Con Giorgio 

Jacques Camatte

Esporrò come ho incontrato e vissuto con Giorgio.

L’ho conosciuto quando è venuto a casa mia a Brignoles, in Provenza, all’inizio del ’72, con due compagni di cui ora non ricordo i nomi. Immediatamente mi colpì quello che ha detto anche Piero: la sua presenza. Non una presenza statica ma piuttosto un fenomeno che definirei presentificazione: un certo modo di affermarsi, un processo secondo il quale mi si presentava, in particolar modo attraverso la sua voce. In seguito, leggendo la sua opera, ho constatato che il concetto di presenza vi rivestiva una grande importanza, come pure in Ernesto de Martino, da lui a volte citato. Quando c’intrattenemmo a parlare, constatai che aveva ben compreso e integrato alcuni concetti da me sviluppati quali antropomorfosi del capitale, dominio formale e reale del capitale, comunità materiale del capitale, autonomizzazione ecc. Erano concetti da me elaborati o che avevo sviluppato a partire dall’opera di Karl Marx. Questo non vuol dire che avessi percepito Giorgio come “camattizzato”. In realtà, con questi concetti avevo permesso – a lui come ad altri – di «far saltare un catenaccio» (qualcosa che impedisce un movimento, che lo blocca); a partire da ciò aveva potuto sviluppare quella che potrei definire la sua “cesaraneità”, la sua propria potenza. Non era dunque, per nulla, un mio riflesso.

Inoltre, rilevai che possedeva conoscenze molto varie (che io non avevo) e affrontava uno spazio teorico-pratico, affettivo, che anch’io cercavo di avvicinare, benché non ne fossi ancora in grado, non avendo ancora portato a termine alcune chiarificazioni teoriche.

Non ero d’accordo coi diversi concetti che mi esponeva ma sentivo la presenza di uno cheminement, cioè un modo di camminare degli uomini e delle donne, così come di tutte gli esseri viventi nella natura, nel cosmo; ciò m’interessava parecchio in quanto sentivo una certa affinità con il mio proprio cheminement.

Lo ripeto: non ero d’accordo con lui. Quindi, cosa dovevo fare? Dovevo aprirmi a lui per capire profondamente il suo cheminement, per sentire la potenza della sua individualità-Gemeinwesen. Con questo termine voglio dire che non è un individuo ma un’individualità, che non è la totalità, non è la molteplicità ma che partecipa all’essere comune, alla natura comune, al divenire comune, non soltanto della specie umana ma di tutte le forme di vita. Dovevo ascoltarlo e così ho vissuto con lui. Poco tempo dopo, nel giugno ’72, sono andato a trovarlo al Podere Menucci dove ho conosciuto Nani, Silvia, Laura; poi Guido, Piero, Livio, Matteo e vari altri uomini e donne che per me furono importanti.

Tra noi ci furono delle difficoltà dovute a diverse incomprensioni; per esempio, fummo in disaccordo a proposito della rivista «Invariance»: mi chiedeva di cessarne la pubblicazione, al fine di evitare il formarsi di un racket, invece io ero per continuarla. Nel ’73 si allontanò un po’ da me; però, alla fine del ’74, riprese i contatti con molto calore e affetto e, all’inizio del ’75, tornò a trovarmi in Provenza con Paolo e Paola per discutere di un progetto che mi aveva esposto precedentemente in una lettera. Fu l’ultima volta che lo vidi. Poco dopo appresi della morte, del suo suicidio.

Ripensando a quell’incontro, mi chiedo quale fosse il processo che iniziò senza poterlo portare a termine. Come posso io, Jacques Camatte, che non sono Giorgio Cesarano, completare questo processo, importante per il divenire della specie, senza accaparrarmelo, senza diventare un parassita? Devo aggiungere che sono rimasto molto colpito quando, nel ’93, Nani mi ha portato Critica dell’utopia capitale, nel vedere che l’ultimo testo era la recensione del mio articolo “Ce monde qu’il faut quitter”[1] che tratta dell’abbandono di questo mondo, ma non [dal punto di vista] del suicidio. Contemporaneamente pensai – e ancor oggi ci ripenso – al fatto che nel ’75, anno della sua morte, pubblicai in «Invariance» l’articolo di Marx “Peuchet: à propos du suicide”[2], per il quale scrissi come presentazione “Humanité et suicide”[3]. Anch’io nel ’78 sono stato attratto dal suicidio e ho riflettuto parecchio su quello di Giorgio. Allora m’interrogavo sul perché avevo bisogno del suicidio. Avvertii che era un fenomeno che andava al di là di me. Era il suicidio di una certa umanità; si trattava della sua scomparsa, della scomparsa di un’intera umanità che, già da tempo, era entrata nella sua erranza. Infine devo segnalare il fatto, inizialmente parsomi strano, che proprio allora fui indotto a mettere a punto il concetto di morte potenziale del capitale.

Mi ritrovai interamente con Giorgio e sentii di poter superare il momento difficile in cui si era trovato perché mi percepivo in simbiosi con la specie e avvertivo il possibile della sua emancipazione, la sua positività e nello stesso tempo la sua alienazione, [il capitale]. Oggi, a distanza di venticinque anni, dopo aver riflettuto spesso sull’opera di Giorgio e sul suo suicidio, posso rispondere alle domande che mi pose, talvolta in modo implicito, perché ho imparato molto dalle diverse correnti manifestatesi soprattutto in sociologia, psicologia, terapia mentale ecc. Quindi sono giunto alla conclusione che sto sviluppando nella quinta serie di «Invariance»: la teoria dell’ontosi.

L’ontosi si presenta in quanto reazione di qualsiasi membro della specie al divenire fuori della natura. È una patologia dell’essere. In altre parole, uomini e donne nella loro dimensione di padri e di madri esercitano una repressione sui loro bambini per adattarli al movimento di uscita dalla natura, all’instaurazione della cultura. Ciò produce profondi disturbi, il cui insieme forma l’ontosi, che possono diventare nevrosi, psicosi, pazzia. Tralascerò di esporre questa teoria, non solo per ragioni di tempo, ma perché sarebbe una negazione di Giorgio; sarebbe come se lo utilizzassi per valorizzarmi. Voglio invece mostrare come ho vissuto con lui, in sua presenza, leggendo e rileggendo la sua opera. Ecco perché dirò come, tre o quattro giorni fa, mi sono ritrovato con lui, rileggendo la pagina 43 di Critica dell’utopia capitale. Ciò evidenzierà il mio comportamento verso di lui quand’era in vita, senza tuttavia i non-detti frequenti nelle relazioni umane. Come ogni scritto di Giorgio, questa pagina presenta delle difficoltà, ma cercherò di esporla quanto meglio possibile.

È la creazione del valore – come d’alcunché che si determina e cresce in un’attività detournée[4], resa vicaria al rapporto connaturante con il movimento del vivente in natura – che rende definitivamente diversa, definitivamente innaturale, l’appropriazione che il genere umano effettua sul circostante.

Sono d’accordo con Giorgio e constato la similitudine dei nostri cheminements. È determinante l’esposizione della genesi del valore, cosa che Marx non fece; nel Libro I de Il Capitale evidenziò la genesi dell’equivalente generale, del denaro, ma non quella del valore[5]. Ho affrontato questo tema in Emergence de Homo Gemeinwesen[6]. Non condivido, invece, l’affermazione secondo cui Marx avrebbe accordato troppa importanza all’elemento naturale nelle forme di produzione che precedettero il capitale.

È solo surrettiziamente[7], solo se si è mancato di localizzare l’esatto punto storico e genetico dell’apparire del valore, che talune forme precedenti la produzione capitalistica possono sembrare altrettanto naturali quanto l’appropriarsi del circostante da parte della tribù di formiche o dell’orda di scimmie, o semplicemente del mammifero che contrassegna il «suo» territorio con i propri odori fisiologici.

Arrivato a questo punto, interpella Marx.

Quando Marx annota: «In entrambe le forme [piccola proprietà fondiaria libera e proprietà fondiaria collettiva basata sulla comunità orientale] il lavoratore è in rapporto di proprietà con le condizioni oggettive del suo lavoro; abbiamo cioè

ed è questo il punto importante su cui Giorgio non è d’accordo:

l’unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali.

Vi è un’imprecisione ma per toglierla bisogna ricorrere a un concetto che Marx non ha sviluppato: l’antropomorfosi della proprietà fondiaria. Gli uomini e le donne non hanno più un rapporto immediato con la vita, un contatto immediato con la natura. L’hanno soltanto con la mediazione dell’antropomorfosi della proprietà fondiaria, la proprietà fondiaria divenuta uomo. È questa che permette di ristabilire l’unità naturale. Giorgio ha percepito un’insufficienza nel discorso di Marx, ma questi ha ragione di parlare di rapporto naturale (uomini e donne sono ancora ben legati alla natura, a tal punto che l’immediatezza sembra imporsi); si tratta, però, di un rapporto mediato. L’importanza della natura permane.

Continuo nella lettura della citazione di Marx per le precisazioni apportate sulla questione del lavoro.

Il lavoratore quindi ha un’esistenza oggettiva indipendente dal lavoro. L’individuo si riferisce a se stesso come proprietario, come padrone delle condizioni della sua esistenza effettiva. Egli si riferisce anche agli altri – e a seconda che questo presupposto è un’emanazione della comunità o delle singole famiglie che la costituiscono –, si riferisce agli altri in quanto comproprietari, ossia altrettante incarnazioni della proprietà comune.

Qui Marx esprime molto bene il contenuto del concetto dell’antropomorfosi della proprietà fondiaria.

Gli individui non sono in un rapporto di lavoratori, bensì di proprietari – e membri di una comunità i quali nello stesso tempo lavorano [Karl Marx, Grundrisse, vol. IV, p. 375]»

Dopo questa lunga citazione, Giorgio ribadisce il suo rimprovero a Marx affermando che questi:

cade appunto nell’errore di attribuire a talune forme di produzione precapitalistica il privilegio di conservare in sé una quantità apprezzabile di naturalità e di libertà dal lavoro, e vi cade esclusivamente perché gli manca – malgrado la straordinaria penetrazione del suo intuito – una qualsiasi nozione intorno all’economia dell’interiorità, alla sua storia e preistoria, l’ottica che solo più tardi Freud cominciò a traguardare.  

Quando leggo queste parole realizzo che sono molto d’accordo con te, Giorgio: c’è questa mancanza in Marx e il riferimento a Freud è ampiamente giustificato. Ma devo precisare che ciò che accetto dell’opera di quest’ultimo è soltanto il concetto di rimozione mentre tutto il resto è una giustificazione della sua ontosi. Posso aggiungere che questa teorizzazione è talmente decisiva che quasi tutto il movimento psicanalitico ha operato al fine di rimuovere la rimozione, in quanto troppo pericolosa. Dunque sono d’accordo ma non posso accettare il concetto di «economia dell’interiorità». Comunque, non è questo l’importante ma la forza della presenza di Giorgio, la sua profonda capacità di pensare.

Ma non si tratta solo di questo: la storia è il terreno sul quale il materialismo dialettico dimostra di conoscere ciò che è stato in quanto conosce ciò che è, e per conoscere ciò che sarà. Non tanto a Marx interessa misurare l’eventuale devianza dell’evoluzione genetica rispetto a un ottimale ma tutt’affatto utopistico iter migliore, quanto rapportare passato e presente con la tendenza alla liberazione della specie dal lavoro alienato, dall’oppressione e dallo spossessamento.

Assolutamente d’accordo per quanto concerne questa tendenza, che va precisata, delimitando correttamente l’origine dell’oppressione e il suo contenuto ma non mi soddisfa il modo di affrontarla, nel seguito del testo.

Questa è una tendenza storica a tutti i livelli, che si verifica nella medesima misura e secondo analoghi procedimenti dialettici sia nell’economia dell’esteriorità materiale, come nell’economia dell’interiorità.

Nuovamente cita Marx per, a mio avviso, precisare il suo posizionamento.

«Lo scopo di questo lavoro – prosegue Marx –, non è la creazione di un valore – quantunque essi [lavoratori] possono fare un pluslavoro per scambiarsi prodotti altrui, ovverosia plusprodotti –; il suo scopo è invece il mantenimento del singolo proprietario e della sua famiglia non meno che di tutta la comunità. Il farsi dell’individuo come lavoratore – in questa purezza è esso stesso un prodotto storico» 

Qui espone una critica in cui precisa il suo precedente discorso.

È esso stesso un prodotto storico, bensì non in questa piuttosto che in altra «purezza»[8]. L’alienazione dalla e della natura è già scattata prima di questa «purezza», e la storia non è altro che concatenazione di cause-effetti scaturenti da una contraddizione determinata, tra istinto di vita e istinto di morte, principio del piacere e principio di realtà;

Mi è impossibile accogliere quest’accettazione della teoria freudiana, la quale è solo una giustificazione di quanto è accaduto. Avverto una contraddizione in Giorgio, che è molto esigente con Marx ma non altrettanto con Freud, di cui non cerca di determinare i presupposti dei due principî adottati. Il seguito del testo, nella misura in cui contiene la riaffermazione della tendenza segnalata sopra, mi trova d’accordo:

è storia delle trasformazioni in atto di questa contraddizione, cioè a dire storia della tendenza alla liberazione definitiva in lotta con la tendenza alla definitiva, pseudobiologica alienazione al «termitaio tecnologico», sotto il dominio dell’accumulazione cibernetica di informazioni sulla realtà che informino la realtà, il dominio della riproduzione regina[9].

Ma c’è dell’altro: leggendo queste pagine mi sono reso conto che la presenza del pensiero di Giorgio mi aveva stimolato. Infatti, appena finita questa lettura, mi sono accorto di una questione che Marx non ha affrontato benché abbia dato molti elementi per accedervi: durante un certo periodo, il lavoro (non il lavoro salariato) operò in quanto mediazione, come prima aveva fatto la proprietà fondiaria e come in seguito avrebbe fatto il capitale. Questo si produsse all’interno della forma feudale autonomizzata[10], nella quale si svilupparono i borghesi, gli artigiani, i contadini liberi, particolarmente in Inghilterra. Questi differenti strati sociali sono fondati sul lavoro; non è più la proprietà fondiaria a essere determinante; non è più la natura a operare come paradigma[11]. Il lavoratore sfuggì al dispotismo della proprietà fondiaria e, allora, si verificò la possibilità di una dinamica di vita, che però fu arrestata. Tuttavia è proprio questa dinamica che permette di comprendere l’intero Rinascimento, non solamente per ciò che concerne lo sviluppo artistico e l’importanza dell’ideale dell’ingegnere, ma anche la filosofia del fare – l’uomo come colui che si fa, come affermarono Charles De Bouelles in Francia e Pico della Mirandola e Marsilio Ficino in Italia. Tuttavia dalla dinamica di dissoluzione del modo di produzione feudale, che proseguiva via via che la forma si autonomizzava, si formò uno strato di esclusi che, insieme ai contadini e agli artigiani, rifiutò l’ordine stabilito e adottò le diverse eresie. In risposta a ciò che potremmo chiamare un movimento di abbandono del mondo vigente, s’impose un nuovo rapporto sociale, il rapporto salariato, grazie a una terribile costrizione esercitata dallo Stato e grazie a una tremenda repressione. Il capitale sorse in quanto soluzione al dissolversi della società vigente e si sviluppò sopprimendo i contadini liberi e gli artigiani; nel mentre recuperava la loro ideologia: l’esaltazione del lavoro. Anche Marx, i socialisti ricardiani, Proudhon e tutto il movimento anarchico avrebbero poi recuperato quest’ideologia, al fine di difendere i lavoratori salariati contro il capitale. Ma vi era una mistificazione di cui Marx non si avvide: non stava glorificando il lavoro salariato ma il lavoro così come si era affermato prima del sorgere del capitale. Certo era cosciente della differenza tra i due tipi di lavoro, ma la sua esaltazione del proletariato lo condusse a dimenticarsene. In questo modo si perse di vista il fatto che il lavoro si era imposto come mediazione e che dunque l’immediatezza era stata perduta. Di conseguenza, non si poteva rivendicarlo per fondare una nuova società emancipata. Aggiungerei che le grandi rivolte operaie sono state effettuate da lavoratori divenuti da poco lavoratori salariati. Inoltre, il movimento luddista dei primi dell’Ottocento e il movimento anarchico non possono essere capiti se non si tiene conto di questo lavoro.

Per concludere questo punto che meriterebbe ulteriori sviluppi, posso affermare che l’antropomorfosi del capitale s’impose come un’integrazione tra quella della proprietà fondiaria e quella del lavoro. Noi non possiamo liberarci ed emergere in un’altra specie che ho definito Homo Gemeinwesen senza eliminare le mediazioni: la proprietà fondiaria come natura mediata, il lavoro come attività mediata e il capitale come mediazione universale che realizza l’intervento della specie nella natura, la separazione da essa, così come la formazione di un’altra natura, e l’alienazione per non sprofondare nella pazzia; pazzia già presente, in quanto possibile, fin dall’avvio del movimento di separazione dalla natura. Di conseguenza, ciò che dobbiamo fare – e non si tratta di un programma ma di un’esigenza immediataè ritrovare la nostra naturalità, la nostra immediatezza e abbandonare questo mondo, poiché il capitale – a causa dell’autonomizzazione della sua forma in cui la mediazione si abolisce (ciò che lo pone in quanto immediatezza ed eternità) – è arrivato [a distruggere tutto il processo storico, alla magia].

Mi sono accorto, quando ho letto questa pagina e ho riflettuto su tutto ciò che avveniva in me a causa di questa lettura, che ho potuto pensare, produrre una riflessione teorica perché ero in contatto con Giorgio, con il suo cheminement. Certamente sono io ad aver prodotto ciò che ho esposto, ma ho la profonda sensazione che non sarebbe stato possibile senza essere in continuità con un altro essere umano, Giorgio. È la sua potenza che mi ha permesso di realizzare la mia. Questa è l’espressione concreta della dimensione della Gemeinwesen in me e in Giorgio anche se non è arrivato a percepirla coscientemente. Ciò mi permette anche di spiegare il fatto che da una parte non accetto alcuni suoi concetti e dall’altra riconosco-accetto la sua potenza teorica, il suo cheminement.

Ancora una precisazione. Non m’interessa, se non da un punto di vista teorico, l’essere ontosico di Giorgio – il quale spiega, in particolare, il suo suicidio, determinato da diversi fattori – quanto il suo essere naturale, immediato. Quando l’ho ascoltato, letto, riletto è come se l’avessi sentito dire: «io, non sono un individuo, una persona, una maschera, un ego, un io fittizio ecc. Vedete la mia naturalità, la mia immediatezza. Vedetela. Perché la sento ma non sono in grado di viverla, per diverse ragioni, in particolare per l’esistenza del capitale a causa del quale sto scrivendo Critica dell’utopia capitale. Ho bisogno di essere visto, come sono, nella mia naturalità, per attingere a me stesso».

Ora che ho finito questo intervento, voglio dire che se ho potuto farlo non è soltanto perché sarei dotato di una qualche capacità teorica ma anche perché sono stato accolto bene in primo luogo da Alberto, poi da Michele, Pina, Paolo, e successivamente da Claudio, Lori e Laura. È quest’accoglienza che ha facilitato la manifestazione delle mie capacità e ciò si è riattualizzato durante la mia esposizione. Ho percepito il vostro ascolto e ho sentito che, coscientemente o incoscientemente, si è instaurata tra noi una certa continuità la quale mi ha permesso di parlare, non perché operavo come parassita nei vostri confronti, né voi in rapporto a me ascoltandomi, ma in funzione di ciò che, secondo la mia rappresentazione, definisco dimensione della Gemeinwesen. Questa dimensione può essere diversamente intesa affermando la possibilità di essere in continuità con gli uomini, le donne e con tutti gli esseri viventi. In quest’affermazione della Gemeinwesen, ho potuto gioire della presenza di Giorgio e sentire, al di là della sua morte, la sua gioia di essere riconosciuto e, nel medesimo tempo, la mia gioia di aver potuto parlare di lui con voi.

Bologna, 1 Luglio 2000

 


[1] “Questo mondo che bisogna abbandonare”, in Jacques Camatte, Verso la comunità umana, Jaca Book, Milano 1978, pp. 403-430.

[2] [citare la traduzione italiana]

[3] «Invariance», n. 6, sèrie II; pp. ??-??; Italiano???, ripubblicato da Bourrinet???

[4] Nella discussione che è seguita, ho evidenziato l’importanza del concetto di détournement. Tengo a precisare che qui il suo utilizzo è pienamente giustificato e ho capito che su questo Giorgio aveva percepito più di ciò che traspare dalla sua esposizione.

[5] [Citare l’ed. italiana, e le pp.]

[6]Emergence de Homo Gemeinwesen, in «Invariance», sèrie IV, nn. 1-8; tr. it. parziale a cura di Flaviano Pizzi, in «Emergenza», nn. 7-10, Coccaglio (BS), 1989-91.

[7] Nel corso del dibattito, ho notato la parentela di questa parola con insidiosamente. Ho insistito su ciò perché surrettiziamente evidenzia come opera questo processo che ho avvicinato all’ontosi, che s’impose di fatto in modo insidioso, invisibile.

[8] Confesso di non aver colto la sfumatura.

[9] Giorgio Cesarano, Critica dell’utopia capitale, Colibrì, Paderno Dugnano (MI), 1993, pp. 42-43.

[10] In particolare quando non esiste più il modo di produzione feudale e non c’è ancora il modo di produzione capitalistico.

[11] Si può anche parlare di un antropomorfosi del lavoro.