L’insufficienza del nostro linguaggio è la misura della nostra inerzia in rapporto alle cose; che non si possono trasformare quando se ne è perso il senso.
D.Montaldi, Parigi, andata e ritorno, Questioni, maggio-agosto 1958
Ogni prospettiva di bilancio su un intervento di classe deve innanzitutto evidenziarne <<le radici nello sfondo>>, per citare C. Pavese, come primo momento di verifica della propria lettura della realtà, e allo stesso tempo far emergere gli strumenti analitici e l’apparato concettuale attraverso i quali si è condotta questa esperienza conoscitiva, per una migliore chiarificazione del ‘filtro’ interpretativo del punto di vista di classe. Chi ha messo le ‘radici nello sfondo’, potrà trarre nutrimento dall’ humus sociale in cui è radicato e plasmare i propri strumenti di intervento, dentro un processo il più uniforme possibile alla formazione della forza sociale antagonista delle classi subalterne. Potrà mantenere, anche nell’attuale eternizzazione del presente, una prospettiva temporale comunista, cioè un senso della storia in grado di sviluppare <<la coscienza di fa volare per aria la continuità storica>>(W. Benjamin) - e orizzonti internazionali, anche nella recrudescenza del conformismo localista (provincialismo mentale, campanilismo di bassa lega, razzismo spicciolo). Le fuge nel ‘cielo della politica’, e le magiche formule organizzative del tipo fatto il partito fatta la classe, come l’esclusivo mantenimento di una posizione rivoluzionaria senza una reale intervento di classe, facendo divenire dottrina e sacri principi – se non corpo mitologico - l’esperienza viva della classe in floridi periodi di lotta, costiuiscono alcune delle false soluzioni per ovviare al problema di uno scarso radicamento, di una incapacità di lettura della realtà, di una pochezza nello sforzo militante, ecc.…
C.Lefort, L’esperienza proletaria, S o B,
Nella nostra pratica l’auto-indagine e la socializzazione della propria esperienza proletaria sono andate di pari passo con il tentativo di una inchiesta sociale più complessiva. Abbiamo cercato cioè di costruire un rapporto di internità – o quanto meno di conoscenza diretta - con quelle porzioni della classe che hanno espresso conflitto, tentativi di autorganizzazione e riflessione sulla propria condizione proletaria, cercando di cogliere la molteplicità degli aspetti di tale realtà, e la rappresentazioni che questi soggetti sociali attivi davano di sé. La nostra analisi è partita dalla collocazione produttiva - cioè dalla posizione nel processo sociale di produzione/distribuzione - , fino alla situazione abitativa, verificando la propensione soggettiva alla integrazione/rottura con la routine aziendale in particolare, come della pace sociale in generale, evidenziando le relazioni con l’apparato di controllo e di repressione burocratico-sindacale e statale-poliziesco[1].
Lo strumento di comunicazione diretta di cui ci siamo dotati, è stato funzionale anche al tentativo di dare un eco alle vicende che ci hanno interessato, e di cui ci siamo interessati. Dalla vertenza che dall’autunno dell’anno scorso ha interessato la Ducati-Motor, agli scioperi, presidi e assemblee dei lavoratori dell’ATC dal gennaio di quest’anno, dal tentativo di auto-organizzazione e riflessione di alcuni lavoratori delle cooperative sociali dalla primavera di quest’anno, al lavoro di attività e ricerca svolto da alcuni operatori del Call-centers, solo la continuità di un intervento, e il consolidamento di questo interesse, attraverso il filtro di un tessuto di militanti sul terrirorio, o semplicemente di lavoratori sensibili ‘radicalizzati’ nel corso della propria esperienza lavorativa, ci ha permesso di acquisire il polso di alcune situazioni, creando relazioni che andassero nella direzione prima di una socializzazione e di un appoggio reciproco e poi di una crescita collettiva. Questa pratica è stata concomitante al contatto preso nei posti di lavoro in cui venivamo spostati, sfruttando la mobilità lavorativa in chiave di contro-informazione, inchiesta e aggregazione, sul filo della esperienza, condivisa da una sempre più ampia porzione di classe, di ‘radicamento’ nel tessuto produttivo complessivo e di ‘impossibilità di permanenza’ in una singola ditta od in un particolare settore, con un regime di piena occupazione.
La possibilità di una riproducipilità di una pratica militante, che non è riproducibilità di forme organizzative cristalizzate, né catechismo dei propri contenuti, ma , per ora, una tensione all’azione con una certa capacità di tenuta, deve fare i conti con un corretto inquadramento della situazione in cui la classe si muove cogliendo ciò che è dato come base comune dello sfuttamento, cioè i rapporti sociali che si sviluppano dal rapporo di lavoro concreto, che è allo stesso tempo vettore dell’identificazione di classe, senso comune di questa. L’identificazione di classe è un processo in divenire, che non è né il manipolato e manipolabile ‘orgoglio’ dei produttori di staliniana memoria, né un qualcosa che sia dato per sempre, arido e statico. È innanzitutto un tensione verso il riconoscimento della propria forza sociale, dell’utilità ed efficacia dell’unità di azione (per esempio tra fissi e precari, tra autoctoni e immigrati, ecc.) sperimentata con la lotta, e cementificata dalle lotte (di altre aziende, di altri settori, di lavoratori di altri paesi): un intreccio tra la vita sociale quotidiana dei salariati, quella che per semplificazione possiamo chiamare ‘comunità proletaria’ - al di là della innegabile atomizzazione e cannibalizzazione sociale - e l’emergere della soggettività nella lotta, che si indentifica come collettività e che tendenzialmente fa emergere ciò che era un portato identitario, la propria collocazione sociale, tra gli altri, come il più rilevante.
Nella dialettica dei rapporti con i lavoratori più inclini all’attività militante, che hanno vissuto e vivono una collettività, anche se di minoranza, in cui si riconoscono ed una contrapposizione sostanziale di interessi con l’azieanda e le sue gerarchie, ed hanno sperimentato una certa inadeguatezza e insofferenza verso le forme di organizzazione del ‘vecchio movimento operaio’ e le loro istituzioni (partiti e sindacati), la tensione comune deve risolversi innanzitutto in una con-ricerca sul campo come processo di crescita comune e una militanza attiva sul posto di lavoro. Queste sono le basi necessarie per una migliore elaborazione, un più marcato orientamento, una maggiore disciplina comunista in grado di sviluppare, facendolo scaturire dall’agire quotidiano un, e non il, soggetto politico indipendente del proletariato, la sua ‘frazione comunista’, che non sia una artefatta sagomatura politico-organizzativa ricalcata da una modellistica passata. Entrando nel dibattito interno alla social-democrazia russa dei primi anni di questo secolo, criticando in Centralismo o Democrazia la posizione espressa da Lenin, Rosa Luxemburg, la cui indicazione pensiamo sia ancora valida, affermava che: <<l’organizzazione, i progressi della coscienza e la lotta non sono delle fasi particolari, separate meccanicamente nel tempo, ma al contrario sono degli aspetti diversi di uno stesso e unico processo>>[2].
Miseria dell’estrema sinistra a Bologna
Al ‘vuoto politico’ nemmeno parzialmente coperto da un ambiente militante che a Bologna soffre di una cronaca emorragia e di una progressiva incapacità di ‘stare dentro’ una qualsiasi situazione reale - nell’ambito studentesco, lavorativo, territoriale, che sia - siamo riusciti in parte a sopperire, come minoranza dotata di uno organico scarno e di mezzi limitati, con il tentativo di costruzione di una rete di rapporti con effettivi spezzoni attivi della classe. Questi soggetti sono realmente attivi, non solo nella virtualità della politica da osteria, nelle sporadiche manifestazioni di piazza, nella attività di animazione sociale, in cui l’intensità militante non si misura solo nell’introiezione di codici comportamentali e nell’ estroiezione di atteggiamenti stereotipati tipiche del militante di sinistra: machismo da militante hard-core per i maschietti, femminismo oltranzista per le femminucce, vago senso filantropico aclassista, ecologismo all’acqua di rose, auto-marginalizzazione compiaciuta, ecc.)[3].
Non sono certo solo la mancanza di strutture e di luoghi di incontro, ma se mai la loro mortificazione, né solo il sempre più ridotto corpo di militanti, sufficienti a giustificare la scarsa incidenza delle varie soggettività politiche a Bologna, ma prima di tutto la mancanza di volontà di confrontarsi con un soggetto sociale in una situazione data, la miseria della progettualità politica, il totale inadattamento degli strumenti di intervento e di inchiesta.
Se si utilizza il lessico politico, come metro di giudizio sulla capacità di lettura della realtà, non si può che constatare che la febbre del ‘nuovo che avanza’, tipica dell’area autonoma e post-autonoma, ma non solo, ha preso a prestito dall’ideologia dominante un deformazione falsificante della realtà e le sue relative cristalizzazioni concettuali, elaborandoci le proprie strategie neo-riformiste. Concetti quali: ‘Globalizzazione’, ‘Neoliberismo’, ‘Lavoro Immateriale/cognitivo’, ‘migranti’, non spiegano nulla se non l’incapacità sempre più cronica di una area politica di leggere fattualmente la realtà[4].
Luci ed ombre della classe operaia a Bologna
La passività prodotta da un compromesso social-democratico avanzato, funzionale a – e funzionante con - una classe operaia prevalentamente autotona, egemonicamente inquadrata sindacalmente e tendenzialmente orientata politicamente, ha dato fino qualche decennio fa, con un ciclo economico e un relativo ciclo politico che ne sostanziava la possibilità, da un lato, una capacità di governo e di diluizione delle contraddizioni dell’amministrazione dell’esistente, anche grazie alla pecularietà della conformazione produttiva[5] e della morfologia urbana, e dall’altro un potere contrattuale, all’interno delle compatibilità, abbastanza elevato[6]. Questo ‘compromesso’ mostra ora però palesemente il suo lato oscuro e le sue conseguenze: omertà assolutà sulla nocività delle fabbriche di morte, una inerzia sindacale sconcertante dei lavoratori sindacalizzati, un potere politico sempre più clientelare nel pubblico impego, una spiccata propensione all’essere all’avanguardia nello sfruttamento nelle proprie articolazioni economiche, come nel settore cooperativo: logistica, ristorazione collettiva, manutenzione urbana, assistenza sociale, produzione agricola, selezione e qualificazione del personale, comunicazone, ecc sono settori monopolizzati dalla cooperazione e all’interno di questi da alcune cooperative(vedi Dossier cooperative: cooperazione e conflitto della Rete Operaia).
Questo ‘patto sociale’ che non può più reggersi su un edificio sociale solido e su un consenso granitico, o quanto meno egemonico, in grado di marginalizzare socialmente e emarginare politicamente le contraddizioni sociali, allarga le sue crepe e moltiplica le sue contraddizioni, si mostra non funzionale al contesto attuale, al di là che la sua gestione politica sia più o meno nelle mani della ‘social-democrazia post-social-democratica’ (Ds and family). Si trova sempre più lacerato a causa di fattori di trasformazione economico-sociali da cui non si può prescindere per avere un quadro dei nessi tra gli elementi di continuità e relativa tenuta funzionale, non solo residuali, e gli elementi di differenzianzioni rispetto al passato, dell’attuale contesto sociale, soprattutto per ciò che concerne la situazione della classe operaia nel bolognese[7].
Premessa a note sul contesto
La descrizione di un contesto, deve partire dall’intreccio in un luogo dato ed in un tempo dato delle relazioni tra realtà produttive, sistema di trasporto-mobilità, contesto abitativo e sfera della riproduzione sociale (formazione-educazione, assistenza sanitaria, ecc.) in genere, per comprendere le specificità dell’area metropolitana.
Il lavoro svolto ci consente per alcuni aspetti legati alla realtà produttiva di avere una discreta fotografia in movimento della realtà, per altri, l’analisi è stata più occasionale e lacunosa e ci permette di avere un abbozzo, che può essere preso in prospettiva, come un piano di lavoro, con cui colmare le nostre lacune e sostituire il presappochismo, con più approfondite certezze.
È chiaro che l’indagine non è un fine in sé, ma uno strumento di conoscenza e un ausilio all’intervento, come è chiaro che si possono aprire terreni di intervento e campi di analisi sociale, solo quando sia hanno le forze per farlo, ci si auto-responsabilizza per andare oltre l’entusiasmo iniziale di avere un nuovo ‘fronte’, si mette in campo energie e risorse che non si dissipano alla prima difficoltà incontrata: la tenuta militante è più una premessa all’intervento che una conseguenza, l’auto-responsabilizzazione un medoto di lavoro collettivo che permette di avere in piedi un effettivo cordinamento.
In caso contrario si rischia la dispersione tipica dei raggruppamenti che si occupano di tutto a seconda delle scadenze e delle alterne fasi umorali (un giorno le bio-tecnologie, l’altro il razzismo, poi c’è il problema della casa,…).
Note sul contesto
Accanto ad alcuni fenomeni classici di trasformazione/ristrutturazione urbanistica: spostamento dei siti produttivi nell’Hinterland e relativa speculazione edilizia degli spazi liberati per cosidettì i poli dei servizi, ad es. la Zona Fiera non solo più Fiera District che in via di ampliamento, assorbe le aree dell’ ex-Minganti, dell’ex-Officine Cevolani, come dell’ex-Casaralta; formazione di concentramenti della grande distribuzione nella prima periferia e ridimensionamento del commercio al dettaglio(apertura dell’Iper di Borgo-Panigale una decina di anni fa, con gli altri seguiti a ruota nel tempo; poli del commercio a Casalecchio di Reno: Mercatone, Ikea, Castorama e a Castenaso: Iper, Brico, ecc.); inglobamento dei comuni limitrofi nella rete urbana e in un rapporto di ‘continuità policentrica’ con la città principale - Bologna-S.Lazzaro verso Imola, Bologna-Casalecchio di Reno verso Modena, Bologna-Argelato verso Ferrara, Bologna-Granarolo verso Ravenna, ecc. - ; adeguamento infrastrutturale alle necessità del trasporto merci – realizzazione della variante di valico per ovviare alla congestione della Bologna-Firenze, ipotesi di ampliamento della tangenziale all’area appenninica, allargamento dell’attuale tangenziale congestinata dall’attuale spostamento di merce su gomma; ridimensionamento dei servizi (ridimensionamento degli accessi agli asili nido, ridimensionamento strutture ospedaliere, taglio delle linee degli autobus).
Il bacino industriale e dei servizi all’impresa dell’ area metropolitana Bolognese, che ha progessivamente aumentato gli addetti e che impiega circa un terzo della forza-lavoro nel settore manufatturiero e buona parte di quel 63% di lavoratori che nelle statistiche rientrano nel terziario, è un catalizzatore del pendolarismo dal ferrarese e dal comacchiese, è un punto d’approdo dei flussi migratori delle leve dell’esercito industriale di riserva meridionale, è una luogo di ricezione dei flussi del mercato mondiale del lavoro, dall’area nordafricana (Tunisia, Marocco), dall’Europa dell’est, dal continente Indiano (India e Pakistan), dalla Cina, ecc.: Ci si sposta lungo le linee dello sviluppo economico, della possibiltà di una occupazione anche breve, di una prospettiva di inserimento sociale più dignitosa, di quella offerta del proprio luogo di provenienza, che sia 50, 400, 1000 o diverse migliaia e centinaia di migliaia di Km…Lungo le linee delle sviluppo ineguale: dalla periferia alla metropoli del sistema di produzione capitalistico (ZI-n.4)[8].
Il 51-55%dei lavoratori immigrati in Italia tra il 1994 e il 1997 va a collocarsi nell’industria, nell’edilizia e nell’agricoltura, nel nord gli avviamenti al lavoro nell’industria toccano da soli il 50%. Più di ¾ di questi lavoratori svolgono mansioni da operaio generico e meno del 5% ha mansioni da operaio specializzato o mansioni impiegatizie.
La stragrande maggioranza delle donne immigrate lavora come domestiche e assistenti di persone anziane.
Dall’economia sommersa italiana, che produce da sola circa 1/3 del PIL, vengono richiesti lavoratori immigrati: edilizia, laboratori tessili ed elettronici, lavori domestici, agricultura, piccola criminalità, prostituzione, ecc.
L’architettura legislativa, le trame di controllo, e la gamma di garanzie richieste al lavoratore immigrato, contribuiscono, insieme alle dinamiche economiche, a determinare una condizione di estrema precarietà sociale: “l’installarsi in una provvisorietà senza fine’, così come l’ha definita uno studioso dell’immigrazione algerina in Francia. Aumentando progessivamente la diffusione dell’impiego precario, condizione in cui si trovano più della metà dei proletari immigrati, non ci si può assicurare la stabilità di un permesso di soggiorno e si finisce spesso per essere ricacciati nella “clandestinità”, anche per quegli immigrati che sono e intenderebbero restare legali, di cui le manifestazioni per i <<permessi di soggiorno per tutti>> dell’altr’anno sono la più palese testimonianza[9].
In Emilia Romagna la quota del flusso, tra stagionali (lavori da sei a nove mesi) e stabili (lavoratori subordinati o autonomi a tempo determinato e indeterminato), di lavoratori extra-comunitari è stata fissata attorno alle 3.500 unità, a confronto della richiesta delle aziende stimata attorno a più di 5.000 unità, considerando che per le regioni meridionali, dove è altissima l’incidenza della manodopera immigrata nella fase del raccolto, è stato programmato un flusso pari a zero, la strategia di ‘inferiorizzazione’ e ‘concorrenza reciproca’ attraverso una politica legislativa discriminatoria, appare più che mai chiara.
A Bologna, come nelle altre città, vi è una stratificazione tra un lavoratore autoctono, un lavoratore del sud, un lavoratore di una comunità di immigrati forte e strutturata (come quella marocchina o tunisina) e un lavoratore di una comunità marginale. Il bacino industriale è abbastanza parificato, escludendo le piccolissime ditte, con una precarietà contrattuale che riguarda tutte le fasce, soprattutto giovanili, dell’operaio generico: attualmente sia un lavoratore extra-comunitario, sia un proletario del sud, sia un Bolognese DOC entrano in fabbrica passando per una agenzia di lavoro interinale.
In Italia, nel 1999 il lavoro interinale ha interessato circa 250.000 lavoratori, per un totale di 55 milioni di ore lavorate: <<è come se il lavoro temporaneo fosse un’azienda di 35.000 persone che lavorano a tempo pieno per tutto l’anno>>, ha dichiarato il segretario generale di Confinterim, Francesco Salvaggio, cogliendo le caratteristica “itinerante” di questi lavoratori, che oltre a passare da azienda ad azienda, passano da agenzia ad agenzia a seconda dlle offerte che gli vengono proposte.
Per le fasce più giovani dei lavoratori interinali, specialmente se provenienti dal sud, cioè oltre il 60% del totale, o per molti lavoratori extra-comunitari, l’agenzia di lavoro interinale è l’attuale tramite obbligato per accedere ad una occupazione solitamente nel settore manufatturiero ( con il settore metalmeccanico in testa ), nella grande distribuzione (iper-mercati e centri commerciali), nel settore albelghiero-turistico, nell’assistenza telefonica ai clienti (call-centers):
L’interinale tipo, assecondando le semplificazioni statistiche, è maschio, ha ventotto anni, è metalmeccanico.
L’Emilia Romagna è tra le tre regioni che ha visto una maggiore diffusione del lavoro interinale, mentre Bologna detiene il primato dell’utilizzazione dei lavoratori temporanei.
In un contesto in cui i contratti precari riguardano ormai i ¾ dei nuovi assunti, l’interinale diviene sempre più la tipologia egemone.
Ci sono settori e mansioni più ‘transitori’ per un gruppo e ‘permanenti’ per un altro, con differenze salariali e di condizione lavorativa, si pensi al facchinaggio, alla manovalanza, alle pulizie: solitamente le prime occupazioni dei lavoratori più disagiati e di più recente immigrazione. Il lavoratore autoctono che ha esordito nel mondo del lavoro in un cantiere o sotto un artigiano, come in una piccola ditta, o nella ristorazione, magari ‘al nero’ o con un contratto d’apprendistato o di formazione lavoro, preferisce poi accedere ad una situazione lavorativa più solida sul piano salariale e più tutelata sul piano delle condizioni di lavoro. Inoltre, se dotato di una diploma e di una situazione familiare abbastanza favorevole, troverà poco appetibili alcune offerte di lavoro di cui conosce, o immagina, le condizioni e probabilmente, per ‘sbancare il lunario’, sarà esposto al fascino indiscreto dell’auto-imprenditorialità, della possibilità di rilevare un esercizio commerciale, di aprire una partita IVA, di intraprendere una attività singola, viste dalla sua ottica, come uniche possibilità di mobilità sociale.
Solitamente all’aereoporto come ai magazzini generali i lavoratori del sud ‘passano’ mentre gli immigrati ‘restano’. Nell’edilizia vi è un continuo turn-over di lavoratori della stessa famiglia del sud, come dello stesso paese, che si alternano per un padroncino: sei mesi al paese da disoccupato, sei mesi sui cantieri con straordinari quotidiani, lavoro il Sabato e talvolta di Domenica, con condizioni contrattuali altamente discrezionali, sotto la tutela di un capo-mastro, talvolta pure padrone di casa.
Esiste un ‘mercato delle braccia’ nelle primissime ore del mattino in via Stalingrado ed in via Toscana, dove i padroncini arrivano con i camion della ditta per reclutare manovali alla giornata, inoltre vi è un tariffario ‘informale’ per le paghe dei manovali ‘al nero’ delle differenti comunità: un lavoratore italiano prende quanto un lavoratore maghrebino, lavoratori di altre nazionalità prendono più o meno a seconda del potere di queste. Vi sono caporali della stessa nazionalità dei propri dipendenti, a cui rivolgersi per avere braccia, come avviene nell’edilizia, o nelle cooperative composte solo di immigrati, come la Dardo che utilizzava illegalmente personale in produzione alla Felsineo di Zola Predosa, o che gestiscono la prostituzione nelle strade. Mafie che gestiscono la manodopera cinese impiegata in condizioni disumane nei laboratori tessili, come nei ristoranti alla bolognina, ed associazioni che gestiscono la richiesta di domestici filippini.
Il settore impiegatizio pubblico e privato e le libere professioni in genere, sono il vero spartiacque tra lavoratori Italiani e non. Nonostante i livelli di scolarizzazione generalmente elevati di molti lavoratori ‘extra-comunitari’, escluse precise professioni con un accentuato grado di scolarità e qualifica (come quella medica o quella di ingegnere), queste occupazioni risultano ‘inaccessibili’.
La sempre maggiore proletarizzazione di crescenti fasce di forza lavoro autocotona riguarda sia una porzione scolarizzata, che vede l’allargarsi della forbice tra aspettative professionali (in termini di reddito e di collocazione sociale) e la realtà di lavori alienanti, mediamente scarsamente retribuiti, solitamente precari e senza sbocchi visibili, sia una fascia che conosce un precoce abbandono degli studi e una conseguente entrata nel mondo del lavoro in età scolare (spesso attraverso l’immigrazione), spesso soggetta al cosìdetto ‘analfabefismo di ritorno’ e all’impossibilità di un canale di sintesi tra lavoro manuale e lavoro inellettuale. Così mentre le prime conoscono progressivamente la precarizzazione, la dequalificazione e la sotto-retribuzione delle proprie mansioni solitamente nei servizi - come avviene per alcune figure inter-medie della cooperazione sociale, operatori dei call centers, lavoratori dei trasporti urbani, e addetti al settore della comunicazione, ecc - avvicinandosi ai gradini più bassi della stratificazione socio-professionale del proprio ambito lavorativo, le seconde vivono lo stesso processo solitamente nel settore artigianale, commerciale e manufatturiero, come nei servizi all’impresa. Se le prime fasce hanno dato vita a interessanti processi di autorganizzazione e mobilitazione sociale, si pensi agli scioperi nei trasporti urbani a Torino, Milano,Bologna, Roma, o al fermento che attraversa la cooperazione sociale, come i lavoratori dei call-centers, presenti anche al’ultima manifestazione dei metalmeccanici, una mobilitazione dei secondi, data la centralità della collocazione produttiva, avrà un impatto sociale senz’altro maggiore.
Comunque, <<l’intreccio tra la condizione materiale e lavorativa degli immigrati e quella degli autoctoni è più ravvicinato che nel passato ciclo economico e migratorio>>, quello cioè della ricostruzione post-bellica degli anni ’50 –’60. <<I problemi vissuti dalla massa degli immigrati sono già oggi i problemi di una fascia non proprio marginale della popolazione italiana e dell'Europa occidentale. E di conseguenza anche le loro azioni e reazioni, forse più che nel passato, possono intrecciarsi con quelle di ampi settori sociali autoctoni>>[10].
Alcuni punti nodali…
Quali sono i settori di classe più attivi, quali possono essere più incisivi e avere un ‘impatto sociale’ maggiore? Naturalmente per noi l’impatto sociale non vuol dire mediatizzazione della propria azione, ma effettiva ricaduta sull’amministrazione dell’esistente e specificatamente sull’organizzazione della produzione, e avanzamento della propria ‘coscienza sociale’ in senso marxiano: “non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza”(K.Marx), che nella lotta e grazie alle lotte diviene conoscenza della propria forza sociale, mentre nello squallido piattume quotidiano rimane quella ‘falsa consapevolezza’ ideologica di naturale e immutabile impotenza.
Quali forme di azione e di organizzazione si danno e si daranno i lavoratori in un periodo di conflitto montante, quali i contenuti?
Che rapporto c’è tra una minoranza agente all’interno della classe e le avanguardie di lotta?
Sono tutte domande che interessano e interesseranno sempre più le nsotre riflessioni collettive e non sono certo esterne agli orizzonti della nostra attività quotidiana.
M.Tronti, La fabbrica e la società, Quaderni Rossi, 1962
L’estensione dell’applicazione della direzione scienfica del lavoro, della sociologia del lavoro e dell’ingegneria industriale, cioè sostanzialmente dell’organizzazione su base industriale, di cui le suddette branche della scienza del capitale studiano i differenti aspetti, a tutti i settori del lavoro salarito, è un processo che ha cambiato e cambia i connotati della composizione ‘tecnica’ della classe e della sua composizione ‘politica’.
Nel pensiero operaista, “la classe e il capitale assumono così forme originali e autonome a seconda della configurazione determinata del loro rapporto”. “il criterio materialistico di interpretazione” cerca di “ricostruire con correttezza logico storica il succedersi delle figure operaie nella storia del rapporto di capitale”, definendo “il processo rivoluzionario in relazione alla figura operaia che domina o che tende a dominare nell’organizzazione capitalistica del lavoro: la composizione tecnica di classe specifica la sezione di classe operaia sulla quale il capitale tende a poggiare il processo accumulativo: la composizione politica di classe il carattere materialmente determinato del suo antagonismo”[11].
Detto meno operaisticamente, le basi materiali del processo in cui la classe è inserita, che sono i mezzi di produzione e il sistema di gerarchie e responsabilità sull’esecuzione (imposizione e verifica dei ‘tempi e metodi’ imposti per la mansione/i assegnate) in cui è calata, determinano un flusso del prodotto da lavorare, che può essere una informazione da fornire ad un cliente in un call-centers, un hamburger da riscaldare in un fast-food, un pacco da consegnare per un corriere espresso, come il ‘tradizionale’ semi-lavorato da far uscire dall’officina. La struttura e il rapporto con il processo produttivo, sviluppano forme d’azione e di organizzazione che si modellano su questo: “in una società nemica non c’è la libera scelta dei mezzi per combatterla. E le armi per le rivolte proletarie sono state sempre prese dagli arsenali dei padroni”(M.Tronti, Linea di condotta).
Nella dialettizzarsi di condizioni obbiettive dello sfruttamento e delle reazioni soggettive a questo si definisce il rapporto di produzione concreto operaio collettivo/macchina nell’industria moderna.
L’introduzione del terminale, del fax e del telefono hanno rivoluzionato il lavoro di ufficio, riducendo l’autonomia del singolo lavoratore, impoverendone le qualità professionali, stabilendo un nuova tipologia di cooperazione tra lavoratori rispetto al flusso ‘immateriale’ della produzione, aumentando le capacità di controllo rispetto alla prestazione lavorativa, migliorando quindi la capacità di calcolo, cioè la contabilità, del costo del lavoro rispetto alla quantità di lavoro svolto: Sapere è potere, e tutto ciò che viene conosciuto, sistematizzato, viene anche reso prevedibile, vale a dire programmabile: tutto quanto rimane imprevedibile è scarsamente redditizio (sorvegliare e punire: tecniche di controllo alla Tim, un lavoratore della Tim Bologna, PN n.5). Non si tratta di semplice dequalificazione, secondo una deformante lettura professional-corporativa, né di intensificazione del controllo sul lavoro, come potrebbe far supporre una analisi sulla micro-fisica del potere che enfatizzi la funzione di comando e il rapporto autorità/ libertà sul posto di lavoro, ma di una modalità organizzativa che ricalca i modelli di organizzazione industriale, e i relativi rapporti che produce tra lavoratori e processo produttivo, tra lavoratori stessi, tra lavoratori e gerarchie, e così via, che è in ultima istanza dettata da un esigenza di profitto, cioè una necessità di natura economica.
Per citare un volantino distribuito da un lavoratore di un Call centers della Tim della RO:
“Forse ci eravamo illusi di lavorare per un’Azienda di punta nel settore delle telecomunicazioni a livello internazionale, forte di un impianto tecnologico d’avanguardia e di un immaginario che trae legittimazione dalle parole d’ordine della new economy… E invece, quando cade la maschera, rispuntano strategie produttive e trame ideologiche degne del più tradizionale sfruttamento della forza lavoro, buone per tutte le stagioni: dietro le lusinghe dell’intellettualità di massa, si nasconde un’organizzazione del lavoro squisitamente strutturata sul modello industriale. E i modernissimi call center possono ben rivelarsi per ciò che sono veramente: catene di montaggio, magari post-fordiste, ma sempre catene di montaggio. Non sorprende pertanto imbattersi periodicamente in espedienti già applicati da decenni nell’Industria, grossolanamente riprodotti dall’Azienda quando il livello del conflitto si fa particolarmente alto: dalla ristrutturazione incessante, ai processi di normalizzazione e di cooperazione coatta che fanno capo ad un sindacato giallo (vale a dire un sindacato allestito e finanziato dall’Azienda, la cui illegalità è sancita dallo Statuto dei Lavoratori, ricordiamolo)”.
Al mutare del profilo del lavoratore salariato, cambia la sua modalità di contrapposizione agli interessi anziendali, il grado di collettività che può creare, stabilire e sedimentarsi, tra lavoratori di una medesima unità, come tra lavoratori che vivono le stessi condizioni di sfruttamento e che possono agire con le stesse modalità di conflitto: nelle sue forme quotidiane di arte di resistenza ai dickat della produttività, nel tipo di cooperazione che instaurano, nelle tecniche di lotta effettiva che praticano, nell’involucro organizzativo che scelgono.
L’attività nel call-centers è stata per noi l’inizio di un confronto tra le analogie e le differenze col sistema di produzione manufatturiero, un buon terreno di prova dove sondare i limiti e le prospettive della nostra analisi e delle nostre attività, un ‘gancio mentale’ per ragionare anche sulle tendenze del processo di circolazione nel sistema capitalista[12].
Dal lavoro nel settore della ristorazione collettiva, dove la standardizzazione dei movimenti e la rigida imposizione temporale della loro esecuzione sono studiati minuziosamente, al lavoro nel settore del trasporto merci, dove grazie alle tecnologie informatiche ed al supporto telematico si è in grado, dopo avere pianificato il miglior itninerario, la posizione della merce trasportata (il Global Position System dell’UPS), e dove, un meticoloso studio dei tempi giunge a stabilire una maniacale rigidità dell’esecuzione lavorativa[13], il Capitale intensifica lo sfruttamento per aumentare il margine di profittabilità della merce forza-lavoro come del capitale fisso, per accellerare il processo di accumulazione, stabilire attraverso il governo unilaterale del tempo il dominio sulla forza lavoro, realizzando praticamente la sua utopia: “il tempo è tutto, l’uomo non è più niente; è tutt’al più l’incarnazione del tempo”(K.Marx, Miseria della filosofia).
La centralità del processo produttivo della fabbrica, unità esemplare del processo di lavoro e del processo di valorizzazione del Capitale attraverso l’estrazione del plus-lavoro operaio, in cui i rapporti di produzione nel lavoro concreto sostanziano e incarnano i rapporti tra le classi in generale (divisione esecuzione-direzione, divisione esecuzione-controllo, divisione tra lavoratori e mezzi di produzione, ecc.), è un punto fermo della nostra analisi.
Questa è la tappa obbligata del processo di valorizzazione del Capitale, è un terreno di studio privilegiato, dove investe in ricerca e sviluppo: sta all’azione dei lavoratori ribaltare e liberare questa centralità.
La centralità operaia non è centralità di comportamenti immediati o centralità “politica” di un settore organizzato dalla produzione stessa ma principalmente “centralità sociale in prospettiva”(Fandango, C.Scarinzi), per quanto non venga proiettata come tale nell’immaginario sociale complessivo e nei miti sociali dell’orbita compagnesca.
Proprio perché la rete s’è infittita, imporre la rottura in un punto, significa far convergere su questo tutte le forze che vogliono spezzarla in blocco. Ogni legame di più fra le varie parti del capitale è una via di comunicazione in più tra le varie parti della classe operaia. Ogni accordo tra capitalisti presuppone e rilancia, suo malgrado, un processo di unificazione operaia.
M.Tronti, La linea di condotta, sett., 1966
Ricostruire la filiera di produzione, cioè il percorso di un prodotto da monte a valle della catena produttiva, è uno sforzo necessario per comprendere il processo di produzione complessivo in tutte le sue articolazioni, è uno strumento di acquisizione del sapere operaio sulla produzione. La rete di relazioni tra la casa-madre e l’indotto, solitamente costituito da ditte poli-terziste che producono un componente, o svolgono un particolare tipo di lavorazione, oppure forniscono un particolare servizio all’azienda di riferimento( gestione della movimentazione interna, gestione del flusso delle merci in entrata ed in uscita, gestione del trasporto da una unità produttiva all’altra, ecc.). Accade infatti che una ditta, precedentemente mono-terzista, possa produrre telai per più case motociclistiche, e possa magari produrli solo per determinati modelli di motoveicoli della casa madre, così come succede che una azienda possa servirsi per il trasporto della merce sia di un proprio dipendente, che di alcuni corrieri espressi e magari anche di alcuni padroncini che lavorano esclusivamente per lei. Accade che talvolta la razionalizzazione del sistema di sub-fornitura preveda un modello di ramificazione continua che faccia riferimento però ai rami principali come terminali responsabili delle operazioni svolte a monte della catena produttiva, secondo il modello Porche, mutuato dal modello Toyota, applicato alla Ducati-Motor. Talvolta la casa-madre funziona come leva esterna che impone costi e tempi di produzione e standard di qualità mettendo in concorrenza più fornitori, a volte è il personale stesso della casa-madre che organizza il lavoro nelle ditte appaltatrici, come nei distretti tessili del Nord-Est. La continuità idealmente lineare del processo di produzione, a cui è stata applicata la metafora del ‘tubo di cristallo’, prevede una sincronia tra le diverse componenti della filiera, per una tendenziale annullamento dei ‘tempi morti’ lungo tutta la catena produttivà, l’ottimizzazione dell’uso degli impianti e della forza-lavoro, un annullamento di tutti le disfunzioni, inefficienze che comportano un ritardo nei tempi di consegna, cioè un aumento del costo di produzione e conseguentemente un allungamento del ciclo di realizzazione del profitto.
La vertenza all’UPS, che ha bloccato - vista la sua situazione di monopolio nel settore dei corrieri espresso – parte dell’economia nazionale USA, e della General Motor, in cui è bastato che uno stabilimento, unico a produrre un tipo di componente, alla periferia di Detroit si fermasse, per fermare in poco tempo circa un centinaio di stabilimenti del gruppo negli States, la vertenza della Smart in Francia dove si è fermato una ditta producente un particolare, fermando la macchina produttiva a distretto di quell’autovettura, sono alcuni esempi della fragilità di questa razionalizzazione capitalistica, sono il nervo scoperto del vecchio-nuovo modello di organizzazione della produzione.
Le vertenze nostrane dei lavoratori di una cooperativa (con auto-riduzione dei ‘colli’ e blocco delle merci) che lavoravano nel magazzino Esselunga della periferia milanese, lotta assistita dai compagni della Panetteria Occupata (vedi opuscolo recensito su PN n.7) e la recente vertenza dei lavoratori di una cooperativa curante la logistica dei magazzini Auchan e Rinascente dei punti vendita di Milano, che bloccando in entrata ed in uscita le merci, ha imposto le proprie richieste, hanno mostrato direttamente l’incisività della lotta dei lavoratori della logistica.
Daltro canto le vertenze degli auto-trasportatori in Italia e in Europa (Francia, Inghilterra, Spagna) e le loro modalità di blocchi ai valichi di frontiera, come le file interminabili di camion procedenti a passo uomo, hanno mostrato la centralità della circolazione della merce su gomma, il veloce processo di congestione di arterie di traffico già abbondantemente saturate e soprattutto hanno mostrato indirettamente ai lavoratori stessi, cosa significhi non rispettare i tempi di consegna, svuotare i magazzini di merci, bloccare il flusso di merci in entrata e in uscita[14].
Per citare un articolo apparso l’anno scorso sul n.4 Inchiesta Operaia: ‘l’alluvione… Ci insegna a lottare’ di alcuni lavoratori delle carrozzerie di Mirafiori – Fiat:
“l’alluvione bloccando i trasporti ha bloccato la Fiat! Basterà imitare l’alluvione. Basterà “alluvionare” con la lotta un punto nevralgico, una sola delle aziende terziarizzate in cui è stata scomposta il ciclo produttivo Fiat, come di tutti i complessi terziarizzati e, a causa del “just-in-time”, sistema a “magazzino zero”, si blocca tutta la produzione. Come sempre se il nemico è forte, per combatterlo bisogna chiedersi: dov’è debole?”
C’è una contraddizione tra il tentativo dell’organizzazione razionale del lavoro – da una parte – che tende sempre più ad isolare l’operaio, e – dall’altra – le condizioni stesse nelle quali il lavoro dev’essere sviluppato, le quali portano a far sì che la legge instaurata nella fabbrica venga infranta di continuo perché la produzione possa procedere, e avere un senso. L’operaio deve lottare contro questa impresa di <<razionalizzazione>> che per verificarsi ha bisogno di riassorbire ed escludere ogni esperienza umanamente qualificata: prima ancora del legittimo bisogno di <<saldare>>, con il compagno vicino – nel quale bisogno compare il calore di una solidarietà irriducibile – è la stessa esperienza del lavoro che porta l’operaio a sentire i propri problemi in senso collettivo. (D.Montaldi, “Premessa” in Daniel Mothé, Diario di un operaio 1956-59)
Le nuove <<basi tecniche>> via via raggiunte nella produzione costituiscono per il capitalismo nuove possibilità di consolidamento del suo potere. Ciò non significa, naturalmente, che non si accrescano nel contempo le possibilità di rovesciamento del sistema. Ma queste possibilità coincidono con il lavore totalmente eversivo che di fronte all'’<<ossatura oggettiva>> sempre più indipendente del meccanismo capitalistico, tende ad assumere <<l’insubordinazione operaia>>. (R.Panzieri, Sullo capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, QR, 1961)
Poniamo attenzione sulla cooperazione sociale dei lavoratori e sulla loro auto-attivazione in funzione produttiva, “la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale”(K.Marx). Questa cooperazione sociale rimedia ai problemi quotidiani dell’ordinaria vita lavorativa, non compresi dalla programmazione scientifica dell’organizzazione del lavoro. L’estorsione continua e l’ incorporazione nella scienza del capitale, degli strumenti e metodi di lavoro prodotti dell’intelligenza creativa dei lavoratori, è la contraddizione vivente del miglioramento delle proprie condizioni di lavoro come miglioramento delle proprie condizioni di sfruttamento. Quest’attenzione ci porta sia a vagliare, a livello di analisi, il peso effettivo di questa auto-attivazione operaia per ‘mandare avanti la baracca’, sia, a livello immediatamente politico, a cosa possa significare la volontà di cessare questa prestazione da parte dei lavoratori e come possano utilizzare la rete di rapporti intessuti durante questa cooperazione sociale per costruire la loro organizzazione diretta di classe. Questo costituisce un punto di rottura con il piano dell’umanizzazione delle condizioni di lavoro, della democrazia industriale ‘possibile’ ora in salsa ergonomica, del suo feticismo contrattualista e il relativo codazzo della regolazione legislativa del rapporto di lavoro. Preferiamo proporre una prospettiva di rottura che di adattamento al lavoro salariato, un suo rifiuto piuttosto che una prospettiva di acettazione.
“Il moderno proletariato non è certo l’erede della filosofia classica tedesca e, in senso stretto, nemmeno delle vecchie lotte proletarie. Casomai questa ricca eredità è spettata al capitale che ha sussunto non solo e non tanto forza lavoro quanto intelligenza, progetti e speranze e li pone innanzi ad ogni percorso si liberazione come simboli di una sua vittoria” (Fandango, C.S.)
Il sabotaggio, lo sciopero a singhiozzo e articolato, l’auto-riduzione dei ritmi rompono e negano la cooperazione sociale a fini capitalistici e utilizzano la base produttiva, come terreno di organizzazione diretta di classe che permette di spezzare partendo da ogni anello l’intera catena, sia essa rinchiusa tra le anguste pareti di una azienda, come diluita geograficamente ad distretto industriale o all’intero globo. Chiaramente l’azione in un punto si ripercuote organicamente su tutta la linea, prima più come conseguenza del modo di produzione capitalistico e delle sue contraddizioni, che come volontà soggettiva degli attori della lotta di classe.
Non storcete la bocca, non giudicate banali le nostre aspirazioni immediate, se diamo più importanza alla libertà che ci prendiamo ogni giorno – non prevista dalle norme contrattuali – di lavarci le mani prima che la sirena ci rimandi agli spogliatoi, se riteniamo fondamentale riuscire a svincolarci dai ritmi infernali imposti da sua eccellenza la produttività, se al di fuori delle garanzie giuridiche contrattuali che in assenza di rapporto di forza sono una vera “finzione”, ci affidiamo alla nostra accortezza, alla nostra furbizia per evitare di sgobbare otto ore su otto, per sottrarci ad una condizione di automi. (L. Parodi, L’operaio negli ingranaggi d’un grande complesso industriale, Prometeo, 1959-61)
Sono i comportamenti effettivi che andiamo ad indagare, cercando di dargli contenuto politico. È la prassi quotidiana della resistenza, che è il primo terreno fertile per il nostro intervento. Le forme della disaffezione e di rifiuto del lavoro che caratterizzano una pratica di classe, che non possono essere sponsorizzate da nessuno, ma solo denigrate, condannate e represse o quanto meno, arginate, sono espressione reale dell’antagonismo tra interesse del lavoratore e interesse del capitalista: sono una critica pratica al lavoro, alle condizioni in cui viene svolto, al regime orario che impone…
Queste “forme si conquisteranno una legittimità sociale effettiva solo con la loro estensione e il loro intreccio con forme di lotta d’attacco diretto al cuore della produzione ed in grado di aggredire il territorio. È necessario valorizzare questi comportamenti reali proprio in un contesto di costante attacco alle condizioni lavorative e di vita di tutti, attacco che va dalle fasce più protette della classe lavoratrice, quelli che la stampa borghese chiama ‘privilegiati’, fino alle fasce più deboli di questa, ‘penalizzati’ dai primi per i leccapiedi dei padroni” (ZI,n.4).
Una delle forme di lotta più frequenti – ed è la forma assunta solitamente dagli scioperi a gatto selvaggio – è la seguente: stai lavorando ad una macchina o sulla linea e vedi operai percorrere la linea in senso inverso al flusso produttivo. Guardi in su, e non è l’ora del baracchino, e non è ora di uscire, e c’è un sacco di gente che si avvia agli scaffali degli attrezzi. E così sai che stanno mollando la fabbrica. E allora che si fa? Si spegne la macchina, si mettono gli attrezzi nella borsa e si marca il cartellino. Non si ha idea di quello che succede. Quello che si sa è che c’è sciopero…La “fabbrica” sparisce fino all’ultimo uomo. Poi si esce e si domanda: “Che diavolo è successo”? E le risposte possono essere diverse…Quello che vogliono dire è che qundo si esce, si può scoprire di essere pro o contro uno sciopero, ma la cartteristica fondamentale della classa operaia…Si sciopera in massa, Non c’è un 51% dei voti per scioperare”. (M.Glabermann, Teoria e Pratica, 1969)
Il nostro mettere l’accento sui rapporti di forza, e sulla capacità di saperli ribaltare a proprio favore, è una critica implicita al feticcio democratico in cui si vorrebbe imprigionare l’azione dei lavoratori. L’abilità di forzare le situazioni, non facendo astrazione dai rapporti di forza, è una acquisizione che solo un nuovo protagonismo delle classi subalterne potrà permetterci di maturare.
Resta chiaro che come militanti gli obbiettivi offensivi praticabili sono quelli che un radicamento effettivo, un mutare dei rapporti di forza e un certo grado di efficienza organizzativa, possono permetterci, il resto è sopravalutazione delle proprie forze e incomprensione del proprio ruolo politico.
Così come evidenziamo i rapporti tra i lavoratori che si trasmormano nel momento della lotta, non andiamo per il sottile quando pensiamo che ogni mezzo sia necessario per invertire i rapporti di forza, avere un maggiore impatto sociale, coinvolgere, a volte costringere, alcune porzioni sociali a prendere atto di un conflitto e degli interessi che sono in gioco, soprattutto quando siamo convinti che la passività, il fair-play e la quietezza non portino da nessuna parte, se non alla sconfitta.
Durante l’ultima vertenza dell’ATC abbiamo visto alcuni lavoratori in assemblea proporre il boicottaggio attivo, la presa manu militari, dell’urna nei seggi di un referendum proposto dai confederali per sottoscrivere un accordo truffa, attraverso una consultazione referendaria alquanto dubbia per le modalità in cui si sarebbe svolta: impiegati e altri lavoratori chiamati a votare per qualcosa che non li riguardava minimamente, brogli elettorali, campagna del direttore del personale in favore dell’accordo proposto dall’azienda e sponsorizzato dai confederali.
Solitamente la democrazia è qualcosa che viene chiamata in causa quando c’è da frodare e da reprimere i lavoratori, come sa qualsiasi persona che abbia partecipato alla votazione di un contratto di categoria o un integrativo.
Ci è capitato di stupirci della capacità organizzativa e della determinazione delle operaie della Nuova Star di far i pichetti e spaventare nerboruti addetti alle presse e impiegate intimandoli di non entrare, chiamando per questo alcuni loro mariti che visto il vigore espresso dalle proprie mogli sono rimasti a dormire in macchina, o come alla Meliconi la cronica passività dei lavoratori si sia tramutata in determinazione e per certi versi passione nel rispondere al muro contro muro dell’azienda.
A volte colti dalla brillante luce negli occhi nei momenti di lotta che frantuma il raggellante involucro di abbruttimento in cui è contenuta l’estistenza dei salariati la sintesi del nostro intervento è stata comunicare che Ciò che è nei nostri cuori deve entrare nelle nostre teste, per squarciare quella <<corteccia della civiltà>> (S.Freud) che è divenuta la nostra coscienza.
Per citare in maniera organica ciò che abbiamo riportato in alcuni volantini scritti per alcune vertenze di ristrutturazione aziendale, come Corticella, Ducati-Motor, Arcotronics:
“ Ogni nervo scoperto del padrone può divenire l’anello debole della catena che ci lega alla produzione, ogni sua necessità una nostra possibilità di azione, ogni sua deficienza organizzativa una motivo sufficiente per mettere KO l’organizzazione del lavoro: rallentameni della produzione e auto-riduzione delle mansioni, scioperi articolati a gatto selvaggio con cortei interni che spazzano i crumiri, blocco delle merci in entrata ed in uscita, assenteismo programmato a rotazione nei turni più disagiati, e così via.
Queste azioni stanno alla lotta di classe come la guerriglia sta alla guerra. Lo sciopero è la battaglia in campo aperto, queste sono la lotta partigiana, la lotta giorno per giorno di due classi contrapposte, ma si può anche fare di più, qualche esempio?.
Alla fine di Luglio dell’anno scorso, i circa centocinquanta operai della Cellatex, fabbrica di filati di Givet, ai confini tra la Francia ed il Belgio, dopo essersi opposti alla liquidazione dell’azienda con scioperi, manifestazioni e l’occupazione dello stabile stesso, senza che nessuno si muovesse verso di loro, prima mettono nel piazzale dello stabilimento dei fusti con del materiale per la lavorazione altamente esplosivo minacciando di dargli fuoco, poi sequestrano per un giorno un responsabile venuto a trattare, infine decidono di versare cinquemila litri di acido solforico nel ruscello vicino che confluisce nella Mosa, tingendo di un rosso acceso, pari solo alla loro rabbia, le acque del fiume.
Risultato: stipendio assicurato per tutti per due anni, 80% della retribuzione per almeno altri dieci mesi, una buona uscita di 24 milioni ciascuno…
Pochi giorni dopo, gli operai della Adelhoffen, lo stabilimento di Strasburgo che produceva la Adelscot, stremati dall’indifferenza della direzione che aveva deciso la chiusura senza dire altro, occupano la fabbrica, sequestrano simbolicamente il capo del personale, minacciano pubblicamente di dar fuoco allo stabilimento.
Risultato: gli operai ottengono un incontro che soddisfa le loro richieste, mentre prima i rappresentanti dell’azienda non li cagavano di striscio.
Altre fabbriche poi in Francia hanno seguito questi esempi.
Questi operai sono dei folli o piuttosto, non avendo nulla da perdere, piuttosto che fare spettacolari gesti autolesionisti, hanno usato i mezzi a loro disposizione, contro chi li voleva liquidare e ridurre al silenzio in una vita di stenti, sindacalisti compresi?
Dalla Corea del Sud, dove 1000 operai occupano lo stabilimento della Daewoo per difendere il loro posto di lavoro e resistono per un giorno al tentativo di sgombero intrapreso da 5000 poliziotti in assetto antiguerriglia, per poi intensificare la lotta quando l’azienda annuncia il taglio di 10.000, agli appennini bolognesi non vi è nessuna distanza, perché dovunque pulsa la rabbia operaia, e si combattono i padroni, si manifesta una classe che ha scritto indelebilmente sulle proprie bandiere che l’emincipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi, sia un precario dell’ATC, un operatore sociali delle cooperative di Bologna, un giovane operaio interinale della Ducati-Motor”.
Un gruppo di compagni di Precari Nati
[1] Legge e Ordine” sono le parole di un lessico politico divenuto comune e trasversale che comprende tutte le forze parlamentari che aspirano a governare ed il ceto politico nella sua totalità. I provvedimenti giuridici sulla sicurezza e il ribaltemento legisltivo delle istanze scaturite dall’ultima ondata di movimento di denuncia delle condizioni carcerarie l’estate scorsa, che ha coinvolto la maggioranza delle prigioni italiane, come l’edificaziomi di più carceri, l’assunzione di più guardie carcerarie, istituzione di lager per immigrati, anticamere di espulsione e espulsioni dei proletari che delinquono, sono solo l’iceberg del controllo e della repressione statuale. Flussi di ingresso che istituzionalizzano il lavoro al nero in agricoltura nel sud, considerato che per alcune regioni meridionali non è stato concesso nessun ingresso agli immigrati per il lavoro stagionale nei campi, file interminabili per ottenere un permesso di soggiorno ottenibile solo con la garanzia di un intermediario italiano solitamente il datore di lavoro che è spesso anche l’affittuario, il faito della polizia sul collo dei proletari immigrati, sono parte di questo fenomeno.
[2] R.Luxemburg, centralismo o democrazia, La Nuova Sinistra, Samonà e Savelli, 1970.
[3] Per una puntuali critica dei comportamenti e delle loro implicazioni e conseguenze politiche del milieu dell’ ‘estrema’ Cfr. Politica e Classe, Parma, Dic. 2000
[4] Citando R.Barthes, questi concetti sono diventati dei veri e propri ‘Miti del quotidiano’. Un mito del quotidiano offre, sotto forma di asserzione sopra un oggetto, un complesso di informazioni e atteggiamenti precostituiti, suggerisce che questo esista, così come appare nell’asserzione, anche nella realtà, come qualcosa di naturale, di immanente. Il mito sottace che l’asserzione e l’oggetto asserito sono il prodotto di una costruzione sociale, della quale sottace anche l’obiettivo sublimare. A sua volta un mito del genere può essere visto come parte di una ideologia egemone in senso gramasciano, una credenza con cui si intepreta il mondo, e tutt’al più una contrapposizione ad un ordine morale da debellare.
[5] Mancanza di grandi concentramenti, elevata diluzone territoriale, presenza di unità produttive all’interno della filiera di produzione di stampo quasi artigianale e monoterziste, ecc.
[6] Vedi per esempio il differenziale retributivo potivo rispetto ad altre aree anche vicine e la riduzione formale dell’ orario di lavoro, ottenuta con lo strumento del contratto integrativo aziendale. Cfr. Operai metalmeccanici a Bologna e operai in genere…, Precari Nati, n.5 Dic.’99; Luci e ombre a Bologna…, Precari Nati, n.7 Maggio2000
[7] Un primo tentativo di analizzare alcuni di questi aspetti è apparso su PN n.7 Proletari erranti, note sull’immigrazione a Bologna, di cui è utile citare l’introduzione. <<L’articolo intende analizzare l’impatto dell’immigrazione di lavoratori italiani ed extra-comunitari nel bacino produttivo Bolognese, evidenziando i cambiamenti che sono avvenuti a livello di sistema produttivo e di mercato del lavoro degli ultimi 10 anni circa, avendo come sfondo anche le conseguenze sul territorio, nello specifico la condizione abitativa e la fruizione della rete di servizi di questa comunità. Le mutazioni nella composizione di classe avvenute della forza lavoro del terziario collegato ai servizi logistici dell’impresa, dell’edilizia, e del bacino industriale bolognese, costituiscono una elemento di discontinuità con il quadro precedente, che era caratterizzato a livello industriale da una forza lavoro prevalentemente autoctona, con un elevato profilo professionale, una spiccata cultura politico-sindacale ed un particolare rapporto di identificazione con il territorio, i servizi ad esso collegati, consolidatosi e sedimentatosi nel tempo.>>
[8] Il differenziale con le altre valute europee creatosi grazie alla svalutazione della lira nel ‘95, il grado di utilizzo degli impianti - del 80% circa - e il massiccio utilizzo degli straordinari - mediamente più di 140 ore al mese secondo le statistiche ufficiali - hanno permesso ad alcuni settori dell’economia emiliana basati prevalentemente sull’esportazione (come quello metalmeccanico, chimico e delle materie plastiche) uno slancio economico senza pari, caratterizzato da un lato da una particolare richiesta di manodopera e dall’altro da un intensivo utilizzo di quella già impiegata, mentre settori quali l’abbigliamento, l’edilizia, l’alimentare ed il terziario restavano ai margini del ‘boom’[8]. L’immigrazione interna (ed indirettamente quella estera) verso l’Emilia fu allora incentivata dalla Confindustria che lanciò nell’estate del ’95 l’offerta di 5.000 posti di lavoro disponibili da subito. Tale crescita economica si è poi consolidata, grazie ad elevati tassi di produttività e bassi salari, alla flessibilità degli orari e alla precarietà della forza lavoro, allo sviluppo e la ricerca tecnologica, ad una maggiore razionalizzazione produttiva e finanziaria delle aziende.
[9] Basti ricordare la recidiva scelta del governo di programmare i flussi molto al di sotto della richiesta effettiva di forza lavoro, e il loro velocissimo esaurimento con tanto di interminabili file, assenza di intermediatori culturali allo sportello delle richieste vagliate dalla polizia, obbligatorietà delle garanzie del proprio sfruttatore-benefattore per gli estra-comunitari…
[10] Dalle periferie al centro, ieri e oggi, Pietro Basso, in Immigrazione e trasformazione della società, a cura di P.Basso e F.Perocco, FrancoAngeli, 2000
[11] Operaio massa e operaio sociale: alcune considerazioni sulla <<nuova composizione di classe>>, Roberto Battaggia, Primo Maggio n.14
[12] Infatti se per Marx “il tempo di circolazione si presenta dunque come tempo in cui la capacità del capitale di riprodurre se stesso, e quindi il plusvalore, è soppressa”, la velocità di circolazione è il nodo centrale, per questo la sua dimensione è dilatata costantemente alla ricerca di un annullamento del tempo di circolazione, cioè del “tempo che non crea valore”. Questo se nella sfera di circolazione significa tendenziale annullamento del tempo di realizzazione del profitto, nella sfera direttamente produttiva significa totale profittabilità della giornata lavorativa nella sua estensione e nella sua intensificazione, per il Capitale : “la giornata lavorativa conta di ventiquattro ore complete al giorno”.
[13] L’esempio dell’UPS è più che significativo al riguardo. L’UPS controlla l’80% del trasporto pacchi ed è la quinta azienda con più dipendenti negli Stati Uniti, oltre a detenere il monopolio di questo settore ed essere capillarmente presente su tutto il territorio nazionale è l’azienda con uno dei più perfezionati metodi di organizzazione scientifica del lavoro, cioè di pianificazione integrale della prestazione lavorativa dei suoi dipendenti: per essere assunto dall’UPS viene chiesto ai lavoratori di compiere 2 passi in 3 secondi quando si caricano i pacchi e di saper trasportare nel medesimo tempo un pacco che varia dai 30 ai 70 KG, ai lavoratori viene anche chiesto di caricare su un camion fino a 200 pacchi in un ora, inoltre di volta in volta l’UPS organizza dei corsi di perfezionamento dove insegna a saltare sul camion, cambiare i soldi e accendere il motore del camion il più rapidamente possibile.
[14] In Italia l’autotrasporto merci ricopre una quota percentuale del traffico merci pari al 64,6%, il 96,1% dell’aziende di dimensioni medie fa ricorso fa ricorso al trasporo su gomma, comparata alla realtà euoropea gli autotrasportatori italiani sono solitamente più padroncini(impresa individuale) che effettuano lavori per conto terzi. <<a fronte delle 111.421 italiane, infatti, si registrano circa 50.000 imprese di trasporto tedesche, 38.000 francesi, 8.500 olandesi. Solo la Spagna, con quasi 150.000 imprese, presenta un tessuto aziendale simile a quello italiano>>, Il trasporto Merci, Paolo Volta, Ed. Il Sole 24 ORE, Milano, 2000