La questione dello Stato

[Traduzione de La question de l’État,

in «La Guerre sociale», n. 2, Paris, Mars 1978 

I

Lo Stato occupa viepiù la totalità della nostra esistenza. Gli Stati paiono reggere il mondo, e ogni Stato costituito sembra creare in qualche modo la società: prodotto della società, appare come suo garante, financo suo fondatore; assicurandone la coesione, sembra darle vita.

Qualunque Stato attuale ha infinitamente più potere dei despoti d’altri tempi. Il progresso della «democrazia» va di pari passo col rafforzamento dello Stato, e il liberalismo ha generato il suo contrario.

La socializzazione economica e tecnica del mondo permette allo Stato di diffondere ovunque la sua propaganda attraverso una molteplicità di giornali, radio e televisioni, e d’inviare velocemente la polizia dove vuole grazie alle comunicazioni rapide e alla tecnologia moderna.

Questa onnipresenza è divenuta universale con la conquista del pianeta da parte del capitale. Non c’è territorio al mondo che non dipenda da uno Stato; la «decolonizzazione» li ha moltiplicati; se ne possono vedere anche là dove non c’è una nazione. Entro frontiere tracciate in linea retta per migliaia di km – poiché espressione solo di una spartizione effettuata in comune dalle potenze imperialiste e dalle borghesie locali –, le strutture statali mostrano il corpo nudo dello Stato, spogliato di tutti gli attributi che gli hanno dato vita in Occidente. Esso si riduce qui alla sua più semplice espressione: un apparato amministrativo, poggiante su di un esercito, rinforzato da un sistema scolastico.

Anche se violentemente denunciato come parassita, lo Stato è considerato indispensabile alla sopravvivenza delle società. Sarebbe un male necessario, superabile solo in un lontano avvenire da fantapolitica. Uomini di lettere hanno potuto discutere del suo deperimento con Valéry Giscard d’Estaing, e persino il capo dello Stato ha potuto riconoscere che l’estinzione dello Stato resta un valido obiettivo.

Nel pensiero più estremista, l’abolizione dello Stato ha un senso strettamente politico. Di trasformazione sociale, neanche a parlarne.

II

La questione della distruzione dello Stato è centrale per la rivoluzione a venire e, dunque, già per la sua teoria presente. Tale questione è stata e continua a essere la cartina di tornasole delle differenti posizioni rispetto alla rivoluzione. È a proposito dello Stato che si è tracciata, e si continua a farlo, la linea di demarcazione.

Per il senso comune, lo Stato è una realtà insuperabile: se non è eterno, allora forse scomparirà con lo sviluppo del socialismo. Paradossalmente, la costruzione di tale socialismo è affidata essenzialmente al vecchio Stato rinnovato o a un nuovo Stato operaio. Il socialismo finisce così per legittimarne il mantenimento e financo il rafforzamento.

Lo Stato non è il necessario prodotto della complessità delle condizioni di vita e delle tecniche moderne. Il comunismo non è di così debole costituzione – quasi fosse uno stadio dell’elevazione angelicale – da rendere possibile l’applicazione dei suoi princìpi solo dopo l’eliminazione dei conflitti e delle contraddizioni. Il comunismo non ha bisogno di uno Stato, neppure operaio o provvisorio, per vincere. Può guerreggiare solo secondo i propri princìpi, e da ciò trarrà la sua forza e la sua superiorità; è cambiando terreno al combattimento che renderà lo Stato vulnerabile.

Il comunismo dovrà essere efficace, organizzare, centralizzare e reprimere, ma alla sua maniera. Lo Stato, per sua natura, unifica e amministra dall’esterno. Il comunismo dissolve le separazioni e fonda direttamente l’unità e la comunità intorno a bisogni comuni.

Sono le condizioni di vita e lo sviluppo delle tecniche moderne quali le telecomunicazioni e l’informatica che, lungi dal garantire la perennità dello Stato, anche se quest’ultimo le utilizza e le modella secondo i suoi bisogni, assicurano le condizioni del suo superamento. Le tecniche moderne sono sabotabili, detournabili e trasformabili da parte del movimento antistatale.

III

Il rapporto alla base di tutta l’economia feudale, la concessione di terra in cambio di servizi e benefici, offriva già, nella sua forma originaria più semplice, materia di contesa, soprattutto là dove, nei rapporti dei signori con i loro feudatari, parecchi avevano interesse al litigio.

Donde per i vassalli un gioco secolare e alterno di attrazione verso il centro regale – il solo in grado di proteggerli contro l’esterno e all’interno – e di repulsione, in cui quest’attrazione si convertiva ineluttabilmente e costantemente; donde una lotta ininterrotta tra il sovrano e i vassalli, il cui fracasso copriva tutto il resto.

In questo caos generale, il potere del sovrano era l’elemento progressivo: rappresentava l’ordine nel disordine, la nazione in formazione a fronte della polverizzazione in principati rivali. Tutti gli elementi rivoluzionari che si costituivano sotto la superficie del feudalesimo erano costretti ad appoggiarsi sul potere del re, quanto questi era obbligato ad appoggiarsi su di loro: l’alleanza tra regalità e borghesia data dal x secolo.

Infatti le necessità della centralizzazione – per il re – e di un mondo che non conoscesse le condizioni feudali d’impiego disordinato della forza, della rapina e del saccheggio – per la borghesia nascente – davano loro una base di accordo comune. Per esempio, la riscoperta del diritto romano, arma potente della regalità, era a tal punto l’espressione giuridica classica dei conflitti e delle condizioni di vita di una società ove regna la pura proprietà privata, che tutte le legislazioni create dalla borghesia dopo la sua presa del potere politico non hanno potuto apportarvi alcun miglioramento essenziale.

Lo sviluppo del commercio delle città minava la feudalità, insieme al ruolo accresciuto del denaro, alla sostituzione di benefici e servizi da parte dell’equivalente generale, ma donava egualmente alla regalità un potere sconosciuto fino ad allora.

La nobiltà feudale aveva potuto tirare avanti, malgrado la sua opposizione allo sviluppo statale, solo grazie al monopolio dell’uso delle armi. Da molto tempo, i re si erano sforzati di sviluppare un esercito proprio e di emanciparsi da quello feudale; ma occorrevano l’istituzione di nuovi rapporti di soggezione e la disponibilità di nuovi ceti sociali «militari».

Fu lo sviluppo dell’economia borghese a permettere la soluzione di questo problema, innanzi tutto permettendo ai sovrani di servirsi di truppe arruolate o mercenarie, in seguito creando le condizioni di base per una fanteria agguerrita, proveniente da un ambiente sociale contrapposto alla nobiltà. Nei trionfi trecenteschi dei confederati svizzeri sugli Asburgo e sui Borgogna, l’esercito feudale soccombeva di fronte al debutto dell’esercito moderno, e il cavaliere di fronte al borghese e al contadino libero.

Le innovazioni tecnologiche avrebbero segnato la fine del regno della nobiltà feudale: la polvere da sparo batteva in breccia le difese dei suoi castelli, e la stampa i suoi particolarismi locali. Dopo essere stata copiosamente derubata e maltrattata dal suo alleato monarchico, la borghesia si avviava a preparare la sua rivincita e a creare delle strutture politiche a immagine della sua economia.

IV

L’antica società poggiava su rapporti personali nella schiavitù, nel servaggio o nella proprietà fondiaria. L’autorità del patrizio o del signore era investita dalla grazia divina. I possidenti ricevevano dal Cielo un dono particolare che giustificava il loro rango e la loro funzione.

Spietata, la borghesia strappò i legami multicolori che tenevano attaccato l’uomo al suo superiore naturale, per non lasciare tra uomo e uomo nessun altro legame se non l’interesse, il freddo «pagamento in contanti».

Il rapporto dell’individuo con la totalità sociale, prima assicurato dalla credenza in Dio come principio e regolatore supremo, trova la sua espressione profana: non è più a un uomo che si attribuiscono qualità sovrannaturali, ma alla società nel suo insieme e alla sua economia, le quali possederebbero virtù e natura autonome, distinte da quelle dei rapporti sociali e da coloro che li pongono in essere.

Non maggiormente padrone della sua storia di quanto lo fosse nella società tradizionale, l’individuo, svolgendo un’attività toccatagli in sorte per una divisione generale su cui non ha alcuna presa, vede la sua azione trasformarsi in potenza estranea che gli si oppone e lo asservisce. La potenza sociale, la forza produttiva decuplicata che è stata creata dalla cooperazione degli uomini, non appare loro come la potenza umana unificata ma come qualcosa di mostruoso e annichilente, capace di distruggerli a ogni istante.

Ci si stupisce che gli uomini abbiano creduto negli dèi quali regolatori della loro esistenza: ma gli uomini d’oggi agiscono e pensano come se la società fosse fatta d’altra cosa che non loro stessi. La società si è autonomizzata rispetto al cittadino, e quest’autonomia si è cristallizzata nello Stato. Per un’inversione ideologica, quest’ultimo appare come creatore e dispensatore di ricchezze prese a una società incapace di utilizzarle da sola. La possibilità di agire sul corso delle cose sembra altrettanto inverosimile di quando era Dio, dai disegni imperscrutabili, a incaricarsi degli affari terreni.

V

Il problema della rivoluzione borghese fu sempre di dare vita a un contratto sociale, giacché essa costruiva meno un’economia nuova, già esistente, che non uno Stato che le permettesse di svilupparsi. Essa istituì un’organizzazione sociale per riunificare gli individui atomizzati sia dalla dissoluzione degli antichi quadri – ordini, corporazioni, dominî e solidarietà locali –, sia dal suo fottuto modo di produzione dominato dalla concorrenza e dalla competizione individuale.

Teorico della rivoluzione borghese inglese del Seicento, Hobbes riteneva che individualismo e competizione facessero parte dei tratti fondamentali della psicologia umana: la sottomissione assoluta era quindi nell’interesse di ciascun individuo. Ma si trattava di una semplice razionalizzazione della competizione borghese nascente: «Il primo desiderio che Hobbes attribuisce agli uomini, di soggiogarsi a vicenda, non è ragionevole. L’idea dell’impero e della dominazione è tanto complessa e dipende da tante altre idee, che non sarebbe certamente la prima». (Charles de Secondat barone di Montesquieu, Lo spirito delle Leggi, utet, Torino, 1973, vol. i, p. 60)

L’organizzazione politica era dunque definita da un contratto; gli uomini dovevano rinunciare alla loro forza sociale a favore dello Stato: «Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno meglio denaturare l’uomo, togliergli la sua esistenza assoluta per dargliene una relativa e trasportare il mio nell’unità comune; in modo che ciascun privato cittadino non si creda più uno ma parte dell’unità, e non sia più sensibile che nel tutto». (Jean-Jacques Rousseau, Il contratto sociale, Einaudi, Torino, 1980, p.)

Quanto auspicato da Rousseau, un secolo dopo, secondo Tocqueville, che ne lamentava gli effetti: «Il dispotismo mi parrebbe particolarmente da temere nelle età democratiche [...]. Nei secoli d’eguaglianza, ciascun individuo è naturalmente isolato [...]. Lo si mette facilmente da parte e lo si schiaccia». (Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1982, p. ) Gli stessi fautori della monarchia affermavano che la perdita di un ordine gerarchico avrebbe provocato un tale isolamento degli individui che solo uno Stato implacabile avrebbe potuto unire la società. Burke, filosofo contro-rivoluzionario inglese, disse della Francia nel 1795: «Lo Stato è supremo. Tutto è subordinato alla produzione della forza». Tuttavia, i contro-rivoluzionari s’ingannavano credendo che il dispotismo giungesse con le fattezze dei dittatori, mentre in realtà avrebbe preso soprattutto un volto impersonale.

VI

Lo Stato e le società classiste sono apparsi contemporaneamente. Ma se lo Stato è uno strumento di dominio di classe, è più di ciò. La divisione della società in classi si accompagna a – e proviene da – una separazione, una scissione nell’attività umana. Lo Stato sorge allorché l’attività degli uomini pone un problema, non essendo più unificata. Il problema del potere appare quando gli uomini perdono il potere di trasformare se stessi, così come il loro ambiente, e sono costretti ad agire con un scopo diverso dal contenuto della loro attività. Lo Stato è l’organizzazione resa indispensabile dal lavoro alienato.

Fin dalle sue origini, lo Stato non è solo lo strumento di dominio di una parte della società sull’altra, ma anche il modo di unificazione e di organizzazione della classe dominante. Lo Stato greco non conciliava solamente gli interessi a profitto della classe dominante: preservava un certo equilibrio all’interno della classe possidente, corrosa e divisa dalla ricchezza; la storia delle città-Stato greche è un lungo e vano sforzo per limitare la ricchezza mercantile e conservare la precaria unità dei cittadini-possidenti, divisi tra ricchi e poveri.

Lo Stato moderno assicura tanto più questa funzione mediatrice giacché il capitalismo isola gli individui e li priva dei mezzi per vivere. Ogni individuo è separato dalla propria attività e dall’oggetto di essa, dal mondo che lo circonda e dagli individui con i quali è in concorrenza. La ragione e la forza dello Stato moderno consistono nell’unificare questa separazione.

I rapporti e gli atti più semplici divengono sia relazioni mercantili sia atti amministrativi. Il peggio non è che lo Stato vieti o costringa, è che sia sempre lì a svolgere funzioni elementari rese problematiche dal capitalismo avanzato. Al di sopra degli uomini si erge lo Stato: «Esso lavora volentieri alla loro felicità; ma vuole essere l’unico agente e il solo arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e assicura il soddisfacimento dei loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduce i loro principali affari, dirige le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; che non possa toglier loro interamente il disturbo di pensare e la fatica di vivere?». (Alexis de Tocqueville, La Democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1982, p. )

Lo Stato opprime solo perché così acquista la potenza e perché tutta una serie di atti naturali sono divenuti «servizi pubblici», come il riscaldamento, l’illuminazione, o l’aiuto in caso di incendio. L’inquadramento sociale minuzioso è reso indispensabile solo dall’incapacità degli uomini di soddisfare i loro bisogni vitali.

La scuola è tra gli elementi costitutivi di questo sistema: solo lo Stato moderno la sviluppa al punto impressionante raggiunto al giorno d’oggi. Apprendere è divenuto un problema gigantesco che presuppone un enorme apparato e una burocrazia, perché la preoccupazione di produrre sopravanza l’interesse per il processo di produzione, e il risultato sta al di sopra dell’attività: apprendere e fare sono divenuti due momenti distinti che la scuola non può riunificare. Nei Paesi «sottosviluppati», insegnando a disapprendere il lavoro agricolo, il sistema scolastico pone le basi di una società capitalista: distruzione delle culture alimentari e creazione di proletari costretti a entrare nel salariato. Il capitale sradica l’uomo e ne fa un infermo perduto senza il sostegno dello Stato.

VII

Lo Stato moderno è solo un mediatore e non si trova all’esterno del movimento del capitale, ne è divenuto totalmente un elemento.

Lo Stato non ha atteso il capitale per giocare un ruolo economico, com’è attestato dall’organizzazione della produzione agricola o dalla realizzazione di grandi opere presso gli Incas, in Egitto o in Cina. Ma restava prima di tutto un amministratore, sovente sotto una forma fragile: gli Incas, tribù conquistatrice, divenivano la «classe dominante» delle tribù sottomesse, costituendo lo Stato su di una base etnica, in balìa di una sconfitta militare o di crisi interne (guerre di successione). Anche la città greca, che prefigura per molti aspetti lo Stato moderno, in particolare per il dualismo istituzione centrale/democrazia, era soprattutto un organo politico.

L’originalità dell’Occidente è di avere creato, sotto la pressione delle attività mercantili e artigianali, uno Stato che non si accontenta di vivere dell’economia ma vive in parallelo con essa, essendo al contempo causa ed effetto di un’accumulazione dei mezzi di produzione sconosciuta in Oriente, che gli permette di sopravvivere alle conquiste e alle crisi politiche. In Asia, si poteva annientare uno Stato radendo al suolo qualche città; lo Stato contemporaneo vive di un’altra forza, com’è osservabile dopo le distruzioni delle guerre moderne e dalla facilità con la quale si ricostituisce.

Il capitale non è stato dapprima liberale, poi monopolista e statale. Il libero scambio è solo una parentesi di qualche decennio (generalmente situata tra il 1840 e il 1870): dalla fine dell’Ottocento, la stessa Inghilterra ha preferito il «giusto scambio» al libero scambio. Ma anche nella sua fase liberale, lo Stato gioca un ruolo chiave. Il forte vantaggio preso dall’Inghilterra sulla Francia nel campo della produzione industriale è dovuto anche allo Stato «borghese», sebbene monarchico, di cui il suo capitale ha potuto dotarsi, allorché la Francia deve attendere il 1830 e, ancor più, il Secondo Impero, per industrializzarsi.

Il capitale non ha vissuto un periodo liberale puro, come se gli imprenditori avessero agito interamente a loro piacimento e di propria iniziativa, più di quanto non conosca oggi un periodo «capitalista di Stato», come se lo Stato controllasse effettivamente il capitale e il capitalismo di Stato russo fosse una forma più avanzata, prefigurante l’avvenire. Il liberalismo è sempre coesistito con l’intervento statale, e i Paesi più burocratici sono probabilmente quelli che controllano peggio il loro processo economico.

Nei Paesi capitalisti più giovani, lo Stato supplisce alle carenze della borghesia. Il capitale si è accumulato là dove esisteva una forte tradizione statale: la Germania bismarkiana, il Giappone dell’epoca Meiji, la Russia prima del 1917; in questi tre Paesi, la borghesia, socialmente debole, è tenuta fuori dal potere politico, ma lo Stato sviluppa un’economia capitalista.

VIII

Lo Stato serve a unificare una società divisa. È normale che nella nostra epoca la sua funzione essenziale sia quella economica, poiché la produzione economica, motore del mondo moderno, è oggi la forza sociale da controllare e unificare prioritariamente. Lo Stato è divenuto il garante dell’accumulazione. In Francia, prelevando più del 40% del prodotto interno lordo (nel 1975, il 24% in imposte e il 17% in oneri sociali), esso redistribuisce queste somme per armonizzare le produzioni, aumentare la redditività ed effettuare i trasferimenti di reddito necessari a una relativa pace sociale.

Se si prescinde dalla sua funzione sociale divenuta indispensabile, si riduce lo Stato al suo aspetto politico di repressione o a quello di regolatore dell’economia. Come spiegarne allora l’accettazione malgrado il suo ruolo oppressivo?

Lo Stato aiuta oggigiorno le categorie in altri tempi prese in carico dalla società: l’applicazione pura e semplice della logica mercantile e salariale lascerebbe morire di fame un buon numero di vecchi, di malati e di altri soggetti «sfavoriti».

Certuni possono affermare che lo Stato è l’esercito e le tasse che si sostengono reciprocamente. Ciò significa dimenticare che lo Stato non si accontenta più di prelevare del denaro ma ne distribuisce, approfittando del potere assoluto del denaro per rendersi indispensabile.

IX

Contrariamente alla mitologia di sinistra, le forme politiche borghesi democratiche e dittatoriali si succedono e si generano reciprocamente, senza un intervento proletario diretto. Le dittature non giungono al potere dopo aver battuto gli operai nel corso di combattimenti di strada: sono i democratici e il movimento operaio tradizionale a sconfiggere gli operai rivoluzionari mediante le armi e la confusione elettorale (Germania, 1918-’21).

Coloro che fanno della controrivoluzione militare lo spauracchio, la forma unica della controrivoluzione, dovrebbero meditare sul fatto che non vi sono state sconfitte proletarie a opera dell’azione militare (fallimenti dell’azione di Kornilov e del putsch di Kapp), ma che quest’ultima può, al contrario, accelerare il processo rivoluzionario. È quando il proletariato è già battuto socialmente che la controrivoluzione è militare e violenta.

Il fascismo italiano ha affrontato gli operai agricoli e industriali, ma ha trionfato solo dopo che erano stati divisi dalle elezioni e dai tentativi socialisti di conciliazione, così come dall’intervento materiale dello Stato democratico.

Le dittature non cadono sotto i colpi delle masse infine rivoltatesi contro la tirannia. Cedono esse stesse nuovamente il posto alla democrazia. Nel 1943, in Italia, è il regime stesso che depone il «dittatore» Mussolini; decide un ritorno progressivo alla democrazia, prende contatto a questo fine con i partiti d’opposizione, fino ad allora vilipesi e perseguitati, e avvia negoziati con gli Alleati per cambiare di campo. Nel 1945, in Germania, è la disfatta militare a far cadere il regime, rimpiazzato dagli Alleati con propri dirigenti, a Ovest come a Est, prima che le redini siano riprese da dirigenti «nazionali».

Nel 1975, in Grecia, la crisi cipriota e la pressione americana obbligano i colonnelli a passare la mano ai democratici – d’altronde essi stessi abbastanza destrorsi – che, dopo aver atteso il loro turno in esilio, hanno poi preso naturalmente il loro posto. In Portogallo, una parte dell’esercito comprese che la vecchia formula politica non reggeva più, e prese la testa di un cambiamento di regime affinché si effettuasse dolcemente, il che è alla fine riuscito. Anche in Spagna, il capitale prende l’iniziativa di una democratizzazione progressiva e controllata.

C’è, infatti, una logica rigorosa tanto nei «suicidi delle democrazie» quanto nei «ritorni» successivi alla democrazia. Si tratta soltanto di una divisione dei compiti, e di una concentrazione nel tempo della violenza necessaria per liquidare le opposizioni che ostacolano il buon funzionamento del sistema.

X

Se il pluralismo democratico, il parlamentarismo, i partiti di massa e i sindacati sono molto efficaci per contenere una spinta rivoluzionaria, possono anche creare una situazione di confusione, non rivoluzionaria, ma che impedisce la rimessa in ordine del capitale.

La dittatura è allora necessaria per disciplinare la borghesia, ridurre la classe media ed eliminare i movimenti rivendicativi elementari.

Il fascismo fu un’illustrazione di questa centralizzazione forzosa in quei Paesi – Italia e Germania – ove l’unità politica era fragile, essendo stata male risolta la questione nazionale, e avendo acquistato troppa importanza il movimento operaio riformista, a seguito dei soprassalti rivoluzionari da esso arginati. Il fascismo fu una forma specifica dell’accesso del capitale al dominio totale sulla società, in Paesi politicamente fragili.

L’antifascismo vuole spingere il capitale a divenire o a restare democratico, impedirgli di farsi dittatoriale. Ma le forme politiche del capitale derivano dalle sue necessità del momento: i partiti operai, le masse o i liberali non possono farci niente. Non esiste «scelta» alla quale gli operai potrebbero essere invitati o invitarsi di forza.

In certe fasi, il capitale non può più essere pluralista, deve centralizzare forzosamente le componenti sociali, farle convergere sotto un’unica direzione. L’opposizione tra i due metodi è tanto più limitata nel capitalismo sviluppato, giacché lo Stato moderno cumula le due tendenze. Ma non è escluso che in futuro conflitti capitalisti tra forme avanzate e forme ritardatarie del capitale si combinino col soffocamento di movimenti rivoluzionari per produrre guerre civili in cui il capitale sia presente in entrambi i campi, ciascuno dei quali rappresenterebbe una soluzione capitalista, come dopo il luglio 1936 in Spagna.

Il segreto del passaggio dalla democrazia al fascismo, e viceversa, è rivelato da una dichiarazione recente di Santiago Carillo, leader del Partito Comunista Spagnolo, che afferma di voler «cambiare il regime per salvare lo Stato». È esattamente ciò che fanno sia i dittatori giunti al potere sia i democratici dopo il loro ritorno alla guida dello Stato, presentato ogni volta come una «vittoria della classe operaia».

Che i proletari possano approfittare di queste evoluzioni per manifestarsi sul loro terreno, o semplicemente per mettere in difficoltà la razionalizzazione e la redditività del capitale con le loro rivendicazioni, come hanno fatto in Portogallo, non è indifferente, ma essi non assicurano l’avvenire rivoluzionario se non nella misura in cui si situano al di là dell’opposizione democrazia/dittatura. Il capitale non è mai così forte come quando riesce a mobilitare le masse a suo profitto, facendo credere loro che combattono per se stesse.

XI

Tutti i regimi, in tutti i continenti, organizzano, prima o poi, un simulacro di vita parlamentare.

Giustiziere del «marcio parlamentarismo», Hitler mantenne fino alla guerra la finzione di un Reichstag sovrano. Nel 1939 fece votare la dichiarazione di guerra non senza derisione, d’altronde: siccome mancavano troppi deputati, i seggi vacanti furono fatti occupare da funzionari del partito.

Stalin e, successivamente, le «democrazie popolari» hanno tenuto a riprodurre le forme elettorali, private di ogni senso: il partito unico non è il solo in lizza, vi sono dei candidati «senza partito» e, nelle «democrazie popolari», dei partiti satelliti distinti dal Partito Comunista, tutto ciò per dare risultati positivi al 98%.

Il Brasile è dovuto tornare a un minimo di vita politica, con due partiti, l’uno di governo, l’altro di opposizione moderata. In Senegal, lo Stato autorizza ora i partiti, ma a condizione di differenziarli e di dare loro i nomi esso stesso. Anche la Cambogia, assai meno preoccupata dell’opinione internazionale che prodiga del sangue dei suoi cittadini, prepara delle elezioni: certo l’esercito avrà un posto preponderante nell’Assemblea, ma è significativo che si senta il bisogno di legittimarne l’egemonia mediante il voto.

Molte delle idee legate al tema generale del dovere elettorale appartengono, a ben vedere, alla forma totalitaria e parrebbero fuori posto nel vocabolario della democrazia liberale.

Se gli stessi Paesi «dittatoriali» ne avvertono la necessità, è perché la democrazia corrisponde a un bisogno statale, com’è dimostrato dalle recenti elezioni spagnole. La forza e il bisogno del capitale non consistono solo nel trovare dei capi o una maggioranza, ma anche un’opposizione, nel darsi uno spazio in cui mettere in scena le proprie incertezze. La «vita politica» nel suo insieme si modula su questa necessità: prima del 1939, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti erano quasi i soli Paesi a conoscere il «bipolarismo», l’alternanza di due partiti dall’azione quasi identica ma che sono reputati rappresentare soluzioni differenti. Oggi, la Repubblica Federale Tedesca, l’Austria e la Svezia funzionano allo stesso modo: esso dà governi più efficaci rispetto al gioco centrista che si può ancora vedere in Italia. Le dittature divengono un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive quando poggiano – come Marcelo Caetano in Portogallo – su ceti sociali arcaici (i proprietari fondiari).

È nel momento in cui la vita politica borghese classica è spogliata del suo senso, proprio a causa dell’unificazione del capitale, del suo dominio totale e dell’avvento dello Stato contemporaneo, che le politiche più desuete si dispiegano su tutta la superficie del globo terrestre.

Come la concorrenza dei capitali, la concorrenza politica è nella natura del capitale, benché la rete dei monopoli e degli Stati serri oggi la vita politica così come quella economica.

XII

I dibattiti entro e tra i partiti politici di sinistra riprendono le polemiche d’inizio secolo. La socialdemocrazia tedesca si era costituita in parte come reazione al lassallismo, che aveva barattato l’appoggio a Bismark da parte degli operai con un miglioramento della loro sorte.

Appena legalizzato, il partito socialdemocratico adottò il medesimo atteggiamento: Bernstein credeva a una evoluzione progressiva dello Stato, che si sarebbe aperto alla discussione democratica e avrebbe accordato sempre maggiori diritti e riforme.

Contro di lui, Kautsky affermava che lo Stato era classista e non poteva essere riformato dall’interno, ma non ne faceva alcuna critica, proponendo un altro Stato al posto di quello esistente: eguale, ma animato dagli operai e dai loro interessi. Parlava anche di un rinnovamento del parlamentarismo.

 Nel 1917, volendo «restaurare» il pensiero di Marx, Lenin dissociò la rivoluzione in comunizzazione – da lui accantonata, riducendola all’elettrificazione – e creazione di un nuovo organo di amministrazione.

Le posizioni di Bernstein, Kautsky e Lenin sono il modello di tutte le varianti che si sono viste, e si vedono ancora, nei partiti stalinisti, socialisti e nei gruppi gauchisti, come nei loro dibattiti; oggi sono così fuse che diviene impossibile sbrogliarle.

Per la sinistra, lo Stato è sempre preferibile al capitale privato, perché essa può influenzare più facilmente gli ingranaggi statali che non quelli dell’economia privata. Così essa denuncerà l’impossessamento padronale di questo o quel settore, esigendo che lo Stato ne sia il solo responsabile. La sinistra rimprovera allo Stato solo di escluderla. Lo stalinista Jean Elleinstein, per esempio, riconosce il potere crescente dello Stato, ma ne conclude che bisogna democratizzarlo (Jean Elleinstein, Le Parti Communiste). Dal momento che lo Stato ha penetrato tutta la società, e dunque le lotte sociali si svolgono anche al suo interno, egli ne deduce che non è più un apparato da abbattere, ma un luogo da occupare. Non è più «lo Stato strumento di classe», bensì uno spazio sociale ove intervenire a tutti i costi.

XIII

Fin dai suoi esordi, cioè dopo la metà del secolo scorso, il movimento operaio ufficiale ha voluto contemporaneamente farsi riconoscere dallo Stato e integrarsi. Priva di base economica – contrariamente alla borghesia –, la burocrazia «operaia» non possiede altro mezzo di autopromozione e di accesso al controllo dei mezzi di produzione se non l’ingresso nello Stato e l’accentuazione dell’intervento statale. Anche nei Paesi in cui il movimento operaio è una potenza finanziaria, come in Germania – ove i sindacati possiedono, tra l’altro, la quarta banca del Paese –, esso si sforza sempre di penetrare nello Stato per disporre di un controllo sul capitale.

Questa tendenza è rafforzata dalla spinta degli strati di piccoli e medi funzionari (insegnanti in testa), che sono anch’essi privi di capitale e non hanno altra speranza d’impadronirsene se non mediante il controllo economico statale. Questi strati giocano un ruolo considerevole nel vecchio movimento operaio, parassitandolo: è la «nuova sinistra».

Le tendenza della burocrazia operaia e quella dei funzionari si uniscono per promuovere il movimento operaio all’interno dello Stato e, quando è possibile, alla sua guida. Non c’è da stupirsi che i partiti socialisti e staliniani non abbiano mai fatto una critica radicale dello Stato. L’abitudine, anche progressiva, alla completa tutela, distrugge, in fin dei conti, ogni iniziativa; si attende tutto dallo Stato, poi, appena dispiegate le forze, si esige tutto, rendendolo responsabile di ogni cosa. Esso diviene allora lo Stato tuttofare.

Ciò che il movimento operaio reclama dallo Stato è, in qualche modo, di non essere più se stesso: lo vuole paterno e conciliante, imparziale, dunque indipendente dalla divisione in classi della società; giusto, cioè fuori dalla realtà della storia delle lotte di classe; neutro, cioè patrimonio comune ai proletari e ai borghesi; vuole che sia l’educatore del popolo.

Il movimento operaio ha atteso tutto dallo Stato ed è rimasto il miglior difensore dello Stato sociale e dunque, volenti o nolenti, dello Stato forte. Paradossalmente, a parte l’anarchismo, rimasto assai marginale, la critica dello Stato è stata lasciata alla frazione antistatale della destra. I monarchici si sono accaniti a denunciare l’oppressione dello Stato repubblicano, rimproverandogli di negare la vita delle regioni e delle collettività, ma non vedendo salvezza se non nell’avvento di un altro Stato potente che rimettesse ordine e ci liberasse dalla tirannia della repubblica...

XIV

Assimilando il capitalismo a un processo di «fascistizzazione» sempre più minaccioso e il «socialismo» a una liberalizzazione democratica, la sinistra glorifica la democrazia, evita la critica dello Stato e pone il problema sociale a un livello puramente politico. Le questioni dei rapporti sociali, della natura dell’attività produttiva e del contenuto della vita si diluiscono nella rivendicazione di diritti sempre più numerosi: bisognerebbe poter fare questo, quello... Ma chi dice diritto, dice una forza che lo accorda, lo limita e ne sanziona la violazione. L’idea del diritto implica quella del dovere: è dunque anche una moltiplicazione dei doveri che viene rivendicata.

Affinché siamo liberi, lo Stato deve intervenire sempre più in tutti gli aspetti della vita. Il totalitarismo dichiarato e il movimento democratico si fanno entrambi campioni dello Stato: il primo affinché sia forte, il secondo perché ci protegga, il che è lo stesso: «Non possiamo più – ahimè – credere che sia sufficiente spezzare Hitler e il suo regime per colpire il male alla radice. Nello stesso tempo in cui facciamo ciò, andiamo preparando dei piani per il dopoguerra che conferiranno allo Stato la responsabilità della sorte di tutti gli individi e che, necessariamente, metteranno nelle mani del Potere i mezzi adeguati all’immensità del suo compito». (Bertrand de Jouvenel, Il potere, SugarCo, Milano 1991, pp. 23-4)

Il capitale vuole trascinare l’insieme del consorzio umano nella democrazia totalitaria di una società illusoriamente uniforme, ove ciascuno sia il proprio rappresentante e si debba conformare al suo interesse particolare, a sua volta conforme all’interesse generale.

Tra l’individuo atomizzato e la società rappresentata dallo Stato, esiste un gran numero di gruppi intermedi – famiglia, impresa, sindacato, collettività locale, legami di vicinato, comunità di consumo –; il capitalismo ne degrada alcuni – come la famiglia – e ne sviluppa altri. La dittatura li riorganizza forzosamente e li controlla direttamente. La democrazia li fa giostrare liberamente, a profitto della società capitalista tutta intera.

Il principio della democrazia è di potere lasciare l’iniziativa agli individui e ai gruppi, sapendo che essi – posti in un quadro capitalista, ove la logica del valore e del salario s’impone loro da sola senza costrizioni esterne – agiranno in un senso capitalista.

XV

Il programma della sinistra prevede di compensare la forza dello Stato con delle organizzazioni di massa in cui gli individui si ritrovino sulla base del loro lavoro, dei loro interessi di consumatori e di utenti... La «partecipazione» di De Gaulle nel 1968 apparirebbe meschina di fronte alla mareggiata democratica e al lirismo autogestionario: «Si vedono così i giovani costruire le loro Case dei giovani, i lavoratori sistemare i loro locali di lavoro, gli adulti realizzare abitazioni per anziani, i consumatori concepire e organizzare la loro zona commerciale». (Michel Ragon, L’Architecte, le Prince et la Démocratie) Che ciascuno partecipi alla vita della città e della nazione, rivendichi, militi per accrescere le competenze della sua organizzazione: ecco cos’è cambiare la vita!

È qui che la sinistra è totalitaria, per questa partecipazione generalizzata, più che per i campi alla russa o per altri goulash dello stesso sapore. La dittatura del capitale non risiede nel fbi o nel kgb, bensì nel tentativo di dare a ciascuno un potere illusorio, di farlo partecipare a decisioni che, comunque, sono già state prese, perché inscritte nella logica capitalista, così onnipresente nelle strutture materiali e nelle relazioni umane da avere penetrato anche i comportamenti e le menti.

La parola viene data per evitare una reale rimessa in discussione: una liberazione del linguaggio, surrogato di un’emancipazione autentica. Il capitale sa trasformare benissimo le rivolte in discorsi. Perché, sicuramente, su tutto questo merdaio vivono delle aspirazioni a uno sconvolgimento sociale: «L’esplosione del Maggio ’68 fu realista nella ricerca dei mezzi per reintrodurre gioco, calore e vita nel funzionamento delle grandi organizzazioni. Tutte, anche il Partito Comunista, l’esercito e la Chiesa cattolica hanno subìto il contraccolpo del Maggio, che ha turbato il loro funzionamento regolare aprendo forse la via di una felice trasformazione». (M. Duverger, L’Autre côté des choses) Il capitale vincente vive di tutto ciò che tende a distruggerlo: la rivoluzione impotente nutre la controrivoluzione.

Benché sia lui stesso a suscitarle, il capitale teme le forme dittatoriali, perché si priva così dell’intervento attivo degli uomini nel suo funzionamento. La dittatura tende a rendere i salariati passivi, mentre la democrazia si basa, per principio, sulla loro capacità di riorganizzare dinamicamente una parte della loro attività.

XVI

Se il capitale dinamizza coloro che lo servono, li rende egualmente passivi. Vive della nostra partecipazione e contemporaneamente la frena. Offre un’attività, rendendola impossibile. Esige un’iniziativa responsabile da parte degli operai, ma quando si manifesta la reprime. Suscita un’azione collettiva, individualizzando il lavoro, presuppone una visione globale, ma parcellizza la produzione.

Poiché esteriore rispetto ai lavoratori, il salariato – mezzo per guadagnarsi la vita in un’indifferenza relativa verso ciò che si fa – necessita di un’organizzazione anch’essa esterna al processo lavorativo, ma che non è solo un semplice inquadramento contro la fuga dal lavoro: la burocrazia deve anche collegare tra loro le frazioni dell’attività produttiva causate dall’individualizzazione delle mansioni e delle remunerazioni. Un apparato esterno è necessario per ricomporre l’unità della produzione e assicurarne l’esecuzione.

Questa separazione è ulteriormente aggravata per ciò che concerne lo Stato. La burocrazia statale organizza ciò che non fa e che viene fatto da figure esterne allo Stato (individui, imprese ecc.). Per organizzare, essa deve conoscere. Per ben applicare, deve sorvegliare.

Lo Stato è un amministratore prigioniero del capitale sociale totale, tanto quanto qualsiasi presidente di consiglio d’amministrazione lo è del suo capitale d’impresa. In queste condizioni, ogni partecipazione effettiva dei cittadini è ancora più impossibile che all’interno dell’azienda: i lavoratori salariati possono almeno aiutare l’impresa a fare profitti e riceverne vantaggi diversi. Ma non c’è modo di avere presa sullo Stato, perché sfugge ad ogni riforma: si riforma solo nella violenza, attraverso gravi crisi.

Lo Stato razionalizza il suo bilancio con i modelli econometrici più sofisticati, può sapere esattamente donde viene e dove va il denaro per tutti i suoi servizi: ignora soltanto quale sarà l’effetto di questo denaro nel rapporto reale di ogni servizio con la società in generale. Lo Stato si complica il compito da solo, progressivamente. Al fine di gestire la società, consacra una parte enorme dei suoi sforzi alla propria gestione. Giunge a mettere il cittadino nella situazione di soggetto passivo, rendendo difficile la minima partecipazione.

Nella sfera politica, luogo di divisione dei poteri, da una parte la vita politica impegna tanto le forze sociali da disperderne le energie in un pluralismo eccessivo; dall’altra lo Stato cancella ogni politica concentrando autoritariamente tutti i poteri. Generalmente, la politica domina al pari dello Stato e la società si unifica grazie al proprio dinamismo, con l’intervento statale solo come garante delle regole del gioco: ma l’equilibrio resta precario.

XVII

In questo contesto, i progetti di riforma per rendere lo Stato sempre più sociale, mettendolo al livello dei cittadini, non possono cambiare niente. La rivitalizzazione del comune non darebbe alcun vigore a una democrazia diretta impossibile: al più regolerebbe qualche affare minore «di fronte al popolo», col consiglio municipale che offre lo spettacolo pubblico di sedute ove non esercita alcun potere.

Queste riforme decentralizzerebbero lo Stato: i suoi mezzi di azione sarebbero moltiplicati, quelli dei cittadini dispersi. Il mondo militante e politico non domanda di meglio: è tutta gente che vuole il potere. Se si crea una commissione di quartiere, ecco un luogo in più ove fare intervento o essere presenti.

La dittatura statale tende a rafforzare le procedure democratiche e il loro formalismo nel mentre pretende di renderle sempre più reali: la circolazione delle merci in tutta la società permette al capitale di esercitare la sua pressione dappertutto senza ricorrere in permanenza alla coercizione centrale.

Totalitarismo burocratico e autogestione popolare coesistono nel programma della sinistra francese. Sono entrambi sogni impossibili nati dall’incapacità dello Stato tentacolare di risolvere i problemi del capitale, e dalla sua tendenza ad appesantirsi complicando la vita quotidiana. La tentazione statalista e quella autogestionaria si nutrono l’una dell’altra: in nome dell’ordine e della giustizia, la prima vuole riunire gli elementi sociali il cui sparpagliamento provoca ovunque complicazioni e sprechi; in nome della libertà, la seconda vuole alleggerire o sopprimere il peso eccessivo dello Stato per mezzo di contro-poteri.

La coesistenza di queste due tendenze riflette una crisi dello Stato – sorta dalle difficoltà del capitale dopo la metà degli anni Sessanta –, che provoca una crisi del pensiero politico e divide la sinistra come la destra.

La crisi dello Stato all’epoca del fascismo fu superata dallo Stato tentacolare democratico regnante nei Paesi capitalisti più avanzati. Ma esiste oggi un’altra crisi, ben più grave, perché legata all’esistenza del capitale come rapporto sociale.

Non si tratta più di liquidare le classi medie o le organizzazioni operaie ingombranti, ma di risolvere la contraddizione crescente tra il peso sempre crescente dello Stato e la sua incapacità di risolvere i problemi sociali ed economici: a livello sociale, lo Stato non riesce a creare una nuova organizzazione della vita puramente capitalista e mercantile, liberata dei vecchi costumi e istituzioni; nell’economia, blocca, per sua natura il libero sviluppo delle leggi capitaliste. Smorza le difficoltà di redditività solo aggravandole in altro modo. «Noi assistiamo a un curioso spettacolo. Sotto i nostri occhi si svolgono i preliminari della comunità» (Louise Auguste Blanqui, Le Communisme, avenir de la société, in «La Critique sociale»); la questione dell’apparizione del comunismo – della distruzione degli ostacoli al suo funzionamento – si trova così posta: la situazione irresolubile creata dal capitale esige la trasformazione dell’attività umana e di tutta la vita sociale.

XVIII

L’anarchismo ha il merito di aver affermato l’esigenza della distruzione dello Stato, ma la sua incapacità di fondarne la critica lo porta a una grande sterilità, se non ad aberrazioni. Facendo poggiare tutta la società sull’autorità concentrata nello Stato, visto come bersaglio da distruggere prioritariamente, l’anarchismo riduce il capitale allo Stato e non cerca, al pari del marxismo volgare, di definire la rivoluzione comunista. L’«abolizione dello Stato» è potuta così divenire una formula magica che nasconde molta confusione.

Bakunin aveva ragione di dire che la rivoluzione non si fa con i decreti. Ciò non gli impedì di firmare nel 1870 «il manifesto rosso» di Lione, che decretava l’abolizione dello Stato, e d’immaginare una «dittatura segreta» che nell’ombra avrebbe diretto tutto. Negando la politica, gli anarchici vedevano il male nell’autorità: si tratta ancora dell’abolizione ideologica dello Stato.

Questi signori non hanno dunque mai visto una rivoluzione? Essa è senza dubbio la cosa più autoritaria che ci sia, è l’atto con cui una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte con cannoni a centinaia e fucili a migliaia – mezzi autoritari per eccellenza. Che il proletariato non abbia interessi particolari non cambia nulla: gli interessi dell’umanità nel suo insieme devono imporsi alla borghesia, classe i cui atti sono determinati solo dalla logica astratta del capitale.

In Spagna, nel 1936-’39, l’anarchismo è arrivato a identificare la rivoluzione con una presa del potere un po’ dappertutto senza un attacco diretto contro lo Stato.

Non volendo assolvere i compiti amministrativi e repressivi necessari, che possono non essere statali se legati alla trasformazione della società, gli anarchici hanno lasciato agli uomini di Stato tradizionali la cura di occuparsene, o sono stati costretti a diventare statisti essi stessi: la partecipazione di ministri anarchici al governo ne attesta il risultato.

Paradossalmente, la corrente più accanitamente antistatale ritiene che in Spagna vi sia stata una rivoluzione nel 1936, sebbene i proletari abbiano lasciato intatto lo Stato. Per l’anarchismo, quindi, la rivoluzione consiste in una grande democratizzazione.

XIX

Malgrado la sua critica dell’anarchismo sul piano economico, ove tenta di definire il comunismo come superamento della legge del valore, il consiliarismo ne condivide la visione amministrativa e territoriale: «Gli anarco-sindacalisti riconoscono la necessità di pianificare la vita economica e pensano che ciò sia irrealizzabile senza una centralizzazione che implichi un censimento statistico dei fattori produttivi e dei bisogni sociali. Eppure, omettono di dare una base effettiva a questa necessità statistica». (Helmut Wagner, L’Anarchisme et la revolution espagnole, in AA. VV., La Contre-révolution bureaucratique, Paris, uge 10/18, 1973, p. 234)

Il calcolo cosciente del tempo di lavoro medio necessario alla produzione dei beni e il sistema democratico dei Consigli hanno entrambi lo scopo di gestire una zona, di organizzare delle imprese, dei gruppi che uniscono dei produttori e si associano tra loro.

Il consiliarismo non compie la critica dell’economia e della politica in quanto tali, in quanto attività separate: il suo punto di partenza resta la necessità di produrre e di organizzare questa produzione. Arriva solo a immaginare una totale decentralizzazione della società in ogni Consiglio, un valore totalmente interiorizzato e calcolato da ogni produttore e da ciascuna impresa; la sua visione del comunismo resta inficiata da vecchie nozioni: Anton Pannekoek si accontenta della nozione di Consiglio basato sul «raggruppamento naturale dei lavoratori all’interno del processo di produzione».

Questa prospettiva ha avuto il suo merito storico, ma oggi non si può fondare su di essa altro che un’autogestione generalizzata. Il consiliarismo è anch’esso partecipe della visione del comunismo come grande organizzazione democratica, cui all’inizio partecipa una minoranza, seppure numerosa (gli operai), e poi, nel «comunismo realizzato», tutta la società. La rivendicazione della presa in carico della vita da parte di ciascuno e di tutti è un’aspirazione comunista e può suscitare gli atti più sovversivi, ma se resta sul terreno dell’amministrazione e della decisione, si fossilizza. Il culto della democrazia è anticomunista non perché il comunismo sarebbe dittatoriale ma perché fa della discussione un momento privilegiato e un preliminare, sovente inutile e paralizzante.

Nel consiliarismo, il sistema dei Consigli è concepito come una generalizzazione del parlamentarismo. Il Consiglio è il parlamento della classe operaia. In questa prospettiva falsata, il discrimine tra riforma e rivoluzione si stabilisce allora così: i riformisti (stalinisti, gauchisti ecc.) vogliono trasformare gli organi decisionali esistenti democratizzandoli poco a poco, iniettandovi dosi sempre più forti di partecipazione di massa; i consiliaristi vogliono crearne degli altri, instaurare immediatamente una «vera» democrazia, un’autentica struttura di discussione e di decisione.

Gli uni vogliono agire all’interno, gli altri all’esterno, ma l’errore è identico: tutti privilegiano il momento della deliberazione, assimilando la rivoluzione alla creazione di un nuovo processo decisionale. I consiliaristi vorrebbero trasferire questo processo dagli organi statali alle fabbriche e ai quartieri. Poiché non escono mai dall’illusione politica, possono parlare di «abolizione del salariato» e di soppressione della forma mercantile, senza mai spiegare queste formule: non comprendono la rivoluzione come processo che genera una nuova attività.

XX

Fin dalle origini, la forza e l’impasse del comunismo utopico sono state di volere creare artificialmente una comunità, facendo appello a un fattore estrinseco per realizzare un’unità inesistente: Dio, una morale rigorosa o un piano imperativo. Il comunismo è una risultante generale, e una comunità umana può oggi basarsi su ciò che è comune agli individui che la compongono: i loro bisogni e le loro passioni, il loro modo di soddisfarle, le loro modalità di esistenza. Per ciò lo Stato può scomparire e una rivoluzione può dispiegare delle strutture centralizzatrici senza per tanto ricrearne uno nuovo.

Gli atti della borghesia non sono determinati dalla natura umana dei suoi membri ma dalla logica astratta del capitale che le si impone, così come gli atti commerciali del singolo borghese non sono determinati dai suoi desideri umani ma dalla logica del mercato. Tutta l’attività sociale è organizzata a mo’ della sua concorrenza priva di solidarietà, menzognera e complicata: il sistema si nutre solo della falsità, unica via per riuscire negli affari sociali, così come in quelli galanti.

Solo l’ideologia statale esalta ancora la «vita sociale», ben sapendo che solo i benefici pecuniari ne costituiscono il veicolo: facile rimproverare alla gente la mancanza di spirito comunitario, creata dall’atomizzazione di cui lo Stato è una delle cause e il principale garante.

Al contrario, è per realizzare i loro bisogni umani che i proletari devono distruggere un modo di produzione nel quale le loro capacità umane sono solo una merce. La dissoluzione dello scambio permette una ricomposizione dell’attività su tutt’altre basi.

In una divisione sociale del lavoro liberamente consentita e dominata dai membri della società, ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può perfezionarsi nelle branche che preferisce. La società regolamenta la produzione generale; questo crea per me la possibilità di fare oggi una tal cosa, domani una tal’altra: pescare la mattina, usare l’offset nel pomeriggio e la falegnameria la sera, fare della critica dopo cena, secondo il mio gradimento, senza mai divenire pescatore, tipografo o critico.

Il rapporto con la natura ne è trasformato, e l’uomo può, infine, sortire dallo stato di rattrappimento di tutte le sue facoltà e dalle altre patologie industriali inseparabili dalle odierne società classiste. «Nell’ordine civilizzato in cui il lavoro è ripugnante, ove il popolo è troppo povero per partecipare al consumo dei cibi preziosi e dove il gastronomo non è il coltivatore, le sue leccornie mancano di legami diretti con la natura; sono solo sensualità semplice e ignobile, come tutte quelle non giungono al meccanismo composito, in cui l’influenza della produzione e dei consumi agisce sullo stesso individuo.» (Charles Fourier, Théorie de l’Unité universelle)

Non vi è più posto per lo Stato in un mondo in cui le leccornie esistono in «modo composito».

XXI

La rivoluzione comunista non è lo scontro di due eserciti, dei quali l’uno difenderebbe il vecchio mondo e l’altro annuncerebbe il nuovo. Ragionare così, significa ridurre la rivoluzione a un problema militare, tutt’al più a una guerra popolare.

La borghesia, separando il mondo soggettivo dello Stato e della politica dal mondo oggettivo della società umana ed economica, può credere che la guerra sia solo la continuazione della politica con altri mezzi. La separazione appare come la condizione naturale di questa società e, stante il suo modo di percezione, la borghesia conosce tutto secondo questo metodo poliziesco. Ma concepire la distruzione dello Stato come lotta armata contro la polizia e le forze militari, è scambiare l’aspetto particolare con quello generale.

La guerra sociale non è una guerra classica, ma il rovesciamento di tutti gli aspetti della vita. I fronti e tutto il bordello logistico sono prima di tutto il dispiegamento di uomini e di merci in uno spazio politico ove la posta in gioco è il controllo territoriale o la presa del potere.

Il comunismo non è il prolungamento del capitalismo, né un programma da applicare: è nel suo movimento di distruzione che genera nuovi rapporti. Il comunismo non è né uno stato né un ideale da realizzare, bensì il superamento dei movimenti sociali attuali.

La violenza armata contro lo Stato verrà dal bisogno di trasformare la propria vita. Per questo uno dei problemi essenziali della rivoluzione sarà l’armamento, come mezzo per il soddisfacimento di bisogni sociali. Il nostro uso collettivo della violenza ci aiuterà a liberarci dalle nostre carenze. La violenza rivoluzionaria, contrariamente alla violenza politica, è un prodotto di bisogni sociali e svolge essa stessa il ruolo di un rapporto sociale, che modifica gli esseri umani e le loro relazioni.

La comunità umana si annuncia già nella violenza comunista, e ciò perché quest’ultima non riguarda gli esperti e non è una pratica specialistica. I pistoleros contemporanei e gli altri terroristi, lasciati alle loro sole forze, possono elevarsi soltanto a una coscienza guevaristo-leninista: la violenza non è sufficiente a distinguere i rivoluzionari dai sostenitori dei partiti dell’ordine.

Il comunismo è, in primo luogo, attività. Il rovesciamento della società sarà possibile solo se il proletariato attiverà la sua funzione sociale in senso anticapitalista, utilizzando il suo ruolo nell’economia come arma che ne dissolve i rapporti. Il proletariato non agirà nella prospettiva del valore, poiché, nella sua situazione, è privo di qualsiasi controllo sul capitale come somma di valore: non ha alcun mezzo per servirsi del capitale finanziario e può utilizzare solo i processi lavorativi di cui è il soggetto. Rovesciando la società, il proletariato fa saltare la doppia natura del capitale – processo di lavoro e processo di valorizzazione –, scalzando così la base materiale dello Stato.

XXII

Nelle rivoluzioni precedenti, i rivoluzionari non coglievano i legami tra l’azione antistatale e la comunizzazione della società. Si ragiona ancora leninisticamente o in modo simmetrico al leninismo: per esempio, contro l’ottica che mette in primo piano la socializzazione dell’economia, la Sinistra comunista italiana privilegia la questione del potere; la rivoluzione sarà prima politica, indi economica e sociale. Al contrario, per i consiliaristi, è sufficiente che la gestione dell’economia sia rovesciata, perché la società lo sia interamente.

In Russia nel 1917 il vecchio Stato non fu nemmeno distrutto: si affossò praticamente da solo, incapace di soddisfare le rivendicazioni elementari dei contadini e dei soldati: la pace e la terra per tutti. Siccome molteplici ragioni – sconfitta della rivoluzione in Europa, concezioni dei bolscevichi, debolezza del proletariato – impedirono una comunizzazione della società, l’organizzazione sovietica si trovò di fronte il compito di amministrare il Paese in nome di un socialismo che essa non realizzava, mentre il salariato si sviluppava nuovamente alla più bella.

Questa forma non poteva che riempirsi abbastanza velocemente di un contenuto capitalista e riprendere il ruolo di agente dell’accumulazione capitalista già svolto dallo Stato zarista. Si arrivò allora a Kronstadt, alla politica riformista della III Internazionale, e a tutto ciò che realizza uno Stato capitalista, all’interno e sul piano internazionale.

In Spagna, l’insurrezione operaia mise in scacco il putsch franchista. Ma, benché padroni della situazione, i proletari non se la presero con lo Stato legale (repubblicano). Anzi, si posero sotto la sua direzione per lottare contro Franco: smarrimento della rivoluzione nella guerra civile. Un legame diretto unisce la sottomissione allo Stato repubblicano (fine luglio 1936) alla capitolazione definitiva degli elementi più avanzati (maggio 1937). I proletari non potevano che venire sconfitti in una guerra la cui funzione primaria era la costituzione di uno Stato legittimo più atto a integrarli. Le collettivizzazioni? Gestirono, non senza un certo entusiasmo rivoluzionario, ciò che restava, nondimeno, capitalismo. I lavoratori presero bene o male il posto dei padroni: le loro tendenze comuniste restarono soprattutto velleitarie. In queste condizioni, lo Stato repubblicano le eliminò senza grandi difficoltà.

I movimenti di Russia e di Spagna dimostrano che non può esservi rivoluzione senza distruzione dello Stato, e distruzione dello Stato senza rovesciamento comunista. In entrambi i Paesi, la repressione anti-operaia è solo un effetto secondario dell’assenza di comunizzazione.

Lo scopo della rivoluzione comunista non è di fondare una struttura sociale, un sistema di autorità democratica o dittatoriale, ma un’attività differente. La rivoluzione non mette il potere al primo posto, né per ricercarlo né per rifiutarlo. Essa sola risolve la «questione del potere», perché tale questione non è né primaria né essenziale per la rivoluzione comunista. La risolve perché ne combatte la causa. È l’appropriazione di tutte le condizioni materiali della vita: distruggendo i legami di dipendenza e di isolamento, il proletariato distruggerà lo Stato.

La rivoluzione comunista non si fonda sull’opposizione governati/governanti. Quando ben gli uomini si autogovernassero, il principio di separazione alla radice dello Stato e della politica rimarrebbe. Il comunismo non particolarizza questo principio, lo sopprime.

XXIII

Lo Stato, che vive dell’incapacità degli uomini e dei gruppi a organizzare un’attività in cui si trasformino essi stessi, è scalzato da ciò che comincia a renderne inutile la funzione mediatrice.

Questa distruzione non è automatica. Lo Stato scomparirà poco a poco, man mano che crescerà la sfera delle attività non mercantili e non salariali. Questa sfera sarebbe molto fragile se lasciasse sussistere lo Stato di fianco a sé, come vorrebbero numerosi gauchisti ed ecologisti. Uno dei compiti dei rivoluzionari sarà di porre chiaramente la questione dello Stato, portando avanti subito delle misure comuniste tendenti a scalzarne la forza e a creare una situazione irreversibile.

È infatti esclusa la possibilità di lottare contro lo Stato proponendosi di distruggerne dapprima il potere e solo in seguito di trasformare la società, o viceversa. Lo Stato non si ritirerà mai. Questo formidabile organo di repressione scatenerà in tutti i modi i suoi mezzi, diretti e indiretti, contro una rivoluzione. Dovrà essere contemporaneamente rovesciato da colpi militari e scalzato dalla comunizzazione della società, senza la quale sarebbe inevitabilmente il più forte.

Nessuna vita nuova si porrà ai margini dello Stato, perché per rompere con il capitalismo, si scontrerà per forza con la compagine statale. Non c’è da una parte il problema di «vivere diversamente» e dall’altra la «questione dello Stato». La distruzione dello Stato, e principalmente della sua forza armata, non è un mezzo al servizio di un fine estrinseco. La rivoluzione è pure un’attività differente nei suoi aspetti militari.

La rivoluzione non vuole «il potere» ma ha bisogno di potere realizzare le sue misure, senza le quali sarebbe, una volta di più, unicamente ideologia, «la frase debordante il contenuto». Non teme dunque responsabili e autorità: questi diverranno un nuovo potere solo se i membri della società non si approprieranno delle loro condizioni di esistenza. Non ogni autorità è statale. La rivoluzione comunista è una «dittatura» nella misura in cui s’impone a una parte della società, ma una dittatura che vince solo spingendo alla realizzazione dell’attività pratica umana da parte di tutti, e che in questo gioca la sua sorte.