Considerazioni preliminari sull’agire di classe a inizio millennio

Queste note sono un primo prodotto di una discussione che si sta sviluppando fra una serie di compagni del Precari Nati di Bologna. Si tratta essenzialmente di una bozza preparatoria per un lavoro più generale sulla situazione attuale legata al mondo del lavoro, da svolgere con altri gruppi e compagni interessati a questo tema.

Viviamo una fase sociale scossa da innumerevoli cambiamenti, che riguardano sia l’organizzazione del lavoro sia la composizione di classe, tuttavia il sistema di produzione capitalista si basa come prima su un continuo bisogno di accumulazione e capacità di valorizzazione, questo processo porta ad un continua ricerca di profitto attraverso l’estensione dello sfruttamento dei macchinari e della forza lavoro, che rimane la base dell’esistenza del profitto grazie all’estrazione di plusvalore. A questo si aggiunge la gara speculativa, fenomeno proprio dell’attuale sistema di produzione.

Una nuova articolazione del capitale nella divisione internazionale del lavoro

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Le modificazioni più evidenti e vistose hanno riguardato, se si considera come campo di ispezione la grande industria, i sistemi di produzione interni e la relativa strategia di vendita e di pianificazione del prodotto. Utilizziamo l’industria perchè rimane il cuore del capitale produttivo, dove si esplicano in maniera più chiara e cruda i rapporti di forza tra le classi. In questo spazio il padronato sperimenta forme di controllo sui lavoratori e fornisce schemi generali per la società, oppure riutilizza e amplia alcune anticipazioni di altri settori[1].

Scartiamo ovviamente l’ipotesi che sia il mercato a determinare l’organizzazione del lavoro e il relativo processo produttivo, in quanto è la ricerca del profitto che rimane centrale nella strategia involontaria del capitale.

Il passaggio dalle cittadelle industriali autonome, a un più articolato sistema di produzione a rete ha modificato il volto delle aziende e la loro organizzazione interna. La catena di montaggio si è diluita nel territorio, e accanto ad una ditta madre convivono una miriade di ditte monoterziste. Il fenomeno non investe solo distretti produttivi limitati geograficamente, ma l’intero pianeta. Non è un caso che in numerose ditte di Bologna i ragazzi delle catene di montaggio montano componenti prodotti in tutto il mondo. Vi è uno stoccaggio limitato, e una scomposizione della fabbrica in tante piccole ditte che rappresentavano i vari reparti, salvo avere sul lato finanziario un accentramento accelerato. In questo il cosiddetto modello emiliano rimane un esempio molto esaustivo: si basa su una miriade di ditte, per la maggior parte con un numero di addetti che si aggira sul centinaio. Tuttavia questa miriade di fabbriche sono concatenate fra di loro, sia rispetto al flusso produttivo (guarda in questo senso il numero di componenti prodotti esterni alla Ducati o alla Malaguti in regione) sia  a livello di pacchetti d’azioni, non è un caso che il passato ministro dell’industria abbia indicato per il modello emiliano un processo di consorzi dei distretti produttivi. Questa scomposizione-ricomposizione non è un fenomeno che investe solo le aziende, ma la stessa organizzazione interna. Le nuove tecniche produttive legate alla “filosofia” giapponese delle isole di produzione sono una conferma di questa tesi[2]. Attraverso una maggiore specializzazione e con uno stoccaggio limitato, che si contrappone alla filosofia del prodotto seriale, si realizzano prodotti precisi già destinati alla vendita immediata. Questo constante controllo si esplica a monte del processo produttivo, nell’immagazzinare scorte destinate all’immediato montaggio, e alla fine del processo produttivo con l’immediata vendita del prodotto, già predestinato ad un acquirente prima della produzione. Questa è una tendenza generale, non è la fine della serialità dei prodotti, anzi il modello che maggiormente viene sperimentato è la serialità limitata camuffata dalla diversificazione per il client. Emblematico è lo schema della Smart, fabbrica dove ogni veicolo è personalizzato dall’acquirente, prima delle vendita e quindi prima della produzione, ma le scelte rimangono limitate. Puoi scegliere il colore degli interni il colore dei cerchioni e del cruscotto, prima della realizzazione, ma hai una gamma prestabilita di possibilità, è più semplicemente come una scatola di lego dove con una confezione puoi fare diverse costruzioni, ma queste rimangono sempre rinchiuse in un numero finito. Altro esempio può essere la virtuale scelta dell’acquirente che prenota una moto prima della vendita, in ditte come la Ducati-motor. La produzione dei motocicli è calibrata dalle richieste mese per mese, ovvero quando gli operai montano una moto in una catena di montaggio il prodotto è già venduto, ovviamente questo accelera i processi di valorizzazione dei profitti, in quanto vengono riversati nel mercato finanziario.

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La rete produttiva ora viaggia a una velocità più che raddoppiata per aumentare i margini di profitto, ma questo la rende molto più precaria. Se da un lato si spinge per annullare le spese morte e per permettere una immediata vendita delle merci  oltre che per un maggiore sfruttamento della forza lavoro, dall’altra parte l’organizzazione del lavoro offre spunti interessanti di attacco per la classe operaia. Da un lato vi è il cambiamento dei rapporti tra la ditta madre e l’indotto, che offre ora la stessa capacità di incidere nel processo produttivo complessivo della realizzazione di un prodotto ad una piccola ditta dell’indotto come alla casa madre, in questo senso il blocco degli straordinari alla Verlicchi (ditta produttrice di telai per la Ducati) ha portato al blocco delle catene di montaggio alla Ducati senza che questa azienda fosse toccata dalla lotta. Su un piano più generale l’estensione della catena produttiva sul territorio, ha creato macroaree di produzione, non portando alla fine dello Stato e delle politiche protezioniste con annesso i conflitti militari, ma a una nuova regolamentazione del sistema di concorrenza tra Stati e più in generale tra capitali[3]. L’interrelazione tra ditte porta come risultato che un prodotto finito ha una miriade di ditte che contribuiscono alla sua realizzazione e una relativa intensificazione dei rapporti commerciali su scala mondiale. Questo processo è il prodotto dell’ estensione della classe operaia.

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Accanto alla flessibilità produttiva si lega la contrattualistica precaria, che rende operativo tale sistema. La classe operaia è chiamata all’interno delle aziende con una miriade di contratti, che oltre a dividerla sul piano giuridico legale, la plasma rispetto ai picchi produttivi. Non è un caso che il grosso della flessibilità si giochi oltre che con lo sviluppo di nuove forme contrattuali (vedi il lavoro interinale in Italia, che ricordiamo è stato avvallato con l’aiuto indiretto di Rif Comunista) attraverso la formulazione dell’orario su base annua, per determinare mese per mese, settimana per settimana, l’orario di lavoro, assecondando i dettami produttivi del periodo. Questo porta tuttavia ad accrescere l’instabilità nella classe operaia. Non rimpiangiamo il posto fisso=galere a vita, poiché lo consideriamo semplicemente un dato modello per un dato momento dell’accumulazione capitalista, riteniamo che questo, solo marginalmente, fosse legato alla forza operaia, poiché rappresentava un sistema che vedeva nella forza lavoro fissa il soggetto di una fase espansiva accelerata. Inoltre era un’ottima soluzione rispetto ad una accelerata distribuzione dei prodotti, e un forte legante ideologico tra la classe lavoratrice e le strutture di potere [4] Ora un lavoratore precario è sballottato di mese in mese in aziende diverse. La ditta non può avvalersi dello spirito di famiglia e neppure troppo forzare rispetto al coinvolgimento nell’organizzazione del lavoro si rende quindi  più visibile l’alienazione e la merda del lavoro capitalistico...

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Riteniamo che vi sia nell’attuale strategia del capitale come nel passato, la capacità molto reale di prendere in considerazione la lotta di classe e di proporre soluzioni per ostacolare questa. La distruzione delle cittadelle operaie oltre ad assecondare un sistema di produzione più flessibile è dovuto anche alla possibilità di disinnescare delle comunità operaie combattive, che omogeneizzate accrescevano la loro forza. Si delocalizzano le fabbriche in zone dove la lotta operaia non si presume alta e dove vi siano aiuti finanziari come una minore pressione fiscale. Anche per questo piano lo Stato come agente economico non scompare anzi diventa elemento fondamentale per lo sviluppo del capitale, le recenti vicende della Candy nella Repubblica Ceca ne sono una dimostrazione. Tuttavia non bisogna cadere nella mitologia del piccolo è bello, poichè accanto a fenomeni di scomposizione ve ne sono di accentramento. La recente reindustrializzazione in determinate zone degli Stati Uniti e in Europa, oltre all’agevolazione territoriale specifica data alle aziende con una politica di sgravi fiscali, si lega alla necessità di concentrare un determinato processo produttivo in un area non troppo vasta, per un maggiore controllo del flusso produttivo. E’ di questi giorni la scelta di Benetton di spostare inVeneto una parte della produzione, poichè questo assicurava una più immediata realizzazione del prodotto.

La stessa scomposizione interna della fabbrica sul modello delle isole di produzione, rispetto alle catene di montaggio, oltre ad assecondare gli attuali standard di produzione è un sistema per distruggere la collettività operaia interna, e per incrementare il surplus di controllo sui lavoratori. In molti casi dietro alla qualità totale si maschera una non troppo velata forzatura ideologica del padronato per rendere maggiormente docili gli operai. La creazione di fittizie gerarchie orizzontali tra i lavoratori come i team leader, o i gruppi di qualità, dove i lavoratori sono coinvolti maggiormente dalle aziende, incrementando la loro virtuale capacità decisionale è un rozzo tentativo di omologazione padronale e mitologia aziendalista. Segnali in contro tendeza ve ne sono stati: numerose ditte giapponesi e tedesche, che utilizzavano il metodo della partecipazione e qualità totale, hanno dovuto abbandonare questo modello. Quando i lavoratori hanno capito il gioco che ci stava dietro, la musica aziendale rispetto alla migliore qualità della vita e del prodotto si è interrotta immediatamente, e ha reso palese a tutti come questi modelli non servivano per una migliore produzione in senso stretto, ma a un maggiore controllo sulla forza lavoro.

Con questo non riteniamo che sia esaustivo spiegare in maniera soggettivista lo sviluppo del capitale e la relativa azione operaia. Vi è stata in Italia una liturgia che asseriva “il salario come variabile indipendente del sistema economico”. Credendo alle virtù taumaturgiche delle lotta di classe rifiutandosi di studiare in quali condizioni la lotta di classe poteva svilupparsi. Se è vero che il padronato continuamente propone soluzioni ideologiche per il proletariato per incrementare il lavoro, questo non toglie che è determinato in generale dal piano di accumulazione del capitale stesso, e che la relativa risposta del proletariato è figlia di precise soluzioni materiali che presuppone di volta in volta il capitale.

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Questo piano oggettivo e soggettivo del capitale è regolato dal suo continuo bisogno di accumulazione e per ciò è nella sua organizzazione variabile che trova paradossalmente la sua stabilità. Tuttavia gli elementi di novità presenti in questa fase non sono legati alla “qualità”, basta avere presente che il principio base rimane quello dell’accumulazione e della ricerca di profitti per accorgersi immediatamente che la cosiddetta “globalizzazione” è una bufala postmodernista, figlia di settori borghesi incapaci di leggere i processi reali del capitale, camuffando questa mancanza con paccottiglie. Il capitalismo è un modello globale, in quanto il sistema espansivo e monopolistico è proprio del capitale fin dalle sue origini. Così come il plusvalore rimane al centro del sistema di produzione capitalista, la sua componete finanziaria e speculativa è l’emblema della crisi in cui versa e del necessario superamento in senso comunista. Ma è nella sua dimensione quantitativa che cambia. Una ditta produttrice di un determinato oggetto è prima ricorsa a esterni per la circolazione e la vendita della merce, mentre attualmente abbisogna anche nel suo processo interno di produzione di una maggiore scomposizione. Questo processo aumenta e affina l’uso del capitale fisso, e chiede una maggiore partecipazione al capitale variabile. E’ in questo senso che l’estrema specializzazione delle singole aziende corrisponde a una “quantitativa” differenza del presente sistema di produzione capitalista. Questo ha come dato fondativo una maggiorazione di sfruttamento chiesta al lavoratore nel processo lavorativo e un accresciuto bisogno di estrazione di plusvalore.

La situazione di classe

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L’aumento legato ai ritmi e al tempo di lavoro si traduce in una maggiore pressione nei confronti della classe operaia. A questo è connessa la sua sempre maggiore pauperizzazione, attraverso il continuo ridimensionamento dei salari e una sempre maggiore precarietà contrattuale, che si lega alla flessibilità produttiva.

Scartiamo le visioni semplicistiche e drogate della New economy e dell’onnipresente capitale finanziario che nascondono l’inasprirsi delle condizioni di vita dei proletari. Nel primo caso è un modo abbastanza rozzo di bleffare rispetto ad una situazione di crisi [5], mentre nel secondo caso è un sottoprodotto del capitale produttivo. La continua divaricazione del capitale finanziario rispetto al capitale produttivo, porterà a un risveglio rovinoso, visto che gli indici fittizi del capitale finanziario non corrispondono a quelli del capitale produttivo (si è già visto il calo delle “meravigliose” ditte virtuali di internet)[6]. Il padronato in questo momento ha assunto sempre più una connotazione sociale complessiva, in questo senso l’affermazione marxiana che il capitalismo non è solo la divisione in classe ma è fondamentalmente un rapporto di produzione (tanto che si potrebbe avere un capitalismo composto solo da padroni-tecnici, ma non è il nostro caso) si realizza in tutta la sua potenza. Avviene sì la polarizzazione sociale spinta, sempre più settori della classe media vengono inghiottiti dal proletariato (meno male!), ma al tempo stesso il padronato cerca sempre più di smaterializzarsi, e di sfruttare l’essenza espansiva del sistema di produzione capitalista, si moltiplicano società per azioni, strutture su cui vi sono maggiori margini di speculazione. Vi è un sempre più un accelerato processo di concentrazione di capitali che rendono obsoleta la figura del padre padrone con cilindro... Si inglobano le società minori, aumenta il valore delle azioni, l’accorpamento di mansioni corrisponde a un maggiore risparmio sui costi. Se si osserva che uno dei grandi attori del periodo è il fondo di investimento (come il fondo pensioni), si riscontra immediatamente che il criterio principale non è lo sviluppo produttivo, ma la riduzione dei costi. Il piano dove si gioca questa partita sono i mercati azionari con la spettacolarizzazione del valore delle azioni. Tale processo supportato da una crescente spinta monopolistica, propria del sistema di produzione capitalista, abbisogna di una nuova figura di padronato, meno statica e più paradossalmente “flessibile”.

Il padronato tuttavia viene immediatamente ricomposto come settore sociale visibile nel momento in cui il proletariato muove all’attacco, e inevitabilmente ricrea le condizioni della vecchia “lotta di classe” contrastando questo processo all’interno delle aziende, il principale teatro dove gli attori della società hanno un copione fissato dalle leggi dell’economia e dove tale rappresentazione si manifesta in tutta la sua grandezza. La visibilità del padronato tuttavia si può già intravedere nella dimensione delle lobby di manager e imprenditori che si rinchiudono nelle cittadelle finanziarie e urbane. Va in questo senso una modificazione urbana accelerata che ricorda il vecchio castello: in molte città negli USA o nel Sud Africa vi sono quartieri militarizzati destinati ai “nuovi padroni”. Come un tempo il problema non è quello di organizzare dei raid contro queste cittadelle, ma di utilizzare l’economia come arma contro i padroni, rigettando in campo la potenza e l’importanza del capitale produttivo.

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La classe operaia subisce un attacco continuo da parte del capitale e vi è un’estensione della giornata lavorativa a livello mondiale, in più se quantitativamente sono aumentate le ore lavorate dalla classe operaia nel mondo, si è avuto anche un aumento qualitativo dell’orario di lavoro, è evidente a tutti che un’ora di lavoro negli anni 50 non può essere paragonata ad un’ora di lavoro nel 2000[7]. Accanto a questo si ha l’espansione della classe operaia nel mondo, fattore connesso al principio di accumulazione ed espansione-fagocitazione del capitale. Ai fautori del postmoderno farà rabbrividire sapere che la classe operaia industriale in senso stretto, come massa e tasso di occupazione non è mai stata così numerosa. La massa degli occupati nell’industria è, al 1995, pari a circa 500 milioni di addetti, tre volte e mezzo più grande, cioè in termini assoluti, di quanto lo fosse nel 1950; e la sua crescita è considerevole anche in termini relativi dal momento che nello stesso periodo la popolazione mondiale è solo raddoppiata. Il che significa che vi è oggi, nel preciso momento storico in cui il proletariato industriale è dato per morente, una giornata lavorativa sociale nell’industria mondiale non inferiore ai 4 miliardi e mezzo di ore di lavoro, e probabilmente superiore ai 5 miliardi di ore di lavoro, gran parte delle quali erogate dal proletariato. E se è vero che dagli anni 60 negli USA, dagli anni 70 in Europa e nel decennio successivo in Giappone, l’occupazione industriale è in calo percentuale prima e assoluto poi, questo accade non perchè l’industria sia “superata”, bensì perchè essa ha attirato eccezionali livelli di produttività (in media più che doppi rispetto a quelli dei servizi). Oltre a questo bisogna conteggiare che molte figure inserite nel lavoro industriale sono state contrattualmente spostate, ma rimangono localizzate all’interno dell’industria: contabilità, pulizie, ristorazione collettiva, logistica...

Si scopre forse l’acqua calda ma vi è una continua ricerca di immagazzinare forze umane nel processo produttivo, che non riguarda ovviamente solo le industrie. L’”industria dei trasporti” è considerata da Marx come la “quarta sfera della produzione materiale” che si aggiunge all’industria estrattiva, a quella manifatturiera e all’agricoltura. Di conseguenza: “Il rapporto fra i lavoratori produttivi, è qui esattamente lo stesso che nella altre sfere della produzione”. Il ragionamento logico che sta alla base di questo è: il trasporto modifica il valore d’uso di una merce “Le masse di prodotti non aumentano per il loro trasporto. Anche il mutamento delle loro proprietà naturali, operato eventualmente per suo mezzo, non è, con alcune eccezzioni, un deliberato effetto utile ma un malanno inevitabile. Ma il valore d’uso delle cose si attua soltanto nel loro consumo, e il loro consumo può rendere necessario il loro mutamento di luogo, cioè l’aggiunto processo di produzione nell’industria dei trasporti”K.Marx. Se si considera che il terziario classico serve per il mantenimento della forza lavoro, come la sanità, il cerchio si chiude. Un discorso a parte si dovrebbe aprire rispetto al settore delle telecomunicazioni, ma non crediamo che questa sia la sede. La stessa rincorsa per l’unificazione di importanti settori, bancario, automobilistico, ecc. attraverso il fluttuante scontro tra monopoli rende ancor più evidente la rincorsa del capitale nel ricercare maggiori profitti, coadiuvati da una politica speculativa che maschera lo stato di crisi, ma al tempo stesso ne dimostra i limiti offrendo alla classe operaia un motivo materiale di unità internazionale, che ancora una volta si ricompone all’interno del processo di lavoro complessivo.

Tale fenomeno ha modificato l’organizzazione del lavoro e la stessa “pianificazione-caotica” del capitale, che deve impostarsi sempre rispetto a limitatissimi tempi, non potendo garantire una stabilità dei mercati. Si può trovare una nuova classe operaia in Messico o in Cina che in questi anni conduce lotte asprissime contro il piano del capitale (si guardi in proposito le lotte operaie con scioperi selvaggi in Cina contro l’impianto di nuove forme di organizzazione del lavoro di matrice americana), l’Europa o gli Usa ancora maggiore centro produttivo del pianeta, hanno una risposta di classe, ma questa non riesce a dimostrarsi in maniera visibile, tale da determinare una comunità proletaria attiva. Tuttavia rimane una sotterranea manifestazione di classe che anche se in modo limitata arreca ai padroni numerose difficoltà e paure. Non è un caso che l’avvicinarsi della crisi inasprisca e irrigidisca il padronato, tanto da essere spaventato da una minuscola rete di militanti sindacalisti di base neokenesiani!. Tuttavia è evidente che toccare il nervo del capitale (elemento produttivo) provoca spasimi nella controparte, vista l’estrema difficoltà nel proporre dei cuscinetti sociali, dal momento in cui le garanzie e le possibilità di offrire un salario indiretto si sono assottigliate.

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Prima di indicare quali possono essere le prospettive rivoluzionarie in una fase come questa occorre chiarire alcuni nodi irrisolti dell’attuale fase. Se il problema del precariato come abbiamo visto è legato sia alle strategie di produzione flessibile sia a un maggiore ricatto contrattuale, il problema della disoccupazione appare una cosa in più che si aggiunge a questo. Si è restii a considerare il problema della disoccupazione come esercito industriale di riserva e come elemento fondante di questa società. Come abbiamo visto l’accumulazione del capitale si riproduce su scala allargata, più capitalisti o più grossi capitalisti e di conseguenza più salariati, l’accumulazione del capitale è l’aumento del proletariato. Ma con il progresso delle macchine (e il relativo incremento della quantità di lavoro) sono necessari sempre meno operai per produrrete una medesima quantità di prodotti e vi si determina in alcune zone del pianeta una diminuzione della classe operaia. Vi è quindi un soprannumero di operai rispetto all’ampiarsi del capitale. Questa componente operaia è il cosiddetto esercito industriale di riserva, che in questa fase viene pagato al di sotto del valore del lavoro e viene impiegato irregolarmente o è abbandonato alla miseria. Questo esercito di riserva è necessario al capitale in quanto infrange la forza degli operai occupati regolarmente e permette di tenere i salari bassi: “Quanto è maggiore è la ricchezza sociale...tanto maggiore è la sovrappopolazione relativa ossia l’esercito industriale di riserva. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in proporzione all’esercito operaio attivo (occupato regolarmente), tantopiù in massa si consoliderà la sovrappopolazione, ossia gli strati operai la cui miseria sta in rapporto inverso con il tormento del loro lavoro. Quanto maggiore infine lo strato dei lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva, tanto maggiore il pauperismo ufficiale. Questa è la legge assoluta dell’accumulazione capitalista”k.Marx

La sua fine come problema sociale è legata a filo strettissimo con le sorti generali della società capitalista!.

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Questo processo di espansione  ha reso maggiormente internazionale il movimento operaio. Questo non è ancora divenuto patrimonio comune tuttavia sono iniziate le prime stridenti contraddizioni che hanno toccato  anche le centrali borghesi di sinistra. Le lotte che si sono sviluppate dopo il Nafta oltre a interessare il Messico hanno avuto un epicentro grosso nelle grandi aziende automobilistiche americane, dove il sindacato mafioso americano ufficiale, ha dovuto contrastare questo processo internazionale del capitale, poichè stritolava e stritola ancor di più la forza operaia negli USA, portando alle estreme conseguenze la concorrenza tra forza lavoro. Questo esempio coglie solo in parte quello che sta avvenendo, in quanto era di difesa e portatore di un impossibile ritorno al protezionismo economico. Altri sono stati gli esempi più esaustivi di questa internazionalizzazione del capitale e della risposta operaia. Con la crisi asiatica si è aperto un varco per la forza operaia che ha prodotto numerosi conflitti localizzati in gran parte in Corea, cuore produttivo delle economie emergenti asiatiche, ma ha trascinato con se anche i propri indotti. Numerose vertenze che si erano aperte nel 96 in Corea sono risultate vittoriose solo attraverso la cooperazione tra operai coreani e indiani immessi nello stesso processo produttivo, in quanto esistevano numerose ditte monoterziste in India. L’attacco alle condizioni di vita dei lavoratori in Corea corrispondeva materialmente e non idealmente all’abbassamento del tenore di vita di molti lavoratori indiani. Attualmente i lavoratori sono unificati in questa immensa catena di montaggio, e la loro collocazione è di per se internazionale, non tanto da condizioni di solidarietà proletaria e condizioni sociali comuni, ma dalla semplicissima articolazione del capitale.

Tuttavia questo piano oggettivo necessita di una spinta internazionalista e di una maggiore interrelazione tra il partito storico (la classe operaia in lotta) e quello formale (i gruppi di lavoratori militanti e rivoluzionari). Non si invoca la formazione di fantomatici partiti, in quanto questo piano, è già superato dalla lotta di classe quando si manifesta in tutta la sua ampiezza, ma di una rete di militanti che riesca in modo dialettico a saper leggere le modificazioni e offra spunti alla classe per ribaltare l’economia contro i padroni. In piccolo il tentativo dei compagni del CRO (Collettivo Rete Operaia) di Bologna prodotto nella lotta sviluppatasi alla Nuova Star di Zola Predosa (Bologna) va in questa direzione. La Nuova Star è una ditta che produce cerniere per elettrodomestici. Durante uno sciopero per il contratto interno, che ha visto anche picchetti e blocco delle merci in uscita e entrata, i compagni hanno cercato di ricostruire la catena produttiva della Nuova Star, collegandosi con altri stabilimenti, si è avuto un legame con operai spagnoli di Saragozza della Balay, ditta produttrice di elettrodomestici, che monta i componenti della Nuova Star. Gli operai delle rispettive aziende hanno avuto modo di conoscere le condizioni di lavoro dei rispettivi stabilimenti e di rendersi conto della loro unità. Questo non ha prodotto un soviet ne tanto meno la rivoluzione, ma la prospettiva che in tale vertenza si è aperta o semplicemente accennata è risultata interessante. I gruppi di lavoratori rivoluzionari, sono lo strumento e la proiezione in avanti della lotta di classe, ma rimangono strumento e non motore della lotta, in quanto questa che lo si voglia o no rimane in mano alla collettività operaia nel suo complesso.

Questo scenario porta con se altre conseguenze per la classe lavoratrice, una delle più evidenti con il sorgere di un precariato diffuso è la fine di strutture sindacali di mestiere ma anche di categoria quando questo turnover tocca diversi settori. Dal momento in cui vi è l’impossibilità di un riformismo adeguato, vista la fase in atto, si sviluppa un “riformismo al contrario” dei padroni che acutizza la polarizzazione sociale. Nella non mediazione prende corpo la proposta del potere operaio, ossia la capacità di porre sempre e in ogni lotta il problema del potere, cogliendo la complessità del fenomeno sociale in atto. Non è quindi compito dei lavoratori rivoluzionari inseguire i sindacati o denunciare il loro lassismo, ma indicare il ruolo di questi e l’impossibilità di essere altrimenti. Se questa società è in crisi sta a noi smascherarla maggiormente, e prestare maggiore attenzione alle manifestazioni di classe. Ovviamente bisogna dotarsi di una scala di importanza rispetto all’intervento, della capacità di veicolare messaggi, e porsi il problema dell’unificazione del partito formale con il partito storico senza snobbare nessuna manifestazione di lotta di classe, ma astrarre la dimensione comunista dove questa si pone nel corpo della classe.

Precari nati Bologna


[1] E’ famoso l’utilizzo dello zero stock toyotista ripreso dal sistema di distribuzione dei supermercati americani  

[2] Guarda in proposito al precedente articolo su Senza Censura rispetto all’introduzione del Kaizen in Ducati-Motor

[3] Vi è da parte degli Stati un interessarsi ad aree non racchiuse nei confini nazionali geograficamente intesi. Si pensi alla forma di cogestione fra le diverse borghesie nazionali nel Nafta in America.

[4] Per una parziale valutazione sul sistema del posto fisso legato allo stato sociale vedere: Stato sociale contro la crisi, crisi dello stato sociale. Precari nati n.5 1999 Oppure  rispetto al rapporto tra modificazione del tempo di lavoro, rispetto a flessibilità, precariato e fine dello stato sociale il libro: Stop the clock!, critiques of the new social workhause, con i diversi saggi dei gruppi Wildcat per la Germania, Mouvement coomuniste perla Francia, Aufheben perla Gran Bretagna e Precari nati per l’Italia. I testi sono stati tradotti anche in italiano, per chi li volesse può contattare C.R.O.-Precari nati c/o Diego Negri CP 640 40124 Bologna oppure e-mail ti14264@iperbole.bologna.it

[5] Paolo Giussani, Crescita Speculativa, è il testo di una conferenza tenuta a Milano nell’aprile 2000 di prossima pubblicazione su Precari nati

[6] L’economia finanziaria è molto spesso un sottoprodotto dell’economia reale produttiva, non è un caso che miriadi di ditte fantasma-virtuali su internet siano in realtà le infinite scatole cinesi delle ditte reali. La speculazione è nata con il capitalismo, e ne rappresenta la vera chiave di lettura per indicare i limiti interni del sistema di produzione capitalista. Tale forma è l’esempio massimo del ruolo parassitario del capitale e della sua necessaria abolizione da parte del proletariato. Il capitalismo invece di guadagnare e accumulare poco producendo molto e facendo consumare molto, guadagna e accumula enormemente producendo poco e soddisfacendo male il consumo sociale.

[7] I lavoratori statunitensi producono ora in meno di sei mesi quello che producevano in un anno, tanto che, in astratto, il loro tempo di lavoro avrebbe potuto dimezzarsi lasciando inalterato lo standard produttivo (e di consumi) che mezzo secolo fa veniva preso come punto di riferimento dal mondo intero. E invece, nessuna particella di questo incremento di produttività siè tradotta in una diminuzione degli orari di lavoro. Al contrario, tra il 1969 eil 1989 gli occupati a tempo pieno hanno visto crescere, in media il proprio orario di lavoro annuo di 158 ore (una mezz’ora di lavoro in più al giorno, un mese in più all’anno). P.Basso, Tempi moderni orari antichi, Milano 1999, Franco Angeli.