La questione dello Stato
[Traduzione
de La question de l’État,
in
«La Guerre sociale», n. 2, Paris, Mars 1978
I
Lo
Stato occupa viepiù la totalità della nostra esistenza. Gli Stati paiono
reggere il mondo, e ogni Stato costituito sembra creare in qualche modo la
società: prodotto della società, appare come suo garante, financo suo
fondatore; assicurandone la coesione, sembra darle vita.
Qualunque
Stato attuale ha infinitamente più potere dei despoti d’altri tempi. Il
progresso della «democrazia» va di pari passo col rafforzamento dello Stato, e
il liberalismo ha generato il suo contrario.
La
socializzazione economica e tecnica del mondo permette allo Stato di diffondere
ovunque la sua propaganda attraverso una molteplicità di giornali, radio e
televisioni, e d’inviare velocemente la polizia dove vuole grazie alle
comunicazioni rapide e alla tecnologia moderna.
Questa
onnipresenza è divenuta universale con la conquista del pianeta da parte del
capitale. Non c’è territorio al mondo che non dipenda da uno Stato; la «decolonizzazione»
li ha moltiplicati; se ne possono vedere anche là dove non c’è una nazione.
Entro frontiere tracciate in linea retta per migliaia di km – poiché
espressione solo di una spartizione effettuata in comune dalle potenze
imperialiste e dalle borghesie locali –, le strutture statali mostrano il
corpo nudo dello Stato, spogliato di tutti gli attributi che gli hanno dato vita
in Occidente. Esso si riduce qui alla sua più semplice espressione: un apparato
amministrativo, poggiante su di un esercito, rinforzato da un sistema
scolastico.
Anche
se violentemente denunciato come parassita, lo Stato è considerato
indispensabile alla sopravvivenza delle società. Sarebbe un male necessario,
superabile solo in un lontano avvenire da fantapolitica. Uomini di lettere hanno
potuto discutere del suo deperimento con Valéry Giscard d’Estaing, e persino
il capo dello Stato ha potuto riconoscere che l’estinzione dello Stato resta
un valido obiettivo.
Nel
pensiero più estremista, l’abolizione dello Stato ha un senso strettamente
politico. Di trasformazione sociale, neanche a parlarne.
II
La
questione della distruzione dello Stato è centrale per la rivoluzione a venire
e, dunque, già per la sua teoria presente. Tale questione è stata e continua a
essere la cartina di tornasole delle differenti posizioni rispetto alla
rivoluzione. È a proposito dello Stato che si è tracciata, e si continua a
farlo, la linea di demarcazione.
Per
il senso comune, lo Stato è una realtà insuperabile: se non è eterno, allora
forse scomparirà con lo sviluppo del socialismo. Paradossalmente, la
costruzione di tale socialismo è affidata essenzialmente al vecchio Stato
rinnovato o a un nuovo Stato operaio. Il socialismo finisce così per
legittimarne il mantenimento e financo il rafforzamento.
Lo
Stato non è il necessario prodotto della complessità delle condizioni di vita
e delle tecniche moderne. Il comunismo non è di così debole costituzione –
quasi fosse uno stadio dell’elevazione angelicale – da rendere possibile
l’applicazione dei suoi princìpi solo dopo l’eliminazione dei conflitti e
delle contraddizioni. Il comunismo non ha bisogno di uno Stato, neppure operaio
o provvisorio, per vincere. Può guerreggiare solo secondo i propri princìpi, e
da ciò trarrà la sua forza e la sua superiorità; è cambiando terreno al
combattimento che renderà lo Stato vulnerabile.
Il
comunismo dovrà essere efficace, organizzare, centralizzare e reprimere, ma
alla sua maniera. Lo Stato, per sua natura, unifica e amministra dall’esterno.
Il comunismo dissolve le separazioni e fonda direttamente l’unità e la
comunità intorno a bisogni comuni.
Sono
le condizioni di vita e lo sviluppo delle tecniche moderne quali le
telecomunicazioni e l’informatica che, lungi dal garantire la perennità dello
Stato, anche se quest’ultimo le utilizza e le modella secondo i suoi bisogni,
assicurano le condizioni del suo superamento. Le tecniche moderne sono
sabotabili, detournabili e
trasformabili da parte del movimento antistatale.
III
Il
rapporto alla base di tutta l’economia feudale, la concessione di terra in
cambio di servizi e benefici, offriva già, nella sua forma originaria più
semplice, materia di contesa, soprattutto là dove, nei rapporti dei signori con
i loro feudatari, parecchi avevano interesse al litigio.
Donde
per i vassalli un gioco secolare e alterno di attrazione verso il centro regale
– il solo in grado di proteggerli contro l’esterno e all’interno – e di
repulsione, in cui quest’attrazione si convertiva ineluttabilmente e
costantemente; donde una lotta ininterrotta tra il sovrano e i vassalli, il cui
fracasso copriva tutto il resto.
In
questo caos generale, il potere del sovrano era l’elemento progressivo:
rappresentava l’ordine nel disordine, la nazione in formazione a fronte della
polverizzazione in principati rivali. Tutti gli elementi rivoluzionari che si
costituivano sotto la superficie del feudalesimo erano costretti ad appoggiarsi
sul potere del re, quanto questi era obbligato ad appoggiarsi su di loro:
l’alleanza tra regalità e borghesia data dal x
secolo.
Infatti
le necessità della centralizzazione – per il re – e di un mondo che non
conoscesse le condizioni feudali d’impiego disordinato della forza, della
rapina e del saccheggio – per la borghesia nascente – davano loro una base
di accordo comune. Per esempio, la riscoperta del diritto romano, arma potente
della regalità, era a tal punto l’espressione giuridica classica dei
conflitti e delle condizioni di vita di una società ove regna la pura proprietà
privata, che tutte le legislazioni create dalla borghesia dopo la sua presa del
potere politico non hanno potuto apportarvi alcun miglioramento essenziale.
Lo
sviluppo del commercio delle città minava la feudalità, insieme al ruolo
accresciuto del denaro, alla sostituzione di benefici e servizi da parte
dell’equivalente generale, ma donava egualmente alla regalità un potere
sconosciuto fino ad allora.
La
nobiltà feudale aveva potuto tirare avanti, malgrado la sua opposizione allo
sviluppo statale, solo grazie al monopolio dell’uso delle armi. Da molto
tempo, i re si erano sforzati di sviluppare un esercito proprio e di emanciparsi
da quello feudale; ma occorrevano l’istituzione di nuovi rapporti di
soggezione e la disponibilità di nuovi ceti sociali «militari».
Fu
lo sviluppo dell’economia borghese a permettere la soluzione di questo
problema, innanzi tutto permettendo ai sovrani di servirsi di truppe arruolate o
mercenarie, in seguito creando le condizioni di base per una fanteria
agguerrita, proveniente da un ambiente sociale contrapposto alla nobiltà. Nei
trionfi trecenteschi dei confederati svizzeri sugli Asburgo e sui Borgogna,
l’esercito feudale soccombeva di fronte al debutto dell’esercito moderno, e
il cavaliere di fronte al borghese e al contadino libero.
Le
innovazioni tecnologiche avrebbero segnato la fine del regno della nobiltà
feudale: la polvere da sparo batteva in breccia le difese dei suoi castelli, e
la stampa i suoi particolarismi locali. Dopo essere stata copiosamente derubata
e maltrattata dal suo alleato monarchico, la borghesia si avviava a preparare la
sua rivincita e a creare delle strutture politiche a immagine della sua
economia.
IV
L’antica
società poggiava su rapporti personali nella schiavitù, nel servaggio o nella
proprietà fondiaria. L’autorità del patrizio o del signore era investita
dalla grazia divina. I possidenti ricevevano dal Cielo un dono particolare che
giustificava il loro rango e la loro funzione.
Spietata,
la borghesia strappò i legami multicolori che tenevano attaccato l’uomo al
suo superiore naturale, per non lasciare tra uomo e uomo nessun altro legame se
non l’interesse, il freddo «pagamento in contanti».
Il
rapporto dell’individuo con la totalità sociale, prima assicurato dalla
credenza in Dio come principio e regolatore supremo, trova la sua espressione
profana: non è più a un uomo che si attribuiscono qualità sovrannaturali, ma
alla società nel suo insieme e alla sua economia, le quali possederebbero virtù
e natura autonome, distinte da quelle dei rapporti sociali e da coloro che li
pongono in essere.
Non
maggiormente padrone della sua storia di quanto lo fosse nella società
tradizionale, l’individuo, svolgendo un’attività toccatagli in sorte per
una divisione generale su cui non ha alcuna presa, vede la sua azione
trasformarsi in potenza estranea che gli si oppone e lo asservisce. La potenza
sociale, la forza produttiva decuplicata che è stata creata dalla cooperazione
degli uomini, non appare loro come la potenza umana unificata ma come qualcosa
di mostruoso e annichilente, capace di distruggerli a ogni istante.
Ci
si stupisce che gli uomini abbiano creduto negli dèi quali regolatori della
loro esistenza: ma gli uomini d’oggi agiscono e pensano come se la società
fosse fatta d’altra cosa che non loro stessi. La società si è autonomizzata
rispetto al cittadino, e quest’autonomia si è cristallizzata nello Stato. Per
un’inversione ideologica, quest’ultimo appare come creatore e dispensatore
di ricchezze prese a una società incapace di utilizzarle da sola. La possibilità
di agire sul corso delle cose sembra altrettanto inverosimile di quando era Dio,
dai disegni imperscrutabili, a incaricarsi degli affari terreni.
V
Il
problema della rivoluzione borghese fu sempre di dare vita a un contratto
sociale, giacché essa costruiva meno un’economia nuova, già esistente, che
non uno Stato che le permettesse di svilupparsi. Essa istituì
un’organizzazione sociale per riunificare gli individui atomizzati sia dalla
dissoluzione degli antichi quadri – ordini, corporazioni, dominî e solidarietà
locali –, sia dal suo fottuto modo di produzione dominato dalla concorrenza e
dalla competizione individuale.
Teorico
della rivoluzione borghese inglese del Seicento, Hobbes riteneva che
individualismo e competizione facessero parte dei tratti fondamentali della
psicologia umana: la sottomissione assoluta era quindi nell’interesse di
ciascun individuo. Ma si trattava di una semplice razionalizzazione della
competizione borghese nascente: «Il primo desiderio che Hobbes attribuisce agli
uomini, di soggiogarsi a vicenda, non è ragionevole. L’idea dell’impero e
della dominazione è tanto complessa e dipende da tante altre idee, che non
sarebbe certamente la prima». (Charles de
Secondat barone di Montesquieu, Lo
spirito delle Leggi, utet,
Torino, 1973, vol. i, p. 60)
L’organizzazione
politica era dunque definita da un contratto; gli uomini dovevano rinunciare
alla loro forza sociale a favore dello Stato: «Le buone istituzioni sociali sono quelle che sanno meglio
denaturare l’uomo, togliergli la sua esistenza assoluta per dargliene una
relativa e trasportare il mio nell’unità comune; in modo che ciascun privato
cittadino non si creda più uno ma parte dell’unità, e non sia più sensibile
che nel tutto». (Jean-Jacques
Rousseau, Il contratto sociale,
Einaudi, Torino, 1980, p.)
Quanto
auspicato da Rousseau, un secolo dopo, secondo Tocqueville, che ne lamentava gli
effetti: «Il
dispotismo mi parrebbe particolarmente da temere nelle età democratiche [...].
Nei secoli d’eguaglianza, ciascun individuo è naturalmente isolato [...]. Lo
si mette facilmente da parte e lo si schiaccia». (Alexis de Tocqueville, La
Democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1982, p. ) Gli stessi fautori della
monarchia affermavano che la perdita di un ordine gerarchico avrebbe provocato
un tale isolamento degli individui che solo uno Stato implacabile avrebbe potuto
unire la società. Burke, filosofo contro-rivoluzionario inglese, disse della
Francia nel 1795: «Lo Stato è supremo. Tutto è subordinato alla produzione
della forza». Tuttavia, i contro-rivoluzionari s’ingannavano credendo che il
dispotismo giungesse con le fattezze dei dittatori, mentre in realtà avrebbe
preso soprattutto un volto impersonale.
VI
Lo
Stato e le società classiste sono apparsi contemporaneamente. Ma se lo Stato è
uno strumento di dominio di classe, è più di ciò. La divisione della società
in classi si accompagna a – e proviene da – una separazione, una scissione
nell’attività umana. Lo Stato sorge allorché l’attività degli uomini pone
un problema, non essendo più unificata. Il problema del potere appare quando
gli uomini perdono il potere di trasformare se stessi, così come il loro
ambiente, e sono costretti ad agire con un scopo diverso dal contenuto della
loro attività. Lo Stato è l’organizzazione resa indispensabile dal lavoro
alienato.
Fin
dalle sue origini, lo Stato non è solo lo strumento di dominio di una parte
della società sull’altra, ma anche il modo di unificazione e di
organizzazione della classe dominante. Lo Stato greco non conciliava solamente
gli interessi a profitto della classe dominante: preservava un certo equilibrio
all’interno della classe possidente, corrosa e divisa dalla ricchezza; la
storia delle città-Stato greche è un lungo e vano sforzo per limitare la
ricchezza mercantile e conservare la precaria unità dei cittadini-possidenti,
divisi tra ricchi e poveri.
Lo
Stato moderno assicura tanto più questa funzione mediatrice giacché il
capitalismo isola gli individui e li priva dei mezzi per vivere. Ogni individuo
è separato dalla propria attività e dall’oggetto di essa, dal mondo che lo
circonda e dagli individui con i quali è in concorrenza. La ragione e la forza
dello Stato moderno consistono nell’unificare questa separazione.
I
rapporti e gli atti più semplici divengono sia relazioni mercantili sia atti
amministrativi. Il peggio non è che lo Stato vieti o costringa, è che sia
sempre lì a svolgere funzioni elementari rese problematiche dal capitalismo
avanzato. Al di sopra degli uomini si erge lo Stato: «Esso lavora
volentieri alla loro felicità; ma vuole essere l’unico agente e il solo
arbitro; provvede alla loro sicurezza, prevede e assicura il soddisfacimento dei
loro bisogni, facilita i loro piaceri, conduce i loro principali affari, dirige
le loro industrie, regola le loro successioni, divide le loro eredità; che non
possa toglier loro interamente il disturbo di pensare e la fatica di vivere?».
(Alexis de Tocqueville, La
Democrazia in America, Rizzoli, Milano, 1982, p. )
Lo
Stato opprime solo perché così acquista la potenza e perché tutta una serie
di atti naturali sono divenuti «servizi pubblici», come il riscaldamento,
l’illuminazione, o l’aiuto in caso di incendio. L’inquadramento sociale
minuzioso è reso indispensabile solo dall’incapacità degli uomini di
soddisfare i loro bisogni vitali.
La
scuola è tra gli elementi costitutivi di questo sistema: solo lo Stato moderno
la sviluppa al punto impressionante raggiunto al giorno d’oggi. Apprendere è
divenuto un problema gigantesco che presuppone un enorme apparato e una
burocrazia, perché la preoccupazione di produrre sopravanza l’interesse per
il processo di produzione, e il risultato sta al di sopra dell’attività:
apprendere e fare sono divenuti due momenti distinti che la scuola non può
riunificare. Nei Paesi «sottosviluppati», insegnando a disapprendere il lavoro
agricolo, il sistema scolastico pone le basi di una società capitalista:
distruzione delle culture alimentari e creazione di proletari costretti a
entrare nel salariato. Il capitale sradica l’uomo e ne fa un infermo perduto
senza il sostegno dello Stato.
VII
Lo
Stato moderno è solo un mediatore e non si trova all’esterno del movimento
del capitale, ne è divenuto totalmente un elemento.
Lo
Stato non ha atteso il capitale per giocare un ruolo economico, com’è
attestato dall’organizzazione della produzione agricola o dalla realizzazione
di grandi opere presso gli Incas, in Egitto o in Cina. Ma restava prima di tutto
un amministratore, sovente sotto una forma fragile: gli Incas, tribù
conquistatrice, divenivano la «classe dominante» delle tribù sottomesse,
costituendo lo Stato su di una base etnica, in balìa di una sconfitta militare
o di crisi interne (guerre di successione). Anche la città greca, che prefigura
per molti aspetti lo Stato moderno, in particolare per il dualismo istituzione
centrale/democrazia, era soprattutto un organo politico.
L’originalità
dell’Occidente è di avere creato, sotto la pressione delle attività
mercantili e artigianali, uno Stato che non si accontenta di vivere
dell’economia ma vive in parallelo con essa, essendo al contempo causa ed
effetto di un’accumulazione dei mezzi di produzione sconosciuta in Oriente,
che gli permette di sopravvivere alle conquiste e alle crisi politiche. In Asia,
si poteva annientare uno Stato radendo al suolo qualche città; lo Stato
contemporaneo vive di un’altra forza, com’è osservabile dopo le distruzioni
delle guerre moderne e dalla facilità con la quale si ricostituisce.
Il
capitale non è stato dapprima liberale, poi monopolista e statale. Il libero
scambio è solo una parentesi di qualche decennio (generalmente situata tra il
1840 e il 1870): dalla fine dell’Ottocento, la stessa Inghilterra ha preferito
il «giusto scambio» al libero scambio. Ma anche nella sua fase liberale, lo
Stato gioca un ruolo chiave. Il forte vantaggio preso dall’Inghilterra sulla
Francia nel campo della produzione industriale è dovuto anche allo Stato «borghese»,
sebbene monarchico, di cui il suo capitale ha potuto dotarsi, allorché la
Francia deve attendere il 1830 e, ancor più, il Secondo Impero, per
industrializzarsi.
Il
capitale non ha vissuto un periodo liberale puro, come se gli imprenditori
avessero agito interamente a loro piacimento e di propria iniziativa, più di
quanto non conosca oggi un periodo «capitalista di Stato», come se lo Stato
controllasse effettivamente il capitale e il capitalismo di Stato russo fosse
una forma più avanzata, prefigurante l’avvenire. Il liberalismo è sempre
coesistito con l’intervento statale, e i Paesi più burocratici sono
probabilmente quelli che controllano peggio il loro processo economico.
Nei
Paesi capitalisti più giovani, lo Stato supplisce alle carenze della borghesia.
Il capitale si è accumulato là dove esisteva una forte tradizione statale: la
Germania bismarkiana, il Giappone dell’epoca Meiji, la Russia prima del 1917;
in questi tre Paesi, la borghesia, socialmente debole, è tenuta fuori dal
potere politico, ma lo Stato sviluppa un’economia capitalista.
VIII
Lo
Stato serve a unificare una società divisa. È normale che nella nostra epoca
la sua funzione essenziale sia quella economica, poiché la produzione
economica, motore del mondo moderno, è oggi la forza sociale da controllare e
unificare prioritariamente. Lo Stato è divenuto il garante
dell’accumulazione. In Francia, prelevando più del 40% del prodotto interno
lordo (nel 1975, il 24% in imposte e il 17% in oneri sociali), esso
redistribuisce queste somme per armonizzare le produzioni, aumentare la
redditività ed effettuare i trasferimenti di reddito necessari a una relativa
pace sociale.
Se
si prescinde dalla sua funzione sociale divenuta indispensabile, si riduce lo
Stato al suo aspetto politico di repressione o a quello di regolatore
dell’economia. Come spiegarne allora l’accettazione malgrado il suo ruolo
oppressivo?
Lo
Stato aiuta oggigiorno le categorie in altri tempi prese in carico dalla società:
l’applicazione pura e semplice della logica mercantile e salariale lascerebbe
morire di fame un buon numero di vecchi, di malati e di altri soggetti «sfavoriti».
Certuni
possono affermare che lo Stato è l’esercito e le tasse che si sostengono
reciprocamente. Ciò significa dimenticare che lo Stato non si accontenta più
di prelevare del denaro ma ne distribuisce, approfittando del potere assoluto
del denaro per rendersi indispensabile.
IX
Contrariamente
alla mitologia di sinistra, le forme politiche borghesi democratiche e
dittatoriali si succedono e si generano reciprocamente, senza un intervento
proletario diretto. Le dittature non giungono al potere dopo aver battuto gli
operai nel corso di combattimenti di strada: sono i democratici e il movimento
operaio tradizionale a sconfiggere gli operai rivoluzionari mediante le armi e
la confusione elettorale (Germania, 1918-’21).
Coloro
che fanno della controrivoluzione militare lo spauracchio, la forma unica della
controrivoluzione, dovrebbero meditare sul fatto che non vi sono state sconfitte
proletarie a opera dell’azione militare (fallimenti dell’azione di Kornilov
e del putsch di Kapp), ma che quest’ultima può, al contrario, accelerare il
processo rivoluzionario. È quando il proletariato è già battuto socialmente
che la controrivoluzione è militare e violenta.
Il
fascismo italiano ha affrontato gli operai agricoli e industriali, ma ha
trionfato solo dopo che erano stati divisi dalle elezioni e dai tentativi
socialisti di conciliazione, così come dall’intervento materiale dello Stato
democratico.
Le
dittature non cadono sotto i colpi delle masse infine rivoltatesi contro la
tirannia. Cedono esse stesse nuovamente il posto alla democrazia. Nel 1943, in
Italia, è il regime stesso che depone il «dittatore» Mussolini; decide un
ritorno progressivo alla democrazia, prende contatto a questo fine con i partiti
d’opposizione, fino ad allora vilipesi e perseguitati, e avvia negoziati con
gli Alleati per cambiare di campo. Nel 1945, in Germania, è la disfatta
militare a far cadere il regime, rimpiazzato dagli Alleati con propri dirigenti,
a Ovest come a Est, prima che le redini siano riprese da dirigenti «nazionali».
Nel
1975, in Grecia, la crisi cipriota e la pressione americana obbligano i
colonnelli a passare la mano ai democratici – d’altronde essi stessi
abbastanza destrorsi – che, dopo aver atteso il loro turno in esilio, hanno
poi preso naturalmente il loro posto. In Portogallo, una parte dell’esercito
comprese che la vecchia formula politica non reggeva più, e prese la testa di
un cambiamento di regime affinché si effettuasse dolcemente, il che è alla
fine riuscito. Anche in Spagna, il capitale prende l’iniziativa di una
democratizzazione progressiva e controllata.
C’è,
infatti, una logica rigorosa tanto nei «suicidi delle democrazie» quanto nei
«ritorni» successivi alla democrazia. Si tratta soltanto di una divisione dei
compiti, e di una concentrazione nel tempo della violenza necessaria per
liquidare le opposizioni che ostacolano il buon funzionamento del sistema.
X
Se
il pluralismo democratico, il parlamentarismo, i partiti di massa e i sindacati
sono molto efficaci per contenere una spinta rivoluzionaria, possono anche
creare una situazione di confusione, non rivoluzionaria, ma che impedisce la
rimessa in ordine del capitale.
La
dittatura è allora necessaria per disciplinare la borghesia, ridurre la classe
media ed eliminare i movimenti rivendicativi elementari.
Il
fascismo fu un’illustrazione di questa centralizzazione forzosa in quei Paesi
– Italia e Germania – ove l’unità politica era fragile, essendo stata
male risolta la questione nazionale, e avendo acquistato troppa importanza il
movimento operaio riformista, a seguito dei soprassalti rivoluzionari da esso
arginati. Il fascismo fu una forma specifica dell’accesso del capitale al
dominio totale sulla società, in Paesi politicamente fragili.
L’antifascismo
vuole spingere il capitale a divenire o a restare democratico, impedirgli di
farsi dittatoriale. Ma le forme politiche del capitale derivano dalle sue
necessità del momento: i partiti operai, le masse o i liberali non possono
farci niente. Non esiste «scelta» alla quale gli operai potrebbero essere
invitati o invitarsi di forza.
In
certe fasi, il capitale non può più essere pluralista, deve centralizzare
forzosamente le componenti sociali, farle convergere sotto un’unica direzione.
L’opposizione tra i due metodi è tanto più limitata nel capitalismo
sviluppato, giacché lo Stato moderno cumula le due tendenze. Ma non è escluso
che in futuro conflitti capitalisti tra forme avanzate e forme ritardatarie del
capitale si combinino col soffocamento di movimenti rivoluzionari per produrre
guerre civili in cui il capitale sia presente in entrambi i campi, ciascuno dei
quali rappresenterebbe una soluzione capitalista, come dopo il luglio 1936 in
Spagna.
Il
segreto del passaggio dalla democrazia al fascismo, e viceversa, è rivelato da
una dichiarazione recente di Santiago Carillo, leader del Partito Comunista
Spagnolo, che afferma di voler «cambiare il regime per salvare lo Stato». È
esattamente ciò che fanno sia i dittatori giunti al potere sia i democratici
dopo il loro ritorno alla guida dello Stato, presentato ogni volta come una «vittoria
della classe operaia».
Che
i proletari possano approfittare di queste evoluzioni per manifestarsi sul loro
terreno, o semplicemente per mettere in difficoltà la razionalizzazione e la
redditività del capitale con le loro rivendicazioni, come hanno fatto in
Portogallo, non è indifferente, ma essi non assicurano l’avvenire
rivoluzionario se non nella misura in cui si situano al di là
dell’opposizione democrazia/dittatura. Il capitale non è mai così forte come
quando riesce a mobilitare le masse a suo profitto, facendo credere loro che
combattono per se stesse.
XI
Tutti
i regimi, in tutti i continenti, organizzano, prima o poi, un simulacro di vita
parlamentare.
Giustiziere
del «marcio parlamentarismo», Hitler mantenne fino alla guerra la finzione di
un Reichstag sovrano. Nel 1939 fece votare la dichiarazione di guerra non senza
derisione, d’altronde: siccome mancavano troppi deputati, i seggi vacanti
furono fatti occupare da funzionari del partito.
Stalin
e, successivamente, le «democrazie popolari» hanno tenuto a riprodurre le
forme elettorali, private di ogni senso: il partito unico non è il solo in
lizza, vi sono dei candidati «senza partito» e, nelle «democrazie popolari»,
dei partiti satelliti distinti dal Partito Comunista, tutto ciò per dare
risultati positivi al 98%.
Il
Brasile è dovuto tornare a un minimo di vita politica, con due partiti, l’uno
di governo, l’altro di opposizione moderata. In Senegal, lo Stato autorizza
ora i partiti, ma a condizione di differenziarli e di dare loro i nomi esso
stesso. Anche la Cambogia, assai meno preoccupata dell’opinione internazionale
che prodiga del sangue dei suoi cittadini, prepara delle elezioni: certo
l’esercito avrà un posto preponderante nell’Assemblea, ma è significativo
che si senta il bisogno di legittimarne l’egemonia mediante il voto.
Molte
delle idee legate al tema generale del dovere elettorale appartengono, a ben
vedere, alla forma totalitaria e parrebbero fuori posto nel vocabolario della
democrazia liberale.
Se
gli stessi Paesi «dittatoriali» ne avvertono la necessità, è perché la
democrazia corrisponde a un bisogno statale, com’è dimostrato dalle recenti
elezioni spagnole. La forza e il bisogno del capitale non consistono solo nel
trovare dei capi o una maggioranza, ma anche un’opposizione, nel darsi uno
spazio in cui mettere in scena le proprie incertezze. La «vita politica» nel
suo insieme si modula su questa necessità: prima del 1939, la Gran Bretagna e
gli Stati Uniti erano quasi i soli Paesi a conoscere il «bipolarismo»,
l’alternanza di due partiti dall’azione quasi identica ma che sono reputati
rappresentare soluzioni differenti. Oggi, la Repubblica Federale Tedesca,
l’Austria e la Svezia funzionano allo stesso modo: esso dà governi più
efficaci rispetto al gioco centrista che si può ancora vedere in Italia. Le
dittature divengono un ostacolo allo sviluppo delle forze produttive quando
poggiano – come Marcelo Caetano in Portogallo – su ceti sociali arcaici (i
proprietari fondiari).
È
nel momento in cui la vita politica borghese classica è spogliata del suo
senso, proprio a causa dell’unificazione del capitale, del suo dominio totale
e dell’avvento dello Stato contemporaneo, che le politiche più desuete si
dispiegano su tutta la superficie del globo terrestre.
Come
la concorrenza dei capitali, la concorrenza politica è nella natura del
capitale, benché la rete dei monopoli e degli Stati serri oggi la vita politica
così come quella economica.
XII
I
dibattiti entro e tra i partiti politici di sinistra riprendono le polemiche
d’inizio secolo. La socialdemocrazia tedesca si era costituita in parte come
reazione al lassallismo, che aveva barattato l’appoggio a Bismark da parte
degli operai con un miglioramento della loro sorte.
Appena
legalizzato, il partito socialdemocratico adottò il medesimo atteggiamento:
Bernstein credeva a una evoluzione progressiva dello Stato, che si sarebbe
aperto alla discussione democratica e avrebbe accordato sempre maggiori diritti
e riforme.
Contro
di lui, Kautsky affermava che lo Stato era classista e non poteva essere
riformato dall’interno, ma non ne faceva alcuna critica, proponendo un altro
Stato al posto di quello esistente: eguale, ma animato dagli operai e dai loro
interessi. Parlava anche di un rinnovamento del parlamentarismo.
Nel
1917, volendo «restaurare» il pensiero di Marx, Lenin dissociò la rivoluzione
in comunizzazione – da lui accantonata, riducendola all’elettrificazione –
e creazione di un nuovo organo di amministrazione.
Le
posizioni di Bernstein, Kautsky e Lenin sono il modello di tutte le varianti che
si sono viste, e si vedono ancora, nei partiti stalinisti, socialisti e nei
gruppi gauchisti, come nei loro dibattiti; oggi sono così fuse che diviene
impossibile sbrogliarle.
Per
la sinistra, lo Stato è sempre preferibile al capitale privato, perché essa può
influenzare più facilmente gli ingranaggi statali che non quelli
dell’economia privata. Così essa denuncerà l’impossessamento padronale di
questo o quel settore, esigendo che lo Stato ne sia il solo responsabile. La
sinistra rimprovera allo Stato solo di escluderla. Lo stalinista Jean
Elleinstein, per esempio, riconosce il potere crescente dello Stato, ma ne
conclude che bisogna democratizzarlo (Jean
Elleinstein, Le Parti Communiste).
Dal momento che lo Stato ha penetrato tutta la società, e dunque le lotte
sociali si svolgono anche al suo interno, egli ne deduce che non è più un
apparato da abbattere, ma un luogo da occupare. Non è più «lo Stato strumento
di classe», bensì uno spazio sociale ove intervenire a tutti i costi.
XIII
Fin
dai suoi esordi, cioè dopo la metà del secolo scorso, il movimento operaio
ufficiale ha voluto contemporaneamente farsi riconoscere dallo Stato e
integrarsi. Priva di base economica – contrariamente alla borghesia –, la
burocrazia «operaia» non possiede altro mezzo di autopromozione e di accesso
al controllo dei mezzi di produzione se non l’ingresso nello Stato e
l’accentuazione dell’intervento statale. Anche nei Paesi in cui il movimento
operaio è una potenza finanziaria, come in Germania – ove i sindacati
possiedono, tra l’altro, la quarta banca del Paese –, esso si sforza sempre
di penetrare nello Stato per disporre di un controllo sul capitale.
Questa
tendenza è rafforzata dalla spinta degli strati di piccoli e medi funzionari
(insegnanti in testa), che sono anch’essi privi di capitale e non hanno altra
speranza d’impadronirsene se non mediante il controllo economico statale.
Questi strati giocano un ruolo considerevole nel vecchio movimento operaio,
parassitandolo: è la «nuova sinistra».
Le
tendenza della burocrazia operaia e quella dei funzionari si uniscono per
promuovere il movimento operaio all’interno dello Stato e, quando è
possibile, alla sua guida. Non c’è da stupirsi che i partiti socialisti e
staliniani non abbiano mai fatto una critica radicale dello Stato.
L’abitudine, anche progressiva, alla completa tutela, distrugge, in fin dei
conti, ogni iniziativa; si attende
tutto dallo Stato, poi, appena dispiegate le forze, si esige
tutto, rendendolo responsabile di ogni cosa. Esso diviene allora lo Stato
tuttofare.
Ciò
che il movimento operaio reclama dallo Stato è, in qualche modo, di non essere
più se stesso: lo vuole paterno e conciliante, imparziale, dunque indipendente dalla divisione in classi della
società; giusto, cioè fuori dalla
realtà della storia delle lotte di classe; neutro,
cioè patrimonio comune ai proletari e ai borghesi; vuole che sia l’educatore
del popolo.
Il
movimento operaio ha atteso tutto dallo Stato ed è rimasto il miglior difensore
dello Stato sociale e dunque, volenti o nolenti, dello Stato forte.
Paradossalmente, a parte l’anarchismo, rimasto assai marginale, la critica
dello Stato è stata lasciata alla frazione antistatale della destra. I
monarchici si sono accaniti a denunciare l’oppressione dello Stato
repubblicano, rimproverandogli di negare la vita delle regioni e delle
collettività, ma non vedendo salvezza se non nell’avvento di un altro Stato
potente che rimettesse ordine e ci liberasse dalla tirannia della repubblica...
XIV
Assimilando
il capitalismo a un processo di «fascistizzazione» sempre più minaccioso e il
«socialismo» a una liberalizzazione democratica, la sinistra glorifica la
democrazia, evita la critica dello Stato e pone il problema sociale a un livello
puramente politico. Le questioni dei rapporti sociali, della natura
dell’attività produttiva e del contenuto della vita si diluiscono nella
rivendicazione di diritti sempre più numerosi: bisognerebbe poter fare questo,
quello... Ma chi dice diritto, dice una forza che lo accorda, lo limita e ne
sanziona la violazione. L’idea del diritto implica quella del dovere: è
dunque anche una moltiplicazione dei doveri che viene rivendicata.
Affinché
siamo liberi, lo Stato deve intervenire sempre più in tutti gli aspetti della
vita. Il totalitarismo dichiarato e il movimento democratico si fanno entrambi
campioni dello Stato: il primo affinché sia forte, il secondo perché ci
protegga, il che è lo stesso: «Non possiamo più – ahimè – credere che
sia sufficiente spezzare Hitler e il suo regime per colpire il male alla radice.
Nello stesso tempo in cui facciamo ciò, andiamo preparando dei piani per il
dopoguerra che conferiranno allo Stato la responsabilità della sorte di tutti
gli individi e che, necessariamente, metteranno nelle mani del Potere i mezzi
adeguati all’immensità del suo compito». (Bertrand
de Jouvenel, Il potere, SugarCo,
Milano 1991, pp. 23-4)
Il
capitale vuole trascinare l’insieme del consorzio umano nella democrazia
totalitaria di una società illusoriamente uniforme, ove ciascuno sia il proprio
rappresentante e si debba conformare al suo interesse particolare, a sua volta
conforme all’interesse generale.
Tra
l’individuo atomizzato e la società rappresentata dallo Stato, esiste un gran
numero di gruppi intermedi – famiglia, impresa, sindacato, collettività
locale, legami di vicinato, comunità di consumo –; il capitalismo ne degrada
alcuni – come la famiglia – e ne sviluppa altri. La dittatura li riorganizza
forzosamente e li controlla direttamente. La democrazia li fa giostrare
liberamente, a profitto della società capitalista tutta intera.
Il
principio della democrazia è di potere lasciare l’iniziativa agli individui e
ai gruppi, sapendo che essi – posti in un quadro capitalista, ove la logica
del valore e del salario s’impone loro da sola senza costrizioni esterne –
agiranno in un senso capitalista.
XV
Il
programma della sinistra prevede di compensare la forza dello Stato con delle
organizzazioni di massa in cui gli individui si ritrovino sulla base del loro
lavoro, dei loro interessi di consumatori e di utenti... La «partecipazione»
di De Gaulle nel 1968 apparirebbe meschina di fronte alla mareggiata democratica
e al lirismo autogestionario: «Si vedono così i giovani costruire le loro Case
dei giovani, i lavoratori sistemare i loro locali di lavoro, gli adulti
realizzare abitazioni per anziani, i consumatori concepire e organizzare la loro
zona commerciale». (Michel Ragon, L’Architecte,
le Prince et la Démocratie) Che ciascuno partecipi alla vita della città e
della nazione, rivendichi, militi per accrescere le competenze della sua
organizzazione: ecco cos’è cambiare la vita!
È
qui che la sinistra è totalitaria, per questa partecipazione generalizzata, più
che per i campi alla russa o per altri goulash dello stesso sapore. La dittatura
del capitale non risiede nel fbi o
nel kgb, bensì nel tentativo di
dare a ciascuno un potere illusorio, di farlo partecipare a decisioni che,
comunque, sono già state prese, perché inscritte nella logica capitalista, così
onnipresente nelle strutture materiali e nelle relazioni umane da avere
penetrato anche i comportamenti e le menti.
La
parola viene data per evitare una reale rimessa in discussione: una liberazione
del linguaggio, surrogato di un’emancipazione autentica. Il capitale sa
trasformare benissimo le rivolte in discorsi. Perché, sicuramente, su tutto
questo merdaio vivono delle aspirazioni a uno sconvolgimento sociale: «L’esplosione
del Maggio ’68 fu realista nella ricerca dei mezzi per reintrodurre gioco,
calore e vita nel funzionamento delle grandi organizzazioni. Tutte, anche il
Partito Comunista, l’esercito e la Chiesa cattolica hanno subìto il
contraccolpo del Maggio, che ha turbato il loro funzionamento regolare aprendo
forse la via di una felice trasformazione». (M. Duverger, L’Autre
côté des choses) Il capitale vincente vive di tutto ciò che tende a
distruggerlo: la rivoluzione impotente nutre la controrivoluzione.
Benché
sia lui stesso a suscitarle, il capitale teme le forme dittatoriali, perché si
priva così dell’intervento attivo degli uomini nel suo funzionamento. La
dittatura tende a rendere i salariati passivi, mentre la democrazia si basa, per
principio, sulla loro capacità di riorganizzare dinamicamente una parte della
loro attività.
XVI
Se
il capitale dinamizza coloro che lo servono, li rende egualmente passivi. Vive
della nostra partecipazione e contemporaneamente la frena. Offre un’attività,
rendendola impossibile. Esige un’iniziativa responsabile da parte degli
operai, ma quando si manifesta la reprime. Suscita un’azione collettiva,
individualizzando il lavoro, presuppone una visione globale, ma parcellizza la
produzione.
Poiché
esteriore rispetto ai lavoratori, il salariato – mezzo per guadagnarsi la vita
in un’indifferenza relativa verso ciò che si fa – necessita di
un’organizzazione anch’essa esterna al processo lavorativo, ma che non è
solo un semplice inquadramento contro la fuga dal lavoro: la burocrazia deve
anche collegare tra loro le frazioni dell’attività produttiva causate
dall’individualizzazione delle mansioni e delle remunerazioni. Un apparato
esterno è necessario per ricomporre l’unità della produzione e assicurarne
l’esecuzione.
Questa
separazione è ulteriormente aggravata per ciò che concerne lo Stato. La
burocrazia statale organizza ciò che non fa e che viene fatto da figure esterne
allo Stato (individui, imprese ecc.). Per organizzare, essa deve conoscere. Per
ben applicare, deve sorvegliare.
Lo
Stato è un amministratore prigioniero del capitale sociale totale, tanto quanto
qualsiasi presidente di consiglio d’amministrazione lo è del suo capitale
d’impresa. In queste condizioni, ogni partecipazione effettiva dei cittadini
è ancora più impossibile che all’interno dell’azienda: i lavoratori
salariati possono almeno aiutare l’impresa a fare profitti e riceverne
vantaggi diversi. Ma non c’è modo di avere presa sullo Stato, perché sfugge
ad ogni riforma: si riforma solo nella violenza, attraverso gravi crisi.
Lo
Stato razionalizza il suo bilancio con i modelli econometrici più sofisticati,
può sapere esattamente donde viene e dove va il denaro per tutti i suoi
servizi: ignora soltanto quale sarà l’effetto di questo denaro nel rapporto
reale di ogni servizio con la società in generale. Lo Stato si complica il
compito da solo, progressivamente. Al fine di gestire la società, consacra una
parte enorme dei suoi sforzi alla propria gestione. Giunge a mettere il
cittadino nella situazione di soggetto passivo, rendendo difficile la minima
partecipazione.
Nella
sfera politica, luogo di divisione dei poteri, da una parte la vita politica
impegna tanto le forze sociali da disperderne le energie in un pluralismo
eccessivo; dall’altra lo Stato cancella ogni politica concentrando
autoritariamente tutti i poteri. Generalmente, la politica domina al pari dello
Stato e la società si unifica grazie al proprio dinamismo, con l’intervento
statale solo come garante delle regole del gioco: ma l’equilibrio resta
precario.
XVII
In
questo contesto, i progetti di riforma per rendere lo Stato sempre più sociale,
mettendolo al livello dei cittadini, non possono cambiare niente. La
rivitalizzazione del comune non darebbe alcun vigore a una democrazia diretta
impossibile: al più regolerebbe qualche affare minore «di fronte al popolo»,
col consiglio municipale che offre lo spettacolo pubblico di sedute ove non
esercita alcun potere.
Queste
riforme decentralizzerebbero lo Stato: i suoi mezzi di azione sarebbero
moltiplicati, quelli dei cittadini dispersi. Il mondo militante e politico non
domanda di meglio: è tutta gente che vuole il potere. Se si crea una
commissione di quartiere, ecco un luogo in più ove fare intervento o essere
presenti.
La
dittatura statale tende a rafforzare le procedure democratiche e il loro
formalismo nel mentre pretende di renderle sempre più reali: la circolazione
delle merci in tutta la società permette al capitale di esercitare la sua
pressione dappertutto senza ricorrere in permanenza alla coercizione centrale.
Totalitarismo
burocratico e autogestione popolare coesistono nel programma della sinistra
francese. Sono entrambi sogni impossibili nati dall’incapacità dello Stato
tentacolare di risolvere i problemi del capitale, e dalla sua tendenza ad
appesantirsi complicando la vita quotidiana. La tentazione statalista e quella
autogestionaria si nutrono l’una dell’altra: in nome dell’ordine e della
giustizia, la prima vuole riunire gli elementi sociali il cui sparpagliamento
provoca ovunque complicazioni e sprechi; in nome della libertà, la seconda
vuole alleggerire o sopprimere il peso eccessivo dello Stato per mezzo di
contro-poteri.
La
coesistenza di queste due tendenze riflette una crisi dello Stato – sorta
dalle difficoltà del capitale dopo la metà degli anni Sessanta –, che
provoca una crisi del pensiero politico e divide la sinistra come la destra.
La
crisi dello Stato all’epoca del fascismo fu superata dallo Stato tentacolare
democratico regnante nei Paesi capitalisti più avanzati. Ma esiste oggi
un’altra crisi, ben più grave, perché legata all’esistenza del capitale come
rapporto sociale.
Non
si tratta più di liquidare le classi medie o le organizzazioni operaie
ingombranti, ma di risolvere la contraddizione crescente tra il peso sempre
crescente dello Stato e la sua incapacità di risolvere i problemi sociali ed
economici: a livello sociale, lo Stato non riesce a creare una nuova
organizzazione della vita puramente capitalista e mercantile, liberata dei
vecchi costumi e istituzioni; nell’economia, blocca, per sua natura il libero
sviluppo delle leggi capitaliste. Smorza le difficoltà di redditività solo
aggravandole in altro modo. «Noi assistiamo a un curioso spettacolo. Sotto i
nostri occhi si svolgono i preliminari della comunità» (Louise Auguste Blanqui, Le
Communisme, avenir de la société, in «La Critique sociale»); la
questione dell’apparizione del comunismo – della distruzione degli ostacoli
al suo funzionamento – si trova così posta: la situazione irresolubile creata
dal capitale esige la trasformazione dell’attività umana e di tutta la vita
sociale.
XVIII
L’anarchismo
ha il merito di aver affermato l’esigenza della distruzione dello Stato, ma la
sua incapacità di fondarne la critica lo porta a una grande sterilità, se non
ad aberrazioni. Facendo poggiare tutta la società sull’autorità concentrata
nello Stato, visto come bersaglio da distruggere prioritariamente,
l’anarchismo riduce il capitale allo Stato e non cerca, al pari del marxismo
volgare, di definire la rivoluzione comunista. L’«abolizione dello Stato» è
potuta così divenire una formula magica che nasconde molta confusione.
Bakunin
aveva ragione di dire che la rivoluzione non si fa con i decreti. Ciò non gli
impedì di firmare nel 1870 «il manifesto rosso» di Lione, che decretava
l’abolizione dello Stato, e d’immaginare una «dittatura segreta» che
nell’ombra avrebbe diretto tutto. Negando la politica, gli anarchici vedevano
il male nell’autorità: si tratta ancora dell’abolizione ideologica dello
Stato.
Questi
signori non hanno dunque mai visto una rivoluzione? Essa è senza dubbio la cosa
più autoritaria che ci sia, è l’atto con cui una parte della popolazione
impone la sua volontà all’altra parte con cannoni a centinaia e fucili a
migliaia – mezzi autoritari per eccellenza. Che il proletariato non abbia
interessi particolari non cambia nulla: gli interessi dell’umanità nel suo
insieme devono imporsi alla borghesia,
classe i cui atti sono determinati solo dalla logica astratta del capitale.
In
Spagna, nel 1936-’39, l’anarchismo è arrivato a identificare la rivoluzione
con una presa del potere un po’ dappertutto senza un attacco diretto contro lo Stato.
Non
volendo assolvere i compiti amministrativi e repressivi necessari, che possono
non essere statali se legati alla trasformazione della società, gli anarchici
hanno lasciato agli uomini di Stato tradizionali la cura di occuparsene, o sono
stati costretti a diventare statisti essi stessi: la partecipazione di ministri
anarchici al governo ne attesta il risultato.
Paradossalmente,
la corrente più accanitamente antistatale ritiene che in Spagna vi sia stata
una rivoluzione nel 1936, sebbene i proletari abbiano lasciato intatto lo Stato.
Per l’anarchismo, quindi, la rivoluzione consiste in una grande
democratizzazione.
XIX
Malgrado
la sua critica dell’anarchismo sul piano economico, ove tenta di definire il
comunismo come superamento della legge del valore, il consiliarismo ne condivide
la visione amministrativa e territoriale: «Gli anarco-sindacalisti riconoscono
la necessità di pianificare la vita economica e pensano che ciò sia
irrealizzabile senza una centralizzazione che implichi un censimento statistico
dei fattori produttivi e dei bisogni sociali. Eppure, omettono di dare una base
effettiva a questa necessità statistica». (Helmut
Wagner, L’Anarchisme et la
revolution espagnole, in AA. VV., La
Contre-révolution bureaucratique, Paris, uge
10/18, 1973, p. 234)
Il
calcolo cosciente del tempo di lavoro medio necessario alla produzione dei beni
e il sistema democratico dei Consigli hanno entrambi lo scopo di gestire una
zona, di organizzare delle imprese, dei gruppi che uniscono dei produttori e si
associano tra loro.
Il
consiliarismo non compie la critica dell’economia e della politica in quanto
tali, in quanto attività separate: il suo punto di partenza resta la necessità
di produrre e di organizzare questa produzione. Arriva solo a immaginare una
totale decentralizzazione della società in ogni Consiglio, un valore totalmente
interiorizzato e calcolato da ogni produttore e da ciascuna impresa; la sua
visione del comunismo resta inficiata da vecchie nozioni: Anton Pannekoek si
accontenta della nozione di Consiglio basato sul «raggruppamento naturale
dei lavoratori all’interno del processo di produzione».
Questa
prospettiva ha avuto il suo merito storico, ma oggi non si può fondare su di
essa altro che un’autogestione generalizzata. Il consiliarismo è anch’esso
partecipe della visione del comunismo come grande organizzazione democratica,
cui all’inizio partecipa una minoranza, seppure numerosa (gli operai), e poi,
nel «comunismo realizzato», tutta la società. La rivendicazione della presa
in carico della vita da parte di ciascuno e di tutti è un’aspirazione
comunista e può suscitare gli atti più sovversivi, ma se resta sul terreno
dell’amministrazione e della decisione, si fossilizza. Il culto della
democrazia è anticomunista non perché il comunismo sarebbe dittatoriale ma
perché fa della discussione un momento privilegiato e un preliminare, sovente
inutile e paralizzante.
Nel
consiliarismo, il sistema dei Consigli è concepito come una generalizzazione
del parlamentarismo. Il Consiglio è il parlamento della classe operaia. In
questa prospettiva falsata, il discrimine tra riforma e rivoluzione si
stabilisce allora così: i riformisti (stalinisti, gauchisti ecc.) vogliono
trasformare gli organi decisionali esistenti democratizzandoli poco a poco,
iniettandovi dosi sempre più forti di partecipazione di massa; i consiliaristi
vogliono crearne degli altri, instaurare immediatamente una «vera» democrazia,
un’autentica struttura di discussione e di decisione.
Gli
uni vogliono agire all’interno, gli altri all’esterno, ma l’errore è
identico: tutti privilegiano il momento della deliberazione, assimilando la
rivoluzione alla creazione di un nuovo processo decisionale. I consiliaristi
vorrebbero trasferire questo processo dagli organi statali alle fabbriche e ai
quartieri. Poiché non escono mai dall’illusione politica, possono parlare di
«abolizione del salariato» e di soppressione della forma mercantile, senza mai
spiegare queste formule: non comprendono la rivoluzione come processo che genera
una nuova attività.
XX
Fin
dalle origini, la forza e l’impasse del comunismo utopico sono state di volere
creare artificialmente una comunità, facendo appello a un fattore estrinseco
per realizzare un’unità inesistente: Dio, una morale rigorosa o un piano
imperativo. Il comunismo è una risultante generale, e una comunità umana può
oggi basarsi su ciò che è comune agli individui che la compongono: i loro
bisogni e le loro passioni, il loro modo di soddisfarle, le loro modalità di
esistenza. Per ciò lo Stato può scomparire e una rivoluzione può dispiegare
delle strutture centralizzatrici senza per tanto ricrearne uno nuovo.
Gli
atti della borghesia non sono determinati dalla natura umana dei suoi membri ma
dalla logica astratta del capitale che le si impone, così come gli atti
commerciali del singolo borghese non sono determinati dai suoi desideri umani ma
dalla logica del mercato. Tutta l’attività sociale è organizzata a mo’
della sua concorrenza priva di solidarietà, menzognera e complicata: il sistema
si nutre solo della falsità, unica via per riuscire negli affari sociali, così
come in quelli galanti.
Solo
l’ideologia statale esalta ancora la «vita sociale», ben sapendo che solo i
benefici pecuniari ne costituiscono il veicolo: facile rimproverare alla gente
la mancanza di spirito comunitario, creata dall’atomizzazione di cui lo Stato
è una delle cause e il principale garante.
Al
contrario, è per realizzare i loro bisogni umani che i proletari devono
distruggere un modo di produzione nel quale le loro capacità umane sono solo
una merce. La dissoluzione dello scambio permette una ricomposizione
dell’attività su tutt’altre basi.
In
una divisione sociale del lavoro liberamente consentita e dominata dai membri
della società, ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva, ma può
perfezionarsi nelle branche che preferisce. La società regolamenta la
produzione generale; questo crea per me la possibilità di fare oggi una tal
cosa, domani una tal’altra: pescare la mattina, usare l’offset nel
pomeriggio e la falegnameria la sera, fare della critica dopo cena, secondo il
mio gradimento, senza mai divenire pescatore, tipografo o critico.
Il
rapporto con la natura ne è trasformato, e l’uomo può, infine, sortire dallo
stato di rattrappimento di tutte le sue facoltà e dalle altre patologie
industriali inseparabili dalle odierne società classiste. «Nell’ordine
civilizzato in cui il lavoro è ripugnante, ove il popolo è troppo povero per
partecipare al consumo dei cibi preziosi e dove il gastronomo non è il
coltivatore, le sue leccornie mancano di legami diretti con la natura; sono solo
sensualità semplice e ignobile, come tutte quelle non giungono al meccanismo
composito, in cui l’influenza della produzione e dei consumi agisce sullo
stesso individuo.» (Charles
Fourier, Théorie de l’Unité universelle)
Non
vi è più posto per lo Stato in un mondo in cui le leccornie esistono in «modo
composito».
XXI
La
rivoluzione comunista non è lo scontro di due eserciti, dei quali l’uno
difenderebbe il vecchio mondo e l’altro annuncerebbe il nuovo. Ragionare così,
significa ridurre la rivoluzione a un problema militare, tutt’al più a una
guerra popolare.
La
borghesia, separando il mondo soggettivo dello Stato e della politica dal mondo
oggettivo della società umana ed economica, può credere che la guerra sia solo
la continuazione della politica con altri mezzi. La separazione appare come la
condizione naturale di questa società e, stante il suo modo di percezione, la
borghesia conosce tutto secondo questo metodo poliziesco. Ma concepire la
distruzione dello Stato come lotta armata contro la polizia e le forze militari,
è scambiare l’aspetto particolare con quello generale.
La
guerra sociale non è una guerra classica, ma il rovesciamento di tutti gli
aspetti della vita. I fronti e tutto il bordello logistico sono prima di tutto
il dispiegamento di uomini e di merci in uno spazio politico ove la posta in
gioco è il controllo territoriale o la presa del potere.
Il
comunismo non è il prolungamento del capitalismo, né un programma da
applicare: è nel suo movimento di distruzione che genera nuovi rapporti. Il
comunismo non è né uno stato né un ideale da realizzare, bensì il
superamento dei movimenti sociali attuali.
La
violenza armata contro lo Stato verrà dal bisogno di trasformare la propria
vita. Per questo uno dei problemi essenziali della rivoluzione sarà
l’armamento, come mezzo per il soddisfacimento di bisogni sociali. Il nostro
uso collettivo della violenza ci aiuterà a liberarci dalle nostre carenze. La
violenza rivoluzionaria, contrariamente alla violenza politica, è un prodotto
di bisogni sociali e svolge essa stessa il ruolo di un rapporto sociale, che
modifica gli esseri umani e le loro relazioni.
La
comunità umana si annuncia già nella violenza comunista, e ciò perché
quest’ultima non riguarda gli esperti e non è una pratica specialistica. I
pistoleros contemporanei e gli altri terroristi, lasciati alle loro sole forze,
possono elevarsi soltanto a una coscienza guevaristo-leninista: la violenza non
è sufficiente a distinguere i rivoluzionari dai sostenitori dei partiti
dell’ordine.
Il
comunismo è, in primo luogo, attività. Il rovesciamento della società sarà
possibile solo se il proletariato attiverà la sua funzione sociale in senso
anticapitalista, utilizzando il suo ruolo nell’economia come arma che ne
dissolve i rapporti. Il proletariato non agirà nella prospettiva del valore,
poiché, nella sua situazione, è privo di qualsiasi controllo sul capitale come
somma di valore: non ha alcun mezzo per servirsi del capitale finanziario e può
utilizzare solo i processi lavorativi di cui è il soggetto. Rovesciando la
società, il proletariato fa saltare la doppia natura del capitale – processo
di lavoro e processo di valorizzazione –, scalzando così la base materiale
dello Stato.
XXII
Nelle
rivoluzioni precedenti, i rivoluzionari non coglievano i legami tra l’azione
antistatale e la comunizzazione della società. Si ragiona ancora
leninisticamente o in modo simmetrico al leninismo: per esempio, contro
l’ottica che mette in primo piano la socializzazione dell’economia, la
Sinistra comunista italiana privilegia la questione del potere; la rivoluzione
sarà prima politica, indi economica e sociale. Al contrario, per i
consiliaristi, è sufficiente che la gestione dell’economia sia rovesciata,
perché la società lo sia interamente.
In
Russia nel 1917 il vecchio Stato non fu nemmeno distrutto: si affossò
praticamente da solo, incapace di soddisfare le rivendicazioni elementari dei
contadini e dei soldati: la pace e la terra per tutti. Siccome molteplici
ragioni – sconfitta della rivoluzione in Europa, concezioni dei bolscevichi,
debolezza del proletariato – impedirono una comunizzazione della società,
l’organizzazione sovietica si trovò di fronte il compito di amministrare il
Paese in nome di un socialismo che essa non realizzava, mentre il salariato si
sviluppava nuovamente alla più bella.
Questa
forma non poteva che riempirsi abbastanza velocemente di un contenuto
capitalista e riprendere il ruolo di agente dell’accumulazione capitalista già
svolto dallo Stato zarista. Si arrivò allora a Kronstadt, alla politica
riformista della III Internazionale, e a tutto ciò che realizza uno Stato
capitalista, all’interno e sul piano internazionale.
In
Spagna, l’insurrezione operaia mise in scacco il putsch franchista. Ma, benché
padroni della situazione, i proletari non se la presero con lo Stato legale
(repubblicano). Anzi, si posero sotto la sua direzione per lottare contro
Franco: smarrimento della rivoluzione nella guerra civile. Un legame diretto
unisce la sottomissione allo Stato repubblicano (fine luglio 1936) alla
capitolazione definitiva degli elementi più avanzati (maggio 1937). I proletari
non potevano che venire sconfitti in una guerra la cui funzione primaria era la
costituzione di uno Stato legittimo più atto a integrarli. Le
collettivizzazioni? Gestirono, non senza un certo entusiasmo rivoluzionario, ciò
che restava, nondimeno, capitalismo. I lavoratori presero bene o male il posto
dei padroni: le loro tendenze comuniste restarono soprattutto velleitarie. In
queste condizioni, lo Stato repubblicano le eliminò senza grandi difficoltà.
I
movimenti di Russia e di Spagna dimostrano che non può esservi rivoluzione
senza distruzione dello Stato, e distruzione dello Stato senza rovesciamento
comunista. In entrambi i Paesi, la repressione anti-operaia è solo un effetto
secondario dell’assenza di comunizzazione.
Lo
scopo della rivoluzione comunista non è di fondare una struttura sociale, un
sistema di autorità democratica o dittatoriale, ma un’attività differente.
La rivoluzione non mette il potere al primo posto, né per ricercarlo né per
rifiutarlo. Essa sola risolve la «questione del potere», perché tale
questione non è né primaria né essenziale per la rivoluzione comunista. La
risolve perché ne combatte la causa. È l’appropriazione di tutte le
condizioni materiali della vita: distruggendo i legami di dipendenza e di
isolamento, il proletariato distruggerà lo Stato.
La
rivoluzione comunista non si fonda sull’opposizione governati/governanti.
Quando ben gli uomini si autogovernassero, il principio di separazione alla
radice dello Stato e della politica rimarrebbe. Il comunismo non particolarizza
questo principio, lo sopprime.
XXIII
Lo
Stato, che vive dell’incapacità degli uomini e dei gruppi a organizzare
un’attività in cui si trasformino essi stessi, è scalzato da ciò che
comincia a renderne inutile la funzione mediatrice.
Questa
distruzione non è automatica. Lo Stato scomparirà poco a poco, man mano che
crescerà la sfera delle attività non mercantili e non salariali. Questa sfera
sarebbe molto fragile se lasciasse sussistere lo Stato di fianco a sé, come
vorrebbero numerosi gauchisti ed ecologisti. Uno dei compiti dei rivoluzionari
sarà di porre chiaramente la questione dello Stato, portando avanti subito
delle misure comuniste tendenti a scalzarne la forza e a creare una situazione
irreversibile.
È
infatti esclusa la possibilità di lottare contro lo Stato proponendosi di
distruggerne dapprima il potere e solo in seguito di trasformare la società, o
viceversa. Lo Stato non si ritirerà mai. Questo formidabile organo di
repressione scatenerà in tutti i modi i suoi mezzi, diretti e indiretti, contro
una rivoluzione. Dovrà essere contemporaneamente rovesciato da colpi militari e
scalzato dalla comunizzazione della società, senza la quale sarebbe
inevitabilmente il più forte.
Nessuna
vita nuova si porrà ai margini dello Stato, perché per rompere con il
capitalismo, si scontrerà per forza con la compagine statale. Non c’è da una
parte il problema di «vivere diversamente» e dall’altra la «questione dello
Stato». La distruzione dello Stato, e principalmente della sua forza armata,
non è un mezzo al servizio di un fine estrinseco. La rivoluzione è pure
un’attività differente nei suoi aspetti militari.
La
rivoluzione non vuole «il potere» ma ha bisogno di potere realizzare le sue
misure, senza le quali sarebbe, una volta di più, unicamente ideologia, «la
frase debordante il contenuto». Non teme dunque responsabili e autorità:
questi diverranno un nuovo potere solo se i membri della società non si
approprieranno delle loro condizioni di esistenza. Non ogni autorità è
statale. La rivoluzione comunista è una «dittatura» nella misura in cui
s’impone a una parte della società, ma una dittatura che vince solo spingendo
alla realizzazione dell’attività pratica umana da parte di tutti, e che in
questo gioca la sua sorte.