Capitalismo e comunismo

Jean Barrot

supplemento a «Le Mouvement Communiste», n. 3

 

 

Il comunismo non è un programma da realizzare o da far realizzare, bensì un movimento sociale. Coloro che sviluppano o difendono il comunismo teorico hanno, rispetto al resto dell’umanità, solo il vantaggio di una comprensione e di una capacità di espressione più chiare e rigorose; ma anch’essi, proprio come gli altri che non si occupano specificamente della teoria, hanno il bisogno pratico del comunismo. In questo senso essi non hanno alcun privilegio, non sono i portatori del sapere che innescherà il processo rivoluzionario, ma d’altronde non hanno alcun timore di diventare dei «capi» esponendo le loro concezioni. La rivoluzione comunista, come ogni altra rivoluzione, è il prodotto di bisogni e di condizioni di esistenza reali. Si tratta di mostrarle, di mettere in luce un movimento storico.

Il comunismo non è un ideale da realizzare: esso esiste fin d’ora, non come società già istituita, ma come lo sforzo e il compito di preparare tale società. È il movimento che tende ad abolire le condizioni di esistenza determinate dal lavoro salariato, e che effettivamente le abolisce attraverso la rivoluzione. La discussione sul comunismo non è una discussione accademica. Non è un dibattito su quel che si farà domani. Essa sbocca inevitabilmente su di un insieme di compiti immediati e lontani di cui fa parte e di cui non costituisce che un aspetto, uno sforzo di comprensione teorica. D’altronde questi compiti si rivelano più agevoli, più efficaci, se si risponde alla domanda: Dove stiamo andando?

L’affermazione di ciò che è il comunismo non è innanzitutto una confutazione degli altri a rivoluzionari» (pcf, gruppetti ecc.). Perché su questo terreno non li si può prendere sul serio. Il Partito Comunista non ha programma, non è che una variante del programma del capitale, variante che conserva tutti i tratti essenziali del mondo attuale, a cominciare dal lavoro salariato. È molto più efficace mostrare la sua funzione piuttosto che cercar di demolire punto per punto il suo programma. Non si tratta qui di opporre delle idee giuste a delle idee sbagliate. Polemizzare con il PC sulla sua «concezione del socialismo», è ancora trattarlo come un membro, degenerato sì, ma pur sempre un membro, della famiglia rivoluzionaria. Del resto i «gauchisti» non smettono di criticare il Partito Comunista, senza però mai mostrare chiaramente la sua funzione, il suo ruolo semplicemente controrivoluzionario, che è quello di uno tra i migliori difensori del capitale. Il problema non è che il programma del Partito Comunista non sia comunista, ma che è capitalista.

Le spiegazioni presentate in questo testo non sono nate semplicemente da un desiderio di chiarificazione. Esse non esisterebbero in questa forma, e un certo numero di persone non si sarebbero riunite per raccoglierle e presentarle, se attualmente la società, attraverso le sue contraddizioni, attraverso le lotte sociali che la dilaniano. non mostrasse la nuova società in formazione nelle viscere della vecchia, e non imponesse di prenderne coscienza.

Se si considera rapidamente la società moderna, ci si accorge che per vivere la grande maggioranza degli individui sono costretti a divenire dei salariati, a vendere la propria forza-lavoro. L’insieme delle qualità fisiche e intellettuali che esistono nel corpo di ciascuno, nella sua propria personalità, e che li deve mettere in movimento per produrre delle cose utili, non può essere impiegato che a condizione di vendersi in cambio di un salario. L’esistenza dello scambio e del salariato sembra una cosa normale, una cosa che «va da sé». Tuttavia per l’introduzione del lavoro salariato furono necessarie delle pressioni, delle violenze, ed essa fu accompagnata da lotte sociali. La separazione tra il lavoratore e i mezzi di produzione, divenuta oggi semplicemente e brutalmente un fatto, accettato come tale, è in realtà il prodotto di tutta una evoluzione, e non poté compiersi a suo tempo che attraverso la forza. In Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Francia, a partire dal ‘500, la violenza economica e politica espropriò i piccoli artigiani e contadini, represse il pauperismo e il vagabondaggio, costrinse i poveri al lavoro salariato. Nel ‘900, a partire dagli anni trenta, la Russia dovette promulgare un codice del lavoro che arrivava a prevedere la pena di morte per poter organizzare in qualche decennio il passaggio di milioni di contadini al lavoro industriale salariato. Di conseguenza i fatti apparentemente più normali, cioè che ciascuno non disponga che della propria forza-lavoro, che per vivere debba venderla ad un’impresa, che tutto sia merce, che i rapporti sociali ruotino attorno allo scambio, tutto ciò in realtà non è che il risultato di un processo violento e prolungato.

Al giorno d’oggi la società, mediante il suo insegnamento, la sua vita ideologica e politica, maschera i rapporti di forza e la violenza passata e presente su cui questa situazione è fondata. Essa dissimula insieme la propria origine e il meccanismo del proprio funzionamento. Tutto appare come il risultato di un libero contratto in cui l’individuo portatore e venditore della propria forza-lavoro incontra l’impresa. L’esistenza della merce è presentata come il fenomeno più comodo e più naturale che ci sia. Tuttavia essa si manifesta regolarmente attraverso catastrofi, grandi e piccole: qui si distruggono dei beni per mantenerne i prezzi, là non si utilizzano le possibilità esistenti, mentre poco lontano i bisogni elementari non vengono ancora soddisfatti. Ora, non soltanto i due pilastri della società capitalistica, lo scambio e il lavoro salariato, sono fonte di disastri periodici e permanenti, ma inoltre essi hanno creato – ed è là il loro ruolo storico – le condizioni di possibilità di un’altra società. Soprattutto essi costringono una parte importante del mondo attuale a sollevarsi contro di loro, a realizzare questa possibilità: il comunismo.

Per comprendere bene questo, si può inquadrare storicamente la società esistente, vedere da dove viene e dove va. I legami tra i membri di una società e i legami tra tutti gli elementi che la compongono (individui, strumenti di produzione, istituzioni, idee) sono transitori, essendo insieme l’effetto di un’evoluzione passata e la causa di una trasformazione futura. I rapporti che uniscono tra di loro tutti gli elementi della società sono presi in una dinamica: il loro presente diviene chiaro solo alla luce del loro passato e del loro avvenire.

Per definizione ogni attività umana è sociale. La vita non esiste che come vita di gruppo, attraverso l’associazione degli individui nelle forme più diverse. La stessa riproduzione delle condizioni di esistenza, innanzitutto, è il risultato di un’attività collettiva: sia la riproduzione degli esseri umani tra di loro, che la riproduzione dei loro mezzi di sussistenza. Ciò che caratterizza in effetti la società umana, è il fatto che essa produce e riproduce le condizioni materiali della sua esistenza. L’animale può talvolta servirsi di uno strumento: ma solo l’uomo fabbrica i propri strumenti. Tra l’individuo o il gruppo, e la soddisfazione dei bisogni, intervengono la produzione e il lavoro, che modificano continuamente le maniere di agire e di trasformare l’ambiente. Altre forme di vita – la società delle api, ad esempio – fabbricano le loro condizioni materiali ma, almeno per quanto può valutare la osservazione umana, la loro evoluzione pare ormai conclusa. Il lavoro, al contrario, è l’appropriazione, l’assimilazione sempre perfezionata dell’ambiente da parte dell’uomo. Il rapporto tra gli uomini e la natura è anche nello stesso tempo un rapporto degli uomini tra di loro questi rapporti inter-umani dipendono dai rapporti di produzione. Nello stesso modo gli uomini producono anche le idee, il modo in cui si rappresentano il mondo, e l’evoluzione di entrambi.

Con la trasformazione dell’attività si trasforma di pari passo il contesto sociale in cui essa si esercita, l’insieme dei rapporti tra gli uomini. I rapporti di produzione in cui entrano gli uomini sono indipendenti dalla loro volontà: ogni generazione si confronta con le condizioni tecniche e sociali ereditate dalle generazioni precedenti. Ma essa può anche trasformarle, nei limiti concessi dal livello allora raggiunto dalle forze produttive materiali. Propriamente parlando, l’entità chiamata «la Storia» non fa niente: sono gli uomini, attraverso il giuoco dei loro rapporti reali, che fanno la storia, ma soltanto nell’ambito delle possibilità della loro epoca. Questo non vuol dire che ogni cambiamento importante delle forze produttive sia accompagnato immediatamente e automaticamente da un cambiamento corrispondente dei rapporti di produzione. La società nuova generata dalla vecchia non può apparire e trionfare se non attraverso una rivoluzione che distrugga tutto l’edificio politico e ideologico che permetteva fino ad allora la sopravvivenza dei rapporti sociali ormai superati.

Tutti i rapporti di produzione sono storici, quindi transitori. Un negro è un negro: è solo in particolari condizioni che diventa uno schiavo. Allo stesso modo, il lavoro salariato è un tipo di rapporto tra gli individui, tra l’individuo e la società, tra l’individuo e la produzione dei suoi mezzi di sussistenza. Non è che un rapporto di produzione in tutta un’evoluzione storica. Malgrado le miserie e le sofferenze che ha condotto con sé, esso ha svolto un ruolo utile, ponendo le basi necessarie del proprio superamento. Dopo essere stato un tempo una forma di sviluppo, il salariato non è ormai più, e da molto, che un grave ostacolo, e persino una minaccia, alla semplice esistenza dell’umanità. Quel che importa mostrare, al di là degli oggetti materiali, delle fabbriche, delle macchine, degli operai che vanno ogni giorno a lavorarci, dei prodotti che fabbricano, è la relazione sociale che si dissimula dietro a tutto questo meccanismo, e la sua evoluzione possibile e necessaria.

Storicamente, l’umanità si è dapprima riunita in gruppi relativamente autonomi e dispersi, in famiglie (in senso largo: la famiglia raggruppava tutti quelli dello stesso sangue), in tribù. In queste comunità primitive, nessuno produce più di quanto consumi. Il livello delle forze produttive resta molto basso, e la costituzione di riserve, di «stocks», è quasi impossibile. Per produzione, bisogna qui intendere essenzialmente delle attività di caccia, di pesca, di raccolta. I beni non sono prodotti per essere consumati dopo uno scambio, dopo una messa sul mercato. La produzione è sociale immediatamente, non attraverso la mediazione dello scambio. La comunità ripartisce – secondo delle regole semplici, naturalmente – ciò che essa produce, e ciascuno riceve direttamente ciò che essa gli dà, senza bisogno di andare a procurarselo. Non esiste produzione individuale nel senso di una separazione tra gli individui, che un termine intermedio, lo scambio, riunirebbe soltanto dopo la produzione, attraverso il confronto dei vari beni prodotti ciascuno separatamente. Le attività vengono decise – cioè, imposte al gruppo dalle necessità – ed effettuate in comune, e i loro risultati vengono ripartiti allo stesso modo.

Non esiste alcun intermediario tra la produzione e il consumo, né tra gli individui, né tra gli individui e la società. La produzione non è un’attività a parte, è integrata alla vita sociale di cui è difficile distinguere le varie componenti: pratiche e legami della produzione si mescolano a quelli di parentela, di rappresentazione del mondo («arte») ecc. Non esistono, a parlare propriamente, né politica né economia. La produzione dei mezzi di sussistenza è un atto sociale: non esistono mestieri. L’organizzazione degli uomini è il prodotto dell’attività comune e non c’è bisogno di alcuna istituzione particolare incaricata di riunirli: non esistono una vita privata e una vita «pubblica» distinte tra di loro. L’individuo in quanto tale non esiste. Questa società è totalitaria in quanto in essa tutti gli aspetti della vita sono regolati automaticamente. Non esistono gruppi rivali in seno alla comunità. Perché compaia una divisione tra gruppi sociali contrapposti che si affrontano, è necessario che il livello delle forze produttive si elevi fino al punto in cui l’uomo può produrre più di quel che è necessario alla sua propria sussistenza. Solo allora sono possibili la specializzazione, i mestieri, la divisione tecnica e sociale del lavoro, le classi e la lotta di classe.

Nella comunità primitiva, come in ogni società, il lavoro è un’attività di trasformazione. Una certa forza-lavoro, utilizzando un mezzo dato, produce un oggetto. Questa modificazione ha un risultato: un bene che serve a un certo uso, che soddisfa un particolare bisogno. È l’aspetto concreto del lavoro, che crea un oggetto utile, che ha un’utilità, un valore d’uso, con la sua funzione specifica (dato che l’utilità è una nozione sociale, che quindi ha un senso soltanto nella società in cui l’oggetto viene prodotto). Questo aspetto è l’unico conosciuto dalla comunità primitiva, per la quale non esiste che una sola attività sociale, quella che consiste nel creare e trasformare la vita. Il rapporto è immediato tra l’individuo e i valori d’uso, e tra gli individui stessi. In una certa misura, non c’è addirittura differenza tra la famiglia e la società: la famiglia riunisce tutti quelli che sono nel gruppo (famiglia estesa alla consanguineità), almeno ad un certo stadio dell’evoluzione.

Il progresso tecnico genera un plusprodotto, che segna il primo processo produttivo: si comincia a produrre più di quel che è necessario alla sopravvivenza. Questo plusprodotto pone un problema pratico alla comunità dal momento in cui raggiunge un certo volume, perché il suo sviluppo non è possibile che se: l) le attività si specializzano all’interno della comunità, e se: 2) le diverse comunità fanno circolare tra di loro i rispettivi plusprodotti.

Questa circolazione non può effettuarsi che attraverso lo scambio, cioè attraverso la presa in considerazione, non nella coscienza, ma nei fatti, di quel che c’è di comune tra i vari beni da far passare da un punto all’altro. Ora i prodotti dell’attività umana hanno tra di loro l’elemento comune di essere tutti il risultato di una certa quantità di energia, individuale e sociale allo stesso tempo, contrassegnata da un fenomeno ben visibile, osservabile: l’usura della forza e del mezzo di lavoro. In questo consiste il carattere astratto del lavoro, il quale non soltanto produce un oggetto utile, ma è anche consumo di energia, di energia sociale. In effetti il lavoro è sociale per la sua stessa natura. Permettendo progressivamente all’uomo di accordarsi con la natura, gli permette anche di sviluppare il suo rapporto con gli altri uomini. L’«attore» della storia è dunque sempre la società, prodotto dell’interazione delle azioni degli uomini. È la società a trasformare il suo ambiente: questa attività non è possibile che a condizione di consacrarvi una data quantità di tempo di lavoro, indipendentemente dal carattere concreto e utile e dalla qualità del risultato ottenuto. Il valore di un bene, a prescindere dall’uso che se ne può fare, è la quantità di lavoro astratto che esso contiene, cioè la quantità di energia sociale necessaria a riprodurlo. Questa quantità trova essa stessa la propria misura nel tempo e il valore di un bene è il tempo necessario socialmente, in media nella società considerata, a un dato momento della sua storia, per produrlo.

L’allargamento dell’attività e dei bisogni della comunità la conduce a non produrre più soltanto dei beni, ma anche delle merci, che hanno un valore d’uso, ma possiedono inoltre un valore di scambio. Il commercio, comparso in un primo momento tra le comunità, s’introduce in seguito all’interno delle stesse comunità, specializzando le attività, creando i mestieri, dividendo socialmente il lavoro. Ma proprio per questo il lavoro cambia natura. La relazione di scambio crea il lavoro come lavoro doppio, che è insieme produzione di valore d’uso e produzione di valore di scambio. Il lavoro cessa di essere integrato a tutta l’attività sociale per diventare un dominio specifico, separato dal resto dell’esistenza dell’individuo. In un primo momento c’è la separazione tra ciò che l’individuo fa per il gruppo e per se stesso, e ciò che fa per scambiarlo con altri beni di un’altra comunità. Questa seconda parte della sua attività è sacrificio, costrizione. In seguito la società si diversifica, e c’è una separazione tra lavoratore e non-lavoratore. A questo stadio la comunità non esiste più.

Il rapporto di scambio è indispensabile alla comunità, per permetterle di svilupparsi e di soddisfare i suoi bisogni crescenti. Ma, al tempo stesso, esso la distrugge in quanto comunità. Esso fa sì che non si consideri più l’altro – e se stesso – che come portatore di un bene. L’uso di quel che io produco allo scopo di scambiarlo non mi interessa più; conta solo l’uso del bene che otterrò come contropartita. Ma per colui che me lo vende, questo secondo uso non conta, perché egli non s’interessa che al valore d’uso di ciò che ho prodotto io. Ciò che è valore d’uso per l’uno non è che valore di scambio per l’altro, e viceversa. La comunità è scomparsa il giorno in cui i suoi (ex) membri non si sono più interessati gli uni agli altri che in funzione dell’interesse che avevano ad entrare in rapporto tra di loro. Non che l’altruismo sia stato il motore della comunità primitiva o debba divenire quello del comunismo. Semplicemente, in un caso il movimento degli interessi ravvicina gli individui e li fa agire in comune; nell’altro li individualizza e li obbliga a lottare gli uni contro gli altri. Con l’apparizione dello scambio nella comunità, il lavoro non è più la realizzazione di certi bisogni attraverso la collettività, ma il mezzo di ottenere dagli altri la soddisfazione di certi bisogni.

Pur promuovendo lo scambio da un lato, la comunità ha d’altronde tentato di frenarlo dall’altro. Essa ha cercato di distruggere il plusprodotto o di fissare delle rigide regole di circolazione dei beni. Ma alla fine, lo scambio ha prevalso, al termine di un’evoluzione lunga e complessa almeno in una gran parte del mondo. Laddove lo -scambio non ha potuto stabilirsi veramente da padrone, la società si è sclerotizzata, prima di essere infine distrutta dall’invasione della società mercantile (così è avvenuto dell’impero degli Incas, sotto i colpi degli Spagnoli alla ricerca del valore sotto forma di metallo prezioso: vedere più avanti a proposito della moneta).

Fin quando i beni non sono prodotti separatamente dunque fin quando non c’è divisione del lavoro, non si possono confrontare i rispettivi valori di due beni, dal momento che sono prodotti e ripartiti in comune. Non esiste ancora quel momento dello scambio, momento intermedio tra produzione e consumo, durante il quale i tempi di lavoro dei due prodotti si misurano l’un l’altro, poiché lo scambio si effettua di conseguenza. Perché il carattere astratto del lavoro si manifesti bisogna che i rapporti sociali lo esigano. Ciò non può avvenire che quando, con il progresso tecnico, diviene necessario allo sviluppo delle forze produttive che gli uomini si specializzino nei vari mestieri e scambino tra di loro i loro prodotti, e che delle comunicazioni si stabiliscano anche tra i gruppi, divenuti allora degli Stati. Queste due esigenze impongono che il valore, il tempo di lavoro medio, divenga lo strumento di misura. Alla base di questo meccanismo si trovavano dei rapporti pratici tra uomini i cui bisogni reali si sviluppavano.

Il valore non compare perché è più comodo misurare per mezzo del suo intermediario. Quando i rapporti sociali della comunità primitiva lasciano il posto a delle relazioni più estese, più diversificate, il valore nasce come mediazione indispensabile delle attività umane. È normale che il tempo di lavoro sociale medio serva come misura, poiché il lavoro vivo è allora l’elemento essenziale della produzione di ricchezze: esso rappresenta quel che c’è di comune tra tutti i lavori, che hanno in comune la qualità di consistere nell’impiego di forza-lavoro umana, indipendentemente dal modo particolare in cui questa forza-lavoro è stata impiegata. Corrispondendo al carattere astratto del lavoro, il valore ne rappresenta l’astrazione, il carattere generale, sociale, indipendentemente da tutte le differenze di natura tra gli oggetti che può produrre.

I progressi economici e sociali permettono all’organizzazione umana e alle sue capacità di associazione degli elementi del processo di lavoro – e in primo luogo del lavoro vivo – di prendere una nuova efficacia. Compare così la differenza (e l’opposizione tra lavoratore e non-lavoratore, tra coloro che organizzano il lavoro e coloro che lavorano. Le prime città e i grandi lavori di irrigazione nascono da questa moltiplicazione degli sforzi e dell’efficacia produttiva. Il commercio, come attività particolare, fa la sua comparsa: ormai ci sono degli uomini che vivono, non della produzione, ma della mediazione tra le varie attività delle unità di produzione separate. Molti beni non sono più che delle merci. Per essere utilizzati, per mettere in atto il loro valore d’uso, la loro capacità di soddisfare un bisogno, debbono essere comprati, soddisfare il loro valore di scambio. In caso contrario, benché esistano come oggetti materiali, concreti, dal punto di vista della società non esistono. Non si ha il diritto di servirsene. Questo fatto dimostra chiaramente che la merce, non è semplicemente una cosa, ma in primo luogo un rapporto sociale che obbedisce ad una logica propria, quella dello scambio, e non quella della soddisfazione dei bisogni. Il valore d’uso non è più che il supporto del valore. La produzione diventa un campo distinto da quello del consumo, come anche il lavoro in contrapposizione al non-lavoro. La proprietà s’introduce come inquadramento giuridico della separazione tra le attività, tra gli uomini, tra le unità di produzione. Lo schiavo è una merce per il suo proprietario, che compra l’uomo per farlo lavorare.

L’esistenza di un mediatore sul piano dell’organizzazione della produzione (scambio) si accompagna a quella di un mediatore sul piano dell’organizzazione degli uomini: lo Stato è indispensabile come forza capace di riunire gli elementi della società, in funzione degli interessi della classe dominante. È necessaria una unificazione perché la coerenza della comunità primitiva è stata distrutta. La società è dunque obbligata, per mantenere la sua coesione, a creare un’istituzione che si nutre di essa stessa. Ma anche lo scambio si manifesta in modo concreto, visibile, con la nascita della moneta. La astrazione che è il valore si materializza nella moneta, diventa anch’essa una merce, che indica la tendenza del valore a diventare indipendente, a distaccarsi da ciò da cui è nato e che rappresenta: i valori d’uso, i beni reali. In confronto al semplice scambio: una quantità x del bene a contro una quantità y del bene b, la moneta permette un’universalizzazione, per cui si può ottenere qualsiasi cosa, se si dispone del tempo di lavoro astratto cristallizzato in moneta. La moneta non è che del tempo di lavoro astratto dal lavoro e fissato in una forma durevole, misurabile, trasportabile. Essa manifesta in modo visibile, anzi palpabile, quel che C’è di comune tra le varie merci, non più tra due o più merci, ma tra tutte le merci possibili. Essa autorizza il suo possessore a ordinare il lavoro altrui, o a farlo fare, o a farlo cercare in capo al mondo. Attraverso la moneta si sfugge ai limiti dello spazio e del tempo. Se le comunità primitive erano isolate le une dalle altre, al punto che spesso non potevano neppure farsi la guerra, lo scambio, comparso in un primo momento al margine delle comunità, le distrugge. Nelle regioni più avanzate della terra, gli uomini si organizzano in stati insieme mercantili e guerrieri, e il commercio e la violenza procedono alla socializzazione del mondo. Una tendenza all’economia universale si manifesta, dall’antichità alla fine del Medioevo, intorno ai grandi centri, ma non può realizzarsi. La distruzione degli imperi e il ripiegarsi su di sé contraddistinguono i successivi fallimenti di questi tentativi. Solo il capitalismo crea, a partire dal Cinquecento, ma soprattutto nell’Ottocento e nel Novecento, l’infrastruttura necessaria a un’economia universale durevole.

In effetti il capitale è un rapporto di produzione che crea tra la forza-lavoro e il lavoro passato (accumulato dalle generazioni precedenti) una relazione completamente nuova e prodigiosamente efficace. Ma anche qui, come per la nascita dello scambio, il capitale non fa la sua comparsa in seguito a una qualche decisione o pianificazione, ma come prolungamento di rapporti sociali reali che, dopo il Medioevo, causano in alcuni Paesi dell’Europa occidentale uno sviluppo qualitativamente nuovo.

Il commercio aveva accumulato delle somme di denaro, sotto diverse forme, perfezionando già un sistema bancario e di credito. La possibilità di impiegarle esisteva, da un lato a causa delle prime macchine (tessili), dall’altro a causa delle migliaia di poveri costretti dalla perdita di ogni strumento di lavoro (agricolo o artigianale) ad accettare il nuovo rapporto di produzione: il salariato. Era necessario che preliminarmente l’industria ammassasse, ammucchiasse, immagazzinasse del lavoro sotto forma di macchine, poi di manifatture. Questo lavoro passato doveva essere messo in movimento dal lavoro vivo di coloro che non avevano potuto realizzare questa accumulazione di materie prime e di strumenti di lavoro. È su questa base che si stabilisce il capitale. Dalla dissoluzione della comunità primitiva alla fine del Medioevo (per l’Europa occidentale, perché altrove l’evoluzione è differente), c’è scambio di beni prodotti, a seconda delle epoche, da schiavi, da artigiani, da contadini liberi e, in scarsissima misura, da salariati. Verso il Quattrocento sono veramente oggetti di commercio il plusprodotto della piccola produzione contadina e alcuni prodotti fabbricati (armi, vestiti). Ma la produzione non è fatta in funzione dello scambio, né è da esso regolato. Il commercio da solo, la produzione mercantile semplice (in opposizione alla produzione mercantile capitalistica) non poteva fornire la stabilità, la durata che presuppone la socializzazione, l’unificazione del mondo. Al contrario, l’economia mercantile capitalistica è in grado di farlo, perché la produzione di cui s’impadronisce il capitale gliene dà i mezzi. Il capitale realizza effettivamente una vera sintesi dello scambio e della produzione.

Lo schiavo non vendeva la sua forza-lavoro: il proprietario acquistava la persona stessa dello schiavo e lo metteva al lavoro. Con il capitale sono i mezzi di produzione che comprano il lavoro vivo che li mette in movimento. Il ruolo del capitalista non è trascurabile, ma secondario: egli è innanzitutto il funzionario del capitale, il comandante del lavoro sociale. Proprio per questo ciò che è in primo piano, è lo sviluppo del lavoro passato attraverso il lavoro vivo. Investire, accumulare, queste sono le parole d’ordine del capitale (così lo sviluppo prioritario dell’industria pesante nei Paesi cosiddetti socialisti non fa che segnalarvi la costruzione del capitalismo). Ma non si tratta di accumulare dei valori d’uso. Il capitale non moltiplica le fabbriche, le ferrovie ecc. che per accumulare del valore. Il capitale è in primo luogo una somma di valore, di valore astratto cristallizzato sotto forma di denaro, di fondi finanziari, di titoli, di azioni ecc. e che cerca di accrescersi. Bisogna che una somma x di valore dia alla fine del ciclo una somma x + un profitto. Per mettersi in valore, il valore compra la stessa forza-lavoro. È la grande novità del capitale fare della forza-lavoro una merce.

Questa merce è assolutamente particolare, perché il suo consumo fornisce del lavoro, dunque del valore nuovo, al contrario dei mezzi di produzione che non danno che il loro proprio valore. C’è dunque una produzione di valore supplementare. Il segreto dell’origine della ricchezza borghese risiede in questo plusvalore, differenza tra il valore creato dal salariato nel corso del suo lavoro, e quello necessario alla riproduzione della sua forza. Il salario copre le spese di questa riproduzione; ma il salariato lavora una parte della sua giornata di lavoro gratuitamente, perché questa parte, corrispondente al valore nuovo che egli produce, non gli viene pagata. Il capitale intasca la differenza. È subito evidente che l’essenziale non sta nell’appropriazione di questo plusvalore da parte dell’individuo capitalista. Il comunismo non ha nulla a che vedere con l’idea che i lavoratori devono recuperare per sé stessi, tutto o in parte, il plusvalore. In primo luogo per una ragione molto semplice, quasi evidente: è necessario riservare una parte delle risorse alle spese di ammortamento, alle produzioni che si creeranno ecc. Ma soprattutto, l’importante non è la frazione di plusvalore intascata da un pugno di capitalisti. Se questi ultimi fossero eliminati, ma si conservasse l’insieme del meccanismo, distribuendo una parte del plusvalore ai lavoratori per investire il resto in attrezzature collettive1, la logica del sistema del valore giungerebbe sempre al risultato di sviluppare le produzioni permettendo un massimo di valorizzazione. Finché la società ha per base un meccanismo che mescola due processi, un processo di lavoro reale e un processo di valorizzazione, il valore domina la società. La novità del capitale è di aver conquistato la produzione, cosa che ha avuto per effetto la socializzazione del mondo a partire dall’Ottocento, attraverso installazioni industriali, mezzi di trasporto, immagazzinamento e comunicazione rapida dell’informazione ecc. Ma nel ciclo del capitale la soddisfazione dei bisogni non è che un sottoprodotto, e non il motore del meccanismo. La valorizzazione è il fine: nel migliore dei casi la soddisfazione dei bisogni è un mezzo, perché bisogna pur vendere quel che si è prodotto.

L’impresa è il luogo e il centro di questa produzione capitalistica; ogni impresa, industriale o agricola, serve da punto di unificazione a tutta una somma di valore che cerca di accrescersi. Si tratta per l’impresa di fare dei profitti. Anche qui, la liquidazione comunista della legge del profitto non consiste nello sbarazzarsi di qualche «grosso» capitalista. Quel che importa, non sono i profitti personali che può fare un certo capitalista, ma la costrizione, l’orientamento imposto alla produzione e alla società da questo sistema. Tutta la demagogia sui ricchi e i poveri (come i temi delle «200 famiglie» prima della guerra, e della «Francia del denaro» – contrapposta alla Francia «del popolo») non ha altro risultato che quello di allontanare l’attenzione dal nodo centrale del problema. Il comunismo non consiste nell’impadronirsi del denaro dei ricchi, né, da parte dei rivoluzionari, nel distribuirlo ai poveri. Il tema della ripartizione si situa ancora sul terreno del capitale.

Le imprese sono in concorrenza tra di loro: ciascuna di esse affronta le altre sul mercato, Cioè disputa il mercato alle altre. Storicamente, abbiamo visto come avviene la separazione tra i vari aspetti dell’attività umana. Il rapporto di scambio contribuisce alla divisione in mestieri, che a sua volta facilita lo sviluppo del sistema mercantile. Però, come accade sovente anche ai giorni nostri, persino nei Paesi sviluppati, per esempio nelle campagne, non esiste ancora a questo punto una vera concorrenza, perché le attività sono ripartite stabilmente tra il fornaio, il calzolaio ecc. Nel capitalismo, non si tratta più soltanto di una divisione della società in corporazioni fondate sui vari mestieri, ma di una lotta permanente tra le diverse componenti dell’industria (e anche del settore improduttivo: su questo argomento, vedere più avanti). Ogni somma di valore non esiste che contro le altre. Ciò che l’ideologia definisce come «l’egoismo naturale dell’uomo» e la «lotta inevitabile di tutti contro tutti», in effetti non è che il complemento indispensabile di un mondo in cui è necessario battersi, in particolare per vendere quel che si è prodotto. La violenza economica, e la violenza armata che ne è il prolungamento, fanno parte del sistema capitalistico.

Un tempo la concorrenza ebbe un effetto positivo nella misura in cui ruppe i limiti dei regolamenti, delle costrizioni corporative e spinse il capitale a invadere il mondo. Ora essa è divenuta una fonte di spreco e di parassitismo, poiché conduce insieme a sviluppare le produzioni inutili o d’interesse secondario, perché permettono una valorizzazione più rapida, e a frenare le produzioni più importanti, se l’offerta e la domanda rischiano di entrare in contraddizione.

La concorrenza e la suddivisione della macchina produttiva in centri autonomi che costituiscono altrettanti poli rivali i quali cercano di accrescere le rispettive somme di valore. Nessuna «organizzazione» o «pianificazione» può metter fine a questa situazione, né alcun controllo. Quel che si manifesta nella concorrenza, non è la libertà degli individui, nemmeno quella dei capitalisti, ma la libertà del capitale. Quest’ultimo non può vivere che auto-fagocitandosi, distruggendo le sue componenti materiali (lavoro vivo e lavoro passato) per sopravvivere come somma di valore che si valorizza.

I diversi capitali concorrenti hanno ciascuno un tasso di profitto particolare. Ma i capitali si spostano da un settore all’altro alla ricerca di un tasso di profitto che sia il più elevato possibile. Quando un settore è saturo di capitale, la sua redditività si riduce e i capitali si trasferiscono in un altro settore (questa dinamica è modificata, ma non annullata, dalla costituzione di monopoli). Questo spostamento incessante dei capitali conduce alla stabilizzazione del tasso di profitto intorno ad un tasso medio per un’epoca e una società date. Ogni capitale ha tendenza ad essere rimunerato, non secondo il tasso di profitto che realizza nella propria impresa, ma secondo il tasso di profitto medio nella società del suo tempo, in proporzione alla somma di valore investita nella sua impresa. Non è dunque che ogni capitale sfrutti i suoi operai, ma l’insieme dei capitali sfrutta l’insieme della classe operaia. nel movimento dei capitali, il capitale agisce e si rivela come una potenza sociale, dominando l’insieme della società, e acquista così una certa coerenza malgrado la concorrenza che l’oppone a se stesso. Esso si unifica e diviene forza sociale, totalità relativamente omogenea nei suoi conflitti con il proletariato o con gli altri insiemi capitalistici (nazionali). Da questo momento il capitale organizza secondo i suoi interessi le relazioni e i bisogni dell’intera società. Questo meccanismo funziona all’interno di ogni Paese: il capitale costituisce il suo Stato e la sua nazione contro gli altri capitali nazionali, ma anche contro il proletariato (su questo argomento vedere più avanti). L’opposizione tra gli Stati capitalistici giunge a manifestarsi con le guerre, mezzo estremo per ciascun capitale nazionale di risolvere i propri problemi.

Non cambia nulla finché esistono delle unità di produzione che mirano ad aumentare le rispettive quantità di valore. Che cosa succede se lo Stato «democratico», «operaio» «proletario» ecc. prende tutte le imprese sotto il suo controllo, ma le conserva come imprese? O le imprese di Stato rispettano la legge del profitto e in questo caso non è cambiato nulla, oppure non la rispettano, senza per questo distruggerla, e in questo caso tutto va male. All’interno dell’impresa, l’organizzazione è razionale, metodica: il capitale impone il suo dispotismo ai lavoratori. All’esterno, sul mercato- in cui ogni impresa incontra le altre, non vi può essere ordine che attraverso la soppressione permanente e periodica del disordine, al prezzo di scosse e di crisi. Solo il comunismo può sopprimere questa anarchia organizzata, sopprimendo l’impresa come totalità separata dalle altre.

Da un lato il capitale ha socializzato il mondo. Ogni produzione tende ad essere il frutto degli sforzi del l’umanità intera. D’altro lato, il mondo resta diviso in imprese concorrenti, che cercano di produrre quel che è redditizio, e di produrre per vendere il più possibile. Ogni impresa cerca di valorizzare il suo capitale alle migliori condizioni possibili. Ogni impresa tende a produrre più di quel che il mercato possa assorbire, e spera di vendere malgrado tutto, e che solo i concorrenti soffriranno di sovrapproduzione.

Ne risulta uno sviluppo delle attività destinate ad aiutare la vendita. I lavoratori improduttivi, manuali o intellettuali, che fanno circolare il valore, aumentano in proporzione di quelli, manuali o intellettuali, che producono il valore. La circolazione di cui intendiamo parlare non è lo spostamento fisico dei beni. Il settore dei trasporti produce effettivamente del valore, perché il semplice fatto di far passare un bene da un luogo ad un altro vi aggiunge del valore, corrisponde ad un cambiamento reale del suo valore d’uso: quando un bene è ormai disponibile in un luogo completamente diverso da quello della sua fabbricazione, questo aumenta evidentemente la sua efficacia, il suo effetto utile. La circolazione del valore può non corrispondere ad alcun spostamento reale dell’oggetto cui si riferisce, come ad esempio se esso cambia di proprietario pur rimanendo in un magazzino: però, attraverso questa operazione, sarà stato comprato o venduto. Le difficoltà di vendita, di realizzazione del valore del prodotto sul mercato, obbligano a creare un meccanismo molto complesso, bancario, di credito, assicurativo e anche pubblicitario. Il capitale sviluppa con questo un immenso parassitismo, che inghiotte una parte enorme (e crescente) delle risorse globali in spese di gestione e di amministrazione del valore. La contabilità, necessaria in ogni organismo sociale sviluppato, è così divenuta un insieme di meccanismi rovinoso e burocratico, che soffoca la società e i bisogni reali invece di facilitare la loro soddisfazione. Nello stesso tempo il capitale si concentra, si centralizza, tende al monopolio. Questa doppia tendenza, all’accrescimento delle spese improduttive e alla formazione di monopoli, ha insieme il risultato di rendere meno acuto il problema della sovrapproduzione e quello di aggravarlo. Il capitale non può uscire da questa situazione altro che per mezzo delle crisi periodiche, che regolano momentaneamente la questione riadattando l’offerta alla domanda (alla domanda solvibile, unicamente, perché il capitalismo non conosce che un modo di far circolare i beni: la compravendita; poco gli importa che la domanda reale, i bisogni, non sia soddisfatta: il capitale crea in realtà una sottoproduzione in rapporto ai bisogni reali che esso non soddisfa).

La crisi capitalistica è qualcosa di più che una crisi della merce. È una crisi che lega in maniera indissolubile la produzione e il valore, ma in modo tale che la produzione resta al servizio del valore. La si può paragonare alle crisi precapitalistiche, a certe crisi durante l’«Ancien régime» in Francia, per esempio. Allora si aveva una caduta della produzione agricola, provocata da cattivi raccolti. I contadini compravano meno prodotti industriali (vestiti) e l’industria – ancora debole – era in difficoltà. La crisi aveva in questo caso per base un fenomeno naturale, climatico. Ma le speculazioni dei mercanti sul prezzo del grano li inducono a farne incetta, per far salire i prezzi, cosa che causa qua e là situazioni di carestia. La sola esistenza della merce e del denaro permette la crisi: c’è una separazione, materializzata nel tempo, tra l’acquisto e la vendita. Per il commerciante, e per il denaro che cerca di aumentare di volume, l’acquisto e la vendita del grano sono due operazioni distinte, è il tempo che le separa è da determinarsi in funzione del profitto da realizzare. In questo intervallo tra produzione e consumo, degli uomini muoiono di fame.

Ma il meccanismo mercantile e il valore non vengono che ad amplificare una crisi nata da condizioni naturali. Finché si riscontrano simili fenomeni, il contesto sociale è precapitalistico, o è quello di un capitalismo ancora debole (come in Paesi quali la Cina e la Russia in cui i cattivi raccolti influiscono ancora gravemente sull’economia).

Al contrario la crisi capitalistica è il prodotto dell’unione forzata del valore e della produzione. Nel capitalismo il valore si è impadronito della produzione. Si produce come se le possibilità di assorbimento del mercato fossero illimitate. Si cerca d’altronde di estenderle, attraverso il credito, l’organizzazione del mercato, l’azione dello Stato, tutti mezzi che non trasformano il capitale, ma al contrario ne perfezionano le leggi. La saturazione del mercato porta come conseguenza il rallentamento della produzione, o addirittura delle distruzioni pure e semplici (prodotti agricoli distrutti o danneggiati), la disoccupazione, situazione conosciuta nel suo complesso a partire dall’ottocento e che non è per nulla scomparsa nella nostra epoca. Anzi, essa si è aggravata, nonostante alcuni miglioramenti particolari nei Paesi avanzati, se si tiene conto dello sviluppo delle forze produttive. Lo scarto tra quel che potrebbero dare le forze produttive in un altro quadro sociale, e quel che ne fa il capitale, non è mai stato più grande. Il capitale non è mai stato così distruttore e dissipatore come oggi.

Non soltanto, nelle crisi, il legarne tra valore d’uso e valore di scambio, tra l’utilità, il bisogno reale di un bene e la sua possibilità di essere scambiato, esplode e mostra che il mondo funziona perché le quantità di valore delle imprese possa» aumentare, e non per soddisfare i bisogni o arricchire i capitalisti; ma inoltre, se nelle crisi dell’«Ancien régime» c’era una difficoltà insormontabile (il raccolto disastroso) che i rapporti mercantili si limitavano ad aggravare, le crisi capitalistiche mostrano ora di non avere nessuna base razionale ineluttabile. La loro causa non è naturale ma sociale. Tutti gli elementi dell’attività industriale sono presenti: materie prime, macchine, lavoratori, ma restano inutilizzati o utilizzati parzialmente. È così evidente che essi non sono in primo luogo delle cose, degli oggetti materiali, ma un rapporto sociale. In questa società essi d esistono che se il valore li riunisce. Questo fenomeno non è k industriale », non deriva dalle esigenze tecniche della produzione; è un fenomeno sociale che deriva da rapporti di produzione, da rapporti sociali determinati, e che uno sconvolgimento di questi rapporti sopprimerebbe. Il capitale non è dunque un sistema di produzione che bisognerebbe strappare ad una minoranza di «sfruttatori» o che i lavoratori dovrebbero gestire da se stessi. È un rapporto sociale attraverso il quale l’intero apparato produttivo, e, nella misura in cui la produzione ha conquistato la società, l’edificio sociale nel complesso, sono sottomessi alla logica mercantile. Il comunismo non si limita a distruggere questo rapporto mercantile, ma proprio distruggendolo riorganizza e trasforma tutta la società (vedere oltre).

La rete delle imprese – luoghi e strumenti del valore – diventa una forza al di sopra della società. I bisogni (di ogni natura: alloggio, nutrimento, «bisogni culturali») non esistono che in funzione di questo sistema e sono addirittura modellati da lui. Non sono i bisogni che determinano la produzione ma la produzione – per la valorizzazione – che determina i bisogni. Si costruiscono ben più volentieri degli uffici o delle residenze secondarie piuttosto che delle abitazioni là dove sono più richieste. E le residenze secondarie restano vuote dieci mesi su dodici, come migliaia di appartamenti, perché solo i proprietari o gli inquilini, che hanno comprato l’abitazione o pagato il suo affitto, possono accuparla. L’agricoltura è in gran parte, su scala mondiale, trascurata dal capitale, che non la sviluppa che laddove può valorizzarsi, mentre la fame continua ad essere un problema ben risolto per centinaia di migliaia di uomini. L’automobile è un settore sviluppato in modo superiore ai bisogni nei Paesi avanzati, ma la sua redditività assicura il suo mantenimento malgrado tutte le incoerenze. I Paesi poco sviluppati non costruiscono fabbriche che quando queste consentono un tasso di profitto sufficiente. La tendenza alla sovrapproduzione esige una economia permanente di armamenti in quasi tutti i Paesi avanzati; queste forze distruttive servono, quando è necessario, a fare realmente la guerra, i cui effetti sono ancora un mezzo per lottare contro la tendenza alle crisi.

Lo stesso lavoro salariato è diventato un’assurdità ormai da dozzine d’anni. Esso costringe una parte dei lavoratori ad un lavoro di fabbrica che li abbrutisce; un’altra parte, molto importante, lavora nel settore improduttivo, che serve insieme a facilitare le vendite, a assorbire i lavoratori liberati dall’automazione e dalla meccanizzazione, e a fornire una massa di consumatori, mezzo supplementare di lotta anti-crisi. Il capitale si annette tutto quel che è scienza e tecnica: nel settore produttivo, esso orienta la ricerca verso lo studio di quel che procurerà il massimo profitto; nel settore improduttivo, sviluppa la gestione e le tecniche di utilizzazione del mercato. Così l’umanità tende a suddividersi in tre gruppi:

– i produttivi, spesso fisicamente liquidati dal loro lavoro;

– gli improduttivi che non servono a nulla o peggio;

– e la massa dei non salariabili dei Paesi poveri, che il capitale non riesce ad integrare in qualche modo, e tra cui centinaia di migliaia sono distrutte periodicamente in guerre prodotte direttamente o indirettamente dall’organizzazione capitalistica dell’economia mondiale.

Lo sviluppo di certi Paesi poveri è reale (Brasile), ma esso viene ottenuto soltanto al prezzo della distruzione totale o parziale delle antiche forme di vita, e si manifesta ad esempio con l’affollamento e la miseria delle città. Solo una minoranza della popolazione ha la «fortuna» di poter lavorare in fabbrica, il resto è sotto occupato o disoccupato.

Il capitale crea nello stesso tempo una rete di imprese che vive del profitto e per il profitto, prolungata e protetta dagli Stati divenuti strumenti anticomunisti, e un insieme di individui che costringe a sollevarsi contro di lui. Questa massa non è omogenea, ma troverà la sua unità nella rivoluzione comunista, senza che i suoi componenti svolgano tutti lo stesso ruolo. Ogni rivoluzione è il prodotto di bisogni reali, nati da condizioni materiali di esistenza divenute insopportabili. Così avviene per il proletariato, che il capitale stesso obbliga a comparire. Una gran parte della popolazione mondiale è costretta a vendere la propria forza-lavoro per vivere, perché non ha nessun mezzo di produzione a sua disposizione. Alcuni la vendono e sono produttivi, altri la vendono e sono improduttivi, altri infine non la possono vendere (il capitale non compra il lavoro vivo altro che quando può così valorizzarsi in una proporzione ragionevole), e sono esclusi dalla produzione, sia nei Paesi sviluppati sia in quelli poveri.

Se s’identificano proletario e operaio, lavoratore, allora non si vede quel che c’è di sovversivo nella condizione del proletario. Il proletariato è la negazione di questa società. Esso riunisce non i poveri, ma coloro che non dispongono di nessuna riserva e che non hanno da perdere che le proprie catene; coloro che non hanno niente, e che non si possono liberare altro che distruggendo tutto dell’ordine sociale attuale. Il proletariato

la dissoluzione della società attuale, perché la società gli rifiuta, per così dire, tutti i suoi aspetti positivi. Dunque esso è anche la sua propria distruzione. Tutte le concezioni (borghese classica, fascista, stalinista, di sinistra ed estremista) che fanno, a qualunque grado, l’elogio del proletariato in quanto tale, quale esso esiste attualmente, e lo mostrano in una luce positiva, sostenendo che afferma dei valori e che viene a rigenerare la società in crisi, sono controrivoluzionarie. La glorificazione dell’operaio è diventato una delle più efficaci manifestazioni e delle più pericolose mistificazioni del capitale. Al contrario, ogni volta che interviene, il proletariato dimostra che è il negativo della società attuale, e che non ha alcun valore da introdurvi, né alcun ruolo da giocarvi, se non un ruolo distruttore.

Il proletariato è un rapporto storico. Esso è in permanenza la distruzione del vecchio mondo allo stato potenziale, e passa allo stato attuale soltanto in un momento di tensione sociale, costretto dal capitale a divenire l’agente del comunismo. Il proletariato diviene sovversione della società costituita solo al momento in cui si unifica, in cui si costituisce in classe e si organizza, non per farsi classe dominante come a suo tempo la borghesia, ma per distruggere la società di classe: non vi è più allora che un solo agente sociale, l’umanità. Ma, al di fuori di questo momento conflittuale, e di quelli che lo precedono, il proletariato è ridotto al rango di un elemento del capitale, di un ingranaggio del suo meccanismo (ed è di questo suo stato che il capitale fa l’elogio).

Benché abbia ridotto in alcuni Paesi il numero degli operai che lavorano in fabbrica, lo sviluppo del capitale non ha annullato completamente il proletariato. È vero che un certo numero di lavoratori produttivi ha potuto essere integrato dal capitale e dal riformismo (pcf, cgt in Francia, per esempio). Inoltre se una parte dei lavoratori improduttivi è vicina agli operai come condizioni di lavoro, di salario e di vita, una parte se ne distacca, conquistata dal capitale, almeno provvisoriamente. È chiaro infine che una frazione dei non salariabili dei Paesi poveri non potrà intervenire efficacemente in un processo rivoluzionario, per ragioni di isolamento, arretratezza ecc., almeno durante una certa fase della lotta. Tuttavia, quel che è sicuro è che:

l) la rivoluzione sarà opera di elementi senza riserve usciti da questi tre sottogruppi del proletariato;

2) i lavoratori produttivi rivoluzionari giocheranno un ruolo decisivo (ma non esclusivo) nella misura in cui il loro posto nella produzione li pone meglio in grado – almeno all’inizio – di rivoluzionarla. (Vedere oltre sull’economia come arma.)

Così il proletariato delle fabbriche non perde in nulla il suo ruolo centrale, benché altri elementi vengano a spalleggiarlo nel corso della rivoluzione.

La rivoluzione comunista è un meccanismo che il proletariato mette in moto senza sapere di farlo (tuttavia la coscienza di quel che esso fa gli è preziosa per abbreviare questa fase e agire più efficacemente). Il proletariato è condotto a servirsi dell’arma che gli dà la sua funzione sociale – nel caso dei lavoratori produttivi. Per esempio, anche in un conflitto rivendicativo, il proletariato è indotto a occupare la fabbrica perché questo è per lui lo strumento normale di pressione, proprio nella misura in cui lui non dispone di riserve. Per vincere, la logica della sua azione lo obbliga ad entrare in contatto con le altre fabbriche, e, in una fase ulteriore, a rimettere lui stesso in moto la produzione, in rapporto con le altre fabbriche. Naturalmente il proletariato non può passare per le angustie della legge del valore, poiché non ha alcun controllo sul capitale come somma di valore: non ha alcun mezzo di servirsi del capitale finanziario, e non può utilizzare nessun altro mezzo che il processo di lavoro che è la sua funzione. Il proletariato fa così esplodere la natura doppia del capitale, che è insieme meccanismo di lavoro e meccanismo di valorizzazione. Parallelamente i bisogni reali a livello dei consumi correnti, dell’alloggio, dei trasporti ecc. provocano anche in questo settore la sparizione del rapporto sociale mercantile: alla fine sopravvivono soltanto l’utilizzazione e la circolazione dei valori d’uso.

La comunità primitiva era troppo povera per trarre partito dalle potenzialità del lavoro. In essa il lavoro è immediato, ciascuno agisce per il proprio immediato sostentamento. Il lavoro non si cristallizza, non si accumula in strumenti di produzione, non si trasforma in lavoro ammassato, passato. Quando questo diviene possibile, allora lo scambio è necessario: non si può far altro che misurare la produzione in lavoro astratto, in tempo di lavoro medio, allo scopo di farla circolare. Il lavoro vivo resta l’elemento essenziale dell’attività e il tempo di lavoro la misura necessaria. La moneta lo materializza.

Da questo deriva lo sfruttamento di alcune classi da par te di altre, l’aggravamento delle catastrofi naturali (vedi, supra, circa le crisi dell’«Ancien régime»). Da questo viene anche la nascita, il declino, la caduta di Stati e talvolta di imperi che non possono svilupparsi se non lottando contro altri. Talvolta vengono interrotte le relazioni di scambio tra le varie parti del mondo civilizzato, in seguito alla morte di uno o più imperi: può anche succedere che una di queste pause nello sviluppo duri dei secoli, durante i quali pare che l’economia ritorni indietro, verso l’economia di sussistenza.

In questi casi l’umanità non dispone di un apparato produttivo, sicché lo sfruttamento del lavoro vivo resta inutile, o addirittura rovinoso. Il ruolo del capitalismo è proprio di accumulare questo lavoro passato. L’esistenza di tutto questo complesso industriale, di tutto questo capitale fisso, prova che il carattere sociale dell’attività umana ha finito per materializzarsi in uno strumento che permette di creare, non un paradiso sulla terra, ma uno sviluppo che utilizzi per il meglio le risorse per soddisfare i bisogni, e che produca le risorse in funzione dei bisogni. Se questa infrastruttura è l’elemento essenziale della produzione, allora il ruolo regolatore del valore, che corrispondeva alla fase in cui il lavoro vivo era il principale fattore produttivo, perde tutto il suo senso, non è più necessario alla produzione. Il suo mantenimento è divenuto precario e catastrofico. Il valore, concretizzato dalla moneta sotto tutte le sue forme, dalle più semplici alle più complesse, è il risultato del carattere generale del lavoro, dell’energia al tempo stesso individuale e sociale che esso libera e consuma. Il valore resta quindi un mediatore necessario fino a che questa energia non ha creato un sistema produttivo globale su scala mondiale. In seguito esso diventa un intralcio.

Il comunismo è la scomparsa di una serie di mediazioni necessarie fino ad allora (malgrado le miserie che producono) per accumulare una quantità di lavoro morto sufficiente per poter infine fare a meno di esse. In primo luogo, il valore: è inutile avere un elemento esterno alle attività sociali per collegarle tra di loro e stimolarle. L’infrastruttura accumulata ha soltanto bisogno di essere trasformata e sviluppata; Il comunismo mette a confronto tra di loro i valori d’uso per decidere di sviluppare una certa produzione piuttosto che un’altra. esso non riduce le componenti della vita sociale ad un denominatore comune (il tempo di lavoro medio che contengono). Il comunismo organizza la sua vita materiale partendo soltanto dal confronto dei bisogni – cosa che non esclude conflitti in caso di fallimento.

Il comunismo è anche la fine di ogni elemento necessario all’unificazione della società: è la fine della politica. Non è né democratico né dittatoriale. Naturalmente. il comunismo è «democratico» se s’intende con questo termine il fatto che tutti s’incaricano delle attività sociali: e questo, non per volontà della gestione o principio democratico, ma perché l’organizzazione dell’attività è di norma una questione che riguarda i suoi membri. Ma, al contrario di quel che affermano i democratici, questo non è possibile altro che con il comunismo, ciò con la messa in comune di tutti gli elementi della vita, con la soppressione di ogni attività separata, di ogni produzione isolata. Questo risultato si può ottenere solo attraverso la distruzione del valore. Perché lo scambio tra le varie imprese esclude che la collettività possa prendere in mano la propria vita (e in primo luogo la vita materiale; in effetti lo scopo dello scambio e delle imprese è radicalmente opposto a quello degli uomini – che è di soddisfare i loro bisogni. L’impresa cerca innanzitutto di valorizzarsi e sopporta una sola direzione, quella che le permette di raggiungere meglio questo fine (ecco perché i capitalisti non sono altro che i funzionari del capitale). È l’impresa che dirige i suoi dirigenti. La soppressione del limite rappresentato dal l’impresa, la distruzione del rapporto mercantile che obbliga ciascuno a considerare gli altri soltanto come mezzi per guadagnarsi la sua vita, sono le sole condizioni di un’auto organizzazione degli uomini. Una volta realizzate queste condizioni, i problemi di gestione divengono secondari, e sarebbe assurdo volere che tutti, a turno, esercitino le attività di gestione. Il problema non si pone neppure più. La contabilità e l’amministrazione diventano attività come le altre, senza privilegi in un senso o nell’altro: tutti possono esercitarle, o non esercitarle.

Nel comunismo, avere una forza esterna agli individui per riunirli è inutile. Ecco una cosa che i socialisti utopisti, ad esempio, non hanno mai capito. Le loro società immaginarie, per quanto grandi siano i loro meriti e la loro forza visionaria, hanno quasi sempre bisogno di piani molto rigidi e di direttive quasi totalitarie. Essi cercano di creare un legame, che in realtà risulta naturalmente dall’associazione degli uomini in gruppo. Pretendono di evitare lo sfruttamento, l’anarchia, e organizzano in anticipo la vita sociale. Altri vorrebbero, per non cadere in questo dirigismo, lasciare che la società si faccia da sé sola. Il problema è altrove: solo rapporti sociali ben determinati, che poggino su un livello di sviluppo ben preciso della produzione materiale, rendono possibile e necessaria l’armonia tra gli individui (cosa che include dei conflitti: vedi sopra. Gli individui possono allora soddisfare i loro bisogni, ma soltanto attraverso la loro partecipazione automatica al funzionamento del gruppo senza essere per altro ridotti a semplici ingranaggi. Il comunismo non ha bisogno di riunire quel che prima era separato, e che ormai non lo è più.

Questo vale anche sul piano mondiale, e persino su quello universale. Gli stati e le nazioni, strumenti necessari dello sviluppo, sono ormai entità puramente reazionarie, e le divisioni che essi perpetuano sono un freno allo sviluppo: la sola dimensione possibile, oramai, è quella dell’umanità intera.

L’opposizione tra manuale e intellettuale, tra natura e cultura, era un tempo indispensabile. La separazione tra il lavoratore e l’organizzatore del lavoro ne moltiplicava l’efficacia. Lo sviluppo raggiunto al giorno d’oggi non ne ha più bisogno, e questa separazione è ormai soltanto un ostacolo che manifesta la sua assurdità m tutti gli aspetti della vita scolastica, universitaria, professionale, «culturale» ecc. Il comunismo distrugge la separazione tra una parte dei lavoratori, abbrutita dal lavoro manuale, e un’altra parte, inutile negli uffici.

Lo stesso capita per l’opposizione tra l’uomo e il suo ambiente naturale. Un tempo l’uomo non ha potuto socializzare il mondo che lottando contro la dominazione della «natura». Oggi è lui ad accerchiare e minacciare la natura. Il comunismo è riconciliazione dell’uomo e della natura.

Il comunismo è la fine dell’economia come settore particolare, luogo privilegiato da cui dipende tutto il resto, ma che tutto il resto fugge e disprezza. L’uomo produce e riproduce le sue condizioni di esistenza: a partire dalla dissoluzione della comunità primitiva, e nella forma più pura nel capitalismo, il lavoro, attività attraverso cui l’uomo si appropria dell’ambiente che lo circonda, è diventato una costrizione che si oppone al tempo del riposo, al piacere, alla «vera» vita. Questa fase era storicamente necessaria per creare il lavoro passato che permette di sopprimere questo asservimento. Con il capitale la produzione, in effetti produzione per la valorizzazione, è divenuta padrona del mondo. È la completa dittatura dei rapporti di produzione sulla società. Producendo, si sacrifica il tempo della propria vita per godere in seguito della vita, godimento quasi sempre senza rapporti con la natura del lavoro, divenuto un semplice mezzo per guadagnarsi la vita. Il comunismo dissolve i rapporti di produzione, li fonde nei rapporti sociali. Il comunismo non conosce più nessuna attività separata, un lavoro che si oppone al gioco. L’obbligo di fare lo stesso lavoro tutta la vita, di essere lavoratore manuale o intellettuale, scompare. Con il ruolo del lavoro accumulato che include e incorpora tutta la scienza e la tecnica, la ricerca e il lavoro, la riflessione e l’azione, l’insegnamento e l’attività diventano una cosa sola. Alcuni compiti possono essere a carico di tutti, e la generalizzazione dell’automazione trasforma completamente l’attività produttiva. Il comunismo d’altronde non predica il gioco contro il lavoro o il non-lavoro contro il lavoro. Queste nozioni limitate e parziali sono ancora delle realtà capitalistiche Il lavoro in quanto produzione-riproduzione delle condizioni di vita non soltanto materiali ma anche culturali, affettive ecc. è quel che caratterizza l’umanità.

L’uomo crea collettivamente i mezzi della sua esistenza, e li trasforma; egli non li riceve come dati dalle macchine, perché in questo caso l’umanità sarebbe ridotta allo stadio del bambino, che si accontenta di ricevere dei giocattoli di cui ignora l’origine, di cui l’origine per lui non esiste addirittura ti giocattoli ci sono, esistono, tanto basta). Allo stesso modo il comunismo non rende il lavoro perpetuamente lieto e gradevole. Anche l’attività eminentemente arricchitrice del poeta attraversa momenti faticosi o addirittura dolorosi. Il comunismo a questo riguardo non fa che sopprimere la separazione tra lo sforzo e il godimento, la creazione e la ricreazione, il lavoro e il gioco.

Il comunismo è l’appropriarsi, da parte dell’umanità, delle proprie ricchezze, tenendo ben fermo che questa appropriazione è anche e inevitabilmente una trasformazione da cima a fondo. Questo implica necessariamente la distruzione delle imprese in quanto unità separate e quindi la distruzione della legge del valore: non per socializzare il profitto ma per far circolare i prodotti tra i vari centri industriali senza passare attraverso la mediazione del valore. Questo non significa affatto che la rivoluzione comunista riprenderà tale e quale il sistema produttivo del capitalismo. Non si tratta di sbarazzarsi dell’aspetto «cattivo» del capitale (la valorizzazione) per conservarne l’aspetto buono (la produzione). Perché, come abbiamo visto, il valore e la logica del profitto impongono un certo tipo di produzione, sviluppando all’eccesso certi settori e trascurandone altri. Qualunque elogio dell’economia attuale, del proletariato attuale, (cioè come ingranaggio del capitale) delle scienze e delle tecniche attuali, non è altro che un elogio del capitale. Ogni esaltazione della produttività e della crescita economica, quali esistono in questo momento, non è che un inno in gloria del capitale.

Detto questo, per rivoluzionare la produzione, per liquidare l’impresa, la rivoluzione comunista è condotta naturalmente a servirsene. Esso è la sua leva essenziale, almeno durante una certa fase. Non si tratta di guadagnare terreno nelle fabbriche per restarvi chiusi e gestirle, ma per uscirne a collegarle tra di loro senza lo scambio, cosa che le distrugge in quanto imprese. Un tale movimento è accompagnato quasi automaticamente da un primo sforzo per ridurre, e poi sopprimere, l’opposizione città/campagna, e la separazione tra l’industria e le altre attività. Oggi l’industria soffoca nel proprio ambito, soffocando al tempo stesso gli altri settori.

Il capitale vive per accumulare valore: questo valore, lo fissa sotto forma di lavoro ammassato, passato. L’accumulazione, la produzione, diventano fine a se stesse. Tutto è loro subordinato: il capitale nutre i suoi investimenti di lavoro vivo. Parallelamente sviluppa il lavoro improduttivo, come abbiamo visto. La rivoluzione comunista è la rivolta contro questa assurdità: è inoltre una disaccumulazione, non per tornare indietro, ma per cambiare completamente la direzione della macchina, per rimetterla in piedi. Non si tratta più di mettere l’uomo al servizio dell’investimento, ma di fare il contrario. Su questo punto il comunismo è ugualmente opposto al produttivismo esasperato – di cui i Paesi cosiddetti socialisti e il Partito Comunista sono tra i migliori propagandisti – e all’illusione riformistica e umanistica di un possibile cambiamento all’interno del quadro attuale.

Il comunismo non è il prolungamento del capitalismo in una forma più razionale, più «efficace», più moderna, meno ingiusta, meno anarchica. Non prende tali e quali le basi materiali del vecchio mondo: è il loro rovesciamento. Solo la considerevole preponderanza del lavoro accumulato nel processo produttivo permette:

l) di non sfruttare più il lavoro vivo;

2) di non subordinare più la soddisfazione dei bisogni alla produzione di beni strumentali.

Solo il comunismo può sfruttare questa condizione creata dal capitale.

Il comunismo non è un insieme di misure da applicare dopo la presa del potere. È un movimento che esiste fin d’ora, non come modo di produzione (non vi possono essere isole comuniste nella società capitalistica), ma come tendenza generata da bisogni reali (vedi sopra a proposito dei senza-riserve). In un certo senso, il comunismo non sa neppure che cos’è il valore. Non è che un bel giorno ci sia una grande riunione di persone le quali si mettono a sopprimere il valore e il profitto. Il comunismo non cerca di distruggere il valore: modifica un rapporto di produzione, e questa azione liquida il sistema mercantile. Altro è il ruolo utile di coloro che hanno compreso teoricamente le grandi linee del movimento storico: il loro intervento accelera le cose.

Il meccanismo della rivoluzione comunista è prodotto dalle lotte. Esso sarà il normale sviluppo nel momento in cui la società costringerà tutti quegli elementi cui rifiuta ogni prospettiva a instaurare dei nuovi rapporti sociali. Se attualmente pare che un gran numero di lotte sociali sia privo di sbocchi, è proprio perché il solo prolungamento di queste lotte sarebbe il comunismo, checché ne pensino quelli che vi partecipano. Sul piano semplicemente rivendicativo, arriva spesso, e sempre di più, un momento in cui, per andare oltre, non ci sarebbe altra soluzione che lo scontro violento con le forze dello stato generalmente affiancate da quelle dei sindacati. In questo caso la lotta armata e l’insurrezione presuppongono necessariamente la messa in atto di un programma sociale, l’uso dell’economia come arma (vedi sopra sul proletariato). L’aspetto militare, per quanto grande sia la sua importanza, dipende dal contenuto sociale. Con il semplice trionfo militare sui suoi avversari, il proletariato, senza necessariamente saperlo, ma se lo sa ed ha la capacità di esprimerlo, di farlo sapere altrove, di dire ciò che fa, la sua azione è più forte – trasforma la società in senso comunista.

Fino ad oggi le lotte non hanno ancora mai raggiunto lo stadio in cui il loro semplice sviluppo militare avrebbe reso necessaria l’apparizione della società nuova. Nelle lotte sociali più importanti, in Germania tra il 1919 e il 1921, il proletariato, malgrado la violenza della guerra civile, non ha raggiunto questo livello. Ma il programma comunista era il sostrato di quei confronti di forze, che restano incomprensibili senza di esso. La borghesia seppe servirsi dell’arma dell’economia, nel senso dei suoi interessi naturalmente, utilizzando ad esempio la disoccupazione per dividere gli operai. Il proletariato ne fu incapace, e condusse la lotta con mezzi esclusivamente militari – giungendo fino a creare un’Armata rossa nella Ruhr nel 1920 – senza utilizzare l’arma fornitagli dalla sua funzione sociale.

In un altro contesto, certe rivolte della minoranza negra negli Stati Uniti hanno abbozzato una trasformazione sociale, ma soltanto al livello della distruzione della merce, e non del capitale stesso. Questi negri non erano che una parte del proletariato, e spesso, in quanto esclusi dalla produzione, non avevano neppure la possibilità di servirsi dell’arma della lotta economica. Essi restavano fuori dalle imprese. La rivoluzione comunista implica al contrario – tra altri compiti – un’azione che parta dall’impresa, per distruggerla in quanto unità separata. Le rivolte negre si sono mantenute al livello del consumo e della distribuzione. La rivoluzione colpirà il cuore del sistema, il centro dove viene prodotto il plusvalore. Ma di quest’arma si servirà soltanto per distruggerla.

I senza-riserve fanno la rivoluzione, costretti a instaurare i rapporti sociali che affiorano nella società attuale. Questa rottura suppone necessariamente una crisi, che d’altra parte può anche non essere dello stesso tipo di quella del 1929, contrassegnata da una gigantesca paralisi economica. In ogni caso, per unificare i diversi elementi in rivolta contro il lavoro salariato, bisogna che la società conosca delle difficoltà abbastanza gravi da non poter più isolare le lotte le une dalle altre. La rivoluzione comunista non è la somma dei movimenti attuali immediati, né la loro metamorfosi per l’intervento di un’«avanguardia». Essa presuppone una scossa sociale, un attacco del capitale a diversi gradi, contro i «senza-riserve», che insieme amplificano quantitativamente e modificano quantitativamente la loro azione. Naturalmente questo meccanismo è possibile solo su scala mondiale, e almeno all’inizio, in parecchi Paesi avanzati.

Da tutto quel che precede risulta chiaro che la rivoluzione e la società comunista non sono questione di organizzazione, né di «potere» della classe operaia. Volere d’altronde la dittatura del proletariato quale esso esiste attualmente è un’assurdità. Come è impossibile che tutti prendano in mano l’attività sociale finché regna il valore e il suo strumento: l’impresa; così il proletariato quale si presenta attualmente nell’economia è per definizione incapace di dirigere o di gestire checchessia. Esso non è altro che un ingranaggio del meccanismo di valorizzazione, subisce la dittatura del capitale. Di conseguenza la dittatura del proletariato quale esso esiste in questo momento, non può essere che la dittatura dei rappresentanti del proletariato, cioè dei capi dei sindacati e dei partiti operai. Nella sua brutalità, la dottrina ufficiale dei Paesi dell’Est, secondo la quale la dittatura del proletariato s’identifica con quella del partito, è più lucida e più franca della teoria di certi «rivoluzionari

che credono possibile una gestione operaia pur conservando i fondamenti dell’economia attuale.

La rivoluzione non è un problema di organizzazione. Tutte le teorie sul «governo dei lavoratori» e sul «potere operaio» non fanno che proporre delle scappatoie, delle altre soluzioni alla crisi del capitale. La rivoluzione è in primo luogo una trasformazione della società, cioè di ciò che costituisce i rapporti esistenti tra gli uomini, e tra gli uomini e i loro mezzi di sussistenza. I problemi di organizzazione, di «capi», sono secondari: essi dipendono da quel che fa la rivoluzione. Questo vale sia per la messa in moto della rivoluzione comunista, che per il funzionamento della società che ne risulta. La rivoluzione non sopravviene il giorno in cui il 51% degli operai è rivoluzionario, e non mette in piedi per prima cosa un apparato di decisione e di gestione. È il capitalismo, invece, che non riesce a venire a capo delle questioni di gestione e di «capi». La forma d’organizzazione della rivoluzione comunista, e di ogni movimento sociale, deriva dal suo contenuto. Il modo in cui il partito, organizzazione della rivoluzione, si costituisce e agisce, dipende dai compiti da portare a termine.

Nell’Ottocento, e anche al momento della prima guerra mondiale, le condizioni materiali del comunismo erano ancora da creare, almeno in certi Paesi (la Francia, l’Italia erano allora poco industrializzate, per non parlare della Russia). La rivoluzione comunista avrebbe dunque dovuto in un primo tempo sviluppare le forze produttive, mettere al lavoro i piccolo-borghesi, generalizzare il lavoro industriale, secondo la regola: chi non lavora non mangia (formula da applicarsi naturalmente soltanto a chi è in grado di lavorare). Il progresso economico ha in seguito svolto questo compito. Ora le basi del comunismo esistono. Non si tratta più di mandare gli improduttivi in fabbrica, ma piuttosto di creare le basi di una nuova industria, qualitativamente diversa dalla precedente, accentuando quel che il capitale frena e orienta nel senso del profitto: l’importanza del capitale fisso, il ruolo della scienza e della tecnica, la ricerca. Un insieme di compiti di trasformazione e di formazione s’impone oggi alla rivoluzione comunista. La costrizione al lavoro lascerà il posto alla trasformazione delle condizioni di lavoro. Per quel che riguarda i Paesi sottosviluppati, la liquidazione dello scambio e del profitto permette insieme di soddisfare i bisogni più urgenti e di regolare poi la questione agraria e di sviluppare l’industria in condizioni diverse da quelle sperimentate nei Paesi oggi avanzati. Si tratta, su scala mondiale, di un movimento che è insieme di accumulazione e di disaccumulazione, di sviluppo e di orientamento delle forze produttive verso la soddisfazione dei bisogni.

Il comunismo non è soltanto un sistema sociale, un modo di produzione, che nascerà in futuro, a partire dalla rivoluzione comunista. Questa rivoluzione è in effetti l’affrontarsi di due mondi: da una parte tutti coloro che si trovano respinti, esclusi da ogni profondo godimento, e talvolta addirittura minacciati nella loro esistenza fisica, uniti tutti tra di loro dall’obbligo di entrare in rapporto gli uni con gli altri per agire, per vivere, per sopravvivere; dall’altra l’insieme di un’economia socializzata su scala mondiale, tecnicamente unificata, ma divisa in unità costrette ad opporsi l’una all’altra per rispettare la logica del valore che li unisce e che non indietreggia davanti ad alcuna distruzione per sopravvivere in quanto tale.

Il mondo delle imprese, attuale cornice delle forze produttive, è dotato di una vita propria; si è costituito in forza autonoma e sottomette alle sue leggi il mondo dei bisogni reali. La rivoluzione comunista è la distruzione di questa sottomissione. Il comunismo è lotta contro questa sottomissione, e in questo senso le si è opposto fin dagli inizi del capitalismo, ed anche prima, senza possibilità di successo.

Così come l’umanità ha in un primo momento attribuito alle sue idee, alla sua visione del mondo, un’origine esterna, credendo che l’essenza dell’uomo risiedesse, non nei suoi rapporti sociali, ma nel suo legame con un elemento esterno al mondo reale (Dio) di cui l’uomo non è che un prodotto; allo stesso modo l’umanità, nel suo sforzo di appropriazione, di adattamento nei confronti del mondo circostante, avrà dovuto in un primo momento creare un mondo materiale, un complesso di forze produttive, un’economia, un mondo di oggetti che la schiaccia e la domina, prima di potersene appropriare e di trasformarlo, adattandolo ai suoi bisogni.

La rivoluzione comunista non è che il prolungamento, il superamento anche, dei movimenti sociali attuali. Le discussioni sul comunismo si pongono generalmente su di un terreno sbagliato: in esse ci si domanda quel che si farà dopo la rivoluzione. Non si collega mai il comunismo a quel che succede nel momento in cui se ne parla. C’è una rottura: si fa la rivoluzione, poi si fa il comunismo. In realtà il comunismo è il prolungamento di bisogni reali che si manifestano fin d’ora, ma che non trovano la loro vera soddisfazione perché l’attuale situazione lo impedisce. Esiste già fin d’ora tutto un insieme di pratiche, di gesti, anche di atteggiamenti, comunisti: essi esprimono non soltanto un rifiuto globale del mondo attuale, ma soprattutto uno sforzo per costruirne un altro. Nella misura in cui questo fine non viene raggiunto, non si vedono che i limiti, che la tendenza, e non il suo prolungamento possibile (i «gauchisti» servono proprio a teorizzare questi limiti come il fine del movimento, e quindi a rinforzarli). Nella negazione del lavoro dell’operaio specializzato (os), nella lotta degli sfrattati che occupano un appartamento o un locale vuoto, appare la prospettiva comunista, lo sforzo di creare una cosa veramente diversa, non a partire da un rifiuto puro e semplice del mondo attuale (hippy), ma utilizzando, trasformando quel che questo mondo produce, spreca. Questa cosa diversa è nascosta dentro queste lotte, qualsiasi cosa pensino e vogliano coloro che vi partecipano, e qualsiasi cosa affermino i «gauchisti» che vi prendono parte e che le teorizzano. Tali movimenti saranno ulteriormente condotti a prender coscienza dei loro atti, a comprendere quel che fanno per farlo meglio.

Per quelli che già d’ora si pongono la questione del comunismo, non può esser questione di intervenire in tutte queste lotte per apportarvi il messaggio comunista, proponendo a queste azioni limitate di volgersi alla «vera» attività comunista. Non si tratta di apportare certe parole d’ordine ma in primo luogo di mostrare la ragione e il meccanismo di queste lotte, di mostrare quel che saranno costrette a fare. Questa azione non ha senso che attraverso una partecipazione reale a tali movimenti, senza attivismo, ma ogni volta che è possibile. Questo non significa l’abbandono, da parte di quelli che vi si dedicano, dell’attività propriamente teorica, di ricerca e di esposizione. Non è stato ancora detto tutto e, per esempio, questo testo e altri, non sono che approcci al problema. Detto questo. c’è un certo modo di fare della teoria che conduce a non entrare mai in contatto con il movimento sociale reale; in ogni modo questo non è un problema, e l’attività comunista distinguerà essa stessa questi due modi di essere.

Dal punto di vista negativo, tutto quel che serve a demolire le varie mistificazioni del capitale, che venga dallo Stato, dal Partito Comunista, dai «gauchisti» è ugualmente una pratica comunista, sia che questa propaganda si faccia con le parole, con dei testi o con gesti. L’attività teorica è pratica. Da un lato, non bisogna fare nessuna concessione ideologica. Ma d’altra parte il solo modo di portare avanti il programma e di permettere al comunismo teorico di svolgere il suo ruolo pratico, è quella di partecipare all’agitazione e all’unificazione che i movimenti sociali intraprendono da varie parti. A suo modo, il comunismo è già passato all’attacco.

 

(aprile 1972)

 

 

Note

1 È quel che il Partito Comunista dice che farebbe se fosse al potere.