunista.
per l'autonomia proletaria
PERCHE'
NESSUNO POSSA DIRE: "IO NON SAPEVO !"
NO
ALL'ART.41 BIS !
Il
governo si accinge, con l'assenso delle opposizioni, ad estendere l'art.41 bis
ai prigionieri politici.
QUESTO
NON E' CHE UNO DEGLI ATTACCHI CHE IL GOVERNO STA PORTANDO ALLA CLASSE: DAL LIBRO
BIANCO SUL LAVORO
ALL'ABOLIZIONE
DELL'ART.18, DALLA SANITA' ALLE PENSIONI, DALLA RIFORMA MORATTI SULLA SCUOLA
ALLA LEGGE BOSSI-FINI SULL'IMMIGRAZIONE.
ALLA
CRISI ECONOMICA IN ATTO, ALLE MOBILITAZIONI DEI LAVORATORI, ALLA RIPRESA DELL'ATTIVITA'
COMBATTENTE, LO STATO RISPONDE ATTUANDO UNA CONTRORIVOLUZIONE PREVENTIVA TESA A
REPRIMERE OGNI FORMA DI RESISTENZA ED E' IN QUESTO CONTESTO CHE SI INSERISCE
L'ESTENSIONE DELL'ART. 41 BIS AI PRIGIONIERI POLITICI.
L'art.41
bis, prevede un notevole peggioramento delle attuali condizioni carcerarie:
abolizione delle
telefonate,
colloqui ridotti a una sola ora al mese con i soli familiari e con
vetri-citofoni-microfoni-telecamere, un solo pacco al mese di 5 kg. aria ridotta
al massimo di 2 ore al giorno, isolamento in cella singola, partecipazione ai
processi soltanto in video-conferenza, etc. In sintesi,si torna ai
"braccetti della morte", al vecchio art. 90 riveduto e peggiorato.
L'intento
dello Stato è duplice: da una parte aumentare la pressione su quei compagni
delle organizzazioni combattenti che ancora resistono e difendono la loro
identità politica per spingerli
alla resa, unico modo per uscire dal carcere di massima sicurezza, e dall'altra,
sottoporre a questo trattamento le avanguardie di lotta che vengono arrestate
per presunti reati con finalità di
terrorismo (art.270 bis), nel tentativo di dividere e desolidarizzare, usando i
prigionieri più deboli come strumento di propaganda contro le lotte e gli
stessi compagni.
L'art.
41 bis sarà poi esteso anche ai prigionieri islamici arrestati per presunta
appartenenza ad organizzazioni come Al Qaeda, o simili. La situazione di questi
prigionieri, che sono prigionieri politici a tutti gli effetti, è
particolarmente difficile, sia per la mancanza di collegamento con i familiari,
trattandosi di cittadini immigrati, sia perché, nella maggior parte dei casi,
difesi soltanto da avvocati d'ufficio. Mancano quindi, notizie precise al loro
riguardo; si stima però, che possano essere in un numero che va dagli ottanta
ai cento.
Per
quanto riguarda i tre prigionieri accusati di appartenenza ad una cellula di Al
Qaeda e processati di recente a Milano, sappiamo che per più
di un anno, sono stati detenuti nel carcere di Opera, in completo
isolamento e senza usufruire nemmeno di due ore d'aria. Ma la cosa più grave,
è che la sentenza di primo grado dispone l'espulsione nei paesi
d'origine, in questo caso la Tunisia, dove sono stati condannati alla pena
capitale. Se la sentenza diverrà definitiva, sarà come condannarli a morte.
Occorre
vigilare, visto che l'Italia non è nuova a condanne del genere (vedi caso
Ocalan)! E' necessario quindi, al più presto, approfondire la situazione di
questi detenuti e verificare le condizioni in cui si trovano.
Se
la situazione dei prigionieri politici sta peggiorando, nemmeno ai detenuti per
reati comuni vengono garantite condizioni dignitose. Il sovraffollamento, i
numerosi casi di autolesionismo, i pestaggi e il continuo aumento dei casi di
suicidio, la dicono lunga sulle condizioni nelle carceri italiane.
Lo
Stato, a partire dalla sua collocazione sul piano internazionale, in quanto
Stato imperialista, accentua il suo ruolo repressivo ogni qualvolta le
contraddizioni interne e internazionali si acuiscono.
Proprio
perché nasce da un contesto internazionale, questa non è una caratteristica
del governo di centrodestra, ma una tendenza comune di tutti gli Stati
imperialisti… basti pensare al trattamento riservato dagli U.S.A ai
prigionieri afgani.
Dopo
aver bombardato e ucciso centinaia di prigionieri nelle carceri afgane, alcuni
gruppi sono stati prelevati e portati nella base militare di Guantanamo
imbavagliati, legati e sedati. A Guantanamo i prigionieri vengono tenuti, con
occhiali e paraorecchie, in gabbie metalliche aperte di un metro per due, con il
tetto di lamiera, una stufa e un secchio di plastica. Nessuna imputazione
precisa, nessun diritto! Il governo americano li considera "combattenti
illegali" e in quanto tali, non rientrano nella categoria dei prigionieri
di guerra quindi, non sono garantiti dalla convenzione di Ginevra né da altri
diritti internazionali.
"Combattenti
illegali" dunque, rei di essersi opposti alla penetrazione imperialista nel
loro paese. La guerra in corso è molto chiara, non ha più bisogno di
camuffarsi dietro presunte "emergenze umanitarie". E' una guerra
contro tutti quelli che osano opporsi al nuovo ordine mondiale: quello delle
potenze occidentali. Il nemico sono tutti coloro che resistono: lo provano le
liste delle organizzazioni, cosiddette "terroristiche", che includono
praticamente tutte le organizzazioni combattenti.
Ma
Guantanamo non è un'eccezione. Prendiamo Israele, solitamente definito:
"unico Stato democratico del Medio Oriente". Con il rastrellamento nei
territori occupati durante la seconda Intifada, ha portato il numero dei
prigionieri palestinesi all' enorme cifra di 15.000. Possiamo dire che l'intera
popolazione palestinese è prigioniera a cielo aperto, impossibilitata ad uscire
dalle città
sotto
coprifuoco e assediata dai carri armati, sottoposta a continue incursioni e
uccisioni.
Altra
situazione drammatica che vogliamo ricordare, è quella dei prigionieri politici
turchi dal 20-10-01 in sciopero della fame fino alla morte, che finora è
costato 93 morti. Le ragioni che hanno portato i compagni a questa lotta estrema
sono il trasferimento in carceri di nuova costruzione, dette anche di tipo F,
che prevedono un continuo isolamento in celle singole, consentendo così di
sottoporre i compagni a pestaggi e torture senza che questi possano opporre una
efficace resistenza. Quello che succede in Turchia non è dovuto solo, alla
natura fascista dello Stato turco, come sostiene certa "sinistra",
bensì allo sforzo della Turchia di adeguarsi agli standard di detenzione della
"democratica" Europa, di cui lo Stato turco vorrebbe far parte.
Ricordiamo
infatti, che condizioni simili di detenzione, sono in vigore in tutti gli Stati
europei fin dagli anni '70… dall'Italia, con le carceri speciali e l'art.90.
all' ex-Germania occidentale, dove i compagni della R.A.F venivano sottoposti in
isolamento, alla totale deprivazione sensoriale, in un tentativo di
annientamento che è arrivato fino all'uccisione di alcuni di loro… per
continuare con i blocchi H, delle carceri in nord-Irlanda, dove gli inglesi
hanno cercato di stroncare la secolare resistenza del popolo irlandese, …
fino alla Spagna e ai paesi baschi, dove tuttora viene praticata la
tortura.
Sappiamo
quindi molto bene quello che vogliono ottenere con l'applicazione dell'art.41
bis: mancanza di dibattito e confronto politico, mancanza di interrelazioni,
desocializzazione, isolamento dal mondo esterno.
Appoggiamo
la lotta di tutti i prigionieri rivoluzionari nel mondo. Difendiamo la loro
identità politica. Lottiamo contro l'art. 41 bis, consapevoli che gli unici
diritti a cui avremo diritto, saranno quelli che sapremo conquistarci con la
lotta.
AMICI
E PARENTI DEI RIVOLUZIONARI PRIGIONIERI
Fit.in.prop.15.06.02
Sempre più spesso i proiettili della polizia fanno secca gente che passa e non perché sbagliano banalmente il bersaglio. Mercenari senza equivoci, i poliziotti giocano istintivamente d'anticipo: sanno che chiunque è il loro futuro presente nemico. Se non altro, il poliziotto ha un'immaginazione appropriata alla partita: le dimensioni generali dello scontro non gli danno problemi di mira. (Da apocalisse e rivoluzione, 1973)
Che
i giovani sappiano e che i vecchi non dimentichino
All'alba
del 28 marzo 1980 in via Fracchia 12...
All'alba
del 28 marzo 1980 i carabineiri del nucleo speciale Antiterrorismo del generale
Carlo Alberto Dalla Chiesa fanno irruzione in via Fracchia 12, a Genova,
nell'appartamento abitato da quattro militanti delle Brigate Rosse. L'indirizzo
e l'identità degli inquilini sono stati rivelati da Patrizio Peci, militante
pentito delle BR.
Colti
nel sonno, Lorenzo Betassa, Riccardo Dura, Annamaria Ludman e Peltro Panciarelli
vengono uccisi.
L'esatta
dinamica degli avvenimenti non è stata ancora perfettamente ricostruita. Il
comunicato ufficiale dei carabinieri parla genericamente di conflitto a fuoco,
ma l'ingresso nell'abitazione, dopo “l'operazione”, viene vietato alla
stampa e alla televisione per diversi giorni.
Il
giorno 1 aprile la magistratura chiede un supplemento di indagini necroscopiche
sui corpi e perizie balistiche su tutte le armi, per accertare la dinamica degli
avvenimenti. Appare soprattutto incerta l'attribuzione del ferimento del
maresciallo Benà, colpito di striscio da un proiettile calibro 9, arma in
dotazione ai carabinieri.
Solo
otto giorni dopo, il 5 aprile 1980, la magistratura riceve il rapporto dei
carabinieri su quanto accaduto quella notte ed emette un suo comunicato.
Il
comunicato delle magistrature è del 5 aprile 1980, ma i magistrati entrano
nell'appartamento di via Fracchia soltanto l'8 aprile 1980. In complesso, quindi
esso è rimasto sotto il pieno controllo dei carabinieri per 11 giorni.
I
giornalisti sono ammessi per la prima volta nell'appartamento il giorno 8 aprile
1980.
La
“vista” è permessa per soli tre minuti ed essi entrano uno solo alla volta,
accompagnati da un ufficiale dell'Arma. Molti di essi rilevano che non tutte le
cose riferite in forma ufficiale dai carabinieri combaciano con ciò
che i loro occhi hanno potuto vedere.
Il
30 marzo, con una telefonata all'Ansa viene fatto trovare il volantino di
commemorazione, datato sabato 29 marzo 1980 a firma Brigate Rosse, in cui si
legge:
“Venerdi
28 marzo 1980 quattro compagni delle Brigate Rosse sono stati uccisi dai
mercenari di Dalla Chiesa. Dopo aver combattuto, e trovandosi nell'impossibilità
di rompere l'accerchiamento, dopo essersi arresi, sono stati trucidati. Sono
caduti sotto le raffiche di mitra della sbirraglia prezzolata di regime i
compagni:
Roberto:
operaio marittimo, militante rivoluzionario praticamente da sempre, membro della
direzione strategica della nostra organizzazione. Impareggiabile è stato il suo
contributo nelle guerra di classe che i proletari in questi anni hanno
sviluppato a Genova. Dirigente dell'organizzazione dall'inizio della costruzione
della colonna che oggi è intitolata alla memoria di Francesco Berardi, con
generosità e dedizione totale ha saputo fornire a tutti i compagni che hanno
avuto il privilegio di averlo accanto nella lotta un esempio di militanza
rivoluzionaria fatta di intelligenza politica, sensibilità, solidarietà , vera
umanità, che le vigliacche pallottole dei carabinieri non potranno distruggere.
Cecilia:
si guadagnava da vivere facendo la segretaria. Come tutte le donne proletarie la
borghesia aveva destinato una vita doppiamente sfruttata, doppiamente subalterna
e meschina. Non ha accettato questo ruolo aderendo e militando nella nostra
organizzazione, dando con tutte le sue forze un enorme contributo per costruire
una società diversa, dove la parola donna e la parola proletario non
significano sfruttamento.
Pasquale:
operaio della Lancia di Chiavasso
Antonio:
operaio Fiat e dirigente della nostra organizzazione.
Sempre
alla testa delle lotte della fabbrica e dei quartieri nei quali vivevano. Li
hanno conosciuti tutti quegli operai e proletari che non si sono piegati
all'attacco scatenato dalla multinazionale di Agnelli e dal suo Stato. Proprio
perché vere avanguardie avevano
capito che lottare per uscire dalla miseria, dalla cassaintegrazione, dai ritmi,
dai cottimi, dal lavoro salariato, vuol dire imbracciare il fucile e organizzare
il potere proletario che sappia liberare le forze per una società comunista.
Imbracciare il fucile e combattere. Questi compagni erano consapevoli che
decidendo di combattere avrebbero affrontato la furia omicida della borghesia e
che avrebbero potuto essere uccisi. Ma la certezza per combattere per la vita,
per la libertà in una posizione d'avanguardia, in prima fila, è un compito che
i figli migliori, più consapevoli, del popolo devono assumere su di sé
per poter rompere gli argini da cui il movimento proletario spezzerà via
la società voluta dai padroni. Per loro, come per molti altri operai, la scelta
è stata precisa: combattere e vincere con la possibilità
di morire; anziché subire e morire a poco a poco da servi e da strumenti
usati da un pugno di sciacalli per accumulare profitti. Oggi Roberto, Pasquale,
Cecilia, Antonio, sono caduti combattendo. E' grande il dolore per la loro
morte, non riusciamo ad esprimere come vorremmo quel che sentiamo perché li
hanno uccisi e non li avremo più tra noi. Ma nessuno di noi ha pianto, come
sempre quando ammazzano dei nostri fratelli, e la ragione è
una
sola: altri hanno già occupato il loro posto nella battaglia. Proprio mentre ci
tocca lo strazio della loro scomparsa e onoriamo la loro memoria, si rinsalda in
noi la convinzione che non sono caduti invano come non sono morti invano tutti i
compagni che per il comunismo hanno dato la vita. Alla fine niente resterà
impunito”.
Copie
del volantino vengono diffuse, nello stesso giorno, nelle maggiori città e, nei
giorni successivi, a Genova, nell'Oregina, in via Napoli, a Granarolo e a
Sampierdarena. In un reparto dell'officina 76 dello stabilimento Fiat di
Mirafiori, a Torino, nei giorni successivi, compare una stella a cinque punte
con la scritta rossa: “Onore ai compagni caduti a Genova”.
Annamaria
Ludman è la prima dei quattro militanti ad essere identificata, in quanto
intestataria dell'appartamento in via Fracchia 12 e viene ricordata nel
documento di commemorazione delle BR col nome Cecilia. La colonna veneta delle
BR viene dedicata al suo nome.
Lorenzo
Betassa viene ricordato col nome di battaglia Antonio.
Piero
Panciarelli, Pasquale, è il penultimo dei quattro militanti uccisi in via
Fracchia ad essere identificato.
Riccardo
Dura, Roberto, non viene identificato per molti giorni, e sono le Brigate Rosse,
il 3 aprile 1980, con una telefonata all'Ansa, a dare pubblicamente il suo nome.
“Qui
Brigate Rosse, colonna genovese Francesco Berardi. Riccardo Dura è il nome del
compagno non ancora identificato. Sia chiaro a tutti, ai carabinieri in
particolare, ai magistrati ed ai giornalisti che pagheranno per la macabra e
lurida propaganda di questi giorni. Niente resterà impunito. Onore ai caduti
del 28 marzo”.
Il
5 aprile ad accompagnare Riccardo Dura nel cimitero di Staglieno c'è soltanto
la madre.
Brano
tratto da la mappa perduta
Lorenzo
Betassa, nato a Torino, il 30 marzo 1952, studi medi, operaio
Riccardo
Dura, nato a Roccalumera (ME), il 12 settembre 1950, operaio
Annamaria
Ludman, nata a Chiavari (GE), il 9 settembre 1947, segretaria.
Piero Panciarelli, nato a Torino, il 29 agosto 1955, operaio Lancia