Alcune
considerazioni sul convegno dell’OCSE a Bologna
Se
le manifestazioni di Seattle ci hanno convinto poco, sia sui contenuti, sia
sulla loro capacità di creare un effettivo fermento sociale attorno alle
proteste contro il WTO, a Bologna si ha l’impressione di uno scimmiottamento
di un già visto. Almeno a Settle la riunione del WTO doveva decidere effettive
misure di liberalizzazione commerciale fra gli stati aderenti al GATT, regole
internazionali sui brevetti, l’abbattimento delle tariffe sui prodotti
agricoli, minori restrizioni sui prodotti derivati dalle manipolazioni genetiche
ecc.. Si poteva avere l’illusione di fermare un ingranaggio del
mercato, di sensibilizzare l’opinione pubblica su “leggi” che avrebbero
inciso sulle condizioni di vita di gran parte degli abitanti di un pianeta. A
Bologna ci si scaglia contro un convegno, il cui risultato sarà nullo. E’
innegabile quindi come l’interesse per l’OCSE coincide con la “Seattle
mania” che ha investito lo scenario politico europeo. Si assiste ad un
susseguirsi di sfilate durante scadenze che dovrebbero determinare il corso
dell’economia mondiale europea italiana....
Unica
nota positiva ci sembra essere il fatto che diverse aree politiche si ritrovino
nelle piazze e socializzino, così come materiali e analisi trovino un bacino
dove poter girare e contaminarsi, tuttavia il fermarsi al piano della
comunicazione ci appare alquanto limitato.
Siamo
rimasti stupiti nel vedere il completo disinteresse per la manifestazione in
seguito allo sciopero dei metalmeccanici, che riguardava la piccola e media
impresa dell’Emilia Romagna, il soggetto sociale che viene maggiormente
coinvolto dal tema di questo convegno dell’OCSE.... Era una manifestazione
sindacale, che sul profilo dei contenuti era debolissima tuttavia ha portato
quasi 10.000 metalmeccanici in piazza, con allegato uno sciopero del settore
industriale in solidarietà.
In questo frangente abbiamo constatato l’estremo disinteresse per una azione che scavalchi le solite cerchie politiche, non è un caso che le manifestazioni che si sono indette per l’OCSE riguarderanno molto di più le aree nazionali politiche che un vero e proprio radicamento sulla città.
Dove
è la classe
Attorno
a queste manifestazioni vi è un grosso equivoco di fondo, il perdere il
referente sociale che viene investito dalle manovre economiche. Si assume quindi
il referente cittadino di settecentesca memoria, l’antagonista puro e solo
contro tutti, ecc...
La
contrapposizione di classe, viene bandita, assecondando le parole d’ordine
borghesi.
Ci
si dimentica come nel capitalismo, lo sfruttamento dei produttori da parte della
classe dirigente non assume forma diretta e visibile, come invece accadeva nella
società schiavistica o feudale. E’ infatti in apparente libertà che il
proletariato vende la sua forza lavoro al capitalista ed è in seguito a scambi
perfettamente regolari che quest’ultimo realizza un plusvalore, plusvalore che
sembra risultare dal funzionamento di leggi economiche che sono obiettivamente
uguali per tutti. Ma dietro all’apparenza del contratto libero ed uguale si
nasconde la divisione della società in una classe di proletari che non
dispongono che della forza lavoro (e che sono costretti a venderla per
sopravvivere) e in una classe di capitalisti che possiedono i mezzi di
produzione e hanno al loro servizio uno Stato che ha l’incarico di garantire
tale possesso.
E’
difficile quindi riuscire a codificare una nuova classe operaia, che si difende
e resiste ogni giorno sui posti di lavoro?.
Noi
vediamo questa nuova classe operaia nelle fabbriche, nei cantieri, nei magazzini
di un grande supermercato, nei palazzi a lustrare le scale... dove ogni giorno
per un salario da fame, si combatte individualmente o collettivamente per
vivere, in mezzo all’estrema flessibilizzazione del lavoro e alla
contrattualistica precaria, creata per assecondare l’esigenza del capitale di
programmare la produzione quasi giorno per giorno.
Questa
classe è la sola che può definitivamente dire basta con il capitalismo. Ogni
opera di sostituzionismo è quindi da rigettare come falsante.
Se
è dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico (capitale-lavoro) che questo
sistema si rigenera ogni giorno, l’azione va condotta su questo terreno.
Rimane
il compito di un qualsiasi gruppo di lavoratori che ha deciso di dire basta con
il capitalismo, riuscire a comprendere i cambiamenti produttivi, le spinte che
una determinata porzione di classe pone nello scenario sociale, e non inseguire
il palcoscenico televisivo...
Comunismo o barbarie (ossia l’attuale civiltà)
Viviamo
in una società che si basa sullo sfruttamento della forza lavoro, dove non
esistono più grossi margini di riformabilità, cosa che rende ancor più
delirante l’ipotesi dei socialdemocratici: rendere più umana l’economia
capitalista. Ci si nasconde quindi dietro lo spettacolo senza prendere in
considerazione i rapporti di forza tra le classi.
Sono
quest’ultimi che permettono un superamento del riformismo, la differenza fra
riforme e rivoluzione non è da considerare rispetto alle motivazioni che
spingono i proletari a lottare per migliorare le loro condizioni, ma è nella
rilevanza dei rapporti sociali comunisti, è nei contenuti che durante una lotta
si pongono all’interno della comunità proletaria, questo è possibile solo
dove si esplica la forza dei lavoratori e dove il capitale può subire. La
capacità del movimento proletario di darsi un contenuto comunista durante le
lotte, riappropriandosi della vita e degli spazi, si troverà quindi dove viene
prodotta l’espropriazione, cioè sui luoghi di lavoro. Poiché il capitalismo
è un modo di produzione fondato sull’estrazione di plusvalore è questo che
determina l’articolazione in classi della società. E’ nei luoghi di lavoro
che il proletariato è costituito in classe ed è quindi lì che può sviluppare
dei rapporti sociali che gli siano propri: dei rapporti sociali comunisti, ossia
movimento reale del proletariato che tende al comunismo.
Liberismo
e protezionismo
Può
esistere una economia capitalista senza gli investimenti esteri e il commercio
estero? A questa banale domanda chiunque risponderebbe di no. E’ evidente che
il mercato internazionale è sempre stato indispensabile al capitale. Si è
cercato di dare molte spiegazioni alla esigenza del capitale di estendersi non
solo in diversi ambiti della società, ma anche geograficamente: per R.
Luxemburg il problema era da ricercare nel sottoconsumo, cioè nell’esigenza
per il sistema capitalista di avere scambi con economie non capitaliste, per
Lenin il capitalismo evolve verso forme storiche che si susseguono di cui
“l’imperialismo” rappresenta la fase ultima più avanzata. Quindi, secondo
Lenin, le economie dei paesi a capitalismo più avanzato (aderenti all’OCSE
diremmo oggi) si confrontano con paesi che non conoscono uno sviluppo
capitalistico, cioè non hanno all’interno una polarizzazione delle classi
sociali fra salariati e capitalisti. Questo è servito ai Leninisti per
giustificare l’appoggio alle lotte di liberazione nazionale come lotte
antimperialiste e quindi anticapitaliste, indipendntemente dai loro contenuti
sociali, pratiche di lotte, composizioni di classe dei gruppi ecc... Tuttavia il
problema della concorrenza fra “Stati”, non riguarda esclusivamente paesi ad
economia capitalista e paesi con forme economiche non capitaliste, soprattutto
oggi la concorrenza fra diversi capitalismi imperversa in un campo economico
sempre più mondiale, i cui soggetti sono i differenti stati-aree di influenza
che conoscono all’interno forme più o meno sviluppate di capitalismo. Il
capitalismo mondiale vive oggi i risultati di una crisi più che ventennale che
trova la sua giustificazione nella difficoltà del capitale di trovare un
impiego profittevole. Unici rimedi che il capitale ha trovato fin’ora (le
controtendenze) sono la crescita dei capitali finanziari speculativi (cioè non
impiegati in attività produttive) che cercano di risolvere in ambito monetario
i vacillamenti dell’economia reale, maggiore sfruttamento della manodopera
mondiale, una maggiore e frenetica crescita degli investimenti all’estero.
Nel
crescere a livello internazionale il capitale non risolve il problema della
caduta del saggio del profitto, maggiore è il capitale da valorizzare maggiore
diventa la sua incapacità di avere una sufficiente estrazione di pluslavoro
necessaria alla valorizzazione del capitale accumulato. Inoltre e questo ci
sembra il lato più interessante da valorizzare politicamente (anche se la
teoria del “crollo” ci fa ben sperare su un futuro della comunità umana) il
capitale che si espande crea necessariamente la sua contrapposizione sociale. Il
lavoro “materiale” non si è fatto “immateriale”, se vi fate un giretto
fuori porta scoprirete che esiste eccome, e se alcuni paesi hanno una crescente
occupazione nei servizi rispetto alle industrie come gli Stati Uniti, questo non
vuol dire che questi proletari sono oggi il “soggetto” sociale
rivoluzionario emergente ma il solito grigio demodé proletariato che è
l’unica forza sociale in grado di distruggere il capitalismo. Se poi guardaste
più attentamente i prodotti che consumate
(o per alcuni producete o usate in fabbrica), vi accorgereste che i
processi produttivi sono sempre più sparsi per il mondo, per cui fabbriche che
chiudono a Latina riaprono in Francia o in Sud America. Allora cosa vuol dire
l’esaltazione che molti dimostrano contro la “globalizzazione”, o contro
il “neolibersismo”? Il capitale è sempre stato “globale”, e la
liberalizzazione degli scambi è un processo che continua dopo la disastrosa
esperienza del protezionismo succedutosi alla crisi economica del 1929, sono
aspetti dell’economia capitalista di cui il capitale non può fare a meno
senza decretare la sua eutanasia. E’ inutile girare attorno al problema, esso
risiede sempre nei rapporti sociali fra le classi e non nei vari riflessi
dell’economia come gli scambi commerciali o l’ecologia. Il riformismo per
fare maggiore presa si è concentrato sul problema del “terzo mondo”, si
dice che vi è uno sfruttamento eccessivo dei paesi economicamente meno avanzati
e un “race to the bottom” (peggioramento) delle condizioni di lavoro dei
lavoratori dei paesi capitalisticamente più avanzati, a causa della concorrenza
internazionale. Questo tipo di argomenti ha spinto i sindacati ufficiali degli
Stati Uniti verso posizioni protezioniste e di difesa della forza lavoro
americana dalla minaccia del terzomondo. Visto il problema con meno
coinvolgimento moralista, i paesi capitalisti più avanzati, scambiano prodotti
con poco contenuto di lavoro, con prodotti con alto contenuto di lavoro (quanto
lavoro c’è nelle nike che indossiamo fatte in Taiwan e quante ore abbiamo
lavorato per averle?), mentre i paesi meno sviluppati hanno come unica chance
economica far parte del club dei capitalismi più sviluppati. Non è
nell’ambito degli scambi e della virtualità politica che troveremo le
risposte ai problemi dei nostri giorni, ma nell’ambito dei rapporti sociali.
Non ci stiamo a ricadere nell’inutile disputa fra protezionisti o liberisti.
Non può esistere una economia più equa. Cosa vuol dire più equa? Nel sistema
capitalista mondiale basato sullo sfruttamento, da parte di
una classe proprietaria e di burocrati a essa asserviti, della classe dei
“produttori” non vi è spazio per il commercio equo e neanche per quello
solidale, è possibile tuttavia la solidarietà di classe in qualsiasi sua
manifestazione più o meno organizzata: da scioperi congiunti al finanziamento
di lavoratori in sciopero fino ad un volantino di solidarietà.
Fare
le sfilate davanti ai vari enti politici o economici che gestiscono
l’esistente può essere solo un passatempo divertente, solo gli esaltati della
virtualità mediatica possono ritrovarvi una utilità politica. Tutti i giorni i
proletari si difendono, l’attività dei proletari rivoluzionari è quindi da
calibrare giorno per giorno nei quartieri, nelle aziende nel fomentare la lotta
di classe e rendere la crisi un elemento di forza contro i padroni.
Precari
nati