Per un mondo senza
morale
«La
Banquise», n. 1
Questa
introduzione alla critica dei costumi è un contributo a una necessaria antropologia
rivoluzionaria. Il movimento comunista ha una dimensione al contempo
classista e umana. Esso poggia sul ruolo centrale degli operai proletari senza
essere un operaismo e va verso una comunità umana
senza essere un umanismo. Per ora, il riformismo vive della separazione
assommando delle rivendicazioni entro sfere parallele senza mai metterle in
discussione. Una delle prove della potenza di un movimento comunista sarà la
sua capacità di riconoscere, poi di superare nella pratica il divario, persino
la contraddizione, tra queste due dimensioni, classista e comunitaria.
Sono
questo divario e questa contraddizione che si manifestano nelle ambiguità della
vita affettiva e che rendono più delicata che mai la critica dei costumi.
Quel
che segue non è un testo sulla «sessualità», prodotto culturale storico allo
stesso titolo dell’economia e del lavoro. La «sessualità» è nata con essi
come sfera specializzata dell’attività umana, perfezionata e teorizzata («scoperta»)
sotto il capitalismo ottocentesco, da esso banalizzata nel xx
secolo e superabile un giorno in una totalità di vita comunista.
Per
le stesse ragioni, non si leggerà qui nemmeno una «critica della vita
quotidiana». Quest’ultima esprime solo lo spazio sociale escluso
dal lavoro e in concorrenza con esso. I «costumi» inglobano al
contrario l’insieme dei rapporti umani nei loro aspetti affettivi. Non sono
estranei alla produzione materiale (per esempio, la morale borghese della
famiglia è indissociabile dall’etica del lavoro).
Dal
momento che il capitalismo riassume a modo suo il passato umano che l’ha
prodotto, non vi è una critica rivoluzionaria senza una critica dei costumi e
dei modi di vita anteriori al capitalismo, quali
quest’ultimo li ha integrati.
L’amore,
l’estasi, il crimine
L’amore
Secondo
i Manoscritti economico-filosofici del 1844, il «rapporto più
naturale dell’uomo con l’uomo, è il rapporto dell’uomo con la donna».
Questa formula è comprensibile e utilizzabile fin tanto che non si dimentica
che la storia degli uomini è quella della loro emancipazione dalla natura
mediante la creazione della sfera economica. L’idea dell’uomo come
contro-natura, come totalmente estraneo alla natura è certo un’aberrazione.
La natura dell’uomo è al contempo un puro dato biologico (noi siamo dei
primati) e la sua attività di uomo che modifica dentro e fuori di lui il puro
dato naturale.
Essendone
parte, l’uomo non è estraneo alle condizioni naturali. Ma vuole conoscerle e
ha cominciato a giocare con esse. Si possono discutere i meccanismi che hanno
determinato ciò (in quale misura questo modo di procedere è il risultato delle
difficoltà della sopravvivenza, particolarmente nelle zone temperate ecc.?) ma
certo è che trasformando il suo ambiente, per esserne a sua volta trasformato,
l’uomo si è posto in una posizione che lo distingue radicalmente dagli altri
stati conosciuti della materia. Liberata da tutti i presupposti metafisici,
questa capacità di giocare, in una certa misura, con le leggi della materia, è
proprio la libertà umana. Questa libertà, della quale gli uomini sono stati
spossessati via via che la producevano – è essa ad aver nutrito l’economia
– si tratta di riconquistarla senza illudersi su ciò che è: nessuna libertà
di desiderio irrompe senza incontrare degli ostacoli, nessuna libertà di
sottomettersi ai comandamenti (chi li decifrerà?) della Madre Natura. Si tratta
anche di dare tutta la sua estensione alla libertà di giocare con le leggi
della materia: essa è tanto invertire un corso d’acqua come anche usare per
fini sessuali un orifizio che non è stato «previsto» per questo uso. Si
tratta infine di vedere che il rischio solo garantisce la libertà.
È
perché deve lasciare tutto il suo spazio alla libertà umana che la critica dei
costumi non può erigere a segno della loro miseria una pratica piuttosto che
un’altra. Si legge talvolta che nel mondo moderno, la libertà dei costumi non
ricoprirebbe altro che un’attività masturbatoria (solitaria, a due, o più).
Fermarsi su questo dato di fatto, è ingannarsi sull’essenza della miseria
sessuale. È necessario dilungarsi sull’evidenza che c’è un toccarsi
solitario infinitamente meno miserabile di molti amplessi? La lettura di un buon
romanzo d’avventura può essere molto più appassionante dei viaggi
organizzati. Ciò che è miserabile, è vivere in un mondo dove non esiste più
avventura se non nei libri. Le fantasticherie, seguite eventualmente da effetto,
che un essere suscita in noi, non sono disgustose. Lo sono le condizioni che
bisogna mettere insieme perché sia possibile incontrarlo. Quando leggiamo nella
rubrica dei piccoli annunci di un barbuto che invita una signora anziana del
piano di sopra e il suo cane a zompare con lui, non sono né la barba, né la
vecchiezza, né la zoofilia a disgustarci. Ripugnante è che il desiderio del
barbuto diventi motivo di vendita di una merce ideologica particolarmente
nauseabonda, è che il barbuto faccia un’inserzione su «Liberation».
Quando,
da soli in una stanza, si redige un testo teorico, nella misura in cui questo
testo offre una presa sulla realtà sociale, si è meno isolati dagli uomini che
in un metrò o al lavoro. L’essenza della miseria sessuale non risiede in tale
attività piuttosto che in tal altra – anche se la predominanza di una sulle
altre può essere sintomatica – sta di fatto che insieme a dieci, in coppia o
tutto solo, l’individuo è irrimediabilmente separato dagli altri a causa dei
rapporti di concorrenza, della fatica e della noia. Fatica del lavoro, noia dei
ruoli. Noia della sessualità come attività separata.
La
miseria sessuale è innanzitutto la costrizione sociale (l’obbligo del lavoro
salariato e il suo seguito di miserie psicologiche e fisiologiche, la coazione
dei codici sociali) che si esercita in una sfera presentata dalla cultura
dominante e dalla sua versione contestataria come una delle ultime regioni del
mondo dove l’avventura è ancora possibile. La miseria sessuale è anche uno
smarrimento profondo degli uomini (nella misura in cui la civiltà capitalista e
giudaico-cristiana si è loro imposta) di fronte a ciò che l’Occidente ha
fatto della sessualità.
Il
cristianesimo ha ripreso dallo stoicismo (dominante nell’Impero romano) la
duplice idea che 1) il sesso è alla base dei piaceri 2) si può e si deve
dunque controllarlo. L’Oriente, da parte sua, attraverso un’affermazione
aperta della sessualità (e non soltanto nell’arte della camera da letto),
tende verso un pansessualismo dove la sessualità certamente deve essere
controllata, ma così come il resto: non la si privilegia. L’Occidente non
bistratta la sessualità dimenticandola, bensì non pensando che a essa.
Sessualizza tutto. Il peggio non è che il pensiero giudaico-cristiano abbia
soffocato il sesso, ma che ne sia stato obnubilato; non che l’abbia represso,
ma che l’abbia organizzato. L’Occidente fa della sessualità la verità
nascosta della coscienza normale, ma anche della follia (isteria). Nel momento
in cui la morale entra in crisi, Freud scopre nella sessualità il grande
segreto del mondo e di ogni civiltà.
La
miseria sessuale, è un gioco di equilibrio tra due ordini morali, l’ordine
tradizionale e l’ordine moderno che coabitano più o meno nei cervelli e nelle
ghiandole dei nostri contemporanei: da un lato, si soffre a causa delle
costrizioni della morale e del lavoro che impediscono di raggiungere l’ideale
storico di pieno godimento sessuale e amoroso, dall’altro, più ci si libera
di queste costrizioni (in ogni caso immaginariamente) più questo ideale appare
insoddisfacente e vuoto.
Non
bisogna scambiare una tendenza e la sua spettacolarizzazione con la totalità:
se la nostra epoca è quella di una relativa liberalizzazione dei costumi,
l’ordine morale tradizionale non è scomparso. Provate solamente a essere «pedofilo»
a viso aperto. L’ordine tradizionale funziona e funzionerà ancora a lungo per
una buona parte delle popolazioni dei Paesi industrializzati. In una gran parte
del mondo, è ancora dominante e ossessivo: Islam, Paesi dell’Est. Nella
stessa Francia, i suoi rappresentanti, preti di Roma o di Mosca, sono lungi
dall’essere inattivi. Il peso delle sofferenze rappresentato dai loro misfatti
grava ancora abbastanza perché ci si possa astenere dal denunciarli
in nome del fatto che è il capitale a scalzare le basi dell’ordine
morale tradizionale. Non tutta la rivolta contro ogni ordine va necessariamente
nel senso di un neoriformismo, essa può anche essere il grido della creatura
oppressa che contiene in germe l’infinita varietà delle pratiche sessuali e
sensuali possibili, represse da millenni dalle società oppressive.
Si
sarà compreso che noi non siamo contro le «perversioni». Neppure ci opponiamo
alla monogamia eterosessuale a vita. Tuttavia, quando dei letterati o degli
artisti (i surrealisti per es.) pretendono di imporci l’amor
fou come il massimo desiderabile, dobbiamo pur constatare che essi
riprendono il grande mito riduttore dell’Occidente moderno. Questo mito è
destinato a fornire un supplemento di anima alle coppie, atomi isolati che
costituiscono il migliore fondamento dell’economia capitalista. Tra le
ricchezze che un’umanità liberata dal capitale farà prosperare figurano le
innumerevoli variazioni di una sessualità e di una sensualità perverse e
polimorfe. Soltanto quando queste pratiche potranno fiorire, l’«amore», qual
è cantato da André Breton e Harlequin, apparirà per quello che è: una
costruzione culturale transitoria.
L’ordine
morale tradizionale è oppressivo e come tale merita d’essere criticato e
combattuto. Ma se è entrato in crisi, non è perché i nostri contemporanei
abbiano maggiormente il gusto della libertà che i nostri avi, ma perché la
morale borghese rivela la sua inadeguatezza alle condizioni moderne di
produzione e di circolazione delle merci.
La
morale borghese formatasi in tutta la sua ampiezza nel xix
secolo e trasmessa attraverso il canale della religione o quello della scuola
laica, è nata da un bisogno di supporti ideologici al dominio del capitalismo
industriale, in un’epoca nella quale il capitale non dominava ancora
totalmente. Etica sessuale, familiare, del lavoro, andavano di pari passo. Il
capitale si sosteneva su dei valori borghesi e piccolo-borghesi: la proprietà
frutto del lavoro e del risparmio, il lavoro faticoso ma necessario, la vita di
famiglia. Nella prima metà del xx
secolo, il capitalismo giunge a occupare tutto lo spazio sociale. Si rende
indispensabile, inevitabile: il salariato è la sola attività possibile dato
che non c’è altro. È così che, nel mentre si impone a tutti, il salariato
può rappresentarsi come assenza di costrizione, garanzia di libertà. Essendo
stato mercificato tutto, ogni elemento della morale diviene caduco. Si accede
alla proprietà prima di aver risparmiato, grazie al credito. Si lavora perché
è prassi, non per dovere. La famiglia allargata cede il posto alla famiglia
nucleare, essa stessa sconvolta dalle pressioni del denaro e del lavoro. La
scuola, i mass media contendono ai genitori l’autorità, l’influenza,
l’educazione. Tutto ciò che era annunciato dal Manifesto
del partito Comunista, è realizzato dal capitalismo. Con la fine degli
spazi della vita popolare (caffé...) rimpiazzati dai luoghi di consumo
mercantile (uffici, centri commerciali) che non hanno qualità affettiva, si
arriva a chiedere troppo alla famiglia, in un momento nel quale ha meno che mai
da offrire.
Sotto
la crisi della morale borghese, c’è più profondamente una crisi della
moralità (cioè della socialità) capitalista. C’è una difficoltà a fissare
dei «costumi», a trovare modi di relazione tra gli esseri, di comportamenti
che superino il fallimento della morale borghese. Quale moralità il capitalismo
moderno reca agli uomini? La sottomissione di tutti e di tutto, la sua
onnipresenza rendono teoricamente superflui i supporti precedenti. Per fortuna,
non funziona. Non c’è, non ci sarà mai una società capitalista pura,
integralmente, unicamente capitalista. Da una parte, il capitale non crea niente
ex nihilo, trasforma gli esseri e i rapporti nati al di fuori di esso (contadini
inurbati, piccoli borghesi declassati, immigrati) e rimane sempre qualcosa
dell’antica socialità, almeno sotto forma di nostalgia. Dall’altra parte,
il funzionamento stesso del capitale non è armonioso: non mantiene le promesse
del mondo di sogno della pubblicità, e suscita una reazione, un ripiegamento
verso i valori tradizionali pur complessivamente superati come la famiglia.
Donde il fenomeno seguente: ci si continua a sposare, tuttavia un matrimonio su
quattro finisce in un divorzio. Infine, obbligato a dirigere, vincolare,
maltrattare i suoi salariati, il capitale deve reintrodurre in permanenza i
valori di supporto autoritativi e di obbedienza che nella sua fase attuale rende
tuttavia desueti: da cui un impiego costante dell’antica ideologia accanto
a quella moderna (partecipazione...)
La
nostra è l’epoca della coesistenza delle morali. Della proliferazione dei
codici, non della loro sparizione. Alla colpevolezza (ossessione di violare un
tabù) si giustappone l’angoscia (sentimento di una mancanza di riferimenti
dinnanzi alla «scelta» da fare). Alla nevrosi e all’isteria di un tempo
fanno seguito al narcisismo e alla schizofrenia come malattie storiche.
Ciò
che regge il comportamento dei nostri contemporanei, è sempre meno l’insieme
dei comandamenti senza appello trasmessi dal pater familias o dal prete, quanto
piuttosto una specie di morale utilitarista di pienezza individuale, favorita da
una feticizzazione del corpo e da una psicologizzazione forsennata delle
relazioni umane, nelle quali la mania interpretativa ha rimpiazzato la
confessione e l’esame di coscienza.
Sade
era in anticipo sul suo tempo. Egli annunciava semplicemente il nostro: quello
della sparizione di ogni garanzia morale prima che
l’uomo sia divenuto. La noia intollerabile che il lettore del monotono
catalogo del marchese finisce più o meno velocemente per provare, la si ritrova
nella lettura di questi piccoli annunci dove si ripetono all’infinito le
figure di un piacere senza comunicazione. Il desiderio sadiano mira
all’assoluta reificazione dell’altro, cera molle su cui imprimere i propri
fantasmi. Atteggiamento mortifero: annientare l’alterità, rifiutare di
dipendere dal desiderio dell’altro, sono la ripetizione dell’identico e la
morte. Ma, mentre gli eroi sadiani s’impegnano a rompere i freni sociali,
l’uomo moderno, nella sua logica di pieno godimento individuale, è divenuto
la propria cera da plasmare. Non è trascinato dal suo desiderio, «realizza i
suoi fantasmi». O piuttosto, cerca di realizzarli, come si fa jogging invece di
correre per diletto o perché si ha bisogno di recarsi rapidamente da qualche
parte. L’uomo moderno non si perde nell’altro, fa funzionare e sviluppare le
sue capacità di godimento, la sua attitudine all’orgasmo. Fiacco domatore del
suo proprio corpo, gli dice: «Godi!», «meglio di così», «corri!», «danza!»
ecc.
Per
l’uomo moderno, l’obbligo del lavoro è sostituito da quello di un tempo
libero «riuscito», la costrizione sessuale dalla difficoltà di affermare
un’identità sessuale. La cultura narcisista va di pari passo al cambiamento
di funzione della religione: quest’ultima, invece di evocare una trascendenza,
diventa un modo per facilitare il passaggio dei momenti di crisi della vita
(adolescenza, matrimonio, morte). La religione del resto non basta ad aiutare
gli uomini a essere moderni: occorre loro anche il richiamo alla famiglia! «Una
famiglia non iper-presente, come nel secolo scorso, ma iper-assente. Essa si
definisce non attraverso l’etica del lavoro o del vincolo sessuale, ma
attraverso l’etica della sopravvivenza e della promiscuità sessuale.» Così
parla uno psicologo, Christopher Lasch (1).
Al
centro della crisi della moralità che domina le società occidentali, gli
uomini sono meno armati che mai per risolvere la «questione sessuale». Ed è
precisamente il momento nel quale essa si pone in tutta la sua crudezza, e nel
quale si hanno dunque le maggiori possibilità di accorgersi che questa «questione»
non è a sé.
L’uomo
moderno si sgomenta, ed è tanto più perduto dinnanzi alla mercificazione di
tutta la vita che si attacca al sesso maltrattato da 2000 anni, che risorge solo
per farsi merce. Ci si accorge allora che l’esercizio ininterrotto dei sensi («La
Grande Abbuffata») nel mondo della merce, isola ancor più l’individuo,
dall’umanità, dai suoi compagni e da se stesso. Si ritorna alla fin fine al
cristianesimo, poiché si approda all’idea di una sessualità alienante e
mortifera.
L’opera
di Georges Bataille, per esempio, è rivelatrice di questa evoluzione del mondo
occidentale dopo l’inizio del secolo. Al contrario della storia della civiltà,
Bataille parte dalla sessualità per approdare alla religione. Dall’Occhio
(1929) alla fine della sua vita, passa la sua esistenza a cercare
l’implicito dell’Occhio. La sua
traiettoria incrocia il movimento rivoluzionario e se ne allontana tanto più
velocemente e facilmente dato che questo movimento sparisce quasi completamente.
Nondimeno, negli ultimi anni del periodo fra le due guerre, egli ha avuto il
tempo di difendere delle posizioni di fronte all’antifascismo e alla minaccia
di guerra, che risaltano sovente per la loro lucidità sullo sproloquio della
gran maggioranza dell’estrema sinistra. È per questo che la sua opera è
ambigua. Si può utilizzarla come spiegazione delle impasses religiose a cui
approda l’esperienza-limite della sessualità sfrenata: «una casa chiusa è
la mia vera chiesa, la sola abbastanza inquietante» (2).
Ma
se, nel passo succitato, come nella maggior parte della sua opera, Bataille si
limita a contraddire i valori accettati, a rifinire
una nuova versione del satanismo, è anche arrivato a scrivere delle frasi
che rivelano un’intuizione profonda degli aspetti essenziali del comunismo: «intendere
la perversione e il crimine non come valori eclusivi ma da integrare nella
totalità umana» (3).
L’estasi
Attraverso
le costruzioni culturali a cui ha dato origine (amore greco, amor cortese,
sistemi di parentela, contratto borghese ecc.), la vita affettiva e sessuale non
ha cessato di essere una posta in gioco, matrice di passioni, zona di contatto
di un’altra sfera culturale: il sacro. Nella trance, nell’estasi, nel
sentimento di comunione con la natura, si esprime in modo parossistico
l’aspirazione a superare i limiti dell’individuo. Sviata verso il cosmo o la
divinità, fino a oggi quest’aspirazione a fondersi nella specie ha assunto i
panni prestigiosi del sacro. Le religioni, e particolarmente le religioni
monoteiste, si sono impegnate a circoscrivere il sacro e ad attribuirgli un
ruolo conduttore nel mentre lo ponevano lontano dalla vita umana. Al contrario delle
società primitive nelle quali il sacro è inseparabile dalla vita quotidiana,
le società statali l’hanno sempre più specializzato. La civiltà capitalista
non ha liquidato il sacro, lo ha represso ed i suoi molteplici residui e
surrogati continuano a ingombrare la vita sociale. Di fronte a un mondo dove
coesistono anticaglie religiose e banalizzazione mercantile, la critica
comunista procede con un doppio movimento: al tempo stesso deve desacralizzare,
cioè scovare i vecchi tabù là dove si sono rifugiati, e abbozzare un
superamento del sacro, che il capitalismo non ha fatto altro che degradare.
Dunque,
desacralizzazione delle zone dove si sono rifugiati i vecchi feticci, come per
es. il pube. Contro l’adorazione del pene, contro il suo imperialismo
conquistatore, le femministe non hanno trovato di meglio che feticizzare il
sesso delle donne, con gran supporto di pathos e di letteratura, per farne il
segno della loro differenza, la piega oscura ove dimora il loro essere! Lo
stupro diviene allora il crimine dei crimini, un attentato ontologico. Come se
infliggere a una donna la penetrazione di un pene con la violenza fosse più
disgustoso che forzarla alla schiavitù salariale attraverso la pressione
economica! Ma è vero che nel primo caso il colpevole è facile da trovare: è
un individuo, mentre nel secondo caso, è un rapporto sociale. È più facile
esorcizzare la propria paura facendo dello stupro una bestemmia, l’irruzione
nel sancta sanctorum. Come se la manipolazione pubblicitaria, le innumerevoli
agressioni fisiche del lavoro o la schedatura da parte degli organismi di
controllo sociale non costituissero delle violenze intime almeno altrettanto
profonde che un coito imposto!
Alla
fin fine, ciò che spinge il somalo a strappare la clitoride della sua donna e
ciò che muove le femministe proviene dalla medesima concezione
dell’individualità umana come oggetto possibile di un rapporto di proprietà.
Il somalo, convinto che la sua donna faccia parte del bestiame, crede sia suo
dovere proteggerla dal desiderio femminino, dannoso parassita per l’economia
del gregge. Ma, così facendo, accorcia singolarmente e impoverisce il proprio
piacere, il proprio desiderio. Nella clitoride della donna, è il desiderio
umano che è preso di mira simbolicamente, tutti i sessi confusi. Questa donna
mutilata, è dell’umanità stessa a
essere amputata. La femminista che grida che il suo corpo le appartiene
vorrebbe badare al proprio desiderio da sé ma, quando desidera, entra in una
comunità nella quale l’appropriazione si dissolve.
«Il
mio corpo è mio»: questa rivendicazione pretende di dare un contenuto concreto
ai Diritti dell’Uomo del 1789. Non si è ripetuto che essi concernono solo un
uomo astratto e non producono in definitiva che l’individuo borghese! Si dirà
oggi: borghese, maschio, bianco, adulto. Il neoriformismo pretende di correggere
questa lacuna attivandosi per dare un contenuto reale a questo «uomo» finora
astratto. I diritti «reali» dell’uomo «reale», insomma. Ma l’«uomo
reale» non è altro che la donna, l’ebreo, il corso, l’omosessuale, il
vietnamita ecc. «Il mio corpo è mio» è nella linea di una rivoluzione
borghese che si tenta di completare, di perfezionare indefinitamente invitando
la democrazia a cessare di essere «formale». Si criticano qui gli effetti
invece della loro causa.
L’esigenza
di una proprietà sul proprio corpo individuale rinnova la rivendicazione
borghese del diritto di proprietà. Per sfuggire all’oppressione secolare
delle donne trattate un tempo dal loro marito (e oggi ancora, sotto altre forme)
come oggetto di possesso, il femminismo non trova niente di meglio che allargare
il diritto di proprietà. Che la donna a sua volta divenga proprietaria, così
sarà protetta: a ciascuno il suo! Rivendicazione miserabile, in cui si riflette
l’ossessione della «sicurezza» che i mass media e tutti i partiti si
sforzano di far condividere ai nostri contemporanei. Rivendicazione nata in un
orizzonte chiuso all’interno del quale per dominare qualcosa (in questo caso,
il proprio corpo) non si può immaginare altro modo dall’appropriazione
privativa. Il nostro corpo è di coloro che ci amano, e questo non in virtù di
un «diritto» garantito giuridicamente, ma perché, carne ed emozione, noi non
viviamo e non ci muoviamo se non in funzione degli altri. E, nella misura in cui
noi sappiamo e possiamo amare la specie umana, il nostro corpo le appartiene.
Contemporaneamente
alla desacralizzazione, la critica comunista deve denunciare l’utopia
capitalista di un mondo dove non si potrà più amare da
morire, dove, essendo stata appiattita ogni cosa, tutto si equivarrà e
si scambierà. Fare dello sport, baciare, lavorare, nello stesso tempo
quantificato, tagliato come un salame: il tempo industriale. I sessuologi
saranno lì a guarire tutte le debolezze della libido, gli psicoteraupeuti a
evitare ogni sofferenza psichica e la polizia, sostenuta dalla chimica, a
prevenire ogni sconfinamento; in quel mondo, non esisterà più la sfera
dell’attività umana che, essendo la posta in gioco capace di rimettere in
causa tutta la vita, potrebbe dare un altro ritmo al tempo.
È
l’illusione astorica a fondare le pratiche mistiche e pericolose. Di fatto, di
esse ci sta a cuore solo ciò che, per definizione, non è propriamente loro: il
comunicabile. Non si esce dalla storia ma essa, quella dell’individuo come
quella della specie, non è nemmeno il puro svolgimento lineare che il
capitalismo s’impegna a produrre, e a far credere di produrre. La storia
comporta degli apogei che vanno al di là e al di qua del presente, degli
orgasmi che si perdono nell’altro, nella socialità e nella specie.
«Il
cristianesimo ha sostanziato il sacro ma la natura del sacro [...] è forse ciò
che si produce di più inafferrabile tra gli uomini, il sacro non è che un
momento privilegiato di unità di comunione, momento di comunicazione convulsiva
di ciò che ordinariamente viene soffocato» (4).
Questo
momento di «unità di comunione», lo si ritrova oggi in un concerto, nel
panico che s’impadronisce di una folla e, nella sua forma più degradata, nei
grandi slanci patriottici e in altri sussulti dell’Unione Sacra:
la sua manipolazione permette ogni mascalzonata. Si può presumere che nella
guerra moderna, a differenza di ciò che accade nei Paesi capitalisti arretrati
come l’Iran, solo una minoranza parteciperà, il resto guarderà. Ma niente è sicuro, la manipolazione del sacro ha forse
ancora dei bei giorni davanti a sé, poiché fino a oggi il sacro ha
rappresentato il solo momento intenso offerto alla manifestazione di questo
bisogno irreprimibile dell’uomo: essere insieme.
Oltre
a fornire una nicchia più o meno immaginaria al riparo dalla lotta di classe,
le pratiche mistiche hanno potuto servire a cementare delle rivolte, come
dimostrato per es. dal ruolo della trance taoista nella resistenza al potere
centrale dell’antica Cina, del vudu nelle insurrezioni degli schiavi o dei
profetismi millenaristi. Se le ricerche mistiche contemporanee giocano un ruolo
controrivoluzionario, giacché sono solo una delle forme del ripiegamento su di
sé dell’individuo borghese, questo non toglie che la banalizzazione
mercantile di tutti gli aspetti della vita tenda a svuotare l’esistenza del
suo contenuto passionale. Il mondo in cui viviamo ci propone di amare solo
un’accozzaglia di insufficienze individuali. Confrontato con le società
tradizionali, questo mondo ha perduto una dimensione essenziale della vita
umana: i tempi intensi dell’unione dell’uomo con la natura. Siamo condannati
a guardare le feste dei raccolti in tivù.
Ma
noi non ne vogliamo sapere di un ridicolo passatismo, di un ritorno a delle
gioie di cui la storia ci ha fatto scoprire il carattere ripetitivo, ingannevole
e limitato. Allorché il capitale tende a stabilire il suo regno assoluto,
cercare altrove dalla rivoluzione l’«unità di comunione» e la «comunicazione
convulsiva», diviene puramente reazionario. Il fatto che il capitalismo abbia
banalizzato tutto ci offre l’occasione di liberarci di questa sfera
specializzata, la sessualità. Noi vogliamo un mondo in cui l’impeto fuori di
sé esista come possibilità in tutte le attività umane – un mondo che ci
proponga la specie come oggetto di amore, e degli individui le cui insufficienze
saranno quelle della specie e non più quelle del mondo. La posta oggi in gioco,
ciò che merita il rischio della morte, ciò che potrebbe donare un altro ritmo
al tempo, è il contenuto della vita tutta intera.
Il
crimine
«Che
la storia non abbia alcun senso, ecco di cosa ci rallegriamo. Ci tormentiamo per
una soluzione felice del divenire, per una festa finale di cui solo le nostre
fatiche e i nostri disastri faranno le spese? Per dei futuri idioti saltellanti
sulle nostre ceneri? La visione di un compimento paradisiaco oltrepassa, nella
sua assurdità, le peggiori divagazioni dello spirito. Tutto ciò che sarà
addotto a pretesto, a giustificazione dei Tempi, è che si trovi qualche momento
più proficuo di altri, accidenti senza conseguenze nell’intollerabile
monotonia delle perplessità.» (E.M. Cioran,
Précis de décomposition)
Il
comunismo non è un compimento paradisiaco.
Innanzitutto,
identificare il comunismo in un paradiso permette di accettare tutto
nell’attesa. In caso di rivoluzione sociale, si ammetterà di non cambiare da
cima a fondo la società: una società senza Stato né prigione, d’accordo,
però più tardi... quando gli uomini saranno perfetti. Fino ad allora, tutto si
giustifica: Stato operaio, prigioni del popolo ecc., poiché il comunismo non si
confarebbe che a un’umanità di dèi.
C’è
poi una visione tranquillizzante della società desiderabile che toglie la
voglia di desiderarla. Ogni comunità quali che siano le sue dimensioni, impone
ai suoi membri di rinunciare a una parte di loro stessi e, se si intendono come
desideri positivi, quelli la cui realizzazione non comprometterebbe la libertà
degli altri, ogni comunità costringe ciascuno a lasciare insoddisfatti alcuni
dei suoi desideri positivi. Per la semplice e buona ragione che questi desideri
non sono per forza condivisibili da uno o altri membri. Ciò che rende
sopportabile una tale situazione, è la certezza che, per chiunque giudichi che
queste rinuncie minino l’integrità stessa della persona, rimarebbe la
possibilità di ritirarsi, il che non accadrebbe senza sofferenza. Ma il rischio
della sofferenza e della morte non è indispensabile alla pienezza del senso
della vita?
Che
l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischi di annientarsi, e con
essa ogni vita sul pianeta, non è ciò che ci tormenta. L’insopportabile, è
che lo faccia nell’incoscienza assoluta e, per così dire, suo malgrado, poiché
ha creato il capitale che le impone le sue proprie leggi inumane. È
tuttavia vero che da quando l’uomo ha cominciato a modificare il suo ambiente,
lo ha fatto a rischio di distruggerlo e di distruggersi, e che questo rischio
sussisterà senza dubbio, quali che siano le forme di organizzazione sociale. Si
potrebbe ugualmente concepire un’umanità che, dopo aver dapprima combattuto,
poi addomesticato e amato l’universo, decida di scomparire, di ritornare al
grembo della natura sotto forma di polvere. In ogni caso, non vi è umanità
senza rischio, poiché non vi è umanità senza l’altro. Lo si verifica bene
nel gioco delle passioni.
Se
non facciamo molta fatica a immaginare che una società meno rigida sarà in grado di dare alle donne e agli uomini (agli uomini
condannati dopo rivoluzione borghese a portare solo abiti da lavoro!)
l’occasione di essere più belli, di praticare dei rapporti di seduzione al
tempo stesso più semplici e più raffinati, non possiamo comunque impedirci di
sbadigliare all’evocazione di un mondo nel quale
tutti piaceranno a tutti, dove si potrà baciare come ci si stringe la mano,
senza che ciò impegni ad alcunché (è proprio questo il mondo che ci promette
la liberalizzazione dei costumi). Karl continuerà dunque, con tutta probabilità,
a piacere a Jenny più di Friedrich. Ma sarebbe come credere ai miracoli
immaginare che non accadrà mai che Friedrich provi desiderio per Jenny senza
che lei lo corrisponda. Il comunismo non garantisce affatto la concordanza di
tutti i desideri. E la tragedia reale del desiderio non corrisposto parrebbe il
prezzo insuperabile da pagare perché il gioco della seduzione resti
appassionante. Non in virtù del principio del vecchio stupido detto «ciò che
si ottiene senza pena non ha valore», ma perché il desiderio include l’alterità
dell’altro e dunque, la sua possibile negazione. Niente gioco sociale e umano
senza posta in gioco e senza rischio! Ecco l’unica norma che sembra
insuperabile. A meno che la nostra immaginazione scimmiesca, che resta
dipendente dal vecchio mondo, ci impedisca di comprendere l’uomo.
Ciò
che rende Fourier meno noioso della maggior parte degli altri utopisti è che,
oltre a un inventario molto poetico e molto intenso dei possibili, il suo
sistema integra la necessità dei conflitti. Noi sappiamo che la quasi totalità
dei casi considerati crimini o delitti dal vecchio mondo non sono che
cambiamenti bruschi di proprietario (il furto), incidenti della concorrenza
(l’omicidio di un cassiere di banca) o il prodotto della miseria dei costumi.
Ma, in un mondo senza Stato, non è inimmaginabile che l’esacerbazione delle
passioni possa condurre un uomo a far soffrire o a uccidere un altro uomo. In un
tale mondo, la sola garanzia che un uomo non ne torturi un altro, dipenderà dal
fatto che egli non ne provi il bisogno. Ma se lo prova? Se torturare lo diverte?
Sbarazzati delle vecchie rappresentazioni del tipo occhio per occhio, dente per
dente, prezzo del sangue ecc., una donna il cui amante sia stato ucciso, un uomo
la cui amata torturata, giudicheranno, malgrado la loro rabbia, certo stupido
uccidere qualcuno, vederlo rinchiuso, per compensare fantasmaticamente la
perdita subita – forse... Ma se il desiderio di vendetta prevale? E se
l’altro continua a uccidere?
Nel
movimento operaio, gli anarchici sono senza dubbio tra i pochi a essersi posti
concretamente il problema di una vita sociale senza Stato. La risposta di
Bakunin non è davvero convincente: «Abolizione assoluta di tutte le pene
degradanti e crudeli, delle punizioni corporali e della pena di morte, in quanto
consacrate ed eseguite dalla legge. Abolizione di tutte le pene a termine
indefinito o troppo lunghe che non lasciano alcuna possibilità di
riabilitazione: il crimine dovrebbe essere considerato come una malattia
eccetera». Parebbe di leggere il programma del Partito Socialista quando non
era ancora al potere. Ma il seguito è più interessante: «Ogni individuo,
condannato dalla legge di una qualsiasi società – comune, provincia o nazione
– conserverà il diritto di non sottomettersi affatto alla pena che gli sarà
stata imposta, dichiarando che non vuole più far parte di questa società. Ma,
in questo caso, quest’ultima avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal
suo grembo e di dichiararlo al di fuori della sua garanzia e della sua
protezione. Ricaduto così sotto la legge naturale occhio per occhio, dente per
dente, almeno sul territorio occupato da questa società, il refrattario potrà
essere derubato, maltrattato, anche ucciso senza alcuna preoccupazione. Ciascuno
potrà liberarsene come di una bestia malefica, mai però asservirlo né
impiegarlo come schiavo» (5).
Questa
soluzione ricorda l’atteggiamento dei primitivi: l’individuo che ha infranto
un tabù non è mai più preso sul serio, si ride ogni volta che apre bocca,
oppure deve partire per la giungla, o diventa invisibile ecc. In tutti i casi,
espulso dalla comunità, è votato a una morte prossima.
Se
si tratta di distruggere le prigioni per ricostruirle più ariose e un po’
meno rigide, che non si conti su di noi. Saremo sempre a fianco del refrattario.
Poiché, cos’è una pena «troppo lunga»? Non è necessario esserci marciti
dentro per sapere che in prigione il tempo è, per definizione, sempre troppo
lungo. Ma se si tratta di rimpiazzare la galera con un allontanamento ancora più
radicale, che non si conti maggiormente su di noi. Quanto a trattare il crimine
come una malattia, è questa la porta aperta al totalitarismo del neurolettico o
del discorso psichiatrico.
«È
curioso constatare che basta perdere la propria «serietà» (nella qual cosa un
uomo non invecchiato anzitempo potrebbe rivaleggiare con il più terribile dei
bambini) per trovare simpatici i più infimi briganti. L’ordine sociale
tenderebbe a una risata? [...] La vita non è una risata, affermano, non senza
la più comica gravità, gli educatori e le madri di famiglia ai bambini stupiti
[...]. Io immagino tuttavia che nello sfortunato cervello oscurato da questo
misterioso ammaestramento, un paradiso ancora rutilante cominci con un
formidabile rumore di stoviglie rotte [...] il piacere senza freno dispone di
tutti i prodotti del mondo, tutti gli oggetti gettati in aria sono da rompere
come dei giocattoli» (6).
Che
fare dei distruttori di stoviglie? Oggi, è impossibile rispondere a questa
domanda, e ugualmente non è sicuro che in una società senza Stato vi si trovi
una risposta soddisfacente. L’uomo che rifiuta il gioco, che rompe le
stoviglie, che è pronto a correre il rischio di soffrire, persino a morire, per
il semplice gusto di rompere il legame sociale, tale è il rischio senza dubbio
insuperabile al quale va incontro una società che rifiuti d’espellere dal
grembo dell’umanità chicchessia, per quanto asociale. I danni che la società
dovrà subire saranno sempre meno grandi di quelli ai quali si esporrebbe
facendo dell’asociale un mostro. Per salvare qualche vita, per quanto «innocente»,
non bisogna che il comunismo perda la sua ragion d’essere. Constatiamo che
fino a oggi le mediazioni concepite per evitare o addolcire i conflitti e
mantenere l’ordine interno alla società hanno provocato un’oppressione e
delle perdite umane infinitamente più grandi di quelle che si riteneva
avrebbero impedito o limitato. Nel comunismo, nessuno Stato alternativo, nessun
«non-Stato», che sarebbe ancora uno Stato.
«La
repressione delle reazioni antisociali è oltre che chimerica inaccetabile come
principio» (7).
La
questione non è soltanto importante per un lontano avvenire. È anche una posta
in gioco in un periodo di turbamenti sociali. Pensiamo alla sorte riservata ai
saccheggiatori e ai ladri durante le sommosse del xix
secolo, all’ordine morale che queste sommosse riproducevano al loro interno.
Ugualmente, nella Russia dei primi tempi della rivoluzione, a un formidabile
movimento di trasformazione dei costumi, si è giustapposto un «Codice
matrimoniale bolscevico», di cui il solo titolo è tutto un programma. Ogni
periodo più o meno rivoluzionario porterà alla nascita di gruppi, a metà
strada tra la sovversione sociale e la delinquenza, a temporanee ineguaglianze,
ad accaparratori, a profittatori e, soprattutto, a tutta una gamma di condotte
sfumate che sarà difficile qualificare come «rivoluzionarie», «di
sopravvivenza», «controrivoluzionarie» ecc. La comunizzazione progressiva
risolverà queste questioni ma in una, due generazioni, forse più. Fino ad
allora, occorrerà prendere delle misure, non nel senso di un «ritorno
all’ordine», che sarà uno degli slogan chiave di tutti gli
antirivoluzionari, ma sviluppando ciò che costituisce l’originalità del
movimento comunista: essenzialmente, esso non reprime, sovverte.
Questo
significa innanzitutto che utilizza solo la quantità di violenza strettamente
necessaria per raggiungere i suoi scopi, non per moralismo o non-violenza ma
perché tutta la violenza superflua si autonomizza e diviene un fine a sé. Ciò
implica quindi che la sua arma è innanzitutto e in primo luogo la
trasformazione dei rapporti sociali e la produzione delle condizioni di
esistenza. I saccheggi spontanei cessanno d’essere un cambiamento di massa di
proprietari, una semplice giustapposizione di appropriazioni privative, se si
costituisce una comunità di lotta tra i saccheggiatori e i produttori. A questa
condizione solamente, il saccheggio può essere il punto di partenza di una
riappropriazione sociale delle ricchezze e di una loro utilizzazione in una
prospettiva più ampia del puro e semplice consumo (il quale non è in sé
condannabile, non essendo la vita sociale che attività produttiva, quindi anche
consumo e consumazione, e se i poveri vogliono procurarsi dapprima qualche
piacere, chi altri oltre ai preti penserà a rimproverarli?). Quanto agli
accapparratori, se saranno necessarie talvolta delle misure violente, sarà per
recuperare i beni e non per punire. In tutti i casi, è solo estendendo il regno
della gratuità che si toglierà loro di fatto ogni possibilità di nuocere. Se
il denaro non è che carta, se non si può più convertire in denaro ciò che si
accaparra, a che fine accapparrare?
Più
una rivoluzione si radicalizza, e meno ha bisogno di essere repressiva: noi
l’affermiamo tanto più volentieri in quanto per il comunismo, la vita umana,
come sopravvivenza biologica, non è il valore supremo. È il capitalismo che ci
impone questo mostruoso imbroglio: la sicurezza di una sopravvivenza massima in
cambio di una sottomissione massima all’economia. Eppure, un mondo in cui ci
si deve nascondere per sciegliere l’ora della propria morte non è
radicalmente devalorizzato?
Nel
comunismo, non si parte dai valori che ci si dà, ma dai rapporti reali nei
quali si vive. Ogni gruppo pratica, rifiuta, ammette, impone certi atti e non
altri. Prima di avere dei valori, e per
averli, ci sono delle cose che si fanno o non si fanno, si impongono o si
vietano.
Nelle
società contraddittorie e classiste, l’interdetto è fissato e, al contempo,
fatto per essere aggirato o violato. I divieti delle società primitive e in una
certa misura, delle società tradizionali, non costituiscono, propriamente
parlando, una morale. Valori e divieti vi sono riprodotti in ogni istante
attraverso ogni atto della vita sociale. Quando lavoro e vita privata si
oppongono sempre più radicalmente, allora s’impone la questione dei costumi,
che diviene lancinante nel xix
secolo in Europa con lo sviluppo di ciò che i borghesi chiamavano le classi
pericolose. Bisogna contemporaneamente che l’operaio sia reputato libero di
andare al lavoro (per giustificare la libertà del capitalista di
rifiutarglielo), e che la morale lo mantenga in buone condizioni spiegandogli
che egli non deve spassarsela e che il lavoro è la sua dignità. Non c’è
morale se non perché vi sono dei costumi, cioè un dominio che la società
lascia teoricamente a disposizione dell’individuo, ma che allo stesso tempo si
impegna a legiferare dall’esterno.
La
legge (religiosa, poi statale) presuppone lo scarto. Qui è la differenza con il
comunismo dove non si ha bisogno di legge intangibile che ciascuno sa non verrà
rispettata. Nessun assoluto, se non forse la priorità della specie – che non
significa la sua sopravvivenza. Nessuna regola falsamente universale. Ogni
morale razionalizza a posteriori, come il diritto, l’ideologia. Essa si vuole e si
dice sempre fondamento della vita sociale; nel mentre si vuole essa stessa senza
fondamento, dal momento che poggia solo su Dio, sulla natura, sulla logica, sul
bene sociale... cioè un fondamento inesistente poiché non si può rimetterlo
in discussione. Le regole che si daranno (in un modo che non possiamo prevedere)
gli esseri umani nel comunismo deriveranno dalla socialità comunista. Esse non
costituiranno una morale in quanto non pretenderanno una illusoria universalità
nel tempo e nello spazio. Le regole del gioco comprenderanno la possibilità di
giocare con le regole.
«La
rivolta è una forma di ottimismo appena meno ripugnante dell’ottimismo
corrente. La rivolta, per essere possibile, presuppone che si prenda in
considerazione la possibilità di reagire, cioè che vi sia un ordine di cose
preferibile e al quale bisogni tendere. La rivolta stessa, considerata come un
fine, è ottimista, significa considerare il cambiamento, il disordine come
qualche cosa di soddisfacente. Non posso credere che ci sia qualcosa di
soddisfacente. [...]
Domanda:
– Secondo voi, il suicidio è un ripiego?
–
Esattamente, è un ripiego antipatico quasi quanto un mestiere o una morale» (8).
Tutta
una letteratura nichilista ha sviluppato il punto di vista del «distruttore di
stoviglie», del refrattario a ogni legame sociale, con il gusto della morte
come corollario obbligato. Ma la bella musica dei pensatori nichilisti non ha
impedito alla maggior parte di essi di perdersi nei rumori della vita quotidiana
fino a un’età rispettabile. Incoerenza che conforta l’idea che il
refrattario assoluto sia soltanto un mito letterario. Quanto ai rari individui
che come Rigaut scelsero il ripiego del suicidio, o come Genet gustarono davvero
l’abiezione, essi vissero questo mito come una passione. Ma che senza dubbio
siano esistiti dei mistici sinceri non prova in nessun modo l’esistenza di
Dio. Questi «refrattari» nutrono un elitismo che è fin dall’inizio una
posizione falsa. Il fatto più grave non è che si credano superiori, ma che si
pensino come differenti
dal resto dell’umanità. Si vogliono osservatori di un mondo dal quale
sarebbero in disparte, mentre si può comprendere solo ciò a cui si partecipa.
L’esteriorità si crede lucida, invece cade nella peggiore trappola; è
Bataille che lo dice:
«[...]
Io non ho mai potuto guardare l’esistenza con il dispregio distratto
dell’uomo solo»
(9).
«Poiché
è l’agitazione umana, con tutta la volgarità dei piccoli e dei grandi
bisogni, con il suo disgusto aperto per la polizia che la soffoca,
l’agitazione di tutti gli uomini (esclusa questa polizia e gli amici di questa
polizia), che sola condiziona le forme mentali rivoluzionarie, in opposizione
alle forme mentali borghesi» (10).
Il
mito del refrattario ha talvolta ingombrato la teoria rivoluzionaria: vedere la
fascinazione dei situazionisti per i fuorilegge in generale e per Lacenaire in
particolare, fascinazione portata al suo culmine nell’affliggente ultimo film
di Debord. Ma se questo mito deve essere criticato, è anche perché si limita a contraddire
e tende dunque a corroborare la produzione di mostri fascinanti da parte delle
società di classe.
Su
questo oceano di zombi nel quale siamo immersi, corre talvolta un brivido di
passione, quando si dà in pasto ai cittadini un essere radicalmente estraneo,
qualcosa che ha la forma di un uomo ma al quale si nega ogni umanità reale. Per
il nazi, era l’ebreo, per l’antifascista, è il nazi. Per le folle
contemporanee, sono i terroristi, i malviventi o gli assassini di bambini.
Allorché si tratta di braccare questi mostri e di determinarne il castigo, le
passioni infine risorgono e le fantasie che si credevano sopite galoppano. Peccato che questo
tipo d’immaginazione e le sue raffinatezze siano proprio quelle che si
attribuiscono al mostro garantito non umano: il carnefice nazista.
Non
si sono potuti costringere tutti a rispettare una legge in contraddizione con il
funzionamento reale dei rapporti sociali. Non si è potuto impedire l’omicido
quando c’erano motivi per uccidere. Non si è potuto prevenire il furto quando
c’erano delle ineguaglianze e che il commercio si fondasse sul furto. Allora,
si esemplifica concentrandosi su di un caso. Di più: si esorcizza la parte di sé
che avrebbe anche voluto essere il carnefice di quei corpi senza difesa o
l’assassino-violatore di questi bambini. La parte d’invidia
nel grido di odio della folla non ha bisogno di essere messa in evidenza.
Salta agli occhi, persino a quegli occhi fatti per non vedere, quelli dei
giornalisti.
Al
contrario, il comunismo è una società
senza mostro. Senza mostro, perché ciascuno infine nei desideri e negli
atti degli altri riconoscerà altrettanto delle figure possibili dei propri
desideri e del proprio essere uomo. «L’essere umano è la vera Gemeinwesen
dell’uomo» (Karl Marx):
le parole Gemeinwesen o essere collettivo esprimono il nostro movimento molto
meglio della parola comunismo, che non si associa di primo acchito se non a una
messa in comune delle cose. La frase di Marx merita molti sviluppi e noi vi
torneremo. Per ora accontentiamoci di vedere in questa frase la critica
dell’umanismo borghese. Mentre l’uomo onesto di Montaigne può essere tutti
gli uomini, grazie alla mediazione della cultura, l’uomo comunista sa, per
pratica, di poter esistere com’è solo perché tutti gli altri esistono come
sono.
Ciò
non significa per nulla che nessun desiderio debba essere represso. Repressione
e sublimazione impediscono di cadere nel rifiuto dell’alterità. Ma il
comunismo è una società senz’altra garanzia che il libero gioco delle
passioni e dei bisogni, mentre la società capitalista è presa dal delirio
della sicurezza che essa vorrebbe garantire contro tutti i rischi della vita,
ivi compresa la morte. Tutti i pericoli e i rischi possibili dovrebbero essere
«coperti dall’assicurazione», al di fuori dei «casi di forza maggiore» –
guerra e rivoluzione – e ancora... Il solo avvenimento contro il quale il
capitalismo non può fornire un’assicurazione, è la sua propria scomparsa.
Quando
si ha la pretesa di una critica globale del mondo, non si saprà accettare che
la critica si limiti alla teoria pura. Ci sono periodi nei quali l’attività
sovversiva si riduce quasi interamente alla redazione di testi o a scambi di punti vista
tra individui. È dentro questo «quasi» che si spiega il nostro disagio: per
continuare a gettare uno sguardo lucido sul mondo, occorre essere abitati da una
tensione che non è facile da affrontare, poiché implica rifiuto, una certa
marginalizzazione, una grande sterilità. Questo rifiuto, questa
marginalizzazione e questa sterilità contribuiscono a mantenere la passione
tanto quanto tendono a irrigidirla in acidità misantropica o in mania
intellettuale. Colui che rifiuta l’organizzazione del mondo da parte del
capitale non considera alcuno degli atti di cui è intessuta la vita sociale
come scontato. Le stesse manifestazioni del dato biologico non sono al riparo
dal suo tormento! Accettare di procreare gli parrà sospetto – come voler
partorire in un mondo simile, dal momento che non si vuole ponderare una
possibilità di cambiarlo?
Tuttavia,
al di là di qualche semplice principio – non partecipare alle imprese di
mistificazione o di repressione (né sbirri, né divi), non far carriera –,
non si può pretendere di fissare in modo preciso e definitivo le forme del
rifiuto. Per la critica radicale, non ci sono costumi buoni, ve ne sono
semplicemente di peggiori di altri e vi sono certi comportamenti che mutano la
teoria in derisione. Volersi rivoluzionario in un periodo non rivoluzionario...
Ciò che conta non sono tanto i risultati di questa contraddizione, forzatamente
parcellari e mutilanti, quanto la contraddizione stessa e la tensione del
rifiuto.
A
che pro criticare la miseria dei costumi se deve permanere? Il nostro modo di
essere non ha senso se non in rapporto al comunismo. Perché alla citazione di
Cioran con la quale abbiamo aperto questa sezione, conviene rispondere che le
fatiche e i disastri realmente insopportabili sono quelli che non ci
appartengono e che ci sono imposti da questo mondo. La sola scusa che noi
troviamo al tempo che ci uccide, è la storia che ci offrirà la sua rivincita.
Il senso del nostro modo di essere è la possibilità che il legame sociale non
sia garantito da nient’altro che da se stesso, e che ciò funzioni!
Se
la crisi si aggrava, ci sarà sempre meno posto per le scelte intermedie. Si
potrà sempre meno reclamare «un po’ meno polizia». La scelta sarà sempre
più tra ciò che esiste o niente polizia del tutto. È allora che l’umanità
dovrà davvero mostrare se, sì o no, ama la libertà.
Amore.
Estasi. Crimine. Tre prodotti storici nei quali l’umanità ha vissuto e vive
le sue relazioni e pratiche affettive. L’amore, conseguenza
dell’indifferenza e dell’egoismo generalizzati, rifugio in qualche essere
privilegiato per caso e per necessità. È l’impossibile amore dell’umanità
che si realizza alla meno peggio in qualche individuo. L’estasi, escursione al
di fuori del profano, del banale, nel sacro, sfuggito, subito recuperato e
limitato dalla religione. Il crimine, unica via di uscita quando la norma non può
più essere né rispettata né aggirata.
L’amore,
il sacro e il crimine sono dei modi di fuggire il presente e di dargli un senso.
Positivo o negativo: i tre includono ciascuno attrazione e repulsione, e entrano
in una relazione di attrazione e di rifiuto gli uni in rapporto agli altri.
L’amore è glorificato ma se ne diffida. Il sacro è per essenza minaccia di
profanazione, la chiama per escluderla e, con lo stesso movimento, rafforzarsi.
Il crimine è punito ma affascina.
Questi
tre modi di trasporto fuori dal quotidiano, il comunismo non li generalizzerà
più di quanto li abolirà. Ogni vita (collettiva o individuale) presuppone le
sue frontiere. Ma il comunismo sarà amorale per il fatto che non avrà più
bisogno di norme fisse, esteriori alla vita sociale. Modi di vita e modelli di
comportamento circoleranno, non senza contrasto o violenza, e saranno trasmessi,
trasformati e prodotti conteporaneamente ai rapporti sociali. Il sacro scomparirà
in quanto separazione assoluta tra un aldiqua e un aldilà. Così, nessuno
spazio per la religione: né per quelle di un tempo, né per quelle moderne che
non conoscono più dèi, ma solo diavoli da espellere dal corpo sociale. La
libertà dell’uomo, la sua capacità di modificare la propria natura, lo
proiettano al di là di se stesso. Finora, la morale, ogni morale, e tanto più
insidiosamente dal momento che non si presenta come tale, fa di questi aldilà
degli enti che schiacciano l’essere umano. Il comunismo non livellerà la «montagna
magica», farà in modo di non esserne dominato. Creerà e moltiplicherà le
lontananze e il piacere di perdervisi, ma anche la capacità di farne sorgere di
nuove, il che sovverte la sottomissione «naturale» a un qualsiasi ordine del
mondo.
«Le
Monde», 12 aprile 1981.
Georges
Bataille, Le coupable, pubblicato nel 1944 (Œuvres, V, p. 247).
4
aprile 1936 (Œuvres, II, p. 273).
Georges
Bataille, Le sacré (Œuvres, I).
Michail
Bakunin, La libertà.
Georges
Bataille, Les Pieds Nickelés.
Lettre
aux médecins-chefs des asiles de fous, in «La Révolution Surréaliste»,
n. 3, 15 aprile 1925.
Jacques
Rigaut, testimonianza nell’«Affaire Barrès», Écrits.
Georges
Bataille, Œuvres, II, p. 274.
Georges
Bataille, Œuvres, II, pp.
108-9.
Ieri (società
precapitaliste) |
Oggi (capitalismo) |
Domani (comunismo) |
il legame sociale non è abbastanza sviluppato perché gli uomini trovino in se stessi la loro umanità: si riconoscono uomini attraverso l’appartenenza a una comunità particolare | sviluppo di una società universale mercantile che riunisce degli uomini-individui: ciascun individuo riconosce l’altro attraverso lo scambio di oggetti e di segni | sviluppo di una socialità in cui l’umanità è fondata solo su se stessa |
coesistenza di comunità parziali | generalizzazione di una comunità di uomini isolati collegati da cose | moltiplicazione di comunità particolari che si compenetrano in una comunità umana |
dialogo uomini/dèi | assenza di dèi, umanità astratta, conflitto uomini/società | interazione di uomini in gruppi multipolari che si fondono |
unità vissuta come assicurata da un fattore esteriore: necessità di momenti privilegiati per affermare l’unità | unità assicurata dall’universalità della merce e garantita dallo Stato | unità attraverso l’incontro contraddittorio delle pratiche e dei bisogni |
festa | fine della festa che si rifugia in rari momenti: diviene strumento dello Stato nel capitale arcaico (fascismo, stalinismo); altrove è passatista, o si confonde con il movimento rivoluzionario | fine della nostalgia della festa |
sacro concentrato in opposizione al profano | profanazione generalizzata, con preminenza di luoghi tanto più potenti giacché impalpabili: capitale e Stato | dispersione di un sacro che non deve più essere organizzato né messo in scena |
superamento del sé in una trascendenza | immanenza degli oggetti, superamento del sé attraverso le cose | ciascuno e ogni gruppo si trascende nell’altro |
l’uomo vive all’esterno di se stesso | l’uomo vive all’interno degli oggetti |
fine
dell’antagonismo trascendente/immanente, esterno/interno |
guerra territoriale, frequenti motivazioni religiose e rituali | guerra economica, Unione Sacra, umanitarismo | violenza umana |
tradizione | costumi | vita |