Capitalismo e comunismo
Jean Barrot
supplemento
a «Le
Mouvement Communiste», n. 3
Il
comunismo non è un programma da realizzare o da far realizzare, bensì un
movimento sociale. Coloro che sviluppano o difendono il comunismo teorico hanno,
rispetto al resto dell’umanità, solo il vantaggio di una comprensione e di
una capacità di espressione più chiare e rigorose; ma anch’essi, proprio
come gli altri che non si occupano specificamente della teoria, hanno il bisogno
pratico del comunismo. In questo senso essi non hanno alcun privilegio, non sono
i portatori del sapere che innescherà il processo rivoluzionario, ma
d’altronde non hanno alcun timore di diventare dei «capi» esponendo le loro
concezioni. La rivoluzione comunista, come ogni altra rivoluzione, è il
prodotto di bisogni e di condizioni di esistenza reali. Si tratta di mostrarle,
di mettere in luce un movimento storico.
Il
comunismo non è un ideale da realizzare: esso esiste fin d’ora, non come
società già istituita, ma come lo sforzo e il compito di preparare tale società.
È il movimento che tende ad abolire le condizioni di esistenza determinate dal
lavoro salariato, e che effettivamente le abolisce attraverso la rivoluzione. La
discussione sul comunismo non è una discussione accademica. Non è un dibattito
su quel che si farà domani. Essa sbocca inevitabilmente su di un insieme di
compiti immediati e lontani di cui fa parte e di cui non costituisce che un
aspetto, uno sforzo di comprensione teorica. D’altronde questi compiti si
rivelano più agevoli, più efficaci, se si risponde alla domanda: Dove stiamo
andando?
L’affermazione
di ciò che è il comunismo non è innanzitutto una confutazione degli altri a
rivoluzionari» (pcf, gruppetti
ecc.). Perché su questo terreno non li si può prendere sul serio. Il Partito
Comunista non ha programma, non è che una variante del programma del capitale,
variante che conserva tutti i tratti essenziali del mondo attuale, a cominciare
dal lavoro salariato. È molto più efficace mostrare la sua funzione piuttosto
che cercar di demolire punto per punto il suo programma. Non si tratta qui di
opporre delle idee giuste a delle idee sbagliate. Polemizzare con il PC sulla
sua «concezione del socialismo», è ancora trattarlo come un membro,
degenerato sì, ma pur sempre un membro, della famiglia rivoluzionaria. Del
resto i «gauchisti» non smettono di criticare il Partito Comunista, senza però
mai mostrare chiaramente la sua funzione,
il suo ruolo semplicemente controrivoluzionario, che è quello di uno tra i
migliori difensori del capitale. Il problema non è che il programma del Partito
Comunista non sia comunista, ma che è capitalista.
Le
spiegazioni presentate in questo testo non sono nate semplicemente da un
desiderio di chiarificazione. Esse non esisterebbero in questa forma, e un certo
numero di persone non si sarebbero riunite per raccoglierle e presentarle, se
attualmente la società, attraverso le sue contraddizioni, attraverso le lotte
sociali che la dilaniano. non mostrasse la nuova società in formazione nelle
viscere della vecchia, e non imponesse di prenderne coscienza.
Se
si considera rapidamente la società moderna, ci si accorge che per vivere la
grande maggioranza degli individui sono costretti a divenire dei salariati, a
vendere la propria forza-lavoro. L’insieme delle qualità fisiche e
intellettuali che esistono nel corpo di ciascuno, nella sua propria personalità,
e che li deve mettere in movimento per produrre delle cose utili, non può
essere impiegato che a condizione di vendersi in cambio di un salario.
L’esistenza dello scambio e del salariato sembra una cosa normale, una cosa
che «va da sé». Tuttavia per l’introduzione del lavoro salariato furono
necessarie delle pressioni, delle violenze, ed essa fu accompagnata da lotte
sociali. La separazione tra il lavoratore e i mezzi di produzione, divenuta oggi
semplicemente e brutalmente un fatto, accettato come tale, è in realtà il
prodotto di tutta una evoluzione, e non poté compiersi a suo tempo che
attraverso la forza. In Inghilterra, nei Paesi Bassi, in Francia, a partire dal
‘500, la violenza economica e politica espropriò i piccoli artigiani e
contadini, represse il pauperismo e il vagabondaggio, costrinse i poveri al
lavoro salariato. Nel ‘900, a partire dagli anni trenta, la Russia dovette
promulgare un codice del lavoro che arrivava a prevedere la pena di morte per
poter organizzare in qualche decennio il passaggio di milioni di contadini al
lavoro industriale salariato. Di conseguenza i fatti apparentemente più
normali, cioè che ciascuno non disponga che della propria forza-lavoro, che per
vivere debba venderla ad un’impresa, che tutto sia merce, che i rapporti
sociali ruotino attorno allo scambio, tutto ciò in realtà non è che il
risultato di un processo violento e prolungato.
Al
giorno d’oggi la società, mediante il suo insegnamento, la sua vita
ideologica e politica, maschera i rapporti di forza e la violenza passata e presente su cui questa
situazione è fondata. Essa dissimula insieme la propria origine e il meccanismo
del proprio funzionamento. Tutto appare come il risultato di un libero contratto
in cui l’individuo portatore e venditore della propria forza-lavoro incontra
l’impresa. L’esistenza della merce è presentata come il fenomeno più
comodo e più naturale che ci sia. Tuttavia essa si manifesta regolarmente
attraverso catastrofi, grandi e piccole: qui si distruggono dei beni per
mantenerne i prezzi, là non si utilizzano le possibilità esistenti, mentre
poco lontano i bisogni elementari non vengono ancora soddisfatti. Ora, non
soltanto i due pilastri della società capitalistica, lo scambio e il lavoro
salariato, sono fonte di disastri periodici e permanenti, ma inoltre essi hanno
creato – ed è là il loro ruolo storico – le condizioni di possibilità di
un’altra società. Soprattutto essi costringono una parte importante del mondo
attuale a sollevarsi contro di loro, a realizzare questa possibilità: il
comunismo.
Per
comprendere bene questo, si può inquadrare storicamente la società esistente,
vedere da dove viene e dove va. I legami tra i membri di una società e i legami
tra tutti gli elementi che la compongono (individui, strumenti di produzione,
istituzioni, idee) sono transitori, essendo insieme l’effetto di
un’evoluzione passata e la causa di una trasformazione futura. I rapporti che
uniscono tra di loro tutti gli elementi della società sono presi in una
dinamica: il loro presente diviene chiaro solo alla luce del loro passato e del
loro avvenire.
Per
definizione ogni attività umana è sociale. La vita non esiste che come vita di
gruppo, attraverso l’associazione degli individui nelle forme più diverse. La
stessa riproduzione delle condizioni di esistenza, innanzitutto, è il risultato
di un’attività collettiva: sia la riproduzione degli esseri umani tra di
loro, che la riproduzione dei loro mezzi di sussistenza. Ciò che caratterizza
in effetti la società umana, è il fatto che essa produce e riproduce le
condizioni materiali della sua esistenza. L’animale può talvolta servirsi di
uno strumento: ma solo l’uomo fabbrica i
propri strumenti. Tra l’individuo o il gruppo, e la soddisfazione dei bisogni,
intervengono la produzione e il lavoro, che modificano continuamente le maniere
di agire e di trasformare l’ambiente. Altre forme di vita – la società
delle api, ad esempio – fabbricano le loro condizioni materiali ma, almeno per
quanto può valutare la osservazione umana, la loro evoluzione pare ormai
conclusa. Il lavoro, al contrario, è l’appropriazione, l’assimilazione
sempre perfezionata dell’ambiente da parte dell’uomo. Il rapporto tra gli
uomini e la natura è anche nello stesso tempo un rapporto degli uomini tra di
loro questi rapporti inter-umani dipendono dai rapporti di produzione. Nello
stesso modo gli uomini producono anche le idee, il modo in cui si rappresentano
il mondo, e l’evoluzione di entrambi.
Con
la trasformazione dell’attività si trasforma di pari passo il contesto
sociale in cui essa si esercita, l’insieme dei rapporti tra gli uomini. I
rapporti di produzione in cui entrano gli uomini sono indipendenti dalla loro
volontà: ogni generazione si confronta con le condizioni tecniche e sociali
ereditate dalle generazioni precedenti. Ma essa può anche trasformarle, nei
limiti concessi dal livello allora raggiunto dalle forze produttive materiali.
Propriamente parlando, l’entità chiamata «la Storia» non fa niente: sono
gli uomini, attraverso il giuoco dei loro rapporti reali, che fanno la storia,
ma soltanto nell’ambito delle possibilità della loro epoca. Questo non vuol
dire che ogni cambiamento importante delle forze produttive sia accompagnato
immediatamente e automaticamente da un cambiamento corrispondente dei rapporti
di produzione. La società nuova generata dalla vecchia non può apparire e
trionfare se non attraverso una rivoluzione che distrugga tutto l’edificio
politico e ideologico che permetteva fino ad allora la sopravvivenza dei
rapporti sociali ormai superati.
Tutti
i rapporti di produzione sono storici, quindi transitori. Un negro è un negro:
è solo in particolari condizioni che diventa uno schiavo. Allo stesso modo, il
lavoro salariato è un tipo di rapporto tra gli individui, tra l’individuo e
la società, tra l’individuo e la produzione dei suoi mezzi di sussistenza.
Non è che un rapporto di produzione in tutta un’evoluzione storica. Malgrado
le miserie e le sofferenze che ha condotto con sé, esso ha svolto un ruolo
utile, ponendo le basi necessarie del proprio superamento. Dopo essere stato un
tempo una forma di sviluppo, il salariato non è ormai più, e da molto, che un
grave ostacolo, e persino una minaccia, alla semplice esistenza dell’umanità.
Quel che importa mostrare, al di là degli oggetti materiali, delle
fabbriche, delle macchine, degli operai che vanno ogni giorno a lavorarci,
dei prodotti che fabbricano, è la relazione sociale che si dissimula dietro a
tutto questo meccanismo, e la sua evoluzione possibile e necessaria.
Storicamente,
l’umanità si è dapprima riunita in gruppi relativamente autonomi e dispersi,
in famiglie (in senso largo: la famiglia raggruppava tutti quelli dello stesso
sangue), in tribù. In queste comunità primitive, nessuno produce più di
quanto consumi. Il livello delle forze produttive resta molto basso, e la
costituzione di riserve, di «stocks», è quasi impossibile. Per produzione,
bisogna qui intendere essenzialmente delle attività di caccia, di pesca, di
raccolta. I beni non sono prodotti per essere consumati dopo uno scambio, dopo
una messa sul mercato. La produzione è sociale immediatamente, non attraverso
la mediazione dello scambio. La comunità ripartisce – secondo delle regole
semplici, naturalmente – ciò che essa produce, e ciascuno riceve direttamente
ciò che essa gli dà, senza bisogno di andare a procurarselo. Non esiste
produzione individuale nel senso di una separazione tra gli individui, che un
termine intermedio, lo scambio, riunirebbe soltanto dopo la produzione,
attraverso il confronto dei vari beni prodotti ciascuno separatamente. Le
attività vengono decise – cioè, imposte al gruppo dalle necessità – ed
effettuate in comune, e i loro risultati vengono ripartiti allo stesso modo.
Non
esiste alcun intermediario tra la produzione e il consumo, né tra gli
individui, né tra gli individui e la società. La produzione non è
un’attività a parte, è integrata alla vita sociale di cui è difficile
distinguere le varie componenti: pratiche e legami della produzione si mescolano
a quelli di parentela, di rappresentazione del mondo («arte») ecc. Non
esistono, a parlare propriamente, né politica né economia. La produzione dei
mezzi di sussistenza è un atto sociale: non esistono mestieri.
L’organizzazione degli uomini è il prodotto dell’attività comune e non
c’è bisogno di alcuna istituzione particolare incaricata di riunirli: non
esistono una vita privata e una vita «pubblica» distinte tra di loro.
L’individuo in quanto tale non esiste. Questa società è totalitaria in
quanto in essa tutti gli aspetti della vita sono regolati automaticamente. Non
esistono gruppi rivali in seno alla comunità. Perché compaia una divisione tra
gruppi sociali contrapposti che si affrontano, è necessario che il livello
delle forze produttive si elevi fino al punto in cui l’uomo può produrre più
di quel che è necessario alla sua propria sussistenza. Solo allora sono
possibili la specializzazione, i mestieri, la divisione tecnica e sociale del
lavoro, le classi e la lotta di classe.
Nella
comunità primitiva, come in ogni società, il lavoro è un’attività di
trasformazione. Una certa forza-lavoro, utilizzando un mezzo dato, produce un
oggetto. Questa modificazione ha un risultato: un bene che serve a un certo uso,
che soddisfa un particolare bisogno. È l’aspetto concreto del lavoro, che crea un oggetto utile, che ha un’utilità,
un valore d’uso, con la sua funzione specifica (dato che l’utilità è una
nozione sociale, che quindi ha un senso soltanto nella società in cui
l’oggetto viene prodotto). Questo aspetto è l’unico conosciuto dalla
comunità primitiva, per la quale non esiste che una sola attività sociale,
quella che consiste nel creare e trasformare la vita. Il rapporto è immediato
tra l’individuo e i valori d’uso, e tra gli individui stessi. In una certa
misura, non c’è addirittura differenza tra la famiglia e la società: la
famiglia riunisce tutti quelli che sono nel gruppo (famiglia estesa alla
consanguineità), almeno ad un certo stadio dell’evoluzione.
Il
progresso tecnico genera un plusprodotto, che segna il primo processo
produttivo: si comincia a produrre più di quel che è necessario alla
sopravvivenza. Questo plusprodotto pone un problema pratico alla comunità dal
momento in cui raggiunge un certo volume, perché il suo sviluppo non è
possibile che se: l) le attività si specializzano all’interno della comunità,
e se: 2) le diverse comunità fanno circolare tra di loro i rispettivi
plusprodotti.
Questa
circolazione non può effettuarsi che attraverso lo scambio, cioè attraverso la
presa in considerazione, non nella coscienza, ma nei fatti, di quel che c’è
di comune tra i vari beni da far passare da un punto all’altro. Ora i prodotti
dell’attività umana hanno tra di loro l’elemento comune di essere tutti il
risultato di una certa quantità di energia, individuale e sociale allo stesso
tempo, contrassegnata da un fenomeno ben visibile, osservabile: l’usura della
forza e del mezzo di lavoro. In questo consiste il carattere astratto
del lavoro, il quale non soltanto produce un oggetto utile, ma è anche
consumo di energia, di energia sociale. In effetti il lavoro è sociale per la
sua stessa natura. Permettendo progressivamente all’uomo di accordarsi con la
natura, gli permette anche di sviluppare il suo rapporto con gli altri uomini.
L’«attore» della storia è dunque sempre la società, prodotto
dell’interazione delle azioni degli uomini. È la società a trasformare il
suo ambiente: questa attività non è possibile che a condizione di consacrarvi
una data quantità di tempo di lavoro, indipendentemente dal carattere concreto
e utile e dalla qualità del risultato ottenuto. Il valore
di un bene, a prescindere dall’uso che se ne può fare, è la quantità di
lavoro astratto che esso contiene, cioè la quantità di energia sociale
necessaria a riprodurlo. Questa quantità trova essa stessa la propria misura
nel tempo e il valore di un bene è il tempo necessario socialmente, in media
nella società considerata, a un dato momento della sua storia, per produrlo.
L’allargamento
dell’attività e dei bisogni della comunità la conduce a non produrre più
soltanto dei beni, ma anche delle merci, che hanno un valore d’uso, ma
possiedono inoltre un valore di scambio. Il commercio, comparso in un primo
momento tra le comunità, s’introduce in seguito all’interno delle stesse
comunità, specializzando le attività, creando i mestieri, dividendo
socialmente il lavoro. Ma proprio per questo il lavoro cambia natura. La
relazione di scambio crea il lavoro come lavoro doppio,
che è insieme produzione di valore d’uso e produzione di valore di
scambio. Il lavoro cessa di essere integrato a tutta l’attività sociale per
diventare un dominio specifico, separato dal resto dell’esistenza
dell’individuo. In un primo momento c’è la separazione tra ciò che
l’individuo fa per il gruppo e per se stesso, e ciò che fa per scambiarlo con
altri beni di un’altra comunità. Questa seconda parte della sua attività è
sacrificio, costrizione. In seguito la società si diversifica, e c’è una
separazione tra lavoratore e non-lavoratore. A questo stadio la comunità non
esiste più.
Il
rapporto di scambio è indispensabile alla comunità, per permetterle di
svilupparsi e di soddisfare i suoi bisogni crescenti. Ma, al tempo stesso, esso
la distrugge in quanto comunità. Esso fa sì che non si consideri più
l’altro – e se stesso – che come portatore di un bene. L’uso di quel che
io produco allo scopo di scambiarlo non mi interessa più; conta solo l’uso
del bene che otterrò come contropartita. Ma per colui che me lo vende, questo
secondo uso non conta, perché egli non s’interessa che al valore d’uso di
ciò che ho prodotto io. Ciò che è valore d’uso per l’uno non è che
valore di scambio per l’altro, e viceversa. La comunità è scomparsa il
giorno in cui i suoi (ex) membri non si sono più interessati gli uni agli altri
che in funzione dell’interesse che avevano ad entrare in rapporto tra di loro.
Non che l’altruismo sia stato il motore della comunità primitiva o debba
divenire quello del comunismo. Semplicemente, in un caso il movimento degli
interessi ravvicina gli individui e li fa agire in comune; nell’altro li
individualizza e li obbliga a lottare gli uni contro gli altri. Con
l’apparizione dello scambio nella comunità, il lavoro non è più la
realizzazione di certi bisogni attraverso la collettività, ma il mezzo di
ottenere dagli altri la soddisfazione di certi bisogni.
Pur
promuovendo lo scambio da un lato, la comunità ha d’altronde tentato di
frenarlo dall’altro. Essa ha cercato di distruggere il plusprodotto o di
fissare delle rigide regole di circolazione dei beni. Ma alla fine, lo scambio
ha prevalso, al termine di un’evoluzione lunga e complessa almeno in una gran
parte del mondo. Laddove lo -scambio non ha potuto stabilirsi veramente da
padrone, la società si è sclerotizzata, prima di essere infine distrutta
dall’invasione della società mercantile (così è avvenuto dell’impero
degli Incas, sotto i colpi degli Spagnoli alla ricerca del valore sotto forma di
metallo prezioso: vedere più avanti a proposito della moneta).
Fin
quando i beni non sono prodotti separatamente dunque fin quando non c’è
divisione del lavoro, non si possono confrontare i rispettivi valori di due
beni, dal momento che sono prodotti e ripartiti in comune. Non esiste ancora
quel momento dello scambio, momento intermedio tra produzione e consumo, durante
il quale i tempi di lavoro dei due prodotti si misurano l’un l’altro, poiché
lo scambio si effettua di conseguenza. Perché il carattere astratto del lavoro
si manifesti bisogna che i rapporti sociali lo esigano. Ciò non può avvenire
che quando, con il progresso tecnico, diviene necessario allo sviluppo delle
forze produttive che gli uomini si specializzino nei vari mestieri e scambino
tra di loro i loro prodotti, e che delle comunicazioni si stabiliscano anche tra
i gruppi, divenuti allora degli Stati. Queste due esigenze impongono che il
valore, il tempo di lavoro medio, divenga lo strumento di misura. Alla base di
questo meccanismo si trovavano dei rapporti pratici tra uomini i cui bisogni
reali si sviluppavano.
Il
valore non compare perché è più comodo misurare per mezzo del suo
intermediario. Quando i rapporti sociali della comunità primitiva lasciano il
posto a delle relazioni più estese, più diversificate, il valore nasce come
mediazione indispensabile delle attività umane. È normale che il tempo di
lavoro sociale medio serva come misura, poiché il lavoro vivo è allora
l’elemento essenziale della produzione di ricchezze: esso rappresenta quel che
c’è di comune tra tutti i lavori, che hanno in comune la qualità di
consistere nell’impiego di forza-lavoro umana, indipendentemente dal modo
particolare in cui questa forza-lavoro è stata impiegata. Corrispondendo al
carattere astratto del lavoro, il valore ne rappresenta l’astrazione, il
carattere generale, sociale, indipendentemente da tutte le differenze di natura
tra gli oggetti che può produrre.
I
progressi economici e sociali permettono all’organizzazione umana e alle sue
capacità di associazione degli elementi del processo di lavoro – e in primo
luogo del lavoro vivo – di prendere una nuova efficacia. Compare così la
differenza (e l’opposizione tra lavoratore e non-lavoratore, tra coloro che
organizzano il lavoro e coloro che lavorano. Le prime città e i grandi lavori
di irrigazione nascono da questa moltiplicazione degli sforzi e dell’efficacia
produttiva. Il commercio, come attività particolare, fa la sua comparsa: ormai
ci sono degli uomini che vivono, non della produzione, ma della mediazione tra
le varie attività delle unità di produzione separate. Molti beni non sono più
che delle merci. Per essere utilizzati, per mettere in atto il loro valore
d’uso, la loro capacità di soddisfare un bisogno, debbono essere comprati,
soddisfare il loro valore di scambio. In caso contrario, benché esistano come
oggetti materiali, concreti, dal punto di vista della società non esistono. Non
si ha il diritto di servirsene. Questo fatto dimostra chiaramente che la merce,
non è semplicemente una cosa, ma in primo luogo un rapporto sociale che
obbedisce ad una logica propria, quella dello scambio, e non quella della
soddisfazione dei bisogni. Il valore d’uso non è più che il supporto
del valore. La produzione diventa un campo distinto da quello del consumo,
come anche il lavoro in contrapposizione al non-lavoro. La proprietà
s’introduce come inquadramento giuridico della separazione tra le attività,
tra gli uomini, tra le unità di produzione. Lo schiavo è una merce per il suo
proprietario, che compra l’uomo per farlo lavorare.
L’esistenza
di un mediatore sul piano dell’organizzazione della produzione (scambio) si
accompagna a quella di un mediatore sul piano dell’organizzazione degli
uomini: lo Stato è indispensabile come forza capace di riunire gli elementi
della società, in funzione degli interessi della classe dominante. È
necessaria una unificazione perché la coerenza della comunità primitiva è
stata distrutta. La società è dunque obbligata, per mantenere la sua coesione,
a creare un’istituzione che si nutre di essa stessa. Ma anche lo scambio si
manifesta in modo concreto, visibile, con la nascita della moneta. La astrazione
che è il valore si materializza nella moneta, diventa anch’essa una merce,
che indica la tendenza del valore a diventare indipendente, a distaccarsi da ciò
da cui è nato e che rappresenta: i valori d’uso, i beni reali. In confronto
al semplice scambio: una quantità x
del bene a contro una quantità y
del bene b, la moneta permette
un’universalizzazione, per cui si può ottenere qualsiasi cosa, se si dispone
del tempo di lavoro astratto cristallizzato in moneta. La moneta non è che del
tempo di lavoro astratto dal lavoro e fissato in una forma durevole, misurabile,
trasportabile. Essa manifesta in modo visibile, anzi palpabile, quel che C’è
di comune tra le varie merci, non più tra due o più merci, ma tra tutte le
merci possibili. Essa autorizza il suo possessore a ordinare il lavoro altrui, o
a farlo fare, o a farlo cercare in capo al mondo. Attraverso la moneta si sfugge
ai limiti dello spazio e del tempo. Se le comunità primitive erano isolate le
une dalle altre, al punto che spesso non potevano neppure farsi la guerra, lo
scambio, comparso in un primo momento al margine delle comunità, le distrugge.
Nelle regioni più avanzate della terra, gli uomini si organizzano in stati
insieme mercantili e guerrieri, e il commercio e la violenza procedono alla
socializzazione del mondo. Una tendenza all’economia universale si manifesta,
dall’antichità alla fine del Medioevo, intorno ai grandi centri, ma non può
realizzarsi. La distruzione degli imperi e il ripiegarsi su di sé
contraddistinguono i successivi fallimenti di questi tentativi. Solo il
capitalismo crea, a partire dal Cinquecento, ma soprattutto nell’Ottocento e
nel Novecento, l’infrastruttura necessaria a un’economia universale
durevole.
In
effetti il capitale è un rapporto di produzione che crea tra la forza-lavoro e
il lavoro passato (accumulato dalle generazioni precedenti) una relazione
completamente nuova e prodigiosamente efficace. Ma anche qui, come per la
nascita dello scambio, il capitale non fa la sua comparsa in seguito a una
qualche decisione o pianificazione, ma come prolungamento di rapporti sociali
reali che, dopo il Medioevo, causano in alcuni Paesi dell’Europa occidentale
uno sviluppo qualitativamente nuovo.
Il
commercio aveva accumulato delle somme di denaro, sotto diverse forme,
perfezionando già un sistema bancario e di credito. La possibilità di
impiegarle esisteva, da un lato a causa delle prime macchine (tessili),
dall’altro a causa delle migliaia di poveri costretti dalla perdita di ogni
strumento di lavoro (agricolo o artigianale) ad accettare il nuovo rapporto di
produzione: il salariato. Era necessario che preliminarmente l’industria
ammassasse, ammucchiasse, immagazzinasse del lavoro sotto forma di macchine, poi
di manifatture. Questo lavoro passato doveva
essere messo in movimento dal lavoro vivo di coloro che non avevano potuto
realizzare questa accumulazione di materie prime e di strumenti di lavoro. È su
questa base che si stabilisce il capitale. Dalla dissoluzione della comunità
primitiva alla fine del Medioevo (per l’Europa occidentale, perché altrove
l’evoluzione è differente), c’è scambio di beni prodotti, a seconda delle
epoche, da schiavi, da artigiani, da contadini liberi e, in scarsissima misura,
da salariati. Verso il Quattrocento sono veramente oggetti di commercio il
plusprodotto della piccola produzione contadina e alcuni prodotti fabbricati
(armi, vestiti). Ma la produzione non è fatta in funzione dello scambio, né è
da esso regolato. Il commercio da solo, la produzione mercantile semplice (in
opposizione alla produzione mercantile capitalistica) non poteva fornire la
stabilità, la durata che presuppone la socializzazione, l’unificazione del
mondo. Al contrario, l’economia mercantile capitalistica
è in grado di farlo, perché la produzione di cui s’impadronisce il
capitale gliene dà i mezzi. Il capitale realizza effettivamente una vera
sintesi dello scambio e della produzione.
Lo
schiavo non vendeva la sua forza-lavoro: il proprietario acquistava la persona
stessa dello schiavo e lo metteva al lavoro. Con il capitale sono i mezzi di
produzione che comprano il lavoro vivo che li mette in movimento. Il ruolo del
capitalista non è trascurabile, ma secondario: egli è innanzitutto il
funzionario del capitale, il comandante del lavoro sociale. Proprio per questo
ciò che è in primo piano, è lo sviluppo del lavoro passato attraverso
il lavoro vivo. Investire, accumulare, queste sono
le parole d’ordine del capitale (così lo sviluppo prioritario
dell’industria pesante nei Paesi cosiddetti socialisti non fa che segnalarvi
la costruzione del capitalismo). Ma non si tratta di accumulare dei valori
d’uso. Il capitale non moltiplica le fabbriche, le ferrovie ecc. che per
accumulare del valore. Il capitale è in primo luogo una somma
di valore, di valore astratto cristallizzato sotto forma di denaro, di fondi
finanziari, di titoli, di azioni ecc. e che cerca di accrescersi. Bisogna che
una somma x di valore dia alla fine
del ciclo una somma x + un
profitto. Per mettersi in valore, il valore compra la stessa forza-lavoro. È la
grande novità del capitale fare della forza-lavoro una merce.
Questa
merce è assolutamente particolare, perché il suo consumo fornisce del lavoro,
dunque del valore nuovo, al contrario
dei mezzi di produzione che non danno che il loro proprio valore. C’è dunque
una produzione di valore supplementare. Il segreto dell’origine della
ricchezza borghese risiede in questo plusvalore, differenza tra il valore creato
dal salariato nel corso del suo lavoro, e quello necessario alla riproduzione
della sua forza. Il salario copre le spese di questa riproduzione; ma il
salariato lavora una parte della sua giornata di lavoro gratuitamente, perché
questa parte, corrispondente al valore nuovo che egli produce, non gli viene
pagata. Il capitale intasca la differenza. È subito evidente che l’essenziale
non sta nell’appropriazione di questo plusvalore da parte dell’individuo
capitalista. Il comunismo non ha nulla a che vedere con l’idea che i
lavoratori devono recuperare per sé stessi, tutto o in parte, il plusvalore. In
primo luogo per una ragione molto semplice, quasi evidente: è necessario
riservare una parte delle risorse alle spese di ammortamento, alle produzioni
che si creeranno ecc. Ma soprattutto, l’importante non è la frazione di
plusvalore intascata da un pugno di capitalisti. Se questi ultimi fossero
eliminati, ma si conservasse l’insieme del meccanismo, distribuendo una parte
del plusvalore ai lavoratori per investire il resto in attrezzature collettive1, la logica del sistema del valore giungerebbe sempre al
risultato di sviluppare le produzioni permettendo un massimo di valorizzazione.
Finché la società ha per base un meccanismo che mescola due processi, un
processo di lavoro reale e un processo di valorizzazione, il valore domina la
società. La novità del capitale è di aver conquistato la produzione, cosa che
ha avuto per effetto la socializzazione del mondo a partire dall’Ottocento,
attraverso installazioni industriali, mezzi di trasporto, immagazzinamento e
comunicazione rapida dell’informazione ecc. Ma nel ciclo del capitale la
soddisfazione dei bisogni non è che un sottoprodotto, e non il motore del
meccanismo. La valorizzazione è il fine: nel migliore dei casi la soddisfazione
dei bisogni è un mezzo, perché bisogna pur vendere quel che si è prodotto.
L’impresa
è il luogo e il centro di questa produzione capitalistica; ogni impresa,
industriale o agricola, serve da punto di unificazione a tutta una somma di
valore che cerca di accrescersi. Si tratta per l’impresa di fare dei profitti.
Anche qui, la liquidazione comunista della legge del profitto non consiste nello
sbarazzarsi di qualche «grosso» capitalista. Quel che importa, non sono i
profitti personali che può fare un certo capitalista, ma la costrizione,
l’orientamento imposto alla produzione e alla società da questo sistema.
Tutta la demagogia sui ricchi e i poveri (come i temi delle «200 famiglie»
prima della guerra, e della «Francia del denaro» – contrapposta alla Francia
«del popolo») non ha altro risultato che quello di allontanare l’attenzione
dal nodo centrale del problema. Il comunismo non consiste nell’impadronirsi
del denaro dei ricchi, né, da parte dei rivoluzionari, nel distribuirlo ai
poveri. Il tema della ripartizione si situa ancora sul terreno del capitale.
Le
imprese sono in concorrenza tra di loro: ciascuna di esse affronta le altre sul
mercato, Cioè disputa il mercato alle altre. Storicamente, abbiamo visto come
avviene la separazione tra i vari aspetti dell’attività umana. Il rapporto di
scambio contribuisce alla divisione in mestieri, che a sua volta facilita lo
sviluppo del sistema mercantile. Però, come accade sovente anche ai giorni
nostri, persino nei Paesi sviluppati, per esempio nelle campagne, non esiste
ancora a questo punto una vera concorrenza, perché le attività sono ripartite
stabilmente tra il fornaio, il calzolaio ecc. Nel capitalismo, non si tratta più
soltanto di una divisione della società in corporazioni fondate sui vari
mestieri, ma di una lotta permanente tra le diverse componenti dell’industria
(e anche del settore improduttivo: su questo argomento, vedere più avanti).
Ogni somma di valore non esiste che contro le altre. Ciò che l’ideologia
definisce come «l’egoismo naturale dell’uomo» e la «lotta inevitabile di
tutti contro tutti», in effetti non è che il complemento indispensabile di un
mondo in cui è necessario battersi, in particolare per vendere quel che si è
prodotto. La violenza economica, e la violenza armata che ne è il
prolungamento, fanno parte del sistema capitalistico.
Un
tempo la concorrenza ebbe un effetto positivo nella misura in cui ruppe i limiti
dei regolamenti, delle costrizioni corporative e spinse il capitale a invadere
il mondo. Ora essa è divenuta una fonte di spreco e di parassitismo, poiché
conduce insieme a sviluppare le produzioni inutili o d’interesse secondario,
perché permettono una valorizzazione più rapida, e a frenare le produzioni più
importanti, se l’offerta e la domanda rischiano di entrare in contraddizione.
La
concorrenza e la suddivisione della macchina produttiva in centri autonomi che
costituiscono altrettanti poli rivali i quali cercano di accrescere le
rispettive somme di valore. Nessuna «organizzazione» o «pianificazione» può
metter fine a questa situazione, né alcun controllo. Quel che si manifesta
nella concorrenza, non è la libertà degli individui, nemmeno quella dei
capitalisti, ma la libertà del capitale. Quest’ultimo non può vivere che
auto-fagocitandosi, distruggendo le sue componenti materiali (lavoro vivo e
lavoro passato) per sopravvivere come somma di valore che si valorizza.
I
diversi capitali concorrenti hanno ciascuno un tasso di profitto particolare. Ma
i capitali si spostano da un settore all’altro alla ricerca di un tasso di
profitto che sia il più elevato possibile. Quando un settore è saturo di
capitale, la sua redditività si riduce e i capitali si trasferiscono in un
altro settore (questa dinamica è modificata, ma non annullata, dalla
costituzione di monopoli). Questo spostamento incessante dei capitali conduce
alla stabilizzazione del tasso di profitto intorno ad un tasso medio per
un’epoca e una società date. Ogni capitale ha tendenza ad essere rimunerato,
non secondo il tasso di profitto che realizza nella propria impresa, ma secondo
il tasso di profitto medio nella società del suo tempo, in proporzione alla
somma di valore investita nella sua impresa. Non è dunque che ogni capitale
sfrutti i suoi operai, ma l’insieme dei capitali sfrutta l’insieme della
classe operaia. nel movimento dei capitali, il capitale agisce e si rivela come
una potenza sociale, dominando l’insieme della società, e acquista così una
certa coerenza malgrado la concorrenza che l’oppone a se stesso. Esso si
unifica e diviene forza sociale, totalità relativamente omogenea nei suoi
conflitti con il proletariato o con gli altri insiemi capitalistici (nazionali).
Da questo momento il capitale organizza secondo i suoi interessi le relazioni e
i bisogni dell’intera società. Questo meccanismo funziona all’interno di
ogni Paese: il capitale costituisce il suo Stato e la sua nazione contro gli
altri capitali nazionali, ma anche contro il proletariato (su questo argomento
vedere più avanti). L’opposizione tra gli Stati capitalistici giunge a
manifestarsi con le guerre, mezzo estremo per ciascun capitale nazionale di
risolvere i propri problemi.
Non
cambia nulla finché esistono delle unità di produzione che mirano ad aumentare
le rispettive quantità di valore. Che
cosa succede se lo Stato «democratico», «operaio» «proletario» ecc. prende
tutte le imprese sotto il suo controllo, ma le conserva come imprese? O le
imprese di Stato rispettano la legge del profitto e in questo caso non è
cambiato nulla, oppure non la rispettano, senza per questo distruggerla, e in
questo caso tutto va male. All’interno dell’impresa, l’organizzazione è
razionale, metodica: il capitale impone il suo dispotismo ai lavoratori.
All’esterno, sul mercato- in cui ogni impresa incontra le altre, non vi può
essere ordine che attraverso la soppressione permanente e periodica del disordine, al prezzo di scosse e di crisi. Solo il
comunismo può sopprimere questa anarchia organizzata, sopprimendo l’impresa
come totalità separata dalle altre.
Da
un lato il capitale ha socializzato il mondo. Ogni produzione tende ad essere il
frutto degli sforzi del l’umanità intera. D’altro lato, il mondo resta
diviso in imprese concorrenti, che cercano di produrre quel che è redditizio, e
di produrre per vendere il più possibile. Ogni impresa cerca di valorizzare il
suo capitale alle migliori condizioni possibili. Ogni impresa tende a produrre
più di quel che il mercato possa assorbire, e spera di vendere malgrado tutto,
e che solo i concorrenti soffriranno di sovrapproduzione.
Ne
risulta uno sviluppo delle attività destinate ad aiutare la vendita. I
lavoratori improduttivi, manuali o intellettuali, che fanno circolare il valore, aumentano in proporzione di quelli,
manuali o intellettuali, che producono il
valore. La circolazione di cui intendiamo parlare non è lo spostamento fisico
dei beni. Il settore dei trasporti produce effettivamente del valore, perché il
semplice fatto di far passare un bene da un luogo ad un altro vi aggiunge del
valore, corrisponde ad un cambiamento reale del suo valore d’uso: quando un
bene è ormai disponibile in un luogo completamente diverso da quello della sua
fabbricazione, questo aumenta evidentemente la sua efficacia, il suo effetto
utile. La circolazione del valore può non corrispondere ad alcun spostamento
reale dell’oggetto cui si riferisce, come ad esempio se esso cambia di
proprietario pur rimanendo in un magazzino: però, attraverso questa operazione,
sarà stato comprato o venduto. Le difficoltà di vendita, di realizzazione del
valore del prodotto sul mercato, obbligano a creare un meccanismo molto
complesso, bancario, di credito, assicurativo e anche pubblicitario. Il capitale
sviluppa con questo un immenso parassitismo, che inghiotte una parte enorme (e
crescente) delle risorse globali in spese di gestione e di amministrazione del
valore. La contabilità, necessaria in ogni organismo sociale sviluppato, è così
divenuta un insieme di meccanismi rovinoso e burocratico, che soffoca la società
e i bisogni reali invece di facilitare la loro soddisfazione. Nello stesso tempo
il capitale si concentra, si centralizza, tende al monopolio. Questa doppia
tendenza, all’accrescimento delle spese improduttive e alla formazione di
monopoli, ha insieme il risultato di rendere meno acuto il problema della
sovrapproduzione e quello di aggravarlo. Il capitale non può uscire da questa
situazione altro che per mezzo delle crisi periodiche, che regolano
momentaneamente la questione riadattando l’offerta alla domanda (alla domanda solvibile,
unicamente, perché il capitalismo non conosce che un modo di far circolare
i beni: la compravendita; poco gli importa che la domanda reale,
i bisogni, non sia soddisfatta: il capitale crea in realtà una
sottoproduzione in rapporto ai bisogni reali che esso non soddisfa).
La
crisi capitalistica è qualcosa di più che una crisi della merce. È una crisi
che lega in maniera indissolubile la produzione e il valore, ma in modo tale che
la produzione resta al servizio del valore. La si può paragonare alle crisi
precapitalistiche, a certe crisi durante l’«Ancien régime» in Francia, per
esempio. Allora si aveva una caduta della produzione agricola, provocata da
cattivi raccolti. I contadini compravano meno prodotti industriali (vestiti) e
l’industria – ancora debole – era in difficoltà. La crisi aveva in questo
caso per base un fenomeno naturale, climatico. Ma le speculazioni dei mercanti
sul prezzo del grano li inducono a farne incetta, per far salire i prezzi, cosa
che causa qua e là situazioni di carestia. La sola esistenza della merce e del
denaro permette la crisi: c’è una separazione, materializzata nel tempo, tra
l’acquisto e la vendita. Per il commerciante, e per il denaro che cerca di
aumentare di volume, l’acquisto e la vendita del grano sono due
operazioni distinte, è il tempo che le separa è da determinarsi in
funzione del profitto da realizzare. In questo intervallo tra produzione e
consumo, degli uomini muoiono di fame.
Ma
il meccanismo mercantile e il valore non vengono che ad amplificare una crisi
nata da condizioni naturali. Finché si riscontrano simili fenomeni, il contesto
sociale è precapitalistico, o è quello di un capitalismo ancora debole (come
in Paesi quali la Cina e la Russia in cui i cattivi raccolti influiscono ancora
gravemente sull’economia).
Al
contrario la crisi capitalistica è il prodotto dell’unione forzata del valore
e della produzione. Nel capitalismo il valore si è impadronito della
produzione. Si produce come se le possibilità di assorbimento del mercato
fossero illimitate. Si cerca d’altronde di estenderle, attraverso il credito,
l’organizzazione del mercato, l’azione dello Stato, tutti mezzi che non
trasformano il capitale, ma al contrario ne perfezionano le leggi. La
saturazione del mercato porta come conseguenza il rallentamento della
produzione, o addirittura delle distruzioni pure e semplici (prodotti agricoli
distrutti o danneggiati), la disoccupazione, situazione conosciuta nel suo
complesso a partire dall’ottocento e che non è per nulla scomparsa nella
nostra epoca. Anzi, essa si è aggravata, nonostante alcuni miglioramenti
particolari nei Paesi avanzati, se si tiene conto dello sviluppo delle forze
produttive. Lo scarto tra quel che potrebbero dare le forze produttive in un
altro quadro sociale, e quel che ne fa il capitale, non è mai stato più
grande. Il capitale non è mai stato così distruttore e dissipatore come oggi.
Non
soltanto, nelle crisi, il legarne tra valore d’uso e valore di scambio, tra
l’utilità, il bisogno reale di un bene e la sua possibilità di essere
scambiato, esplode e mostra che il mondo funziona perché le quantità di valore
delle imprese possa» aumentare, e non per soddisfare i bisogni o arricchire i
capitalisti; ma inoltre, se nelle crisi dell’«Ancien régime» c’era una
difficoltà insormontabile (il raccolto disastroso) che i rapporti mercantili si
limitavano ad aggravare, le crisi capitalistiche mostrano ora di non avere
nessuna base razionale ineluttabile. La loro causa non è naturale ma sociale.
Tutti gli elementi dell’attività industriale sono presenti: materie prime,
macchine, lavoratori, ma restano inutilizzati o utilizzati parzialmente. È così
evidente che essi non sono in primo luogo delle cose, degli oggetti materiali,
ma un rapporto sociale. In questa società essi d
esistono che se il valore li riunisce. Questo fenomeno non è k
industriale », non deriva dalle esigenze tecniche della produzione; è un
fenomeno sociale che deriva da rapporti di produzione, da rapporti sociali
determinati, e che uno sconvolgimento di questi rapporti sopprimerebbe. Il
capitale non è dunque un sistema di produzione che bisognerebbe strappare ad
una minoranza di «sfruttatori» o che i lavoratori dovrebbero gestire da se
stessi. È un rapporto sociale attraverso il quale l’intero apparato
produttivo, e, nella misura in cui la produzione ha conquistato la società,
l’edificio sociale nel complesso, sono sottomessi alla logica mercantile. Il
comunismo non si limita a distruggere questo rapporto mercantile, ma proprio
distruggendolo riorganizza e trasforma tutta la società (vedere oltre).
La
rete delle imprese – luoghi e
strumenti del valore – diventa una forza al di sopra della società. I bisogni
(di ogni natura: alloggio, nutrimento, «bisogni culturali») non esistono che
in funzione di questo sistema e sono addirittura modellati da lui. Non sono i
bisogni che determinano la produzione ma la produzione – per la valorizzazione
– che determina i bisogni. Si costruiscono ben più volentieri degli uffici o
delle residenze secondarie piuttosto che delle abitazioni là dove sono più
richieste. E le residenze secondarie restano vuote dieci mesi su dodici, come
migliaia di appartamenti, perché solo i proprietari o gli inquilini, che hanno comprato
l’abitazione o pagato il suo
affitto, possono accuparla. L’agricoltura è in gran parte, su scala mondiale,
trascurata dal capitale, che non la sviluppa che laddove può valorizzarsi,
mentre la fame continua ad
essere un problema ben risolto
per centinaia di migliaia di uomini. L’automobile è un settore
sviluppato in modo superiore ai bisogni nei Paesi avanzati, ma la sua redditività
assicura il suo mantenimento malgrado tutte le incoerenze. I Paesi poco
sviluppati non costruiscono fabbriche che quando queste consentono un tasso di
profitto sufficiente. La tendenza alla sovrapproduzione esige una economia
permanente di armamenti in quasi tutti i Paesi avanzati; queste forze
distruttive servono, quando è necessario, a fare realmente la guerra, i cui
effetti sono ancora un mezzo per lottare contro la tendenza alle crisi.
Lo
stesso lavoro salariato è diventato un’assurdità ormai da dozzine d’anni.
Esso costringe una parte dei lavoratori ad un lavoro di fabbrica che li
abbrutisce; un’altra parte, molto importante, lavora nel settore improduttivo,
che serve insieme a facilitare le vendite, a assorbire i lavoratori liberati
dall’automazione e dalla meccanizzazione, e a fornire una massa di
consumatori, mezzo supplementare di lotta anti-crisi. Il capitale si annette
tutto quel che è scienza e tecnica: nel settore produttivo, esso orienta la
ricerca verso lo studio di quel che procurerà il massimo profitto; nel settore
improduttivo, sviluppa la gestione e le tecniche di utilizzazione del mercato.
Così l’umanità tende a suddividersi in tre gruppi:
–
i produttivi, spesso fisicamente liquidati dal loro lavoro;
–
gli improduttivi che non servono a nulla o peggio;
–
e la massa dei non salariabili dei Paesi poveri, che il capitale non riesce ad
integrare in qualche modo, e tra cui centinaia di migliaia sono distrutte
periodicamente in guerre prodotte direttamente o indirettamente
dall’organizzazione capitalistica dell’economia mondiale.
Lo
sviluppo di certi Paesi poveri è reale (Brasile), ma esso viene ottenuto
soltanto al prezzo della distruzione totale o parziale delle antiche forme di
vita, e si manifesta ad esempio con l’affollamento e la miseria delle città.
Solo una minoranza della popolazione ha la «fortuna» di poter lavorare in
fabbrica, il resto è sotto occupato o disoccupato.
Il
capitale crea nello stesso tempo una rete di imprese che vive del profitto e per
il profitto, prolungata e protetta dagli Stati divenuti strumenti anticomunisti,
e un insieme di individui che costringe a sollevarsi contro di lui. Questa massa
non è omogenea, ma troverà la sua unità nella rivoluzione comunista, senza
che i suoi componenti svolgano tutti
lo stesso ruolo. Ogni rivoluzione è il prodotto di bisogni reali, nati da
condizioni materiali di esistenza divenute insopportabili. Così avviene per il
proletariato, che il capitale stesso obbliga a comparire. Una gran parte della
popolazione mondiale è costretta a vendere la propria forza-lavoro per vivere,
perché non ha nessun mezzo di produzione a sua disposizione. Alcuni la vendono
e sono produttivi, altri la vendono e sono improduttivi, altri infine non la
possono vendere (il capitale non compra il lavoro vivo altro che quando può così
valorizzarsi in una proporzione ragionevole), e sono esclusi dalla produzione,
sia nei Paesi sviluppati sia in quelli poveri.
Se
s’identificano proletario e operaio, lavoratore, allora non si vede quel che
c’è di sovversivo nella condizione del proletario. Il proletariato è la
negazione di questa società. Esso riunisce non i poveri, ma coloro che non
dispongono di nessuna riserva e che non hanno da perdere che le proprie catene;
coloro che non hanno niente, e che non si possono liberare altro che
distruggendo tutto dell’ordine sociale attuale. Il proletariato
la
dissoluzione della società attuale, perché la società gli rifiuta, per così
dire, tutti i suoi aspetti positivi. Dunque esso è anche la sua propria
distruzione. Tutte le concezioni (borghese classica, fascista, stalinista,
di sinistra ed estremista) che fanno, a qualunque grado, l’elogio del
proletariato in quanto tale, quale esso esiste attualmente, e lo mostrano in una
luce positiva, sostenendo che afferma dei valori e che viene a rigenerare la
società in crisi, sono controrivoluzionarie. La glorificazione dell’operaio
è diventato una delle più efficaci manifestazioni e delle più pericolose
mistificazioni del capitale. Al contrario, ogni volta che interviene, il
proletariato dimostra che è il negativo della
società attuale, e che non ha alcun valore da introdurvi, né alcun ruolo da
giocarvi, se non un ruolo distruttore.
Il
proletariato è un rapporto storico. Esso è in permanenza la distruzione del
vecchio mondo allo stato potenziale, e passa allo stato attuale soltanto in un
momento di tensione sociale, costretto dal capitale a divenire l’agente del
comunismo. Il proletariato diviene sovversione della società costituita solo al
momento in cui si unifica, in cui si costituisce in classe e si organizza, non
per farsi classe dominante come a suo tempo la borghesia, ma per distruggere la
società di classe: non vi è più allora che un solo agente sociale, l’umanità.
Ma, al di fuori di questo momento conflittuale, e di quelli che lo precedono, il
proletariato è ridotto al rango di un elemento del capitale, di un ingranaggio
del suo meccanismo (ed è di questo suo
stato che il capitale fa l’elogio).
Benché
abbia ridotto in alcuni Paesi il numero degli operai che lavorano in fabbrica,
lo sviluppo del capitale non ha annullato completamente il proletariato. È vero
che un certo numero di lavoratori produttivi ha potuto essere integrato dal
capitale e dal riformismo (pcf, cgt
in Francia, per esempio). Inoltre se una parte dei lavoratori improduttivi è
vicina agli operai come condizioni di lavoro, di salario e di vita, una parte se
ne distacca, conquistata dal capitale, almeno provvisoriamente. È chiaro infine
che una frazione dei non salariabili dei Paesi poveri non potrà intervenire
efficacemente in un processo rivoluzionario, per ragioni di isolamento,
arretratezza ecc., almeno durante una certa fase della lotta. Tuttavia, quel che
è sicuro è che:
l)
la rivoluzione sarà opera di elementi senza riserve usciti da questi tre
sottogruppi del proletariato;
2)
i lavoratori produttivi rivoluzionari giocheranno un ruolo decisivo (ma non
esclusivo) nella misura in cui il loro posto nella produzione li pone meglio in
grado – almeno all’inizio – di rivoluzionarla. (Vedere oltre
sull’economia come arma.)
Così
il proletariato delle fabbriche non perde in nulla il suo ruolo centrale, benché
altri elementi vengano a spalleggiarlo nel corso della rivoluzione.
La
rivoluzione comunista è un meccanismo che il proletariato mette in moto senza
sapere di farlo (tuttavia la coscienza di quel che esso fa gli è preziosa per
abbreviare questa fase e agire più efficacemente). Il proletariato è condotto
a servirsi dell’arma che gli dà la sua funzione sociale – nel caso dei
lavoratori produttivi. Per esempio, anche in un conflitto rivendicativo, il
proletariato è indotto a occupare la fabbrica perché questo è per lui lo
strumento normale di pressione, proprio nella misura in cui lui non dispone di
riserve. Per vincere, la logica della sua azione lo obbliga ad entrare in
contatto con le altre fabbriche, e, in una fase ulteriore, a rimettere lui
stesso in moto la produzione, in rapporto con le altre fabbriche. Naturalmente
il proletariato non può passare per le angustie della legge del valore, poiché
non ha alcun controllo sul capitale come somma di valore: non ha alcun mezzo di
servirsi del capitale finanziario, e non può utilizzare nessun altro mezzo che
il processo di lavoro che è la sua funzione. Il proletariato fa così esplodere
la natura doppia del capitale, che è insieme meccanismo di lavoro e meccanismo
di valorizzazione. Parallelamente i bisogni reali a livello dei consumi
correnti, dell’alloggio, dei trasporti ecc. provocano anche in questo settore
la sparizione del rapporto sociale mercantile: alla fine sopravvivono soltanto
l’utilizzazione e la circolazione dei valori
d’uso.
La
comunità primitiva era troppo povera per trarre partito dalle potenzialità del
lavoro. In essa il lavoro è immediato, ciascuno agisce per il proprio immediato
sostentamento. Il lavoro non si cristallizza, non si accumula in strumenti di
produzione, non si trasforma in lavoro ammassato, passato. Quando questo diviene
possibile, allora lo scambio è necessario: non si può far altro che misurare
la produzione in lavoro astratto, in tempo di lavoro medio, allo scopo di farla
circolare. Il lavoro vivo resta l’elemento essenziale dell’attività e il
tempo di lavoro la misura necessaria. La moneta lo materializza.
Da
questo deriva lo sfruttamento di alcune classi da par te di altre,
l’aggravamento delle catastrofi naturali (vedi, supra, circa le crisi dell’«Ancien régime»). Da questo viene
anche la nascita, il declino, la caduta di Stati e talvolta di imperi che non
possono svilupparsi se non lottando contro altri. Talvolta vengono interrotte le
relazioni di scambio tra le varie parti del mondo civilizzato, in seguito alla morte
di uno o più imperi: può anche succedere che una di queste pause nello
sviluppo duri dei secoli, durante i quali pare che l’economia ritorni
indietro, verso l’economia di sussistenza.
In
questi casi l’umanità non dispone di un apparato produttivo, sicché lo
sfruttamento del lavoro vivo resta inutile, o addirittura rovinoso. Il ruolo del
capitalismo è proprio di accumulare questo lavoro passato. L’esistenza di
tutto questo complesso industriale, di tutto questo capitale fisso, prova che il
carattere sociale dell’attività umana ha finito per materializzarsi in uno
strumento che permette di creare, non un paradiso sulla terra, ma uno sviluppo
che utilizzi per il meglio le risorse per soddisfare i bisogni, e che produca le
risorse in funzione dei bisogni. Se questa infrastruttura è l’elemento
essenziale della produzione, allora il ruolo regolatore del valore, che
corrispondeva alla fase in cui il lavoro vivo era il principale fattore
produttivo, perde tutto il suo senso, non è più necessario alla produzione. Il
suo mantenimento è divenuto precario e catastrofico. Il valore, concretizzato
dalla moneta sotto tutte le sue forme, dalle più semplici alle più complesse,
è il risultato del carattere generale del lavoro, dell’energia al tempo
stesso individuale e sociale che esso libera e consuma. Il valore resta quindi
un mediatore necessario fino a che questa energia non ha creato un sistema
produttivo globale su scala mondiale. In seguito esso diventa un intralcio.
Il
comunismo è la scomparsa di una serie di mediazioni necessarie fino ad allora
(malgrado le miserie che producono) per accumulare una quantità di lavoro morto
sufficiente per poter infine fare a meno di esse. In primo luogo, il valore: è
inutile avere un elemento esterno alle attività sociali per collegarle tra di
loro e stimolarle. L’infrastruttura accumulata ha soltanto bisogno di essere
trasformata e sviluppata; Il comunismo mette a confronto tra di loro i valori
d’uso per decidere di sviluppare una certa produzione piuttosto che
un’altra. esso non riduce le componenti della vita sociale ad un denominatore
comune (il tempo di lavoro medio che contengono). Il comunismo organizza la sua
vita materiale partendo soltanto dal confronto dei bisogni – cosa che non
esclude conflitti in caso di fallimento.
Il
comunismo è anche la fine di ogni elemento necessario all’unificazione della
società: è la fine della politica. Non è né democratico né dittatoriale.
Naturalmente. il comunismo è «democratico» se s’intende con questo termine
il fatto che tutti s’incaricano delle attività sociali: e questo, non per
volontà della gestione o principio democratico, ma perché l’organizzazione
dell’attività è di norma una questione che riguarda i suoi membri. Ma, al
contrario di quel che affermano i democratici, questo non è possibile altro che
con il comunismo, ciò con la messa in comune di tutti gli elementi della vita,
con la soppressione di ogni attività separata, di ogni produzione isolata.
Questo risultato si può ottenere solo attraverso la distruzione del valore.
Perché lo scambio tra le varie imprese esclude che la collettività possa
prendere in mano la propria vita (e in primo luogo la vita materiale; in effetti
lo scopo dello scambio e delle imprese è radicalmente opposto a quello degli
uomini – che è di soddisfare i loro bisogni. L’impresa cerca innanzitutto
di valorizzarsi e sopporta una sola direzione, quella che le permette di
raggiungere meglio questo fine (ecco perché i capitalisti non sono altro che i
funzionari del capitale). È l’impresa che dirige i suoi dirigenti. La
soppressione del limite rappresentato dal l’impresa, la distruzione del
rapporto mercantile che obbliga ciascuno a considerare gli altri soltanto come
mezzi per guadagnarsi la sua vita,
sono le sole condizioni di un’auto organizzazione degli uomini. Una volta
realizzate queste condizioni, i problemi di gestione divengono secondari, e
sarebbe assurdo volere che tutti, a turno, esercitino le attività di gestione.
Il problema non si pone neppure più. La contabilità e l’amministrazione
diventano attività come le altre, senza privilegi in un senso o nell’altro:
tutti possono esercitarle, o non esercitarle.
Nel
comunismo, avere una forza esterna agli individui per riunirli è inutile. Ecco
una cosa che i socialisti utopisti, ad esempio, non hanno mai capito. Le loro
società immaginarie, per quanto grandi siano i loro meriti e la loro forza
visionaria, hanno quasi sempre bisogno di piani molto rigidi e di direttive
quasi totalitarie. Essi cercano di creare un legame, che in realtà risulta
naturalmente dall’associazione degli uomini in gruppo. Pretendono di evitare
lo sfruttamento, l’anarchia, e organizzano in
anticipo la vita sociale. Altri vorrebbero, per non cadere in questo
dirigismo, lasciare che la società si faccia da sé sola. Il problema è
altrove: solo rapporti sociali ben determinati, che poggino su un livello di
sviluppo ben preciso della produzione materiale, rendono possibile e necessaria
l’armonia tra gli individui (cosa che include dei conflitti: vedi sopra. Gli
individui possono allora soddisfare i loro bisogni, ma soltanto attraverso la
loro partecipazione automatica al funzionamento del gruppo senza essere per
altro ridotti a semplici ingranaggi. Il comunismo non ha bisogno di riunire quel
che prima era separato, e che ormai non lo è più.
Questo
vale anche sul piano mondiale, e persino su quello universale. Gli stati e le
nazioni, strumenti necessari dello sviluppo, sono ormai entità puramente
reazionarie, e le divisioni che essi perpetuano sono un freno allo sviluppo: la
sola dimensione possibile, oramai, è quella dell’umanità intera.
L’opposizione
tra manuale e intellettuale, tra natura e cultura, era un tempo indispensabile.
La separazione tra il lavoratore e l’organizzatore del lavoro ne moltiplicava
l’efficacia. Lo sviluppo raggiunto al giorno d’oggi non ne ha più bisogno,
e questa separazione è ormai soltanto un ostacolo che manifesta la sua assurdità
m tutti gli aspetti della vita scolastica, universitaria, professionale, «culturale»
ecc. Il comunismo distrugge la separazione tra una parte dei lavoratori,
abbrutita dal lavoro manuale, e un’altra parte, inutile negli uffici.
Lo
stesso capita per l’opposizione tra l’uomo e il suo ambiente naturale. Un
tempo l’uomo non ha potuto socializzare il mondo che lottando contro la
dominazione della «natura». Oggi è lui ad accerchiare e minacciare la natura.
Il comunismo è riconciliazione dell’uomo e della natura.
Il
comunismo è la fine dell’economia come settore particolare, luogo
privilegiato da cui dipende tutto il resto, ma che tutto il resto fugge e
disprezza. L’uomo produce e riproduce le sue condizioni di esistenza: a
partire dalla dissoluzione della comunità primitiva, e nella forma più pura
nel capitalismo, il lavoro, attività attraverso cui l’uomo si appropria
dell’ambiente che lo circonda, è diventato una costrizione che si oppone al
tempo del riposo, al piacere, alla «vera» vita. Questa fase era storicamente
necessaria per creare il lavoro passato che permette di sopprimere questo
asservimento. Con il capitale la produzione, in effetti produzione per la
valorizzazione, è divenuta padrona del mondo. È la completa dittatura dei
rapporti di produzione sulla società. Producendo, si sacrifica il tempo della
propria vita per godere in seguito
della vita, godimento quasi sempre senza rapporti con la natura del lavoro,
divenuto un semplice mezzo per guadagnarsi la vita. Il comunismo dissolve i
rapporti di produzione, li fonde nei rapporti sociali. Il comunismo non conosce
più nessuna attività separata, un lavoro che si oppone al gioco. L’obbligo
di fare lo stesso lavoro tutta la vita, di essere lavoratore manuale o
intellettuale, scompare. Con il ruolo del lavoro accumulato che include e
incorpora tutta la scienza e la tecnica, la ricerca e il lavoro, la riflessione
e l’azione, l’insegnamento e l’attività diventano una cosa sola. Alcuni
compiti possono essere a carico di tutti, e la generalizzazione
dell’automazione trasforma completamente l’attività produttiva. Il
comunismo d’altronde non predica il gioco contro il lavoro o il non-lavoro
contro il lavoro. Queste nozioni limitate e parziali sono ancora delle realtà
capitalistiche Il lavoro in quanto produzione-riproduzione delle condizioni di
vita non soltanto materiali ma anche culturali, affettive ecc. è quel che
caratterizza l’umanità.
L’uomo
crea collettivamente i mezzi della sua esistenza, e li trasforma; egli non li
riceve come dati dalle macchine, perché in questo caso l’umanità sarebbe
ridotta allo stadio del bambino, che si accontenta di ricevere dei giocattoli di
cui ignora l’origine, di cui l’origine per lui non esiste addirittura ti
giocattoli ci sono, esistono, tanto
basta). Allo stesso modo il comunismo non rende il lavoro perpetuamente lieto e
gradevole. Anche l’attività eminentemente arricchitrice del poeta attraversa
momenti faticosi o addirittura dolorosi. Il comunismo a questo riguardo non fa
che sopprimere la separazione tra lo sforzo e il godimento, la creazione e la
ricreazione, il lavoro e il gioco.
Il
comunismo è l’appropriarsi, da parte dell’umanità, delle proprie
ricchezze, tenendo ben fermo che questa appropriazione è anche e inevitabilmente una trasformazione da cima a fondo. Questo implica
necessariamente la distruzione delle imprese in quanto unità separate e quindi
la distruzione della legge del valore: non per socializzare il profitto ma per
far circolare i prodotti tra i vari centri industriali senza passare attraverso
la mediazione del valore. Questo non significa affatto che la rivoluzione
comunista riprenderà tale e quale il sistema produttivo del capitalismo. Non si
tratta di sbarazzarsi dell’aspetto «cattivo» del capitale (la
valorizzazione) per conservarne l’aspetto buono (la produzione). Perché, come
abbiamo visto, il valore e la logica del profitto impongono un certo tipo di
produzione, sviluppando all’eccesso certi settori e trascurandone altri.
Qualunque elogio dell’economia attuale, del proletariato attuale, (cioè come
ingranaggio del capitale) delle scienze e delle tecniche attuali, non è altro
che un elogio del capitale. Ogni esaltazione della produttività e della
crescita economica, quali esistono in questo momento, non è che un inno in
gloria del capitale.
Detto
questo, per rivoluzionare la produzione, per liquidare l’impresa, la
rivoluzione comunista è condotta naturalmente a servirsene. Esso è la sua leva
essenziale, almeno durante una certa fase. Non si tratta di guadagnare terreno
nelle fabbriche per restarvi chiusi e gestirle, ma per uscirne a collegarle tra
di loro senza lo scambio, cosa che le distrugge in quanto imprese. Un tale
movimento è accompagnato quasi automaticamente da un primo sforzo per ridurre,
e poi sopprimere, l’opposizione città/campagna, e la separazione tra
l’industria e le altre attività. Oggi l’industria soffoca nel proprio
ambito, soffocando al tempo stesso gli altri settori.
Il
capitale vive per accumulare valore: questo valore, lo fissa sotto forma di
lavoro ammassato, passato. L’accumulazione, la produzione, diventano fine a se
stesse. Tutto è loro subordinato: il
capitale nutre i suoi investimenti di lavoro vivo. Parallelamente sviluppa il
lavoro improduttivo, come abbiamo visto. La rivoluzione comunista è la rivolta
contro questa assurdità: è inoltre una disaccumulazione, non per tornare
indietro, ma per cambiare completamente la direzione della macchina, per
rimetterla in piedi. Non si tratta più di mettere l’uomo al servizio
dell’investimento, ma di fare il contrario. Su questo punto il comunismo è
ugualmente opposto al produttivismo esasperato – di cui i Paesi cosiddetti
socialisti e il Partito Comunista sono tra i migliori propagandisti – e
all’illusione riformistica e umanistica di un possibile cambiamento
all’interno del quadro attuale.
Il
comunismo non è il prolungamento del capitalismo in una forma più razionale,
più «efficace», più moderna, meno ingiusta, meno anarchica. Non prende tali
e quali le basi materiali del vecchio mondo: è il loro rovesciamento. Solo la
considerevole preponderanza del lavoro accumulato nel processo produttivo
permette:
l)
di non sfruttare più il lavoro vivo;
2)
di non subordinare più la soddisfazione dei bisogni alla produzione di beni
strumentali.
Solo
il comunismo può sfruttare questa condizione creata dal capitale.
Il
comunismo non è un insieme di misure da applicare dopo la presa del potere. È
un movimento che esiste fin d’ora, non come modo di produzione (non vi possono
essere isole comuniste nella società capitalistica), ma come tendenza generata
da bisogni reali (vedi sopra a proposito dei senza-riserve). In un certo senso,
il comunismo non sa neppure che cos’è il valore. Non è che un bel giorno ci
sia una grande riunione di persone le quali si mettono a sopprimere il valore e
il profitto. Il comunismo non cerca di distruggere il valore: modifica un
rapporto di produzione, e questa azione liquida il sistema mercantile. Altro è
il ruolo utile di coloro che hanno compreso teoricamente le grandi linee del
movimento storico: il loro intervento accelera le cose.
Il
meccanismo della rivoluzione comunista è prodotto dalle lotte. Esso sarà il
normale sviluppo nel momento in cui la società costringerà tutti quegli
elementi cui rifiuta ogni prospettiva a instaurare dei nuovi rapporti sociali.
Se attualmente pare che un gran numero di lotte sociali sia privo di sbocchi, è
proprio perché il solo prolungamento di queste lotte sarebbe il comunismo,
checché ne pensino quelli che vi partecipano. Sul piano semplicemente
rivendicativo, arriva spesso, e sempre di più, un momento in cui, per andare
oltre, non ci sarebbe altra soluzione che lo scontro violento con le forze dello
stato generalmente affiancate da quelle dei sindacati. In questo caso la lotta
armata e l’insurrezione presuppongono necessariamente la messa in atto di un
programma sociale, l’uso dell’economia come arma (vedi sopra sul
proletariato). L’aspetto militare, per quanto grande sia la sua importanza,
dipende dal contenuto sociale. Con il semplice trionfo militare sui suoi
avversari, il proletariato, senza necessariamente saperlo, ma se lo sa ed ha la
capacità di esprimerlo, di farlo sapere altrove, di dire ciò che fa, la sua
azione è più forte – trasforma la società in senso comunista.
Fino
ad oggi le lotte non hanno ancora mai raggiunto lo stadio in cui il loro
semplice sviluppo militare avrebbe reso necessaria l’apparizione della società
nuova. Nelle lotte sociali più importanti, in Germania tra il 1919 e il 1921,
il proletariato, malgrado la violenza della guerra civile, non ha raggiunto
questo livello. Ma il programma comunista era il sostrato di quei confronti di
forze, che restano incomprensibili senza di esso. La borghesia seppe servirsi
dell’arma dell’economia, nel senso dei suoi interessi naturalmente,
utilizzando ad esempio la disoccupazione per dividere gli operai. Il
proletariato ne fu incapace, e condusse la lotta con mezzi esclusivamente
militari – giungendo fino a creare un’Armata rossa nella Ruhr nel 1920 –
senza utilizzare l’arma fornitagli dalla sua funzione sociale.
In
un altro contesto, certe rivolte della minoranza negra negli Stati Uniti hanno
abbozzato una trasformazione sociale, ma soltanto al livello della distruzione
della merce, e non del capitale
stesso. Questi negri non erano che una parte del proletariato, e spesso, in
quanto esclusi dalla produzione, non avevano neppure la possibilità di servirsi
dell’arma della lotta economica. Essi restavano fuori dalle imprese. La
rivoluzione comunista implica al contrario – tra altri compiti – un’azione
che parta dall’impresa, per distruggerla in quanto unità separata. Le rivolte
negre si sono mantenute al livello del consumo e della distribuzione. La
rivoluzione colpirà il cuore del sistema, il centro dove viene prodotto il
plusvalore. Ma di quest’arma si servirà soltanto per distruggerla.
I
senza-riserve fanno la rivoluzione, costretti a instaurare i rapporti sociali
che affiorano nella società attuale. Questa rottura suppone necessariamente una
crisi, che d’altra parte può anche non essere dello stesso tipo di quella del
1929, contrassegnata da una gigantesca paralisi economica. In ogni caso, per
unificare i diversi elementi in rivolta contro il lavoro salariato, bisogna che
la società conosca delle difficoltà abbastanza gravi da non poter più isolare
le lotte le une dalle altre. La rivoluzione comunista non è la somma dei
movimenti attuali immediati, né la loro metamorfosi per l’intervento di un’«avanguardia».
Essa presuppone una scossa sociale, un attacco del capitale a diversi gradi,
contro i «senza-riserve», che insieme amplificano quantitativamente e
modificano quantitativamente la loro azione. Naturalmente questo meccanismo è
possibile solo su scala mondiale, e almeno all’inizio, in parecchi Paesi
avanzati.
Da
tutto quel che precede risulta chiaro che la rivoluzione e la società comunista
non sono questione di organizzazione, né di «potere» della classe operaia.
Volere d’altronde la dittatura del proletariato quale esso esiste attualmente
è un’assurdità. Come è impossibile che tutti prendano in mano l’attività
sociale finché regna il valore e il suo strumento: l’impresa; così il
proletariato quale si presenta attualmente nell’economia è per definizione
incapace di dirigere o di gestire checchessia. Esso non è altro che un
ingranaggio del meccanismo di valorizzazione, subisce la dittatura del capitale.
Di conseguenza la dittatura del proletariato quale esso esiste in questo
momento, non può essere che la dittatura dei rappresentanti
del proletariato, cioè dei capi dei sindacati e dei partiti operai. Nella
sua brutalità, la dottrina ufficiale dei Paesi dell’Est, secondo la quale la
dittatura del proletariato s’identifica con quella del partito, è più lucida
e più franca della teoria di certi «rivoluzionari
che
credono possibile una gestione operaia pur conservando i fondamenti
dell’economia attuale.
La
rivoluzione non è un problema di organizzazione. Tutte le teorie sul «governo
dei lavoratori» e sul «potere operaio» non fanno che proporre delle
scappatoie, delle altre soluzioni alla crisi del capitale. La rivoluzione è in
primo luogo una trasformazione della società, cioè di ciò che costituisce i
rapporti esistenti tra gli uomini, e tra gli uomini e i loro mezzi di
sussistenza. I problemi di organizzazione, di «capi», sono secondari: essi
dipendono da quel che fa la rivoluzione. Questo vale sia per la messa in moto
della rivoluzione comunista, che per il funzionamento della società che ne
risulta. La rivoluzione non sopravviene il giorno in cui il 51% degli operai è
rivoluzionario, e non mette in piedi per prima cosa un apparato di decisione e
di gestione. È il capitalismo, invece, che non riesce a venire a capo delle
questioni di gestione e di «capi». La forma d’organizzazione della
rivoluzione comunista, e di ogni movimento sociale, deriva dal suo contenuto. Il
modo in cui il partito, organizzazione della rivoluzione, si costituisce e
agisce, dipende dai compiti da portare a termine.
Nell’Ottocento,
e anche al momento della prima guerra mondiale, le condizioni materiali del
comunismo erano ancora da creare, almeno in certi Paesi (la Francia, l’Italia
erano allora poco industrializzate, per non parlare della Russia). La
rivoluzione comunista avrebbe dunque dovuto in un primo tempo sviluppare le
forze produttive, mettere al lavoro i piccolo-borghesi, generalizzare il lavoro
industriale, secondo la regola: chi non lavora non mangia (formula da applicarsi
naturalmente soltanto a chi è in grado di lavorare). Il progresso economico ha
in seguito svolto questo compito. Ora le basi del comunismo esistono. Non si
tratta più di mandare gli improduttivi in fabbrica, ma piuttosto di creare le
basi di una nuova industria, qualitativamente diversa dalla precedente,
accentuando quel che il capitale frena e orienta nel senso del profitto:
l’importanza del capitale fisso, il ruolo della scienza e della tecnica, la
ricerca. Un insieme di compiti di trasformazione e di formazione s’impone oggi
alla rivoluzione comunista. La costrizione al lavoro lascerà il posto alla
trasformazione delle condizioni di lavoro. Per quel che riguarda i Paesi
sottosviluppati, la liquidazione dello scambio e del profitto permette insieme
di soddisfare i bisogni più urgenti e di regolare poi la questione agraria e di
sviluppare l’industria in condizioni diverse da quelle sperimentate nei Paesi
oggi avanzati. Si tratta, su scala mondiale, di un movimento che è insieme di
accumulazione e di disaccumulazione, di sviluppo e di orientamento delle forze
produttive verso la soddisfazione dei bisogni.
Il
comunismo non è soltanto un sistema sociale, un modo di produzione, che nascerà
in futuro, a partire dalla rivoluzione comunista. Questa rivoluzione è in
effetti l’affrontarsi di due mondi: da una parte tutti coloro che si trovano
respinti, esclusi da ogni profondo godimento, e talvolta addirittura minacciati
nella loro esistenza fisica, uniti tutti tra di loro dall’obbligo di entrare
in rapporto gli uni con gli altri per agire, per vivere, per sopravvivere;
dall’altra l’insieme di un’economia socializzata su scala mondiale,
tecnicamente unificata, ma divisa in unità costrette ad opporsi l’una
all’altra per rispettare la logica del valore che li unisce e che non
indietreggia davanti ad alcuna distruzione per sopravvivere in quanto tale.
Il
mondo delle imprese, attuale cornice delle forze produttive, è dotato di una
vita propria; si è costituito in forza autonoma e sottomette alle sue leggi il
mondo dei bisogni reali. La rivoluzione comunista è la distruzione di questa
sottomissione. Il comunismo è lotta contro questa sottomissione, e in questo
senso le si è opposto fin dagli inizi del capitalismo, ed anche prima, senza
possibilità di successo.
Così
come l’umanità ha in un primo momento attribuito alle sue idee, alla sua
visione del mondo, un’origine esterna, credendo che l’essenza dell’uomo
risiedesse, non nei suoi rapporti sociali, ma nel suo legame con un elemento
esterno al mondo reale (Dio) di cui l’uomo non è che un prodotto; allo stesso
modo l’umanità, nel suo sforzo di appropriazione, di adattamento nei
confronti del mondo circostante, avrà dovuto in un primo momento creare un
mondo materiale, un complesso di forze produttive, un’economia, un mondo di
oggetti che la schiaccia e la domina, prima di potersene appropriare e di
trasformarlo, adattandolo ai suoi bisogni.
La
rivoluzione comunista non è che il prolungamento, il superamento anche, dei
movimenti sociali attuali. Le discussioni sul comunismo si pongono generalmente
su di un terreno sbagliato: in esse ci si domanda quel che si farà dopo la
rivoluzione. Non si collega mai il comunismo a quel che succede nel momento in
cui se ne parla. C’è una rottura: si fa la rivoluzione, poi si fa il
comunismo. In realtà il comunismo è il prolungamento di bisogni reali che si
manifestano fin d’ora, ma che non trovano la loro vera soddisfazione perché
l’attuale situazione lo impedisce. Esiste già fin d’ora tutto un insieme di
pratiche, di gesti, anche di atteggiamenti, comunisti: essi esprimono non
soltanto un rifiuto globale del mondo attuale, ma soprattutto uno sforzo per
costruirne un altro. Nella misura in cui questo fine non viene raggiunto, non si
vedono che i limiti, che la tendenza,
e non il suo prolungamento possibile (i «gauchisti» servono proprio a
teorizzare questi limiti come il fine
del movimento, e quindi a rinforzarli). Nella negazione del lavoro
dell’operaio specializzato (os),
nella lotta degli sfrattati che occupano un appartamento o un locale vuoto,
appare la prospettiva comunista, lo sforzo di creare una
cosa veramente diversa, non a partire da un rifiuto puro e semplice del
mondo attuale (hippy), ma utilizzando, trasformando quel che questo mondo
produce, spreca. Questa cosa diversa è
nascosta dentro queste lotte, qualsiasi cosa pensino e vogliano coloro che vi
partecipano, e qualsiasi cosa affermino i «gauchisti» che vi prendono parte e
che le teorizzano. Tali movimenti saranno ulteriormente condotti a prender
coscienza dei loro atti, a comprendere quel che fanno per farlo meglio.
Per
quelli che già d’ora si pongono la questione del comunismo, non può esser
questione di intervenire in tutte queste lotte per apportarvi il messaggio
comunista, proponendo a queste azioni limitate di volgersi alla «vera» attività
comunista. Non si tratta di apportare certe parole d’ordine ma in primo luogo
di mostrare la ragione e il meccanismo di queste lotte, di mostrare quel che
saranno costrette a fare. Questa azione non ha senso che attraverso una
partecipazione reale a tali movimenti, senza attivismo, ma ogni volta che è
possibile. Questo non significa l’abbandono, da parte di quelli che vi si
dedicano, dell’attività propriamente teorica, di ricerca e di esposizione.
Non è stato ancora detto tutto e, per esempio, questo testo e altri, non sono
che approcci al problema. Detto questo. c’è un certo modo di fare della
teoria che conduce a non entrare mai in contatto con il movimento sociale reale;
in ogni modo questo non è un problema, e l’attività comunista distinguerà
essa stessa questi due modi di essere.
Dal
punto di vista negativo, tutto quel che serve a demolire le varie mistificazioni
del capitale, che venga dallo Stato, dal Partito Comunista, dai «gauchisti» è
ugualmente una pratica comunista, sia che questa propaganda si faccia con le
parole, con dei testi o con gesti. L’attività teorica è pratica. Da un lato,
non bisogna fare nessuna concessione ideologica. Ma d’altra parte il solo modo
di portare avanti il programma e di permettere al comunismo teorico di svolgere
il suo ruolo pratico, è quella di partecipare all’agitazione e
all’unificazione che i movimenti sociali intraprendono da varie parti. A suo
modo, il comunismo è già passato all’attacco.
(aprile
1972)
Note
1
È quel che il Partito Comunista dice che
farebbe se fosse al potere.