Contributo alla critica dell’ideologia ultrasinistra  

(Leninismo e ultrasinistra)

 

Il testo che segue è il prodotto del lavoro di un gruppo «informale» di compagni che sono tutti passati attraverso l’ultrasinistra e che in seguito hanno messo in discussione le concezioni fondamentali di questa corrente. Era stato redatto per la riunione organizzata nel giugno 1969 da ICO (il bollettino «Informations Correspondance Ouvrière» riunisce dal 1958 un gruppo di operai e di militanti ultrasinistri). Noi speravamo allora di impegnare una discussione di fondo con dei militanti ultrasinistri, «consiliaristi», ma l’ideologia ultrasinistra che volevamo affrontare ci è apparsa in stato di avanzata decomposizione. Se, come talvolta si dice, la nostra epoca è quella della morte di tutte le ideologie, non sembra che l’ideologia ultrasinistra sia stata risparmiata. Ora noi possiamo solo accelerare un processo dà largamente iniziato. L’importante è di andare avanti facendo progredire il nostro lavoro teorico: ne abbiamo dunque approfittato per sviluppare la parte del testo consacrata alla dinamica del capitalismo e alla legge del valore. Il problema della liquidazione dell’ideologia ultrasinistra è in via di risoluzione, non dal nostro testo, ma dal movimento stesso della società: ora quel che importa è porre i problemi della rivoluzione.

 

«Una mistificazione esisteva non soltanto nelle sue risposte, ma nelle stesse domande».

K. Marx, L’ideologia tedesca

 

Non v’è alcun dubbio che uno degli scopi principali della riunione organizzata da ICO sarà di «coordinare» l’attività di diversi gruppi ultrasinistri esistenti in Francia e nel mondo. Ma subito una domanda s’impone: quale attività? Si possono coordinare solo lavori che vanno nello stesso senso, che ruotano intorno alle stesse preoccupazioni, il che beninteso non implica un accordo teorico totale, ma presuppone in ogni caso una discussione; e questa discussione può poggiare solo sul fondo. È per questo che noi proponiamo, in preparazione di questa riunione, un contributo teorico che verta su due punti essenziali e strettamente legati (e che in realtà ne formano uno solo): il problema detto dell’«organizzazione» e il problema del contenuto del socialismo. Insomma, il mezzo e il fine del movimento rivoluzionario. La corrente ultrasinistra (indicheremo cosa intendiamo con ciò) si è pronunciata e definita su questi due punti. Vorremmo riflettere qui sulle soluzioni da essa proposte.

Lungi dall’allontanarci dal lavoro concreto il nostro modo di procedere secondo noi è il solo che possa permettere un reale «coordinamento» del lavoro dei diversi gruppi ultrasinistri presenti alla riunione nazionale e a quella internazionale. Tutti gli ultrasinistri, per i quali l’attività rivoluzionaria è realmente un problema pratico, non possono che porsi il problema teorico dell’orientamento del loro lavoro.

È chiaro che la nostra critica dovrà essere, tra l’altro, storica; non vogliamo innanzitutto contrapporre idee ad altre idee, ma collocare storicamente le concezioni che esaminiamo. Questo è tanto più giustificato in quanto le concezioni in questione si definiscono attraverso un riferimento costante a un passato ben preciso e a teorie uscite da un certo periodo della storia del movimento operaio.

 

1. LA CORRENTE ULTRASINISTRA

 

Cos’è di fatto la corrente ultrasinistra? Il prodotto e uno degli aspetti del movimento rivoluzionario che seguì la Prima Guerra mondiale e sconvolse l’Europa capitalistica senza distruggerla dal 1917 al 1921-’23. Le idee ultrasinistre affondano le loro radici in questa corrente degli anni Venti, essa stessa espressione della lotta di decine di migliaia di operai rivoluzionari in Europa. Si tratta innanzitutto di un movimento minoritario che si opponeva all’orientamento generale del movimento rivoluzionario mondiale. Il termine stesso è significativo: c’è la destra (i socialpatrioti Ebert, Longuet ecc.), il centro (Kautsky, la maggioranza del PCF), la sinistra (Lenin e l’Internazionale Comunista) e gli ultrasinistri. La corrente ultrasinistra si definisce subito come opposizione: all’interno del KPD e dell’Internazionale Comunista. Questo movimento minoritario si afferma opponendosi alla maggioranza dell’Internazionale Comunista, alle tesi che trionfano nel movimento comunista internazionale: cioè al leninismo. La corrente ultrasinistra trae la sua forza innanzitutto dal movimento rivoluzionario in Germania e nei Paesi Bassi; i suoi appoggi in Francia e in Gran Bretagna sono scarsi[1]. (Mettiamo deliberatamente da parte la Sinistra italiana, il «bordighismo», che non includiamo nell’ultrasinistra e che esamineremo un po’ più avanti. Prendiamo in qualche modo come «criterio» dell’ultrasinistra l’opposizione comunista di sinistra al leninismo nel suo insieme, come teoria e come pratica).

Uno studio del movimento ultrasinistro mostra che esso è lungi dall’essere monolitico (vedi l’opuscolo di ICO sul movimento dei Consigli in Germania). Peraltro le sue diverse tendenze si evolsero secondo gli anni e le circostanze: per esempio, la Risposta a Lenin di Gorter sviluppa una concezione che l’essenziale della corrente del «socialismo dei consigli» non adotta. Sui due punti fondamentali (l’«organizzazione» e il contenuto del socialismo), studiamo dunque solo le idee conservate nell’ulteriore sviluppo di questa corrente, quindi dagli attuali gruppi ultrasinistri di cui ICO offre senza dubbio uno dei migliori esempi.

Le concezioni ultrasinistre in materia di organizzazione sono contemporaneamente il prodotto di un’esperienza pratica (le lotte operaie in Germania, soprattutto) e di una critica teorica (la critica del leninismo). Si sa che, per Lenin, il movimento operaio non può essere rivoluzionario di per sé: gli occorre un partito che gli apporti la «coscienza di classe», la «coscienza socialista». Il problema rivoluzionario centrale consiste nel forgiare una «direzione» capace di condurre gli operai alla vittoria. Sforzandosi di teorizzare l’esperienza delle organizzazioni di fabbrica in Germania, gli ultrasinistri opposero alla teoria leninista la concezione secondo la quale la classe operaia non ha alcun bisogno di essere diretta da un partito per essere rivoluzionaria. La rivoluzione sarebbe l’opera delle masse organizzate in Consigli operai e non di un proletariato guidato e controllato da rivoluzionari professionali. Il KAPD [2] di cui Gorter teorizza l’attività nella sua Risposta a Lenin [3], concepiva ancora il suo ruolo come quello di un’avanguardia organizzata al di fuori delle masse, che ha la funzione di illuminarle e non di dirigerle come secondo la teoria leninista. Ma questa stessa concezione era superata da alcuni ultrasinistri contrari al dualismo partito-organizzazione di fabbrica: i rivoluzionari non devono cercare di raggrupparsi in organizzazioni speciali distinte dalle masse. Questa tesi condusse nel 1920 alla creazione dell’AAUD-E[4] che rimproverava all’AAUD di essere «l’organizzazione di massa» del KAPD. Il comunismo dei consigli, e in primo luogo il suo più brillante teorico Anton Pannekoek [5], avrebbe fatto proprie le idee dell’AAUD-E; egualmente è su questa concezione che si fonda il lavoro di ICO: ogni raggruppamento di rivoluzionari che esista al di fuori degli organi creati dagli operai stessi e che tenti di darsi una linea e di formulare una teoria coerente e globale, alla fin fine può solo porsi come direzione degli operai. I rivoluzionari dunque fanno solo circolare delle informazioni e stabiliscono contatti, ma non cercano mai, in quanto gruppo, di elaborare una teoria e un orientamento d’insieme.

Il contenuto del socialismo fu anch’esso concepito a partire dall’esperienza proletaria dell’epoca e dalla critica del leninismo. Gli ultrasinistri vedevano in Germania e in Russia il prodigioso sviluppo dei consigli di fabbrica e dei Consigli operai. In Germania, i consigli rimasero sotto il dominio politico dei riformisti. In Russia, i compiti che essi potettero adempiere furono limitati al controllo operaio (1917 e inizio del 1918) e in seguito il movimento fu liquidato. I bolscevichi, diceva Lenin, devono amministrare la Russia. Così un apparato burocratico si formò a poco a poco per gestire l’economia russa. Gli ultrasinistri denunciarono questa caricatura del socialismo e posero quella che doveva rimanere la loro tesi fondamentale al riguardo: il socialismo è la gestione della società non da parte di una minoranza di «amministratori» ma da parte delle masse operaie organizzate in Consigli. Il socialismo è la gestione operaia. Questa concezione è rimasta al centro delle idee ultrasinistre. La critica del partito si collega alla critica del «socialismo» russo. Al partito, strumento di presa del potere e di gestione della società socialista, gli ultrasinistri sostituirono i Consigli operai.

Su questi due punti la corrente ultrasinistra si è fondata negli anni Venti a partire da una critica del leninismo. Ci si può domandare se questa critica non sia stata, così come ciò contro cui era volta, il prodotto di un’epoca; e se non porti il segno dei limiti di quel periodo. La corrente ultrasinistra ha analizzato il leninismo in profondità? O piuttosto non l’ha contraddetto senza colpirne davvero le radici?

 

2. IL PROBLEMA DELL’«ORGANIZZAZIONE»

 

Il punto di partenza metodologico della teoria leninista del partito è una distinzione che si trova in tutti i grandi teorici socialisti dell’epoca e anche in Engels sul finire della sua vita [6]: secondo questa distinzione il «movimento operaio» e il «socialismo» (cioè le idee, la dottrina, il marxismo, il socialismo scientifico ecc. – si può chiamarlo in diversi modi) sono due cose radicalmente diverse e separate. Vi sono gli operai e le loro lotte quotidiane; vi sono il socialismo e i rivoluzionari. Bisogna – dice Lenin, rifacendosi a Kautsky [7] – «introdurre» le idee rivoluzionarie tra gli operai. Movimento operaio e movimento rivoluzionario sono separati l’uno dall’altro. Bisogna unirli e assicurare la direzione degli operai da parte dei rivoluzionari professionali. A questo fine, i rivoluzionari si raggruppano separatamente e intervengono dall’esterno nel movimento operaio. L’analisi di Lenin che pone i rivoluzionari al di fuori del movimento operaio si fonda su una constatazione apparentemente evidente: i rivoluzionari sembrano essere in un mondo completamente diverso da quello in cui si svolge la vita quotidiana degli operai. Lenin non fa che appoggiarsi su quest’apparenza senza andare al fondo alle cose: il movimento rivoluzionario, la dinamica che porta verso il comunismo, sono prodotti dalla società capitalistica. È a partire da questo fatto che Marx aveva elaborato la sua concezione del partito. Il termine partito torna spesso sotto la penna di Marx: bisogna distinguere tra i princìpi che egli pone e le analisi congiunturali sull’evoluzione del movimento operaio della sua epoca. Non c’è alcun dubbio che alcune di queste analisi erano false (per esempio quelle sui sindacati). D’altra parte non vi è un testo in cui Marx affermi: ecco ciò che penso sul partito, ma un grande numero di osservazioni disperse in tutta la sua opera. Gli esegeti possono dunque sbizzarrirsi, tuttavia ci sembra che un punto di vista globale si delinei chiaramente da tutti questi testi. La società capitalista produce da sé un partito comunista, che è solo l’organizzazione del movimento oggettivo (cioè indipendente dalla «coscienza» nel senso di Kautsky e di Lenin) che spinge questa società verso il comunismo (più oltre vedremo quel che è, e, comunque, quel che non è il comunismo). In un periodo di pace sociale, l’equilibrio della società rimane stabile, gli elementi del sistema si sostengono e nessuna rottura è possibile. In tali condizioni il movimento rivoluzionario è ridotto ad alcuni aspetti limitati e a prima vista anche derisori: alcune lotte operaie che si spingono abbastanza lontano da rimettere in causa certi fondamenti dell’ordine stabilito (per esempio, oggi, la rimessa in discussione dei sindacati); rivolte brutali che spesso non provengono dagli operai ma da alcuni strati del contadiname o degli studenti, benché esse svolgano solo il ruolo assegnato loro dalla situazione generale della società in quel momento; infine piccoli gruppi e persino individui isolati, quelli che si chiamano i «rivoluzionari». Questa è la nostra attuale situazione. Ma non vi sono da un lato gli «operai» e dall’altro i «rivoluzionari»: o, piuttosto, se i rivoluzionari sembrano separati dal proletariato ciò dipende precisamente dal fatto che il «proletariato» non può affermarsi ed erigersi come classe dominante. Lenin vede il proletariato riformista e si chiede come potrà diventare rivoluzionario. La sua risposta è semplice: il proletariato farà la rivoluzione solo se gli viene apportata la coscienza di classe. Lenin scava tra riforma e rivoluzione un fossato tale che gli operai non possono superarlo da soli. La definizione rivoluzionaria del proletariato, quale si libera e s’impone a Marx, verso la metà del XIX secolo, dopo vari decenni di lotte operaie, è al contrario basata sulla costrizione storica. Quando la situazione non permette di distruggere i rapporti di produzione capitalisti, il proletariato è costretto a vendere la prpria forza-lavoro: domandando aumenti salariali, con ciò stesso tenta, lo voglia o no, di modificare i rapporti di distribuzione. Quando si presenta una situazione rivoluzionaria, il proletariato se la prende con i rapporti di produzione. Esso non scompare mai dalla scena della storia: la lotta di classe riveste forme diverse a seconda della fase, e lo obbliga a essere riformista o rivoluzionario. È per questo che il rivoluzionario s’interessa innanzitutto non a ciò che questo o quel proletario, o anche l’intero proletariato, si rappresenta come scopo, ma a ciò che il proletariato sarà storicamente costretto a fare. Si tratta di comprendere un processo storico e non di irrigidirlo isolandone uno degli elementi (vedi quanto scriviamo più avanti sulla dinamica del capitalismo) [8].

Di fatto ogni movimento rivoluzionario corrisponde alla società da cui è uscito e a quella che si avvia a instaurare: il movimento comunista, il partito nel senso marxiano, riflette in particolare la divisione lavoro manuale-lavoro intellettuale. Questa divisione esso non la «sceglie»; la base sulla quale si sviluppa gliela impone. In un periodo di pace sociale vi sono degli operai rivoluzionari isolati nelle loro fabbriche e che fanno ciò che possono sul piano delle lotte quotidiane, della critica del capitalismo e delle istituzioni che lo sostengono tra gli operai (sindacati e partiti «operai» riformisti). In genere vi riescono abbastanza male, il che è del tutto normale. E, d’altra parte, vi sono dei rivoluzionari (operai e non) che leggono, scrivono e fanno il possibile per diffondere il loro lavoro teorico: in genere vi riescono egualmente abbastanza male, il che è altrettanto normale. Lenin vorrebbe che i «teorici» dirigessero gli «operai»; ICO lo nega energicamente e ne conclude che bisogna evitare ogni lavoro teorico collettivo. Ma il problema è altrove: rivoluzionari «operai» e rivoluzionari «teorici» sono solo due aspetti dello stesso processo. Credendo di vedervi una frattura profonda, Lenin non faceva che prendere l’apparenza per realtà. Ma ICO si limita a rovesciare l’errore di Lenin, senza vedere che questa pretesa separazione è solo illusoria, com’è d’altronde dimostrato dall’avvento di un periodo un po’ rivoluzionario. Cosa si è visto nel Maggio-Giugno 1968? Un certo numero di comunisti «ultrasinistri» – la cui attività rivoluzionaria, sia prima sia dopo quegli eventi, era ed è consacrata per l’essenziale a una critica teorica della società capitalistica – hanno lavorato con una minoranza operaia rivoluzionaria. Non si sono né legati né uniti ai lavoratori. E prima non erano separati dagli operai più di quanto ogni operaio non sia separato dagli altri nella situazione di atomizzazione della classe operaia che caratterizza ogni periodo non rivoluzionario (com’è stato spesso dimostrato, i sindacati non diminuiscono bensì rafforzano quest’atomizzazione). Marx non era maggiormente separato dagli operai scrivendo Il Capitale piuttosto che agendo nella Lega dei Comunisti e nell’Internazionale: lavorando in questi gruppi non aveva né il bisogno imperioso (come Lenin) né il timore (come ICO) di costituirsi quale direzione della classe operaia.

La concezione marxista del partito come prodotto storico della società capitalistica, che riveste diverse forme secondo le fasi attraversate da questa società, permette di superare il dilemma necessità del partito-timore del partito. Il partito per Marx è solo l’organizzazione spontanea (cioè totalmente determinata dall’evoluzione sociale) del movimento rivoluzionario generato dal capitalismo. Il partito sorge spontaneamente dal suolo storico della società moderna. La volontà e il timore di «creare» il partito sono entrambi altrettanto illusori. Il partito non ha né da essere creato né da non esserlo: è un puro prodotto storico. Il rivoluzionario non ha bisogno né di costruire il partito né di temere di costruirlo. Tra poco vedremo le conseguenze pratiche di questo punto di vista. Esaminiamo prima un argomento spesso impiegato dagli ultrasinistri.

Bisogna guardarsi – dicono – dal costituirsi in partito: vedete quel che è successo in Russia dopo il 1917. Per l’appunto vediamo! La rivoluzione del 1917 è stata effettuata dal partito nel senso marxiano; quanto al partito che Lenin aveva voluto costruire a partire dal Che fare?, svolse costantemente un ruolo di freno tra febbraio e ottobre. Lo stesso Lenin fu rivoluzionario nel 1917 solo perché respinse nella sua prassi il Che fare?. In seguito la debolezza del proletariato russo e l’assenza di rivoluzione in Europa costrinsero la rivoluzione russa ad assolvere esclusivamente i compiti della rivoluzione borghese impossibile. Il partito bolscevico assicurò la direzione del Paese e la teoria leninista del partito separato dalle masse, «avanguardia cosciente», che possiede il sapere e la... coscienza, servì da potente paravento ideologico alla borghesia di Stato. Gli ultrasinistri hanno preso questa ideologia per il centro del problema: niente partito – dicono –, altrimenti si finisce come in Russia. In verità non è il partito leninista ad avere causato la disfatta nella rivoluzione russa; è solo l’assenza di rivoluzione mondiale che ha potuto dare al partito di Lenin il fiato perso tra febbraio e ottobre. Giacché bisogna distinguere tra il partito in senso marxiano e il partito bolscevico. Si crede che sia stato il partito bolscevico a fare la Rivoluzione d’ottobre. È falso. Il partito bolscevico – il partito che Lenin aveva tentato di costruire da oltre quindici anni, la «direzione» delle masse, l’«avanguardia» – era stato superato dallo slancio delle masse organizzate (alle quali, dall’inizio, si erano uniti numerosi bolscevichi). Solo la successiva debolezza della rivoluzione, d’altronde quasi subito dopo l’ottobre ’17, ha ridato al partito tutto il potere. A quel punto, l’apparato centralizzato del partito bolscevico ha potuto dirigere le masse e organizzare la vita della società russa. Gli ultrasinistri non compresero questa distinzione e si è arrivati al rifiuto puro e semplice di ogni coerente attività collettiva (ICO). Ci si contenta di adottare una posizione simmetrica a quella leninista. Lenin aveva voluto costruire un partito; gli ultrasinistri si rifiutavano di farlo. Pro o contro il partito, l’ultrasinistra si limitava a dare una risposta diversa alla medesima falsa domanda. Per noi non è sufficiente rovesciare l’ottica di Lenin, occorre abbandonarla.

Sul piano dell’attività, ICO ha egualmente adottato una posizione esattamente simmetrica a quella di Lenin. I gruppi leninisti moderni (Lutte Ouvrière, per esempio) tentano in ogni modo di organizzare gli operai. ICO si accontenta di fare circolare delle informazioni senza mai prendere posizione collettivamente su di un problema. Quest’analisi di ICO apparsa nel n. 11 dell’«Internationale Situationniste» ci pare giusta (il che certo non vuol dire che accettiamo l’insieme della teoria e della pratica situazioniste):

«Abbiamo molti punti di accordo con loro [i compagni di ICO] e un’opposizione fondamentale: noi crediamo alla necessità di formulare una critica teorica precisa dell’attuale società di sfruttamento. Riteniamo che una tale formulazione teorica possa essere prodotta solo da una collettività organizzata; e viceversa pensiamo che ogni legame permanente tra i lavoratori debba tendere a scoprire una base teorica generale della sua azione. Ciò che la Misère en milieu étudiant chiamava la scelta dell’inesistenza fatta da ICO in questo campo, non significa che noi pensiamo che i compagni di ICO manchino di idee o di conoscenze teoriche ma, al contrario, che, mettendo tra parentesi tali idee, che sono diverse, essi perdano più di quanto non guadagnino in capacità di unificazione (ciò che in fondo conta praticamente di più)» (p. 63).

Preciseremo oltre a quali compiti rivoluzionari ci dedichiamo.

 

3. IL CONTENUTO DEL SOCIALISMO

 

La rivoluzione russa dovette adempiere il compito di sviluppare il capitalismo in Russia. Gestire l’economia il meglio possibile divenne la principale parola d’ordine. Ci si dedicò a formare, a partire dai quadri del partito bolscevico e dai vecchi «specialisti» borghesi, un corpo di amministratori efficaci. Gli ultrasinistri arrivarono all’idea che questa gestione da parte di una minoranza situata al di sopra della classe operaia non poteva essere il socialismo: alla gestione burocratica essi opposero la gestione operaia. Si giunse così a una coerente ideologia ultrasinistra con al centro i Consigli operai: strumenti di lotta, di presa del potere e di amministrazione della società futura, essi occupano – per esempio nel libro di Pannekoek Les conseils ouvriers – il posto centrale riservato al partito da Lenin. Di fatto, questa concezione ci obbliga a riflettere su quel che è veramente la società capitalistica: perché prima di sapere cos’è il socialismo abbiamo bisogno di sapere a cosa si contrappone. La teoria della gestione operaia presenta il capitalismo innanzitutto come un modo di gestione: l’importante è che l’economia sia diretta da una minoranza di capitalisti e non dalle masse operaie. Sostituiamo dunque i padroni con gli operai8 bis.

Ma il capitalismo è innanzitutto un modo di gestione? La critica rivoluzionaria del capitalismo avviata da Marx non pone in primo piano il problema di sapere chi gestisca il capitale. Al contrario, Marx ci mostra i capitalisti come semplice funzione del capitale; dice anche che il padrone è solo il funzionario del capitalismo: «Il capitalista non è che il funzionamento del capitale e l’operaio quello della forza-lavoro». I pianificatori russi, lungi dal «dirigere» l’economia, al contrario ne sono diretti, e tutto lo sviluppo dell’economia russa segue le leggi oggettive dell’accumulazione capitalistica. In breve, il «gestore» è al servizio di rapporti di produzione precisi e costrittivi. Il capitalismo non è un MODO DI GESTIONE BENSÌ UN MODO DI PRODUZIONE BASATO SU DEI RAPPORTI DI PRODUZIONE. Sono questi i rapporti da distruggere se si vuole abbattere il capitalismo. L’analisi rivoluzionaria del capitalismo evidenzia il ruolo del capitale di cui i «dirigenti» dell’economia possono solo rispettare le leggi oggettive, in URSS come negli USA.

 

4. LA LEGGE DEL VALORE

 

Il capitalismo è fondato sullo scambio: si presenta prima di tutto come un’«immensa accumulazione di merci». Ma pur non potendo esistere senza lo scambio, il capitalismo è diverso dalla semplice produzione di merci: si costituisce anche lottando contro la produzione mercantile semplice. Il capitale è basato innanzitutto su di uno scambio del tutto particolare, lo scambio tra lavoro vivo e lavoro morto. L’originalità di Marx rispetto agli economisti classici consiste innanzitutto nella definizione del concetto di forza-lavoro, che permette di svelare il segreto del plusvalore, distinguendo tra lavoro necessario e pluslavoro.

In che modo le merci vengono commisurate le une alle altre? Con quale meccanismo si misura che una quantità X di merce A equivale a una quantità Y di merce B? Marx stabilisce che bisogna cercare la spiegazione del rapporto XA-YA non nel carattere concreto di A e di B, nella qualità rispettiva di queste due merci, ma in una relazione quantitativa. A e B possono scambiarsi, e nella proporzione XA=YB, solo se contengono entrambe una quantità di «qualcosa di comune», (KARL MARX, Il Capitale, I, 1). Se facciamo astrazione del carattere concreto, utile, di A e di B, «resta loro solo una qualità, quella di essere prodotti del lavoro» (ibidem): A e B si scambiano in proporzioni determinate dalle rispettive quantità di lavoro cristallizzatovi: queste stesse quantità di lavoro hanno per misura la loro durata temporale. Il tempo di lavoro medio socialmente necessario al quale l’analisi arriva è un’astrazione: non si può calcolare ciò che rappresenta un’ora di lavoro medio per una determinata società. Ma, distinguendo tra lavoro concreto e lavoro astratto, Marx può comprendere il meccanismo dello scambio e analizzare un tipo di scambio particolare: il salariato.

«Ciò che vi è di meglio nel mio libro è: l) di aver dimostrato nel primo capitolo il doppio carattere del lavoro a seconda che esso si esprima come valore d’uso o come valore di scambio (tutta la comprensione dei fatti è basata su questa tesi) [...].» (Lettera a Engels, 24 agosto 1867).

L’acquisto e la vendita di ogni merce, compresa la forza-lavoro, obbediscono a ciò che Marx chiama la legge del valore. Tale legge si presenta dapprima abbastanza semplicemente: le merci si scambiano al loro valore determinato dal tempo di lavoro medio necessario alla loro produzione. Marx afferma nel Libro III del Capitale che «lo scambio di merci ai loro valori – o approssimativamente ai loro valori – presuppone [...] uno stadio meno avanzato che non lo scambio ai prezzi di produzione, che necessita di un elevato livello dello sviluppo capitalistico».

Di fatto, la legge del valore è concepita come la causa e al contempo la conseguenza di una lunga evoluzione storica complessa e contraddittoria.

Lo scambio appare nella società primitiva dacché il grado della produttività del lavoro permette a una comunità di produrre al di là della soddisfazione dei propri bisogni. La divisione del lavoro appare, così come la moneta, l’«equivalente generale» di tutte le altre merci: il valore di scambio sembra così acquistare una certa autonomia, personificata e individualizzata dall’usuraio e dal mercante, che vivono della circolazione del denaro e, in fin dei conti, sono mantenuti dal pluslavoro dei lavoratori produttivi. Chi dice moneta dice prezzo: il prezzo non è che la forma monetaria del valore, ma non coincide con il valore. Il gioco dell’offerta e della domanda si esercita su tre piani: vi è la concorrenza l) tra i venditori, 2) tra i compratori, 3) tra i venditori e i compratori. Il rapporto tra l’offerta e la domanda fa abbassare o salire il prezzo al di sopra o al di sotto del valore. Ma quel che, per un periodo dato e nei limiti di queste oscillazioni, determina il valore di una merce, non è la concorrenza, ma il costo di produzione di quella merce. Il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro medio, il suo prezzo dal rapporto tra l’offerta e la domanda. La legge del valore si presenta allora come «la legge che, nei limiti delle oscillazioni dei periodi commerciali, mantiene necessariamente il prezzo di una merce eguale ai suoi costi di produzione» (KARL MARX, Lavoro salariato e capitale).

Fin qui siamo nel quadro della produzione mercantile semplice: il capitalismo sviluppa la legge del valore e complica all’estremo il rapporto prezzo-valore. L’accumulazione primitiva capitalista poggia essenzialmente su due punti: la trasformazione della forza-lavoro in merce, il che presuppone che essa compaia libera sul mercato e sia dunque un elemento distinto dagli altri nel processo lavorativo; e l’accumulazione d’ingenti capitali disponibili per l’investimento industriale. Le cospicue somme ammassate nel sistema mercantilista dal XV al XVII secolo furono impiegate a questo scopo. In un tutt’altro contesto, uno degli obiettivi della liquidazione dei kulak e dei Nepmen, a partire dal 1928, in Russia, era di permettere allo Stato di impadronirsi di una grossa quantità di valori per investirli nell’industria. In entrambi i casi lo sviluppo del capitale commerciale fu la tappa necessaria prima di un prodigioso balzo industriale. Prodotto esso stesso della crescita dello scambio, il capitale lo estende su tutto il pianeta e con ciò modifica non la legge del valore bensì la sua manifestazione: le forme del valore sono trasformate al fine di meglio conservare e sviluppare fino in fondo il contenuto della legge. Così la distinzione prezzo-valore esisteva prima che la forza-lavoro fosse scambiata; ma il capitale industriale prolunga e modifica il rapporto prezzo-valore. Si sa che il prezzo ruota intorno al valore secondo le fluttuazioni della domanda e  dell’offerta. Ma nella società capitalistica nasce tutta una dinamica della relazione prezzo-valore.

«Che cosa succede se il prezzo di una merce sale?

I capitali saranno gettati in massa nell’industria che prospera e questo afflusso di capitali su di un terreno favorevole durerà finché i guadagni vi ritorneranno normali, o piuttosto fino al momento in cui la sovrapproduzione farà cadere i prezzi di questi prodotti al di sotto dei costi di produzione.» (KARL MARX, Lavoro salariato e capitale.)

Marx riprende questo problema in maniera sistematica nel Libro III del Capitale:

«In seguito alla differente composizione organica [9] dei capitali investiti nelle diverse branche della produzione, visto dunque che diversissime quantità di lavoro sono messe in opera da capitali di eguale grandezza, secondo la differente percentuale che la parte variabile costituisce in un capitale totale di volume dato, questi capitali si appropriano di diversissime quantità di pluslavoro donde producono diversissime masse di plusvalore. Di conseguenza, i tassi di profitto che predominano nelle diverse branche della produzione rivelano originariamente delle grandi differenze. Sotto l’effetto della concorrenza, questi diversi tassi di profitto si uguagliano in un tasso di profitto generale, che è la media di tutti quei diversi tassi di profitto. Si designa con profitto medio il profitto che, conformemente a questo tasso di profitto generale, riviene a un capitale di grandezza data, qualunque sia la sua composizione organica. Si ottiene il prezzo di produzione di una merce aggiungendo al suo costo la parte del profitto medio annuale sul capitale investito (e non soltanto consumato) nella sua produzione, parte calcolata conformemente alle sue condizioni di rotazione».

Questo processo non è altro che la perequazione del tasso di profitto: lo sviluppo degli scambi produce un prezzo di mercato che oscilla insieme alle fluttuazioni della concorrenza nei limiti prima descritti. Il movimento dei prezzi di mercato (o prezzi correnti) appare come una negazione della legge del valore. Ma la circolazione del capitale, i suoi incessanti spostamenti in cerca di branche dove i costi di produzione siano i meno elevati possibile, tendono a uniformare i tassi di profitto. Il capitalismo tende a realizzare ciò che Marx chiama il «comunismo del capitale» in cui il plusvalore viene redistribuito. Si crea così un prezzo di produzione, una sorta di media delle oscillazioni dei prezzi di mercato per ogni merce.

«Il prezzo così livellato, che ripartisce ugualmente il plusvalore sociale tra le masse di capitali in proporzione alla loro grandezza, è il prezzo di produzione delle merci, il centro intorno al quale le merci oscillano.» (KARL MARX, Il Capitale, Libro III).

Proprio negando il prezzo di mercato, il prezzo di produzione appare come una nuova negazione della legge del valore, poiché il prezzo delle merci si compone del costo di produzione più il profitto medio.

«Può dunque sembrare che la teoria del valore sia qui incompatibile con il movimento reale e con i movimenti empirici della produzione.» (Ibidem).

Marx ci invita a ragionare al livello della società considerata globalmente e a considerare il processo di produzione capitalista dal punto di vista della totalità.

«Il capitale investito in alcuni settori della produzione ha una composizione media, cioè esattamente o approssimativamente la composizione del capitale sociale medio.

In questi settori, il prezzo di produzione delle merci coincide esattamente o approssimativamente con il loro valore espresso denaro.» (Ibidem).

Negli altri settori esso non coincide con il valore: si produce ciò che Marx chiama un fenomeno di «compensazione»:

«Supporre che le merci di diversi settori della produzione si vendano al loro valore, significa semplicemente che il loro valore è il punto centrale intorno al quale gravitano i loro prezzi e si equilibrano i loro alti e bassi. Dunque bisognerà sempre distinguere, oltre al valore individuale delle merci particolari prodotte dai diversi produttori, un valore di mercato... Per alcune di queste merci il valore si troverà al di sotto del valore di mercato (se la loro produzione esige un tempo di lavoro più corto di quello che esprime il valore del mercato)- per altre esso eccederà il loro valore» (Ibidem).

L’interesse dell’analisi di Marx risiede nel tentativo di collegare direttamente il rapporto domanda-offerta alla questione del tempo di lavoro (come l’ha fatto sopra distinguendo valore e prezzo):

«Perché una merce sia venduta al suo valore mercantile, cioè proporzionalmente al lavoro socialmente necessario che essa contiene, la quantità totale del lavoro sociale consacrato alla massa totale di questa specie di merce deve corrispondere all’ampiezza del bisogno che la società ne prova, beninteso, del bisogno sociale solvibile. La concorrenza, le fluttuazioni dei prezzi correnti che corrispondono alle fluttuazioni dell’offerta e della domanda, tendono costantemente a riportare a quel livello la quantità totale del lavoro consacrato a ogni categoria di merci» (Ibidem).

Non vi è contraddizione tra il valore da una parte e il costo di produzione più il profitto medio dall’altra. È il funzionamento stesso del capitalismo, attraverso la trasformazione del plusvalore in profitto, a distinguere la frazione del valore di una merce che rappresenta il costo di produzione da quella che rappresenta il profitto medio: il profitto medio, anche se appare come «esterno» (Marx), è nondimeno il prodotto dell’investimento della totalità del capitale impegnato dalla società.

«Certamente, se si prende in considerazione il capitale sociale totale, il valore delle merci che esso ha prodotto (o, in termini di moneta, il loro prezzo) è uguale al valore del capitale costante, più il valore del capitale variabile, più il plusvalore.» (Ibidem)

«È chiaro che il profitto medio non può essere diverso dalla massa totale dei plusvalori ripartiti sulle masse del capitale, alla quota della loro grandezza, nei diversi settori della produzione.» (Ibidem)

Negando doppiamente la legge del valore con il prezzo di mercato e con il prezzo di produzione, il capitalismo non fa che rafforzarla ed estenderla. Il valore acquista ora una forma «modificata», ma la trasformazione dei valori in prezzi di produzione e la creazione del valore mercantile distinto dal valore individuale realizzano la legge generalizzandola:

«Le merci – considerate in blocco e su scala sociale – sono vendute al loro valore» (ibidem).

Marx riassume così il meccanismo della manifestazione della legge attraverso la sua doppia negazione:

«La concorrenza riesce a stabilire, prima in un settore determinato, un valore mercantile e un prezzo correnti uniformi a partire dai differenti valori individuali delle merci. Ma soltanto la concorrenza dei capitali nei diversi settori genera il prezzo di produzione e questo livella il profitto tra quei settori. Questo processo richiede uno sviluppo, del modo capitalistico di produzione superiore a quello dello stadio inferiore. [...] Esiste sempre una compensazione: per troppo plusvalore in tale merce vi è troppo poco plusvalore in talaltra merce, cosicché gli scarti tra i valori e i prezzi di produzione si compensano reciprocamente. Nel sistema capitalistico di produzione, la legge generale si impone come tendenza dominante solo in maniera approssimativa e complessa, come un termine medio e inverificabile tra eterne fluttuazioni» (ibidem).

L’importanza di tutti questi sviluppi risiede nell’evidenziazione del ciclo storico dello scambio che continua sotto il capitalismo. Il «marxismo» volgarizzato ha fatto della legge del valore un semplice meccanismo regolatore, rigettando ciò in cui risiedeva l’interesse del lavoro di Marx: la ricerca di una dinamica del capitalismo. Uno degli elementi di tale dinamica è, per il movimento stesso della legge del valore, il tempo di lavoro:

«Io dimostro che proprio perché il valore della merce è determinato dal tempo di lavoro, il prezzo medio delle merci non può mai essere uguale al suo valore» (KARL MARX, Teorie sul plusvalore).

Il tempo di lavoro medio determina infatti tutta l’organizzazione sociale della produzione e della distribuzione. Regola le proporzioni in cui le forze produttive sono assegnate a tale o a talaltro posto. La legge del valore «si afferma fissando le necessarie proporzioni di lavoro sociale non nel senso generale che si applica a ogni società, ma soltanto nel senso richiesto dalla società capitalistica; detto diversamente, essa stabilisce una ripartizione proporzionale dell’insieme del lavoro sociale in funzione dei bisogni specifici della produzione capitalista» (Paul Mattick, «ISEA», n. 59). È tra l’altro per questa ragione che i capitali non andranno a investirsi in una fabbrica in India, anche se la produzione di questa fabbrica è necessaria alla sopravvivenza della popolazione: il capitale si dirige sempre là dove si moltiplica più velocemente. La regolazione mediante il tempo di lavoro medio impone di sviluppare una determinata produzione solo laddove il tempo di lavoro necessario per ottenerla è maggiormente vicino al tempo di lavoro medio.

«In un regime sociale dove l’interdipendenza del lavoro sociale esiste sotto la forma dello scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, la forma sotto la quale si manifesta la ripartizione proporzionale del lavoro è precisamente il valore di scambio di questi prodotti.» (KARL MARX, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868)

Tale è la razionalità del capitale: il valore di scambio attraverso il tempo di lavoro medio. L’interesse dell’analisi di Marx consiste nella dimostrazione che questo stesso movimento produce l’irrazionalità del sistema capitalistico. Qui consideriamo solo uno degli aspetti di questa contraddizione, a partire dalle indicazioni di Marx circa la definizione del tempo di lavoro.

 

5. LA CONTRADDIZIONE DEL TEMPO DI LAVORO

 

Abbiamo ricordato il ruolo – centrale – del pluslavoro nell’analisi della produzione del plusvalore. Marx insiste sull’origine, sulla funzione storica e sul limite storico del pluslavoro:

«Il grado di produttività già raggiunto ci indica se una parte del tempo di produzione basta alla produzione immediata e se una parte in continuo aumento può essere impiegata a creare dei mezzi di produzione. Questo suppone che la società sia in condizione di aspettare e che possa prelevare, tanto sul consumo immediato, quanto sulla produzione che le è consacrata, una crescente parte della ricchezza già creata per impiegarla in un lavoro che non è immediatamente produttivo (in seno al processo materiale di produzione).

Tutto questo esige dunque che si sia già raggiunto un certo livello di produttività e un eccedente relativo, e si può dire più esattamente, che questo livello si misura direttamente dal grado in cui il capitale circolante si trasforma in capitale fisso» (KARL MARX, Grundrisse).

Così il salariato permette di sviluppare le forze produttive a un livello fino ad allora inimmaginabile:

«La vera economia (risparmio) verte sul tempo di lavoro (minimo e riduzione a un minimo dei costi di produzione)- ma, capita che questa economia corrisponde allo sviluppo della forza produttiva» (ibidem).

Il salariato permette la produzione di plusvalore mediante l’appropriazione del pluslavoro da parte del capitale. In questo senso, la miseria alla quale esso condanna l’operaio è una necessità storica. Bisogna costringere il lavoratore a fornire del pluslavoro. Ma così le forze produttive si sviluppano e aumentano la parte relativa del pluslavoro nella giornata lavorativa dell’operaio: «Il capitale crea una grande quantità di tempo disponibile [...], detto diversamente, un margine di spazio per lo sviluppo di tutte le forze produttive di ogni individuo e dunque anche della società. [...] Esso stesso tende sempre a creare del tempo di lavoro disponibile da un lato, per trasformarlo in plusvalore dall’altro» (ibidem).

L’«esistenza contraddittoria» del pluslavoro appare dunque nettamente:

– crea la ricchezza sociale,

– apporta la miseria al lavoratore che lo fornisce.

Questa contraddizione ha una base oggettiva: la necessità del progresso delle forze produttive. Ma, a partire dal momento in cui tale crescita raggiunge un grado fantastico, il pluslavoro diventa talmente importante, rispetto al lavoro necessario, che è possibile trasformare il rapporto lavoro necessario/pluslavoro e distruggere la «base contraddittoria del pluslavoro». Il capitale «è così, suo malgrado, lo strumento che crea i mezzi del tempo sociale disponibile, che senza posa riduce a un minimo il tempo di lavoro per tutta la società e libera dunque il tempo di tutti in vista dello sviluppo proprio a ciascuno» (KARL MARX, Grundrisse).

Nel socialismo, il lavoro eccedente rispetto a quello necessario perderà il carattere di pluslavoro impostogli dai limiti storici delle forze produttive sotto il capitalismo: il tempo disponibile non sarà più fondato sulla povertà del lavoro. Non si avrà più bisogno della miseria per creare la ricchezza. Quando il rapporto tra il lavoro necessario e il pluslavoro sarà sconvolto dallo sviluppo delle forze produttive, l’eccedenza di tempo al di là del lavoro necessario all’esistenza materiale perderà la sua forma transitoria di pluslavoro.

«Il tempo libero – per il piacere e per le attività superiori – trasformerà, nel più naturale dei modi, colui che ne gode in un risultato diverso ed è quest’uomo trasformato che poi si presenterà al processo immediato di produzione.» (Ibidem).

L’economia di tempo di lavoro è una necessità assoluta per lo sviluppo dell’umanità: fonda la possibilità del capitalismo e, a uno stadio più sviluppato, quella del comunismo. È lo stesso movimento che sviluppa il capitalismo e renderà il comunismo al contempo possibile e necessario.

Contemporaneamente, la legge del valore e la misura mediante il tempo di lavoro medio si trovano impegnate nello stesso processo. La legge del valore esprime il limite del capitalismo e svolge un ruolo necessario. Fintanto che le forze produttive sono ancora poco sviluppate e che il lavoro immediato costituisce il fattore essenziale della produzione, la misura attraverso il tempo di lavoro si impone come una necessità assoluta. Ma con lo sviluppo del capitale, in particolare del capitale fisso, «la creazione di ricchezza dipende sempre meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro utilizzato e sempre di più dalla potenza degli agenti meccanici che sono messi in movimento nel corso della durata del lavoro» (ibidem).

La miseria del proletariato ha permesso così di sviluppare in modo prodigioso il capitale fisso, in cui per l’appunto si trovano fissate tutte le conoscenze scientifiche e tecniche dell’umanità: l’automazione, di cui oggi cominciamo a vedere le prime applicazioni, è solo una delle tappe di questo sviluppo. Il capitale continua a regolare la produzione attraverso l’intermediario della misura mediante il tempo di lavoro medio:

«Il capitale è una contraddizione in processo, da una parte esso spinge alla riduzione del tempo di lavoro a un minimo e, d’altra parte, esso pone il tempo di lavoro come la sola fonte e la sola misura della ricchezza. Esso diminuisce dunque il tempo di lavoro sotto la sua forma necessaria per accrescerla sotto a sua forma di pluslavoro» (ibidem).

Quanto abbiamo scritto circa l’«esistenza contraddittoria» del pluslavoro dev’essere collegato alla questione del tempo di lavoro. La famosa contraddizione forze produttive/rapporti di produzione può essere compresa solo se si vedono bene le seguenti opposizioni e gli stretti legami che le uniscono:

– contraddizione tra il ruolo del tempo di lavoro medio come regolatore delle forze produttive «in via di sviluppo» e la loro crescita che tende a distruggere la ragione d’essere di questa funzione;

– contraddizione tra la necessità di sviluppare al massimo il pluslavoro dell’operaio al fine di produrre il più possibile e la crescita stessa del pluslavoro che rende possibile la sua soppressione.

La relazione contraddittoria tra i rapporti di produzione e le forze produttive può essere compresa solo come un concetto da costruire, come sintesi di numerose questioni a vari livelli (problemi del credito, della rendita ecc., cfr. Il Capitale, Libro III): la contraddizione del tempo di lavoro e la dinamica di queste contraddizioni sono una delle manifestazioni dell’opposizione tra la crescita delle capacità produttive e i rapporti sociali nella società capitalistica.

Marx ha tentato di sintetizzare queste due questioni:

«Da quando il lavoro, sotto la sua forma immediata, ha cessato di essere la fonte principale della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura e il valore di scambio anche cessa di essere la misura del valore di uso. Il pluslavoro delle grandi masse ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, proprio come i non-lavoro di alcuni ha cessato di essere la condizione dello sviluppo delle forze generali del cervello umano» (ibidem).

La «liberazione dell’uomo» tanto annunciata da tutti gli utopisti (antichi e moderni) è da quel momento possibile:

«La produzione basata sul valore di scambio crolla con questo fatto. [...] Allora vi è il libero sviluppo delle individualità. Da quel momento in poi non si tratta più di ridurre il tempo di lavoro necessario in vista di sviluppare il pluslavoro, ma in generale di ridurre il lavoro necessario della società al minimo. Ora questa riduzione suppone che gli individui ricevano una formazione artistica, scientifica, ecc., grazie al tempo libero e ai mezzi creati a beneficio di tutti» (ibidem).

Quella che si potrebbe chiamare la dialettica del tempo di lavoro riguarda pure la società comunista e la necessaria transizione che vi conduce. Ponendo il problema del tempo di lavoro e della misura, come abbiamo tentato di fare, è possibile comprendere le affermazioni di Marx che, a prima vista, potrebbero sembrare paradossali e persino contraddittorie.

«Ogni bambino sa che ogni nazione perirebbe se interrompesse il lavoro, anche solo per una settimana9 bis. Ugualmente egli sa che la creazione di prodotti corrispondenti a bisogni diversi richiede diverse quantità determinate di lavoro sociale collettivo... Ora è molto evidente che una forma data di produzione sociale non può assolutamente eliminare questa necessità di una ripartizione, nelle proporzioni definite, del lavoro sociale; si possono solo trasformare le sue manifestazioni. Non si possono eliminare le leggi della natura. In condizioni storiche diverse si può solo trasformare la forma sotto la quale queste leggi si manifestano.» (KARL MARX, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868)

Abbiamo visto che, sotto il capitalismo, la legge del valore organizza ciò che Bucharin chiama «le proporzioni socialmente indispensabili tra le diverse branche della produzione», creando così ciò che egli definisce «lo stato d’equilibrio» della società: il regolatore fondamentale essendo il tempo di lavoro medio

È anche curioso leggere dalla penna di Marx che «in realtà nessun tipo di società può impedire che la produzione sia regolata, d’una maniera o d’un’altra, dal tempo di lavoro disponibile di una società. Ma, fintanto che questa fissazione della durata del lavoro non si effettua sotto il controllo cosciente della società, il che può essere fatto soltanto sotto il regime della proprietà comune, ma con il movimento dei prezzi delle merci, la tua tesi esposta con tanta precisione negli Annali Francotedeschi resta interamente valida». (Lettera a Engels, 8 gennaio 1868) [10].

In realtà non vi è incoerenza nel pensiero di Marx a questo livello. Questa lettera in particolare fu interpretata in tutti i modi possibili nel dibattito che oppose fondamentalmente Bucharin a Preobrazeÿnskij, senza che mai, a nostra conoscenza, l’autentica analisi di Marx fosse messa in luce. Marx opponeva la regolazione mediante il tempo socialmente necessario alla regolazione mediante il tempo disponibile. Evidentemente non si tratta di due metodi da applicare, ma di due processi storici oggettivi che mettono in gioco l’insieme dei rapporti sociali. Si conoscono le pagine della Critica al progetto di programma di Gotha in cui Marx spiega che «nella società cooperatrice, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; egualmente il lavoro impiegato nei prodotti appare ancor meno come valore di quei prodotti, come una loro qualità reale, perché ormai, al contrario di quanto succede nella società capitalista, i lavori dell’individuo diventano parte integrante del lavoro della comunità direttamente e non più attraverso un lungo giro».

Questo passaggio del Libro II del Capitale viene citato meno:

«In luogo di una società capitalistica supponiamo una società comunista. Innanzi tutto il capitale-denaro disparirebbe completamente e con lui tutte le transazioni travestite che implica. La questione si riduce semplicemente al fatto che la società è obbligata a calcolare in anticipo la quantità di lavoro, di mezzi di produzione e di sussistenza che, senza il minimo inconveniente, essa può impiegare a delle imprese che, come per esempio la costruzione di ferrovie, durante un periodo abbastanza lungo, un anno o anche di più, non forniscono né mezzi di produzione, né alcun prodotto di utilità immediata, ma, al contrario, sottraggono dei mezzi di produzione e di sussistenza alla produzione annuale totale del lavoro. Mentre nella società capitalistica, dove l’intelligenza sociale si manifesta solo a cose fatte, è inevitabile che, senza posa, si producano delle grandi perturbazioni.»

Marx pone dunque un fatto: nella società comunista esisterà un altissimo livello di sviluppo delle forze produttive. Questo livello permetterà di non misurare più in termini di tempo di lavoro medio. Ma bisognerà valutare bene l’importanza relativa che verrà data a questa o a quell’altra branca e dunque scegliere e calcolare. Soltanto che la «misura» non si farà più in funzione del costo sociale del prodotto, ma relativamente alla comparazione tra i diversi bisogni. «A ciascuno secondo i suoi bisogni», nell’ottica di Marx, non significa che «tutto» esisterà «in abbondanza», la nozione di «abbondanza» assoluta è essa stessa una nozione ideologica e non un concetto scientifico. La formula «A ciascuno secondo i suoi bisogni» implica effettivamente un calcolo e una scelta, non più sulla base del valore di scambio ma in funzione del valore d’uso, dell’utilità sociale del prodotto considerato [11]. D’altronde Marx espone questo punto nella Miseria della filosofia:

«In una società futura, in cui l’antagonismo delle classi fosse cessato, l’uso non sarebbe più determinato dal minimo del tempo di produzione; ma il tempo di produzione che si consacrerebbe a un oggetto sarebbe determinato dal suo grado di utilità.»

Così, si chiarisce la nota frase sul passaggio dal regno della «necessità» al regno della «libertà»: quest’ultima è concepita come un rapporto in cui gli uomini, padroneggiando il processo di produzione della vita materiale, possono infine adattare le loro aspirazioni al livello raggiunto dallo sviluppo delle forze produttive [12]. La crescita della ricchezza sociale e il fiorire dell’individualità coincidono.

«La vera ricchezza significa, in effetti, lo sviluppo della forza produttiva di tutti gli individui. Da allora in poi non sarà più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile a misurare la ricchezza.» (Marx, Grundrisse)

In questo senso, Maximilien Rubel ha ragione a parlare del «tempo, terreno della liberazione umana» [13].

È chiaro che la dinamica analizzata da Marx esclude ogni ipotesi d’un passaggio graduale al comunismo attraverso la scomparsa progressiva della legge del valore. Al contrario, la legge del valore non cessa di manifestarsi con forza fino alla distruzione del capitalismo: la legge del valore non cessa mai di autodistruggersi... ma per ricomparire sempre a un livello superiore. Abbiamo mostrato come il movimento che ha dato origine alla legge del valore tenda a distruggerne la ragion d’essere, ma ciò nonostante essa continua a esistere e a regolare il funzionamento del sistema. Perciò la rivoluzione è necessaria, ma nello stesso tempo si comprende come sia possibile. Il motore della lotta rivoluzionaria non è né la «coscienza» né la «spontaneità» pura degli operai, bensì la crescita delle forze produttive, di cui il proletariato stesso è, secondo Marx, una delle componenti essenziali.

In definitiva, la natura contraddittoria del tempo di lavoro pone il problema del duplice carattere del lavoro stesso, fonte della dialettica valore d’uso-valore di scambio. L’analisi marxiana, in tutti i manoscritti, tenta di dare una definizione del capitale e del ruolo che esso svolge nella storia dello scambio. In queste pagine, non abbiamo fatto altro che presentare un aspetto del lavoro di Marx. D’altronde la sua analisi, per quanto completa, non potrebbe bastarci: in ogni caso bisogna prima conoscerla bene. È per questa ragione che ci concentriamo su Marx. Qui abbiamo solo posto una questione, ora dobbiamo stare attenti a non imitare quel pensatore di cui Marx diceva che riusciva a risolvere i problemi solo semplificandoli.

 

6. LA GESTIONE OPERAIA

 

La teoria della gestione operaia della società mediante i Consigli operai ignora completamente il movimento del capitalismo; ne conserva tutte le categorie e le caratteristiche: salario, scambio, legge del valore, limitazione aziendale ecc. Il socialismo da essa propostoci è solo un capitalismo... gestito democraticamente dagli operai. Delle due l’una:

– o i Consigli operai vorranno funzionare diversamente dalle imprese capitaliste, cosa impossibile stante il permanere dei rapporti di produzione capitalisti, e saranno perciò spazzati via dalla reazione (che avrà la sua fonte principale nella sopravvivenza di tali rapporti). Giacché i rapporti di produzione non sono rapporti interumani – vedi la definizione di «Socialisme ou Barbarie» [14]: i rapporti di produzione capitalisti esistono laddove vi sono dirigenti ed esecutori –, ma il modo in cui si rapportano tra loro i diversi fattori del processo lavorativo: il fattore soggettivo (la forza-lavoro umana) e il fattore oggettivo (i mezzi di produzione, le materie prime ecc.). Ciò che costituisce l’essenza dei rapporti capitalisti è l’ergersi dei fattori oggettivi come potenza estranea rispetto al lavoratore, potenza che lo domina in quanto capitale. Il rapporto «umano» dirigente-esecutore è solo una manifestazione del rapporto fondamentale capitale-salariato;

– oppure i Consigli operai accetteranno di funzionare come delle imprese capitaliste. Ma allora il sistema dei Consigli sopravviverà solo come un’illusione destinata a mascherare lo sfruttamento, e i dirigenti «eletti» non tarderanno a diventare in tutto identici ai capitalisti tradizionali: la funzione del capitalista, secondo Marx, tende irresistibilmente a separarsi da quella dell’operaio: «Del resto la legge vuole che lo sviluppo economico attribuisca queste funzioni a persone diverse; [...] tal è la tendenza della società ove domina il modo di produzione capitalista». La gestione operaia sboccherà nel capitalismo, o piuttosto il capitalismo non avrà mai cessato di esistere, con tutti i suoi corollari: concorrenza, salariato...

La burocrazia sovietica aveva preso il controllo dell’economia: gli ultrasinistri vogliono che siano le masse a farlo. Ancora una volta l’ultrasinistra rimane sul terreno del leninismo, accontentandosi di dare una risposta diversa alla stessa questione. Nondimeno, così facendo, avanza un principio giusto (al contrario di Lenin): l’impossessamento dell’economia da parte degli operai è necessario. Ma non è un fine in sé: è una condizione necessaria, ma non sufficiente, della distruzione del capitalismo. Il socialismo non è la gestione, seppure «democratica» e «operaia», del capitale, ma la sua distruzione.

 

7. IL LIMITE STORICO DELL’ULTRASINISTRA

 

Esaminando questi due punti, non abbiamo fatto altro che ricordare la tesi fondamentale di Marx, secondo cui nella società dominata dal capitalismo esiste un movimento verso la rivoluzione. Il nostro compito è innanzitutto l’affermazione di questo movimento. I problemi di «organizzazione» e di contenuto del socialismo si chiariscono. Prodotto dalla società capitalistica, il movimento rivoluzionario ne porta il marchio: la divisione manuale/intellettuale. Ma non bisogna teorizzare questo aspetto né nel senso di Lenin né in quello d’ICO, bisogna invece riconoscerlo come una fase inevitabile che scomparirà solo con il pieno successo della rivoluzione. Non esiste dunque, contrariamente a quanto affermato da Lenin, un «problema dell’organizzazione». Vi sono solo delle forme rivestite dal movimento spontaneo verso il comunismo prodotto dalla società. L’apporto teorico di Marx è proprio l’evidenziazione della dinamica interna che conduce dal capitalismo al comunismo. Con ciò il socialismo non appare più come la semplice gestione della società da parte del proletariato, ma come il compimento del ciclo storico del capitale ad opera del proletariato. Il proletariato non può accontentarsi d’impadronirsi del mondo, conduce a termine il movimento del capitalismo. Questo è quanto separa Marx da tutti i pensatori utopisti e riformisti: il socialismo è il prodotto di una dinamica oggettiva, della stessa dinamica che generò il capitalismo e lo propagò su tutta la terra. Marx insiste innanzitutto sul contenuto di questo movimento. Lenin e la corrente ultrasinistra hanno insistito innanzitutto sulla sua forma: forma organizzativa, forma di gestione della società socialista, dimenticando il contenuto del movimento rivoluzionario. Questa «dimenticanza» era essa stessa un prodotto storico. La situazione della loro epoca, e in primis lo sviluppo limitato delle forze produttive, non permetteva alle lotte rivoluzionarie di avere un contenuto comunista (nel senso che abbiamo definito). Essa impose ai rivoluzionari delle forme che non potevano essere radicali e comuniste. Queste, a loro volta, segnarono e accrebbero i limiti dell’epoca [15].

Le idee ultrasinistre si sono formate e sviluppate in un’epoca in cui le condizioni di maturazione della rivoluzione non erano ancora compiute. Il capitalismo non era ancora abbastanza sviluppato e il proletariato non abbastanza forte perché la rivoluzione comunista fosse possibile. Il leninismo non faceva altro che esprimere l’impossibilità della rivoluzione in quell’epoca. Le idee di Marx sul partito erano state accantonate da parte da lungo tempo, lo stesso Engels le aveva abbandonate sul finire della sua vita. È l’epoca delle grandi organizzazioni riformiste, poi dei partiti di stile bolscevico (che di fatto ricadono velocemente nel riformismo). Il movimento rivoluzionario non si era ancora affermato a sufficienza, stretto tra la socialdemocrazia e il leninismo, non arrivava a manifestarsi come tale. Ovunque, in Germania, in Italia, in Gran Bretagna, l’inizio degli anni Venti è contrassegnato dall’inquadramento e dall’irregimentazione della classe operaia. Per reazione a questa situazione, gli ultrasinistri arrivarono a temere di coartare i lavoratori. Invece di comprendere i partiti leninisti come prodotto della sconfitta operaia, rifiutavano qualunque partito e lasciavano, al pari di Lenin, la concezione marxista del partito nei ripostigli della storia. Quanto al contenuto del socialismo, basta vedere che, dal 1917 al 1936, dalla rivoluzione russa alla rivoluzione spagnola, passando per le insurrezioni in Germania, in Cina e altrove, nessun movimento sociale significativo mette in discussione il fondamento del capitalismo. Allorché un movimento rivoluzionario trionfa, può solo tentare di gestire il capitalismo ma non di rovesciarlo. In queste condizioni gli ultrasinistri non potevano fare una reale critica del leninismo, potevano solo contraddirlo sistematicamente, senza andare al fondo delle cose, senza cogliere il contenuto del movimento rivoluzionario, semplicemente perché tale movimento non appariva chiaramente. È per questo che, nel mentre affermavano posizioni giustissime su certi punti (critica dei sindacati e dei partiti «operai» soprattutto), alle forme preconizzate dal leninismo potevano opporre solo altre forme, senza mai enucleare il contenuto del movimento rivoluzionario. Sostituirono così il feticismo leninista del partito con quello dei Consigli operai. Si può dunque dire che la corrente ultrasinistra non ha veramente superato il leninismo. Le sue concezioni erano necessarie a quel tempo ed ebbero un ruolo estremamente positivo: si trattava di una tappa necessaria, inevitabile. Ma oggi, allorché il leninismo comincia ad aver fatto il suo tempo, perché la controrivoluzione di cui era il prodotto sta per finire, le idee ultrasinistre, che sono solo il pendant del leninismo, devono e possono essere superate. Questa critica è possibile solo perché lo sviluppo del capitalismo su scala planetaria permette d’intravvedere il contenuto reale del movimento rivoluzionario ch’esso sviluppa. Arroccandoci, costi quel che costi. sulle idee ultrasinistre qui esposte (timore del partito e gestione operaia), le trasformeremmo in pura ideologia, nel senso in cui Marx parla d’«ideologia tedesca». Viviamo di un’eredità importante, prodotto di una fase della storia del movimento rivoluzionario che è alle nostre spalle: se non riusciremo a superare il nostro passato – il che non implica assolutamente un rigetto brutale ma, al contrario, un’assimilazione profonda –, finiremo col recitare Pannekoek come altri recitano I princìpi del leninismo, incapaci di svolgere un ruolo quando il contenuto della rivoluzione sarà portato avanti da quel «partito proletario» che non avremo saputo riconoscere.

La Sinistra italiana (il «bordighismo») offre un altro esempio di corrente interessante prodotta dallo stesso periodo e che non è riuscita a comprendere e a superare le sue origini [16]. Accetta le idee di Lenin fino al fronte unito: verità fino al 1921, errore dopo. Si è poi sviluppata mantenendo l’idea di un programma rivoluzionario che attacchi i fondamenti stessi del capitalismo. Rifiutando la teoria della gestione operaia, la Sinistra italiana ha compiuto una delle analisi più profonde dell’economia russa, mettendo in primo piano non la burocrazia, come i trockisti e «Socialisme ou Barbarie», ma i rapporti di produzione in quanto tali. La rivoluzione non può essere altro che la distruzione dello scambio e della legge del valore. In compenso, la Sinistra italiana, nonostante concepisca il partito come prodotto della società, resta attaccata alle tesi del Che fare?, donde una grande confusione teorica, benché i testi bordighisti siano spesso interessanti. Anche la Sinistra italiana è rimasta prigioniera dell’epoca che l’ha generata. Al riguardo, si veda la rivista «Invariance», in particolare, i nn. 1 (sul partito), 2 (sul valore), 3 (critica dell’autogestione), 4 (sul Maggio ’68,  p. 66), 5 (Perspectives), 7 (La révolution communiste. Thèses de travail) della I serie, e il n. 1 (Le KAPD et le mouvement prolétarien) della II serie [17].

Il nostro testo mira a un solo scopo: riconoscere la nostra ideologia per superarla. Potremo così intraprendere il lavoro teorico necessario: studio del programma rivoluzionario, della questione del valore in Marx e in altri teorici, dell’analisi del capitalismo (il problema dell’imperialismo, per esempio), così come lavori storici per meglio assimilare il nostro passato (il leninismo, la Terza Internazionale ecc.). Nello stesso tempo possiamo e dobbiamo far conoscere i vecchi testi ultrasinistri per meglio evidenziare sia il loro ruolo sia il loro limite [18].

Quando il proletariato si costituisce in classe, il rivoluzionario lo raggiunge, senza che alcuna barriera teorica o sociologica impedisca al movimento rivoluzionario di unificarsi. La coerenza teorica, come dicono i situazionisti nell’estratto del n. 11 dell’«Internationale Situationniste» sopraccitato, è un obiettivo permanente dei rivoluzionari, nella misura in cui facilita sempre il coordinamento pratico delle energie rivoluzionarie. I rivoluzionari non esitano mai a intervenire in modo organizzato per far conoscere la loro critica della società.

Non si tratta per loro di dettare la «giusta linea» agli operai rivoluzionari; ma non si tratta nemmeno di astenersi da ogni intervento rivoluzionario coerente con il pretesto che «gli operai devono decidere da soli»; poiché da una parte gli operai prendono solo le decisioni imposte loro dalla situazione generale della società; dall’altra il movimento rivoluzionario è una totalità organica di cui la teoria è un elemento inseparabile. I comunisti rappresentano e difendono sempre gli interessi generali del movimento. In ogni situazione in cui si trovano, non rinunciano a esprimere tutto il senso di quanto accade e a fare delle proposte di azione conseguenti; se la situazione è rivoluzionaria, se l’espressione del movimento e le proposte di azione sono giuste, s’integrano necessariamente nella lotta del proletariato e contribuiscono alla formazione del partito della rivoluzione comunista.

Questo testo non è da prendere o da lasciare. Non è una piattaforma ma solo un contributo a un lavoro teorico. Benché le sue ipotesi fondamentali siano il prodotto di una riflessione abbastanza lunga, il testo nella sua esposizione può apparire rapido e poco elaborato. Ciò significa che intendiamo proseguire il lavoro.

 

J.Barrot Luglio 1969 – rivisto nell’aprile 1970.



[1] Cfr. l’opera in via di pubblicazione di Denis Authier sul movimento comunista in Germania dal 1914 al 1921.

 

[2] Vedi Il movimento dei consigli in Germania pubblicato da ICO e i documenti contenuti nel n. 7 di «Invariance» [soprattutto il KAPD al terzo congresso mondiale (1921), pp. 81-94, e sul KAI, pp. 94-102]. Il KAPD – Partito Comunista Operaio Tedesco – fu il risultato dell’esclusione di 60.000 «sinistri» dal Partito Comunista Tedesco (KPD) (100.000 membri in tutto). Si opponeva risolutamente alla direzione leninista-luxemburghista del KPD propugnando 1) il sistematico astensionismo elettorale nella nuova fase del capitalismo in cui il parlamentarismo non ha più un ruolo e deperisce più o meno velocemente; 2) la distruzione dei sindacati, organi del «parlamentarismo economico». Tuttavia essi erano favorevoli alla creazione della Terza Internazionale, mentre la destra del KPD la giudicava prematura. L’evoluzione dell’URSS li condusse fin dal 1921 a fare la critica della società e dello Stato russi (capitalismo gestito da una burocrazia) e dunque la critica della Terza Internazionale divenuta uno degli strumenti della politica estera della Russia. Insieme a gruppi di altri Paesi il KAPD costituì un’effimera Internazionale Comunista Operaia (KAI). Cfr. al riguardo la dichiarazione di Trockij contro questa Quarta Internazionale nel n. 11 dell’«Internationale Situationniste».

 

[3] Rieditato in francese nel 1969, in vendita alla Librairie La Vieille Taupe, 1, rue Fossés-Saint-Jacques, Paris 5e, pubblicato in italiano da Samonà & Savelli, Roma, 1972.

 

[4] L’AAUD – Unione Generale Operaia di Germania – riuniva gli operai rivoluzionari delle organizzazioni di fabbrica. L’AAUD-E – Unione Operaia Generale di Germania-Organizzazione Unitaria – era frutto di una scissione dell’AAUD. L’aggettivo Unitaria esprimeva il rigetto della distinzione tra organizzazione politica (partito) e organizzazione economica (sindacati, Consigli) del proletariato.

 

[5] Compagno di Hermann Gorter, Anton Pannekoek ha scritto Worker’s Councils che in qualche modo sintetizza le idee «consiliari»; importanti estratti ne sono stati pubblicati nei «Cahiers du socialisme des conseils». Pannekoek ha anche scritto Lenin filosofo (in francese nei «Cahiers de Spartacus») dove mostra che il materialismo di Lenin si colloca sul terreno del materialismo borghese. Un’antologia dei testi di Pannekoek, è in corso di pubblicazione presso le ed. EDI, Paris, a cura di Serge Bricianer (pubblicata poi in italiano da Musolini, Torino, 1974).

 

[6] Vedi la sua prefazione alla Guerra dei contadini in Germania, scritta nel 1874. Lenin la cita lungamente nel Che fare?.

 

[7] Vedi KARL KAUTSKY Les trois sources du Marxisme, Spartacus, Paris, 1974, e i commentari di Pierre Guillaume e di Jean Barrot. Sulle origini del movimento operaio russo e la nascita del leninismo, vedi la prefazione di Denis Authier a LÉON TROTSKY, Rapport de la délégation sibérienne, Spartacus, 1970 (trad. it. La Vecchia Talpa, Napoli, 1974).

 

[8] Cfr. KARL MARX, Révélations sur le procès des communistes, in Maximilien Rubel Pages choisies pour une éthique socialiste, Rivière, Paris, p. 205.

 

[9] Marx distingue il capitale variabile, investito in salari, dal capitale costante, investito in mezzi di produzione.

 

[10] Marx fa qui allusione all’articolo di Engels, Abbozzo di una critica dell’economia politica. Successivamente lo stesso Engels commentò il proprio lavoro nel suo Antidühring (3a parte): «Sin dal 1844 io dissi [...] che questa valutazione dell’effetto utile e del consumo del lavoro è tutto ciò che in una società comunista potrebbe rimanere del concetto di valore dell’economia politica. Ma stabilire scientificamente questa tesi, come si vede, è divenuto possibile solo grazie al Capitale di Marx».

 

[11] 11 Proprio con questo, il problema dei Paesi arretrati e del loro sviluppo a tutti i livelli si pone sotto una nuova luce (cfr. l’India).

[12] «Il busillis della società borghese è precisamente di non permettere a priori un’organizzazione sociale della produzione che sia cosciente: il razionale e il necessario non si affermano che in quanto media e la loro azione è cieca.» (Marx, Lettera a Kugelmann, 11 luglio 1868).

[13] MAXIMILIEN RUBEL, Pages choisies de Karl Marx, cit., p. 307.

[14] Cfr. la nostra "Présentation" a "Notes pour une analyse de la révolution russe": «[...] Senza trattare qui l’insieme dell’evoluzione di questa rivista né il suo posto nel movimento rivoluzionario, è necessario tornare sull’articolo Les rapports de production en Russie, che servì da riferimento a tutta una corrente di cui è importante fare il bilancio.

Les rapports de production en Russie fu dapprima pubblicato sul n. 2 della rivista (maggio-giugno 1949). La dimostrazione del carattere capitalista della società russa, effettuata mediante una critica del trockijsmo («Socialisme ou Barbarie» proveniva da una scissione della sezione francese della Quarta Internazionale), fu allora un importante contributo teorico, uno strumento di chiarificazione utilissimo. Ma non basta più sapere che l’URSS è capitalista, bisogna sapere perché. La questione si è dislocata: non è più tanto la natura sociale della Russia che importa, ma quella del capitale.

L’autore dell’articolo, Pierre Chaulieu, si basa dapprima sull’analisi di Marx: "se la produzione, nel senso stretto della parola, è il centro del processo economico, non bisogna dimenticare che, nella produzione capitalista, la scambio è parte integrante del processo produttivo, da una parte perché tale rapporto è innanzitutto acquisto e vendita della forza-lavoro, e implica l’acquisto da parte del capitalista dei mezzi di produzione necessari, dall’altra perché le leggi della produzione capitalista si affermano come leggi coercitive attraverso il mercato, la concorrenza, la circolazione, in una parola lo scambio" (p. 4).

Sostenuto da numerosi rimandi a Marx, il testo mostra che "la forma empirica immediata" del "rapporto tra padrone e operaio [...] è lo scambio della forza-lavoro dell’operaio contro il salario" (p. 11). Nel corso dell’analisi, questa definizione lascia il posto a un’altra, del tutto differente. Il capitale come modo di produzione è ora presentato come un modo di gestione. La questione dei rapporti di produzione, considerata all’inizio come il problema della dinamica attraverso la quale i mezzi di produzione e la forza-lavoro entrano in contatto nel processo lavorativo (cioè, nel capitalismo, mediante lo scambio della forza-lavoro contro il salario, scambio tra il lavoro vivo e il lavoro morto che gli fornisce i mezzi di sussistenza), diventa in seguito la questione del semplice controllo dei mezzi di produzione (detenuti dagli operai – ed è il socialismo – o dai padroni, borghesia classica o burocrazia). Il capitalismo è l’accaparramento delle ricchezze da parte di una minoranza che le gestisce a suo profitto. Lo scivolamento è qui: si passa dalla concezione della struttura oggettiva della società, alla concezione di due gruppi umani (minoranza/maggioranza, dirigenti/esecutori), senza vedere che tali gruppi non fanno altro che personificare determinati rapporti sociali. P. Chaulieu scrive:

"Ciò che fa dei capitalisti la classe dominante della società moderna, è il fatto che, disponendo delle condizioni della produzione, essi organizzano e gestiscono la produzione e appaiono come gli agenti personali e coscienti della ripartizione del prodotto sociale.

[...] I rapporti di produzione, in generale, sono definiti:

a) dal modo di gestione della produzione;

b) dal modo di ripartizione del prodotto sociale (intimamente legato alla gestione sotto molteplici aspetti)" (p. 26).

Chaulieu menziona ancora la questione della vendita della forza-lavoro (pp. 29 e 31), ma senza darle un’importanza decisiva nell’analisi del meccanismo capitalista. Vi vede solo la separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione a disposizione di una minoranza. Ma ciò non basta a caratterizzare il capitalismo. Lo scambio e il valore sono infatti completamente tralasciati. Il capitalismo (e innanzitutto il capitalismo russo) è definito da Chaulieu come l’opposizione tra gli esecutori e coloro "che prendono le decisioni fondamentali" (p. 30). Decidere, gestire, organizzare: non si tratta più di economia politica, ancor meno della sua critica, ma di politica economica. La questione del valore è così poco compresa da Chaulieu, che egli ne concepisce il funzionamento anche nel socialismo, seppure in una forma modificata: lo scambio non si applicherebbe più alla forza-lavoro ma al valore "aggiunto al prodotto" dal lavoro. È ciò che chiama "la negazione assoluta della legge del valore-lavoro" (pp. 36-7). Di fatto l’origine dell’errore è semplice: Chaulieu riprende la critica marxiana al programma di Gotha, laddove Marx ipotizza il mantenimento dello scambio, in una forma modificata, ma solo transitoriamente e certo non nel comunismo sviluppato. Chaulieu ignora questa distinzione; per lui lo scambio sussiste dunque in una società socialista.

Al termine dell’analisi, non si sa per quale ragione l’URSS sia davvero capitalista. Chaulieu ha visto nell’economia sovietica un sistema di sfruttamento, nel quale la giornata lavorativa è divisa in lavoro necessario (alla riproduzione della forza-lavoro) e in pluslavoro (che fornisce il plusprodotto accaparrato dalla classe dominante, in questo caso la burocrazia). Ma giacché ignora la natura profonda del capitale, al contempo estrazione di pluslavoro e processo di valorizzazione, e senza dubbio perché nel 1949 la legge del valore non si manifestava in Russia così nettamente come ora, non ha compreso cosa sono i rapporti di produzione in Russia. Quel che dimostra, demolendo su questo punto le stupidaggini trockijste, è l’esistenza di una struttura di sfruttamento. Ma non coglie la specificità dello sfruttamento capitalista. È per questa stessa ragione che non può analizzare le contraddizioni sociali oggettive intrinseche a questi rapporti di produzione. Non si affrontano mai le contraddizioni economiche fondamentali. Si sa solo che gli sfruttati si scontrano con gli sfruttatori, gli esecutori con i dirigenti. Non si vedono le contraddizioni del capitale – e dunque del capitale in Russia – che lo conducono alla rovina obbligando gli sfruttati a diventare i suoi becchini. Perché non vi sono solo dei gruppi di uomini in lotta contro degli altri, in ogni sistema sociale esistono contraddizioni che costringono i gruppi e le classi a scontrarsi. La storia di «Socialisme ou Barbarie» è stata un lungo sforzo, attraverso varie scissioni, per enucleare delle prospettive rivoluzionarie senza avere compreso la dinamica del capitalismo, attraverso quale meccanismo sociale il capitalismo crea le condizioni di un altro mondo e obbliga una parte della società a metterle in pratica.

La conseguenza logica del modo di procedere di Chaulieu consiste nel ricercare i rapporti di produzione dentro l’impresa, e nel volerli cambiare grazie all’attività interna degli operai.

"Solo se la rivoluzione conduce a una trasformazione radicale dei rapporti di produzione nella fabbrica (cioè se può realizzare la gestione operaia), può conferire un contenuto socialista alla proprietà e al contempo creare una base economica oggettiva e soggettiva per un potere proletario." (p. 17)

«Socialisme ou Barbarie», di per sé e attraverso i suoi effetti indiretti (di cui "Notes pour une analyse de la révolution russe" è un esempio), ha svolto un ruolo utile. Ma oggi la sua ideologia è superata dal movimento rivoluzionario che pone la questione del comunismo, cioè del rovesciamento del modo di produzione e non semplicemente del modo di gestione. È al contrario il capitalismo che tenta di riformarsi facendo partecipare i lavoratori alla propria gestione: democrazia, partecipazione, governo dei lavoratori, governo operaio, autogestione, democrazia sindacale, controllo operaio ecc., tali sono attualmente le parole d’ordine del capitale» ("Notes pour une analyse de la révolution russe", in JEAN BARROT, Communisme et question russe, Société encyclopédique française et Éditions de la Tête de Feuilles, Paris, 1972, pp. 15-20).

[15] Vedi il lavoro assai interessante e documentato di Kommunistik Program, Postbox 61, 2880 Bagsvært, Danimarca. Testi disponibili in francese: La question syndicale et la gauche allemande dans la IIIe Internationale, e La perspective communiste.

[16] Vedi le riviste «Bilan» (pubblicata tra le due guerre mondiali), «Programme Communiste» (che appare da una decina di anni) e «Fil du temps», così come l’opuscolo La question parlementaire dans l’Internationale Communiste. Un’importantissima documentazione esiste in italiano.

[17] Per una bibliografia dettagliata delle pubblicazioni della Sinistra italiana, vedi «Invariance», n. 8.

[18] Un bilancio del lavoro del partito si trova in «Le mouvement communiste», n. 3.