Sur «La Banquise»
Essai sur les
variations saisonnières des pingouins
“D’un
monde sans morale”
in
«La Guerre sociale», n. 6-7, 1º trimestre 1984
«L’altro
modo di snaturamento della totalità consiste, partendo dall’individuo
astratto (il “sé”, la soggettività...), nel fondare su questa base un
sistema che può anche essere coerente. Inoltre, l’antagonismo economico che
si esprime nella lotta di classe viene dissolto in un conflitto tra
l’individuo e la società, a partire dal quale non si possono più comprendere
come necessari né la nascita di questa società, né i suoi problemi interni, né
il suo declino. [...] La critica del
modo di vita dominante, suscitata dall’esigenza di liberazione dalle
costrizioni, fondata unicamente sulla soggettività individuale, finisce per
girare su se stessa. L’impasse, il vuoto di una simil prospettiva, alla lunga
insopportabile, ingenera infine il desiderio dell’ordine, la disposizione a
sottomettersi a un ordine qualunque, purché, quali ne siano i mezzi, metta fine
all’arbitrio senz’esito della libertà.»
(Buck
Mullighan, Crise sociale et
irruption de l’irrationalité, «La Guerre sociale», n. 3, giugno 1979)
«L’affermazione
positiva del comunismo non consiste
nel sostituire la vita alla teoria. Testi come Un
mondo senza denaro o Un mondo senza
morale considerano l’origine dei problemi posti all’umanità dal
capitalismo e mostrano non solo come potrebbero essere risolti, ma quali
sconvolgimenti la loro soluzione presupporrebbe e comporterebbe»
(1).
«La
Banquise» confonde qui le sue posizioni con le nostre. Non fa del comunismo la
soluzione dei problemi posti all’umanità dal capitale ma fa del comunismo il
problema; il comunismo diviene l’avvento della libertà:
«Se
la crisi sociale si aggrava, ci sarà sempre meno posto per le scelte
intermedie. Si potrà sempre meno reclamare “un po’ meno polizia”. La
scelta sarà sempre più tra ciò che esiste o niente polizia del tutto. È
allora che l’umanità dovrà davvero mostrare se, sì o no, ama la libertà» (2).
Questo
avvento della libertà non è certo, e poi essa non implica proprio il rischio?
Il rischio di distruggersi?
«Che
l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischi di annientarsi, e con
essa ogni vita sul pianeta, non è ciò che ci tormenta. L’insopportabile, è
che lo faccia nell’incoscienza assoluta e, per così dire, suo malgrado, poiché
ha creato il capitale che le impone le sue proprie leggi inumane. È tuttavia
vero che da quando l’uomo ha cominciato a modificare il suo ambiente, lo ha
fatto a rischio di distruggerlo e di distruggersi, e che questo rischio
sussisterà senza dubbio, quali che siano le forme di organizzazione sociale.» (3).
Per
«La Banquise», se il comunismo risolve un problema posto dal capitale, è
quello dell’incoscienza assoluta nella quale il rischio di distruzione sarebbe
attualmente vissuto. Il comunismo libererebbe l’umanità non dal pericolo di
saccheggiare il proprio ambiente e di saltare in aria con esso, ma
dall’incoscienza. Moriremo irradiati ma liberi e coscienti.
Un
altro problema da risolvere:
«Il
vero orrore del nostro mondo, la vera degradazione non è che si muoia di fame:
non si può escludere in assoluto la possibilità di carestie locali, anche dopo
la scomparsa del capitalismo. L’inumano della nostra vita si manifesta nel
fatto che una parte della specie umana guarda l’altra morire di fame alla
televisione» (4).
Per
«La Banquise», l’umanità comunista non sarà sempre sicura di poter
ripartire adeguatamente il cibo, oggi in eccedenza, ma non ne farà più uno
spettacolo.
La
miseria non dipende solo dal fatto che gli uomini muoiano di fame ma dal fatto
che la carestia e la sua conoscenza derivano contemporaneamente dalle condizioni
che rendono possibile la comunità e dalla sua assenza. La socializzazione della
specie umana, lo sviluppo tecnico e l’assenza di questa comunità fanno della
«fame nel mondo» uno spettacolo, ma da quale parte dello schermo si trova «La
Banquise», giacché vede l’inumanità proprio in questo rapporto di
spettacolarizzazione – da lei rifiutato – e non nella carestia?
I
redattori de «La Banquise» scrivono del loro comunismo:
«In
un tale mondo, la sola garanzia che un uomo non ne torturi un altro, dipenderà
dal fatto che egli non ne provi bisogno. Ma se lo prova? Se torturare lo
diverte? Sbarazzati delle vecchie rappresentazioni del tipo occhio per occhio,
dente per dente, prezzo del sangue ecc., una donna il cui amante sia stato
ucciso, un uomo la cui amata torturata, giudicheranno, malgrado la loro rabbia,
certo stupido uccidere qualcuno, vederlo rinchiuso, per compensare
fantasmaticamente la perdita subita – forse... Ma se il desiderio di vendetta
prevale? E se l’altro continua a uccidere?» (5).
Non
sono certi che esista una soluzione a questi conflitti ma restano puri (niente
Stato!) nel mentre si offrono una consolazione: non potrà essere comunque
peggio che adesso:
«Per
salvare qualche vita, per quanto «innocente», non bisogna che il comunismo
perda la sua ragion d’essere. Constatiamo che fino a oggi le mediazioni
concepite per evitare o addolcire i conflitti e mantenere l’ordine interno
alla società hanno provocato un’oppressione e delle perdite umane
infinitamente più grandi di quelle che riteneva avrebbero impedito o limitato»
(6).
Sì,
ma, in un mondo simile, la sola garanzia che gli uomini non vogliano creare uno
Stato, è che non ne provino il bisogno. Ma se lo provassero? Se desiderassero
creare uno Stato al fine di torturare e imprigionare, malgrado il loro dolore, i
carnefici dei loro amati...
«La
Banquise», nel mentre rifiuta fermamente lo Stato, ne avalla la legittimazione
evocando le «mediazioni concepite per evitare o addolcire i conflitti e
mantenere l’ordine interno alla società». Sono i difensori dello Stato a
presentarlo come una tale mediazione. «La Banquise»
da parte sua, precisa che esso fa alla fin fine più male che bene. Un gran
numero di persone, a partire da ciò che hanno «fatto e vissuto» (7)
faranno la constatazione inversa: lo Stato sarà considerato come un male
necessario o semplicemente inevitabile; distrutto, risorgerà con gli
inevitabili conflitti interni alla società, il disordine ecc. Non vi sarebbe
scelta.
Perché
dunque distruggerlo e non adattarvisi?
Affrontando
i problemi concreti della rivoluzione ed evocando il teppismo delle epoche di
tumulti, «La Banquise» scrive:
«Ogni
periodo più o meno rivoluzionario porterà alla nascita di gruppi, a metà
strada tra la sovversione sociale e la delinquenza, a temporanee ineguaglianze,
ad accaparratori, profittatori e, soprattutto, a tutta una gamma di condotte
sfumate che sarà difficile qualificare come “rivoluzionarie”, “di
sopravvivenza”, “controrivoluzionarie” ecc. La comunizzazione progressiva
risolverà queste questioni ma in una, due generazioni, forse più. Fino ad
allora, occorrerà prendere delle misure, non nel senso di un “ritorno
all’ordine”, che sarà uno degli slogan chiave di tutti gli
antirivoluzionari, ma sviluppando ciò che costituisce l’originalità del
movimento comunista: essenzialmente, esso non reprime, sovverte»
(8).
Si
sovvertirà, dunque, nell’attesa che una comunizzazione dagli effetti di lunga
durata porti la soluzione. In quale modo?
«Questo
significa innanzitutto che utilizza solo la quantità di violenza strettamente
necessaria per raggiungere i suoi scopi, non per moralismo o non-violenza ma
perché tutta la violenza superflua si autonomizza e diviene un fine a sé. Ciò
implica quindi che la sua arma è innanzitutto e in primo luogo la
trasformazione dei rapporti sociali e la produzione delle condizioni di
esistenza. I saccheggi spontanei cessano d’essere un cambiamento di massa di
proprietari, una semplice giustapposizione di appropriazioni privative, se si
costituisce una comunità di lotta tra saccheggiatori e i produttori» (9).
Una
violenza, insomma, ragionevole, autocontrollata: perché questo progresso
decisivo nella storia dell’umanità? Come valutare la quantità di violenza
necessaria? Cos’è questa trasformazione dei rapporti sociali, distinta dalla
comunizzazione, i cui effetti sarebbero più rapidi? L’instaurazione di una «comunità
di lotta tra i saccheggiatori e i produttori» non è appunto il problema posto
da «La Banquise», quello dell’asocialità, dell’egoismo, del teppismo?
«Quanto
agli accaparratori, se saranno necessarie talvolta delle misure violente, sarà
per recuperare i beni e non per punire. In tutti i casi, è solo estendendo il
regno della gratuità che si toglierà loro di fatto ogni possibilità di
nuocere. Se il denaro non è che carta, se non si può più convertire in denaro
ciò che si accaparra, a che fine accaparrare?» (10).
Se
non si fa altro che recuperare, con ogni probabilità certi accaparratori
persevereranno e ritarderanno (di quante generazioni?) il regno della gratuità
che impedirebbe loro di nuocere. Perché dovrebbe essere possibile accaparrare
solo al fine di monetizzare, di tesaurizzare, e non di consumare? La tendenza
all’accaparramento e all’accumulazione precede storicamente il mercantilismo
e non vi si limita. Se la penuria deriva dalla scarsità produttiva o
dall’accaparramento, il baratto e la moneta risorgeranno.
Ciò
che conta è che gli scioperi, i saccheggi, gli attacchi armati ecc. sfocino in
una comunizzazione dagli effetti il più possibile immediati. Ciò implica
misure di repressione e di espropriazione, permette di liberare le forze
necessarie a ridurre l’asocialità e l’accaparramento privativo, e di
stroncare la controrivoluzione aperta e armata, dimenticata dai pensatori de «La
Banquise». Questa comunizzazione è la condizione affinché la violenza non si
autonomizzi, è la condizione della «comunità di lotta tra i saccheggiatori e
i produttori», o, piuttosto, è immediatamente il superamento del saccheggio e
del salariato per mezzo della comunità.
Al
pari de «La Banquise», non desideriamo «distruggere le prigioni per
ricostruirne di più ampie» (11), ma che fare dei nemici: ucciderli,
lasciarli andare, redarguirli? Una parte, probabilmente, ma certi dovranno
essere neutralizzati.
«La
Banquise» non riprende apertamente l’idea della fase di transizione. I suoi
redattori parlano di comunizzazione senza definirla, e ne negano la capacità di
risolvere le difficoltà pratiche immediate che sorgono nei periodi di tumulto.
Si rifanno affermando che le misure da prendere – lasciate nel vago – non
dovranno andare nel senso di un «ritorno all’ordine che sarà uno degli
slogan chiave di tutti gli antirivoluzionari». L’esperienza storica dimostra
che, di fronte a un possente movimento proletario, la controrivoluzione non si
rinchiude nel conservatorismo e promette qualsivoglia accomodamento pur di
evitare che si crei una situazione di non-ritorno. «La Banquise» fa di questo
«ritorno all’ordine» uno spauracchio; tuttavia, contro ogni gestore – duro
o libertario che sia – del bordello capitalista, la rivoluzione dovrà
dimostrare la capacità della comunizzazione di risolvere i problemi impellenti
della vita sociale. Parlare di comunizzazione mettendo in dubbio questa capacità,
significa preparare già il terreno alla controrivoluzione; egualmente,
sottacere la necessità della repressione per il disgusto che se ne prova e per
l’incomprensione delle trasformazioni sociali che sole potrebbero limitarla.
La rivoluzione non si affermerà unicamente con la repressione o il terrore, ma
perderà ogni volta se ne lascerà il monopolio ai suoi nemici.
Gli
autori di Per un mondo senza morale
non concepiscono il comunismo come una risposta ai problemi posti dal capitale e
per esso irrisolvibili. Non riconoscono né superano le difficoltà del processo
rivoluzionario. Ciò dipende dal procedimento che sta alla base del loro testo.
Rifiutano le costrizioni, la morale e la repressione ma non riescono a coglierne
la necessità sociale, la forma storica specifica e la possibilità di
superamento.
I
nostri pensatori della morale partono all’assalto dell’ordine costituito e
delle femministe per le quali lo stupro sarebbe un «attentato ontologico»
(12):
«Alla
fin fine, ciò che spinge il somalo a strappare la clitoride della sua donna e
ciò che muove le femministe proviene dalla medesima concezione
dell’individualità umana come oggetto possibile di un rapporto di proprietà.
Il somalo, convinto che la sua donna faccia parte del bestiame, crede sia suo
dovere proteggerla dal desiderio femminino, dannoso parassita per l’economia
del gregge. Ma, così facendo, accorcia singolarmente e impoverisce il proprio
piacere, il proprio desiderio. Nella clitoride della donna, è il desiderio
umano che è preso di mira simbolicamente, tutti i sessi confusi. Questa donna
mutilata, è dell’umanità stessa a
essere amputata» (13).
Dopo
aver rilevato, qualche pagina prima, la fascinazione dell’uomo contemporaneo
per l’orrore nazista e giacché bisogna «ricominciare instancabilmente un
rito in cui il masochismo ha per riscontro la fascinazione sadica» (14),
«La Banquise» ci sforna qui una scena orribile per la sua crudezza. Quanto
all’esattezza dei fatti, il talento è degno di Filip Müller e si eleva ad
altezze umaniste che lo stesso Martin-Chauffier stenterebbe a raggiungere.
Il
somalo strappa la clitoride della sua donna e l’amputa dell’umanità
stessa... Ci si rende conto cosa rappresenterebbe la descrizione di una
circoncisione con questo stile fantasioso e orrorifico? Potrebbe far gridare
all’antisemitismo. Non è la stessa cosa, certo! Innanzitutto perché la
nostra società organizza diversamente la differenziazione tra i sessi, perché
ha un altro rapporto con la mutilazione, la sofferenza, il godimento, rapporto
che fa apparire barbaro ciò che è differente e insolito, proprio perché
differente e insolito.
Qualche
tempo prima dell’uscita de «La Banquise», una ragazza del Mali muore in
seguito a un’escissione. Subito si scatena una campagna di stampa e di
denuncia – uno di quei «quarti d’ora» d’odio che i media organizzano
contro i seguaci della setta di Moon, i genitori che rinchiudono la prole in un
armadio, l’assassino di un figlio d’immigrati troppo chiassoso, gli
spacciatori di droga ecc. Nel mentre denuncia l’isteria anti-stupro delle
femministe e dei giudici, «La Banquise» cede all’isteria anti-escissione. Da
dei rivoluzionari ci saremmo aspettati che attaccassero questi «quarti d’ora»,
ricordassero che l’escissione è un mezzo ben rudimentale d’impedire il
godimento rispetto a tutto ciò di cui dispone la nostra società, e vomitasero
su questa difesa dell’Occidente rivitalizzata dal femminismo e
dall’ideologia del diritto al piacere.
Non
si tratta di approvare l’escissione o di rifiutarsi d’intervenire, ma si
dovrebbe tuttavia andare oltre la riprovazione e tentare una comprensione delle
mutilazioni sessuali che sia diversa dalla difesa o dall’intolleranza di un
particolarismo contro un altro. Agire non significa alleggerirsi la coscienza
aggravando ciò di cui si ha la pretesa di prendersi cura. Una ginecologa del
Mali, lei stessa escissa, spiega in «Marie-Claire» (novembre 1982) che lei e
le sue connazionali non si considerano frigide – è dalla lettura dei giornali
francesi che aveva appreso di essere «ritenuta frigida» –, e sottolinea che
donne non escisse possono essere frigide e che la condanna giuridica degli usi
ancestrali e comunitari non li farebbe scomparire ma aumenterebbe i rischi di
mortalità, dal momento che i potenziali colpevoli esiterebbero a far ricorso
alla medicina.
Nel
mentre criticano il femminismo, gli autori di Per
un mondo senza morale ne ricalcano la spiegazione dello stupro come atto di
dominio di un sesso sull’altro per denunciare l’escissione. Ciò evita
d’interrogarsi sulle pratiche ancestrali e diffuse delle mutilazioni
corporali, in particolare sessuali. Per «La Banquise», il somalo non è
cattivo quanto piuttosto stupido: se pratica l’escissione, è perché, «convinto
che la sua donna faccia parte del bestiame», il nostro proprietario non
riconosce il proprio tornaconto, «così facendo, diminuisce singolarmente e
impoverisce il proprio piacere». Imbecille! Non disperiamo di fargli
comprendere che ci rimette, così come la società nel lasciare la risoluzione
dei conflitti allo Stato.
Non
possiamo approvare il retaggio precapitalista per via del fatto che il
capitalismo lo fa scomparire lentamente e ferocemente, ma non ci passa per la
testa di difendere i costumi dell’Occidente, della società capitalista,
aderendo alle repulsioni contemporanee nei confronti delle usanze tradizionali.
È
stato necessario che la civiltà facesse enormi progressi perché le donne
fossero tenute, in piena responsabilità, a velarsi per proteggere la loro
femminilità dai desideri maschili non autorizzati, alieni. È stato necessario
che la civiltà progredisse parecchio anche in Occidente perché le donne
fossero tenute a esibirsi e ad atteggiarsi, in tutta innocenza, da «prostitute»
– come direbbero i khomeinisti. Quale progresso è stato necessario perché
gli uomini si liberassero dallo stato selvaggio e dalla promiscuità primitivi,
perché la sessualità divenisse vergognosa e il desiderio pericoloso; perché i
genitori si baciassero di nascosto dai loro bambini e perché oggi tutto ciò si
perpetuasse, si decomponesse e si ricostituisse sotto le bandiere della
liberalizzazione dei costumi. L’ipocrisia e la repressione sessuali sono una
fonte di tare e d’infelicità. La critica rivoluzionaria, innanzitutto, e
tanto più dal momento che si esercita sulle prime, deve prendersela anche con
la modernizzazione della miseria sessuale e amorosa.
Per
gli autori di Per un mondo senza morale,
l’uomo si caratterizza per la sua attitudine alla libertà. Il comunismo ne
sarebbe dunque il libero dispiegamento possibile:
«Essendone
parte, l’uomo non è estraneo alle condizioni naturali. Ma vuole conoscerle e
ha cominciato a giocare con esse. Si possono discutere i meccanismi che hanno
determinato ciò (in quale misura questo modo di procedere è il risultato delle
difficoltà della sopravvivenza, particolarmente nelle zone temperate ecc.?) ma
è certo che, trasformando il suo ambiente, per esserne a sua volta trasformato,
l’uomo si è posto in una posizione che lo distingue radicalmente dagli altri
stati conosciuti della materia. Liberata da tutti i presupposti metafisici,
questa capacità di giocare, in una certa misura, con le leggi della materia, è
proprio la libertà umana. Questa libertà, della quale gli uomini sono stati
spossessati via via che la producevano – è essa ad aver nutrito l’economia
– si tratta di riconquistarla senza illudersi su ciò che è: nessuna libertà
di desiderio irrompe senza incontrare ostacoli, nessuna libertà di
sottomettersi ai comandamenti (chi li decifrerà?) della Madre Natura. Si tratta
anche di dare tutta la sua estensione alla libertà di giocare con le leggi
della materia: essa è tanto invertire un corso d’acqua come anche usare per
fini sessuali un orifizio che non è stato “previsto” per questo uso. Si
tratta infine di vedere che il rischio solo garantisce la libertà» (15).
L’ominazione
può essere considerata come un processo di liberazione che continua un
movimento precedente attraverso il quale un primate si libera delle costrizioni
naturali e inscrive questa liberazione nella propria fisiologia. Questo processo
nell’uomo è inseparabile dalla sua socializzazione e non lo rende mai un
elemento esterno alla natura. Egli resta una delle componenti della natura, per
la sua origine e per la materia di cui è costituito, non può emanciparsi dalla
natura esplorata, trasformata e da cui trae la propria energia.
Caratterizzando
l’uomo mediante la sua attitudine alla libertà, «La Banquise», volente o
nolente, si rifà alla metafisica e si dimostra incapace di comprendere l’uomo
in quanto parte della natura. La Libertà e le costrizioni che gravano su di
essa, la Libertà e i suoi paradossi, la Libertà garantita dal rischio sono la
maniera borghese d’ignorare le determinazioni effettive della storia e
l’impossibilità per l’uomo di cessare di essere un rapporto della natura
con se stessa. Coscienza e libertà dànno il cambio alla nozione di anima,
scintilla divina incarnantesi nella materia.
«La
Banquise» concede che l’uomo nasca dalla natura; se evoca i «meccanismi che
hanno condotto a ciò», è per arrivare più velocemente al risultato – a suo
dire «certo» – dell’originalità radicale dell’uomo esprimentesi nella
sua libertà. Quest’uomo, condizione naturale tra le altre, si vede attribuire
da «La Banquise» un’essenza soprannaturale:
«L’idea
dell’uomo come contro-natura, come totalmente estraneo alla natura è certo
un’aberrazione. La natura dell’uomo è al contempo un puro dato biologico
(noi siamo dei primati) e la sua attività di uomo modifica dentro e fuori di
lui il puro dato naturale» (16).
Da
un lato il primate, dall’altro l’attività umana che nasce e reagisce su
questo supporto; da un lato l’ambiente, dall’altro il suo agente di
trasformazione a sua volta trasformatone. L’uomo non è – come lo ritiene «La
Banquise» – «un puro dato biologico», un primate e poi un’altra cosa: la
sua fisiologia di primate particolare determina le sue attitudini più umane.
L’evoluzione umana non si spiega con un’azione reciproca dell’uomo e del
suo ambiente: l’uomo si trasformò trasformando il suo rapporto con
l’ambiente per effetto di una dinamica e di una lotta interne alla specie, per
effetto dell’evoluzione dell’ambiente, mentre il suo impatto ambientale
restava debole.
Il
dualismo instaurato da «La Banquise» fissa
la separazione tra la parte umana dell’uomo e quel che ne sarebbe il supporto
biologico. Vi sarebbero la materia, la natura e poi qualcos’altro che certo ne
subisce l’influenza, le ha come origine, ma resta loro estraneo. I pensatori
de «La Banquise» mostrano la loro
buona volontà materialista e salvano il loro dualismo mediante l’azione
reciproca notando che il trasformatore dell’ambiente è a sua volta
trasformato; forse così si spiega come oggi l’uomo sia maggiormente soggetto
al cancro, ma non il processo di trasformazione della natura in uomo.
«La
Banquise» definisce l’uomo attraverso la sua libertà, la sua volontà di
conoscere le leggi della natura e di giocare con esse; mette in scena
quest’uomo esterno e manipolatore della natura nel mentre devia «un corso
d’acqua» e usa «per dei fini sessuali un orifizio che non è stato
“previsto” per questo uso». Lo può fare, ma è questo ciò che «lo
distingue radicalmente dagli altri stati conosciuti della materia»? Alcuni
animali sono talvolta capaci di analoghe prestazioni; la materia inanimata non
è in grado di «giocare» con le proprie leggi, di trasformarle e trasformarsi?
Si è dovuto attendere l’uomo perché un fiume vedesse il suo corso cambiare,
perché degli organi viventi fossero stornati dal loro uso e persino trasformati
in altri organi dall’evoluzione biologica? Chi ha acceso il sole, creato la
straordinaria varietà e complessità della vita, generato l’uomo e la sua
Libertà? L’uomo e la sua Libertà?
Gli
autori di Per un mondo senza morale,
volendo particolarizzare l’uomo, non scoprono nulla che gli sia proprio e
monopolizzano a suo favore capacità che sottraggono alla natura facendone le
espressioni di un’indefinibile e misteriosa libertà umana.
Il
mondo borghese idolatra la libertà, la coscienza, la persona. Ma questa libertà,
partita alla conquista del mondo, ha anche subìto degli smacchi. La libertà
d’iniziativa resta un privilegio e perde di consistenza in un universo
repressivo e burocratico. Resta per fortuna un terreno da conquistare per la
libertà, un terreno ove i divieti indietreggiano: quello dei costumi.
Circa
la sfera sessuale e la sua miseria, i pensatori de «La Banquise» scrivono:
«La
miseria sessuale è innanzitutto la costrizione sociale (l’obbligo del lavoro
salariato e il suo seguito di miserie psicologiche e fisiologiche, la coazione
dei codici sociali) che si esercita in una sfera presentata dalla cultura
dominante e dalla sua versione contestataria come una delle ultime regioni del
mondo dove questa avventura è ancora possibile»
(17).
Riguardo
la morale:
«Non
c’è morale se non perché vi sono dei costumi, cioè un dominio che la società
lascia teoricamente a disposizione dell’individuo, ma che allo stesso tempo si
impegna a legiferare dall’esterno» (18).
A
proposito della tendenza alla liberalizzazione dei costumi:
«Non
bisogna scambiare una tendenza e la sua spettacolarizzazione con la totalità:
se la nostra epoca è quella di una relativa liberalizzazione dei costumi,
l’ordine morale tradizionale non è scomparso» (19).
Se
la cultura dominante presenta la sessualità come sfera dell’avventura e se la
liberalizzazione dei costumi è spettacolarizzata, non ci si deve lasciare
ingannare, avverte «La Banquise»: questa sfera è colonizzata eteronomamente e
l’ordine tradizionale tiene ancora. La miseria sessuale e quella dei costumi
consistono innanzitutto, se non essenzialmente, sempre secondo «La Banquise»,
nell’assenza di libertà: se la morale è criticabile, è perché vincola
dall’esterno.
L’abbondanza
mercantile, malgrado la sua spettacolarizzazione, è lungi dall’avvantaggiare
tutti. Bisognerebbe pertanto lodare, pur con riserve, questa relativa dovizia
rifacendosi alla scarsezza tuttora esistente mentre la penuria precapitalista è
diventata l’altra faccia dell’abbondanza mercantile, sia per coloro che
vanno a piedi scalzi nel Terzo Mondo sia per chi dispone del comfort moderno?
La
critica rivoluzionaria verte sui costumi e sulla loro attuale liberalizzazione
così come sull’abbondanza mercantile. Non ne auspica la generalizzazione e
non aspira alla realizzazione del loro mito. «La Banquise» constata e denuncia
la miseria dei costumi, fa uso dei limiti alla loro liberalizzazione e delle
costrizioni eteronome di cui sono effettivamente gravati. Evita una critica di
fondo del processo di liberalizzazione.
Per
«La Banquise», la vera ricchezza e l’autentica realizzazione consistono
nella varietà dei comportamenti che sfuggono alle pressioni, alle regole
esteriori, alla legge. Non c’è bisogno di essere affamati di monotonia e di
ripetizione per vedere in questa posizione un ideale capitalista che accompagna
il vuoto dell’esistenza umana separata dalla comunità e dal rapporto con la
natura ov’essa trova il proprio senso.
A
una passione compressa in qualche organo particolare – il cuore, il sesso –
e orientata verso un oggetto ideale e unico, l’umanità post-capitalista
sostituirà una libido diffusa nella totalità corporea e volta verso oggetti
molteplici e differenti:
«Tra
le ricchezze che un’umanità liberata dal capitale farà prosperare figurano
le innumerevoli variazioni di una sessualità e di una sensualità perverse e
polimorfe. Soltanto quando queste pratiche potranno fiorire, l’“amore”,
qual è cantato da André Breton e Harlequin, apparirà per quello che è: una
costruzione culturale transitoria» (20).
«La
Banquise» denuncia il mito dell’amor
fou, costruzione culturale transitoria. Con ragione. Ma il suo mito di una
sessualità e di una sensualità perverse e polimorfe – in una parola liberate
– non è una costruzione culturale ben più transitoria?
La
sessualità è oggi presentata come il campo privilegiato della libertà e della
varietà. Finiti i divertimenti simili a quelli degli animali e degli uomini di
una volta, finiti gli attaccamenti eccessivi! L’attività sessuale degli
uomini è certo più varia di quella di altre specie animali e la nostra più
varia di quella della regina Vittoria, tuttavia, pur liberata, pur sbarazzata
dei sentimenti, pur godereccia, resta un settore relativamente monotono e
ripetitivo dell’attività umana. Ci si rende conto del numero delle posizioni
e delle facili variazioni dei compagni di gioco consentite dal tennis o dal
calcio?
Sulla
sessualità e sulla sua liberalizzazione pesano lo stress e i divieti sociali,
ma ciò che le ostacola non è soltanto la pressione esterna. Perché la
possibilità di moltiplicare e variare i rapporti amorosi resta spesso limitata?
La prima ragione è certo la gelosia sessuale persistente e irriducibile, almeno
in questo mondo, della maggior parte degli uomini e delle donne. Molti
desidererebbero moltiplicare le proprie relazioni amorose ma non lo
sopporterebbero da parte del proprio amante. Gli impediranno e si vieteranno
tali comportamenti, praticandoli di nascosto. Gli ostacoli alla libertà
sessuale non si trovano tanto in una morale coercitiva quanto piuttosto
direttamente nell’insicurezza, nell’egoismo e nell’assenza di comunità.
La realizzazione della libertà, qui come altrove, dipende da quella della
comunità.
«La
Banquise» rifiuta «un piacere senza comunicazione» (21)
la cui infinita ripetizione renderebbe noiosa la lettura di Sade. I suoi
redattori temono di sbadigliare di noia in un mondo ove ciascuno potesse baciare
chiunque, mondo promessoci dalla liberalizzazione dei costumi. Manifestando
nuovamente la loro buona volontà materialista, spiegano che la crisi
dell’ordine morale tradizionale non dipende dal fatto che i nostri
contemporanei «avrebbero più il gusto della libertà che i nostri avi», ma «perché
la morale borghese rivela la sua inadeguatezza alle condizione moderne di
produzione e di circolazione delle merci» (22).
Sottolineano il carattere contraddittorio del superamento della morale
tradizionale, l’angoscia, lo smarrimento e il ripiegamento narcisistico cui si
accompagna, ma restano ciononostante sul terreno della libertà ove il rischio
assicura la libertà e garantisce anche contro la noia.
Il
rimprovero ai situazionisti è di essersi accontentati di «descrivere la fine
del lavoro come un immenso ozio appassionante»
(23) ma, per «La Banquise», la sessualità e i
costumi davvero liberati sarebbero un gran gioco nel quale soprattutto non ci si
deve annoiare. Il che avverrà se ognuno potrà baciarsi con chiunque; è
necessario però che ci sia talvolta il rischio di perdere. Fortunatamente, il
comunismo «non garantisce affatto la concordanza di tutti i desideri. E la
tragedia reale del desiderio non corrisposto parrebbe il prezzo insuperabile da
pagare perché il gioco della seduzione resti appassionante» (24).
Il
comunismo garantisce la gratuità, non l’accordo di tutti i desideri; sono
tuttavia altamente auspicabili dei progressi. Comunque, è significativo che «La
Banquise» fondi il carattere appassionante del suo «gioco della seduzione» su
di una carenza della comunità, sulla «tragedia reale del desiderio non
corrisposto». Il fatto è che, per essa, «il desiderio include l’alterità e
dunque la sua negazione possibile» (25). Senza dubbio c’è desiderio solo per
degli esseri distinti che aspirano a congiungersi, forse ciò non è sempre
possibile, ma perché quest’alterità dev’essere verificata dalla negazione,
dalla non-risposta al desiderio?
Il
superamento della morale previsto da «La Banquise» resta abbastanza vago:
«Niente
gioco sociale e umano senza posta in gioco e senza rischio! Ecco l’unica norma
che sembra insuperabile. A meno che la nostra immaginazione scimmiesca, che
resta dipendente dal vecchio mondo, c’impedisca di comprendere l’uomo»
(26).
Può
essere davvero preso in considerazione l’oltrepassamento o il superamento
delle norme? «La Banquise» respinge i comandamenti di «Madre Natura» che non
si saprebbero come interpretare. La conoscenza dell’essere umano, della natura
e dei suoi vincoli, permettono di prevedere le conseguenze disastrose e quindi
d’interdire o vietarsi certi comportamenti, certe possibilità antinaturali e
antiumane.
Se
«l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischia di annientarsi»
(27), comunismo o meno, ci saranno degli uomini che
preferiranno che certi «giochi» siano vietati, che delle norme vengano
promulgate e che il rischio sia concentrato su coloro che le infrangono
piuttosto che sui loro simili.
A
quanto pare, i pensatori de «La Banquise» desiderano, per principio, che
nessuna norma sia insuperabile. Tuttavia, ammettono egualmente che ogni società
umana ha bisogno di regole e la società comunista non meno delle altre.
Scrivono:
«Nel
comunismo, non si parte dai valori che ci si dà, ma dai rapporti reali nei
quali si vive. Ogni gruppo pratica, rifiuta, ammette, impone certi atti e non
altri. Prima di avere dei valori, e per averli, ci sono delle cose che si fanno
o non si fanno, si impongono o si vietano.
Nelle
società contraddittorie e classiste, l’interdetto è fissato e fatto apposta
per essere aggirato o violato. I divieti delle società primitive e, in una
certa misura, delle società tradizionali, non costituiscono, propriamente
parlando, una morale. Valori e divieti vi sono riprodotti in ogni istante
attraverso ogni atto della vita sociale» (28).
Nelle
società di classe i valori e i divieti non sono riprodotti continuamente da
ogni atto della vita sociale, non scaturiscono dai rapporti reali nei quali
l’uomo vive? I divieti primitivi o tradizionali differiscono dalla morale
borghese ma sono anch’essi divieti fissati e altrettanto destinati a essere
aggirati o violati. Paiono trascendere i rapporti e reggere dall’esterno le
faccende umane. È proprio la società borghese a fondare esplicitamente su
delle necessità sociali, i codici, le legislazioni e il saper-vivere.
Il
comportamento dell’animale è retto dagli istinti e, in misura ben minore che
nell’uomo, dalla sua esperienza particolare. L’uomo, lo si voglia o no, è
preso nell’universo delle regole imparate, interiorizzate, imposte. Tali
regole, che reggono il suo linguaggio, i suoi comportamenti sociali e la sua
relazione con la natura, non sono immutabili e il rapporto che l’uomo
intrattiene con esse può anche trasformarsi. Ma c’è qui comunque un problema
dal quale non si può scantonare. «La Banquise» se la cava così: nel
comunismo, «le regole del gioco comprenderanno la possibilità di giocare con
le regole» (29).
L’umanità nel corso della storia ha trasformato senza posa le sue regole,
che, in una certa misura, sono sempre state trasgredite. Cosa avrebbe di
particolare il comunismo de «La Banquise»? Vi si proclamerebbero delle regole
e anche il permesso di infrangerle?
Si
tratta di superare, o almeno di ridurre l’antagonismo tra l’«egoismo»
dell’individuo e i suoi «doveri sociali», di trasformare questi «doveri» e
il tipo di pressione esercitata dalla società sui suoi membri, e così di
permettere il superamento della morale o almeno del moralismo, che attualmente
domina, senza abolirla, la contraddizione crescente tra l’individuo e la
società.
Il
comunismo toglierà ragione a gran parte degli odierni comportamenti «antisociali»
e farà sparire la causa di molti conflitti. Ciononostante non tutto sarà
possibile e non ogni cosa permessa. Determinate scelte saranno fatte, altre no.
La società comunista definirà certe norme; tanto meglio se nessuno cercherà
di infrangerle, tanto peggio per coloro che lo faranno con la scusa di giocare
con le regole.
L’antimoralismo
de «La Banquise» è disarmante. Nel Romanzo
delle nostre origini, si può leggere:
«Noi
non abbiamo il culto degli eroi e se un compagno si rinnega nel momento del
pericolo, non lo giudicheremo peggio di tutti i proletari che “accettano”
ogni giorno di sottomettersi alla dittatura del salariato. Semplicemente, egli
cadrà fuori dalla nostra attività comune» (30).
Il
rinnegato, per definizione, è fuori dall’attività comune; tradendo, se ne
pone lui stesso all’esterno. Constatare che un rinnegato è tale con il
pretesto di non giudicarlo non elimina il pericolo derivante dall’esistenza
dei rinnegati. Li si giudica e li si punisce per moralismo? Il tradimento è
oggetto di riprovazione e viene represso poiché il sottrarsi e i dietro front
di alcuni, soprattutto «nel momento del pericolo», sono assai pregiudizievoli
alla pratica comune. Che «La Banquise» eviti di giudicare i rinnegati che
mettono in pericolo la sua attività, è affar suo, ma ogni critica comunista
della morale o della punizione dovrà comprenderne i fondamenti.
Non
solo «La Banquise» non determina cosa renda possibile il superamento della
morale equiparato al comunismo, ma lo maschera con una falsa assimilazione tra
il rinnegamento e il salariato. Queste anime belle non giudicherebbero i
proletari che si sottomettono al salariato... E perché dovrebbero farlo
infatti? I proletari hanno rinnegato, si sono sottratti a un’attività comune
possibile al di fuori del salariato? Forse che – visto che il comunismo è
abolizione del salariato – sarebbe una colpa essere salariati (a torto, dal
momento che il comunismo significherebbe anche rifiuto della morale)?
Già
in Violence et solidarité révolutionnaires
(31),
Dauvé giustificava il principio del compromesso nell’attività rivoluzionaria
col fatto che i rivoluzionari s’imbattono quotidianamente nel capitale, si
prestano al salariato, dunque accettano dei compromessi. Inversione completa,
dal momento che in realtà non esiste un’esteriorità rivoluzionaria
antisalariale che potrebbe o piuttosto sarebbe condannata a fare dei
compromessi; i rivoluzionari, il comunismo e la critica della morale sono sì
alle prese con l’esistenza del capitale e la generalizzazione del salariato ma
ne derivano.
Malgrado
certi propositi apparentemente contrari, tutto il modo di procedere de «La
Banquise» consiste nel rinchiudersi nelle questioni della morale, dei costumi e
della sessualità. Vuole liberarli dalle costrizioni che li gravano per
generalizzarne l’essenza a tutta la vita sociale. Non risale al fondamento
della separazione tra la sfera del lavoro e quella dei costumi, e ancor prima a
ciò che fonda la dimidiazione tra la vita sociale da una parte e, dall’altra,
le regole e i tabù che sembrano reggerla eteronomamente. Perché la pratica
sociale si lacera, e ciò ancor prima dell’emergere delle classi?
Ne
L’Erotismo, Georges Bataille, uno
degli ispiratori degli autori di Per un mondo senza morale, aveva almeno mostrato che il divieto
aveva avuto origine nel «mondo del lavoro» e vi restava vincolato malgrado la
trasgressione:
«Possiamo dire che essi [i divieti sessuali] appaiono dovunque sia comparsa l’umanità [...]. Poiché il lavoro, a quanto sembra, generò logicamente la reazione che determina l’atteggiamento dinanzi alla morte, è legittimo pensare che il divieto che regola e limita la sessualità ne fu anche il contraccolpo e che l’insieme dei comportamenti umani fondamentali – lavoro, coscienza della morte, sessualità contenuta – risalgano allo stesso remoto periodo» (32).
1
«La Banquise», n. 2, 58.
2
«La Banquise», n. 1, p. 42.
3
Ibid., p. 38.
4
Ibid., p.9.
5
Ibid., p. 38.
6
Ibid., p. 39.
7
«La Banquise», n. 2 p. 51.
8
«La Banquise», n. 1, p. 39.
9
Ibid., p. 39.
10
Ibid., p. 40.
11
Ibid., p. 39.
12
Ibid., p. 36.
13
Ibid., p. 37.
14
Ibid., p. 31.
15
Ibid., p. 33.
16
Ibid., p. 33.
17
Ibid., p. 34.
18
Ibid., p. 40.
19
Ibid., p. 34.
20
Ibid., p. 34.
21
Ibid., p. 36.
22
Ibid., p. 34.
23
«La Banquise», n. 2, p. 23.
24
«La Banquise», n. 1, p. 38.
25
Ibid., p. 38.
26
Ibid., p. 38.
27
Ibid., p. 38.
28
Ibid., p. 40.
29
Ibid., p. 40.
30
«La Banquise», n. 2, p. 33.
31
J. Barrot, Violence
et solidarité révolutionnaires, Éditions de l’Oubli, 1974.
32
G. Bataille, L’erotismo,
se, Milano, 1986, p.