Mio fratello è figlio unico perché è convinto che esistono ancora gli sfruttati malpagati e frustrati…

Mio fratello è figlio unico sfruttato represso calpestato odiato…

deriso frustrato picchiato derubato…

dimagrito declassato sottomesso disgregato e ti amo Mario

R.Gaetano

Osare lottare, osare vincere!

Se questa fase non ha ancora visto i bagliori di una reazione di classe montante a Bologna, come in Italia, dei segnali di ripresa del conflitto si sono intravisti, e la crisi economica già si fa sentire.

Per superare le attuali debolezze dell’azione dei lavoratori occorre saper leggere i punti deboli dell’organizzazione del lavoro e della rete produttiva e distributiva nel suo complesso.

Per fare un esempio i lavoratori interinali sono l’espressione di una necessità dell’organizzazione del lavoro - come far fronte ad un picco di produzione - che i lavoratori potrebbero tramutare in una occasione di lotta. Essi sono con la loro presenza la spia di un nervo scoperto che l’intelligenza dei lavoratori deve sapere utilizzare. Inoltre sono comunque ormai in ogni posto di lavoro una massa critica a livello quantitativo, senza di cui, la baracca non va avanti. In alcune fabbriche come la Ducati-Motor si sono dimostrati capaci di essere in prima fila nelle lotte. Questi lavoratori possono farsi portatori di richieste non compatibili con le attuali modalità di comando e gestione della forza-lavoro, e sono forti delle esperienze che la loro mobilità geografica e lavorativa gli fa maturare, in quanto portano con sé tutti i problemi legati alla propria condizione contrattuale, abitativa e sociale in genere, che ‘riversano’ in azienda nella comunicazione tra colleghi.

Fino ad ora, le difficoltà economiche del padronato, sono state viste più come un limite alla propria azione e alle richieste operaie, che come una occasione propizia per la propria azione muro contro muro: se piovono pietre proviamo a tirargliele indietro, centrando il bersaglio. Se il padrone ha problemi economici, sarà ancora più facile “ricattarlo”. Bisogna smettere di rimediare alle varie deficienze organizzative, di assecondare i dickat produttivi imposti, a volte dallo stesso sindacato, che comportano l’introduzione della flessibilità, straordinari, aumento dei carichi di lavoro, diminuzione della sicurezza e precarietà. Bisognerebbe ribaltare il ricatto fatto dai padroni contro di loro, perché la paura cambi di campo. Vi è uno scambio ineguale tra i nostri salari e i loro profitti, tra il nostro tempo sempre più intensamente sfruttato e la loro libertà di godersi un potere intoccabile, tra la nostra insicurezza contrattuale e la loro sicurezza di rendita, siamo effettivamente classe contro classe si deve far pagare finalmente tutto ai padroni.

Questo foglio valorizza la comunicazione diretta e la possibilità di coordinamento tra lavoratori, vuole contribuire a creare intervento, e a mettere ‘in rete’ le esperienze di militanza effettiva. Vuole mettere in luce le potenzialità offensive e capacità politiche della classe, senza esorcizzare, né mitizzare, le difficoltà che si incontrano sulla strada. Alcuni sono così impegnati a fare una radiografia delle sfighe quotidiane che alla fine perdono di vista la possibilità di trasformarle, mentre è proprio la radicale trasformazione degli attuali rapporti sociali che stimola il nostro lavoro di inchiesta, intervento e contro-informazione.

Gli attacchi intimidatori da parte delle direzioni aziendali e del sindacato (usando anche la polizia), contro i compagni della Rete Operaia alla Ducati-Motor, alla Bonfiglioli e alla Meliconi, insegnano che la linea della denuncia e il lavoro di agitazione colpiscono nel segno, e che l’unica risposta è quella di un rafforzamento del lavoro organizzattivo, che ci possa permettere di continuare il percorso intrapreso. D’altra parte sappiamo benissimo che i padroni da sempre fanno bene il loro lavoro, a noi come classe sta il compito di fare bene il nostro!

 

Mobilità, pendolarismo e immigrazione

Il Napoletano non viaggia, può solo emigrare

Massimo Troisi nel film ricomincio da tre

 

Da una decina di anni la mobilità dei lavoratori non autoctoni verso il bacino industriale bolognese, così come dell’area dei servizi alle imprese - cooperative di logistica, facchinaggio, pulizia, ristorazione, ecc. - e dell’edilizia è in costante aumento. Si arriva a Bologna in cerca di un lavoro con l’aiuto di parenti e ‘paesani’ immigrati precedentemente, si fa il giro dell’agenzie di lavoro interinale - circa una quarantina di filiali - nel centro della città, per farsi affittare per qualche settimana, a volte per qualche giorno, come per qualche mese. Ci sono i pendolari che macinano chilometri su chilometri per arrivare a Bologna da Ferrara o dai lidi comacchiesi, e c’è chi pressochè ogni settimana si ritrova il venerdì pomeriggio alla stazione centrale ‘per tornare giù’ magari a Napoli, riprendendo poi la domenica sera il treno per essere all’alba di lunedì di nuovo qua. Per non parlare dei lavoratori immigrati da oltre i confini nazionali per cui lo spostamento è più lungo e costoso e senz’altro più traumatico, mentre la permanenza più difficile e impegnativa.

L’immigrazione avviene lungo le linee dello sviluppo economico, per la possibiltà di una occupazione anche breve, per una prospettiva di inserimento sociale più dignitosa di quella offerta dal proprio luogo di provenienza, che sia  50, 400, 1000 o diverse migliaia e centinaia di migliaia di Km.

Il ricatto abitativo

La mobilità geografica si intreccia con la sempre maggiore precarizzazione nel mercato del lavoro e a livello abitativo nel territorio. C’è chi dorme in macchina o in delle baracche come in via dell’Arcoveggio, chi vive in degli scantinati con la luce dell’unica finestra filtrata dalle grate del marciapiede come in via Barbieri in Bolognina, chi dopo aver terminato il turno di lavoro nei cantieri dei Treni ad Alta Velocità a Pianoro, da il cambio in branda in prefabbricati-dormitorio, a chi fa il turno seguente, chi in singola, doppia o tripla condivide lo spazio abitativo stipato in mini-appartamenti stracolmi, pagando un salasso a affitta case pescecani nei quartieri più periferici: <<l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché questo sepolcro lo deve pagare.>> scriveva K.Marx ben più di 150 anni fa descrivendo la situazione dei proletari d’allora!

Chiunque cerca casa poi non potendo offrire nessuna garanzia all’affituario, né potendo sganciare una cifra astronomica per la ‘caparra’ al padrone di casa oltre al ‘pizzo’ all’agenzia immobiliare, si arrangia come può, cioè male, mentre piccoli e grandi pescecani della speculazione abitativa si arrichiscono, al pari dei caporali delle agenzie interinali, magari inveendo in ambito politico a destra contro il ‘degrado dei quartieri’, e a sinistra in favore degli ‘utili schiavi’ del mercato.

Così mentre a Torino o a Milano dalla fine degli anni cinquanta fino agli sessanta non era raro vedere appesi annunci di affitto del tipo: non si affitta a meridionali, chi cerca casa a Bologna oggi, sa benissimo che, anche se non viene detto così esplicitamente(si chiede di visionare le ultime buste paga e il 740 dell’anno precedente), non si affitta a precari, soprattutto se immigrati dal sud o fuori dai confini nazionali. Contratti capestro a voce o fatti su fogli di carta volanti del tutto irregolari, sono il risultato della costante imposizione prendere o lasciare, dei padroni di casa, protetti da una legge che ha prima scavalcato e poi definifivamente annullato la possibilità di avere un equo-canone.

Chi poi, stabilizzata la propria situazione lavorativa, pensa di godere di prospettive più rosee e sobbarcarsi una dose maggiore di sacrifici, ricongiuntosi in loco con il proprio nucleo familiare, si appresta a pagare mutui pluriennali a tassi agevolati, per le banche ovviamente, e a rateizzare ogni bene di consumo che pensa di permettersi di pagare.

Siamo tutti precari…

Queste situazioni non costiuiscono casi limite, non sono parte di una marginalità sociale quantitativamente minoritaria e qualitativamente periferica, ma fanno parte di una porzione di classe lavoratrice sempre più in estensione, integrata nel tessuto produttivo e assolutamente necessaria per le attuali dinamiche di accumulazione, parte costitutiva della realtà di un precariato sociale diffuso presente per alcuni, latente come minaccia per altri. Questa realtà se non è sotto i riflettori dell’informazione ed è ignorata da partiti e sindacati, è più che tangibile per coloro che questa condizione se la vivono sulla propria pelle, come per coloro che la vita quotidiana fa incontrare a scuola, sul lavoro, sugli autobus, nei quartieri. È  proprio dalla socializzazione della propria particolare esperienza proletaria attraverso qualsiasi  canale di comunicazione, tra cui Zona Industriale, che si percepisce l’universalità della condizione operaia in tutte le sue sfumature, non certo dando credito al mare di menzogne confezionate dalla televisione e dai giornali, dalle panzane dei politici e dai predicozzi dei preti.

Tutti gli schieramenti politici si fanno promotori di ‘campagne per la sicurezza’ che servono da un lato ad aumentare il senso di impotenza, e la deterrenza preventiva rispetto all’azione diretta di tutti i lavoratori, così come a legittimare la “sottomissione” di alcune porzioni sociali nel modo in cui si percepiscono e si rappresentano, oltre che spingere gli altri proletari a percepirli come una minaccia sul posto di lavoro, nei quartieri o nell’usufrutto dei servizi sociali, esorcizzando così il peggioramento delle condizioni di esistenza che riguarda tutti.

Chissà perché nessuno parla dei lavoratori immigrati che lavorano come avventizi agricoli o come manovali edili in nero, caricati all’alba da camioncini di padroncini e caporali di turno, delle lavoratrici delle pulizie, il più delle volte assunte con falsi contratti da cooperative, che puliscono uffici e banche e centri commerciali, dei lavoratori dei laboratori tessili clandestini della Bolognina che escono a mezzanotte dal lavoro e portano i propri figli a passeggio al parco G.Rossa, per poi ricominciare all’alba!

Si sa, un lavoratore è visibile solo quando compare nel bollettino di guerra delle morti sul lavoro, o quando alza la testa e fa sentire la sua voce…Allora diviene subito un problema di ordine sociale e la polizia si interessa immediatamente a suo modo dei lavoratori più attivi.

Il velo omertoso steso sulle fabbriche-di-morte a Bologna: Casaralta, Fochi, Breda Menarini, Officine Grandi Riparazioni, che per anni hanno continuato indisturbate a uccidere i propri dipendenti, intossicandoli con l’amianto, dovrebbe mettere in guardia tutti noi sulla pericolosità del silenzio e sulla nocività per la vita di noi tutti di chi sapeva e ha taciuto, complice di un lento e quotidiano assassinio.

Ripartire dalle condizioni di lavoro…

Anche se trovare un lavoro a termine come operaio generico, piuttosto che in una altra occupazione ‘a basso contenuto professionale’ non è un problema fino ad una certe età, diviene poi un problema per tutti, ‘fissi’ e non, resistere, per non dire sopravvivere visti i quasi 4 infortuni mortali al giorno. Grazie ad un regime orario che monolpolizza il tempo di vita, ad una pressante gerarchia produttiva, alle condizioni complessive di lavoro: ritmi e carichi di lavoro, condizioni di sicurezza, ecc., così come alla paga generalmente bassa che viene offerta e a cui si rimedia individualmente con gli straordinari (o doppio e talvolta triplo lavoro) o con una drastica riduzione dei propri consumi.

Sono proprio le condizioni di lavoro che livellano e accomunano i lavoratori di una determinata ditta per gruppi pressoché omogenei, qualunque sia la situazione contrattuale, la provenienza geografica, il genere e l’età, sono il naturale terreno di scontro su cui bisogna ripartire per smascherare tra l’altro le divisioni ‘virtuali’ create dalle direzioni aziendali per dividerci e quelle reali mantenute dall’organizzazione capitalistica del lavoro per comandarci e controllarci. Le condizioni di lavoro possono essere il punto di partenza per la generalizzazione di pratiche di lotta e strumento di identificazione reciproca tra lavoratori di settori diversi, vista tra l’altro l’estensione delle medesime modalità di sfruttamento, cioè dell’organizzazione scientifica del lavoro, a tutti i settori e comparti dell’economia, dalla metalmeccanica alla ristorazione, dalla grande distribuzione alla logistica, dal lavoro impiegatizio al lavoro nei servizi.

Le crepe della pace sociale in tempo di crisi

Sono queste contraddizioni che lacerano sempre di più i margini di realizzazione di un pace sociale dalla tenuta incerta, dove prosperano parzialmente forme di resistenza dei proletari più o meno collettive: come l’assenteismo, gli scioperi, l’autoriduzione delle tariffe di trasporto, occupazione di stabili ‘sfitti’, che si conquisteranno una legittimità sociale effettiva solo con la loro estensione e il loro intreccio con forme di lotta d’attacco diretto al cuore della produzione ed in grado di aggredire il territorio. Vi è tra l’altro una repressione puntuale a livello carcerario e poliziesco delle porzioni sempre più consistenti del proletariato che si muove per condizioni oggettive imposte sempre più tra legalità ed extra-legalità: basti pensare alle politiche restrittive sull’immigrazione e al perfezionamento delle procedure di espulsione e incarcerazione, alla ‘guerra alla droga’ che penalizza tossicodipendenti e spacciatori di strada e arricchisce le mafie economiche, alla penalizzazione dei reati minori contro la proprietà, ecc. È la crisi montante e queste sono solo parzialmente le sue nefaste conseguenze per tutti noi.

Equilibri politici, subalternità sindacale, potere operaio

La politica della concertazione sembra, negli ultimi tempi, perdere parte del suo potere a causa delle divisioni sempre maggiori tra i tre sindacati confederali CGIL,CISL,UIL.

Le imminenti elezioni legislative, il sistema politico cosiddetto ‘bipolare’ e la mancanza dei tradizionali partiti politici di riferimento, hanno aperto profonde contraddizioni all’interno della ‘triplice sindacale’ tra chi sostiene l’uno o l’altro polo elettorale. La caccia a referenti politici, associazioni di categoria, e altre coalizioni di interessi ha innescato, già prima che iniziasse la campagna elettorale, divergenze difficilmente sanabili a giochi fatti , chiunque risulti poi il vincitore.

E’ prevedibile, se così stanno le cose, un incremento del protagonismo demagogico della sinistra a fini elettorali sul piano politico e sindacale, come del populismo spicciolo della destra sociale sui suoi tradizionali cavalli di battaglia.

Sul piano locale è più che eloquente ‘l’attivismo’ strumentale della CGIL con gli scioperi dei dipendenti comunali, così come alla CIBA, o la semi-disponabilità a scioperare nell’ATC ecc., per non parlare delle mobilitazioni antifasciste ‘a orologeria’ indette dai partiti del centro-sinistra, ridicoli intermezzi piuttosto teatrali che per un giorno interrompono rapporti quotidiani a tarallucci e vino con gli amici-nemici di sempre.

Sul piano nazionale la differenziazione di posizioni dei sindacati nelle trattative con la Confindustria sulla conduzione di molte vertenze (integrativo del gruppo Fiat, parte economica del contratto metalmeccanici, ecc.) e con il governo, sui contratti a termine e la flessibilità, con il conseguente rinvio della discussione a dopo le elezioni, dimostrano che senza una chiarificazione dei nuovi equilibri politici nessuno se la sente di rischiare avventurosi salti in avanti e la dicono lunga sull’attuale strumentalità di possibili mobilitazioni promosse dai confederali.

Non si deve però scartare l’ipotesi di un utilizzo in modo intelligente di tutti gli spazi politici che possono venire concessi negli scioperi, come nelle mobilitazioni di piazza, per veicolare le proposte e i contenuti dei settori più avanzati della classe.

Lo stesso astensionismo, che è la forma di rappresentazione politica avente il maggiore consenso - il vero partito a maggioranza relativa - è un terreno fertile di perdita di consenso sociale e di disaffezione alla partecipazione democratica su cui far crescere un’ipotesi esplicitamente antiparlamentare di critica della politica e delle forme di riproduzione del potere istituzionale. Certamente non vogliamo compiere una forzatura interpretativa di un dato statistico, né fare una analisi semplicistica di un fenomeno complesso. Tuttavia ci sentiamo di sottolinearne i possibili sbocchi per lo sviluppo di un’ipotesi di azione realmente autonoma delle classi subalterne, e di delineare una possibile rottura con l’eredità e i residui democratico-riformistici del vecchio movimento operaio: è la pratica della delega che comunque dobbiamo abbandonare, concentrandoci, come lavoratori, sulla costruzione della nostra forza sociale antagonista attraverso la pratica del potere operaio 

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