Rileggere Montaldi
Scheda 1 e 2: "Autobiografia della leggera" - "Militanti politici di base"
Scheda 3: "Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970)"
Scheda 4: " Korsch e i comunisti italiani"
Scheda 5: "Bisogna sognare - Scritti 1952-1975"
Al di là dell'occasione contingente (la pubblicazione da parte del Centro d'Iniziativa Luca Rossi degli scritti inediti) ritengo che la proposta di rilettura di alcune delle opere principali di Danilo Montaldi (Cremona 1929 - Alpi Marittime 1975) abbia un duplice senso. In primo luogo un significato "interno", ovvero in rapporto agli intenti dell'A.S.C.D., perché la marginalità del pensiero montaldiano, nei termini in cui si dirà, è proprio una delle categorie con cui abbiamo scelto di confrontarci nella nostra attività di Archivio e di Centro di Documentazione. Marginalità che non è un segno negativo se significa eccentricità rispetto alla presunta centralità di un dibattito che riduce movimenti di massa, lotte operaie e antagonismi sociali ad appendice del gioco istituzionale e delle norme che regolano la gestione formale del potere. Marginalità che dunque diventa - con uno scontato gioco di parole - centralità rispetto al dibattito sulla composizione ed i percorsi di classe, sul rapporto dialettico tra masse, movimento operaio, militanti, avanguardie politiche ed intellettuali, forme storiche e contingenti - istituzionali e no - in cui si cristallizza, si deposita l'iniziativa concreta del proletariato. In Montaldi - e questo è il secondo significato, quello "esterno", che si può dare alla sua rilettura - questa dialettica è sempre presente anche quando si indirizza sul terreno scivoloso dell'inchiesta nella rivalutazione in senso rivoluzionario della sociologia come scienza marxista, o meglio della sociologia come scienza generale della società e dunque "marxismo" in sé. Il rifiuto dell'economicismo, il rigetto di criteri sociometrici come surrogato a questo sono ad un tempo limite e valore dell'impostazione montaldiana. Limite perché ovviamente il rischio è quello di gettar via il bambino con l'acqua sporca, ovvero quello non tanto remoto di astrarre la produzione e la riproduzione sociale dalla pesante concretezza dell'attività produttiva delle sue basi materiali, confinandola in un limbo al quale lo studio dei movimenti del divenire sociale allude in continuazione ma in quanto sfera separata. Valore perché i "tipi" dell'inchiesta montaldiana (che è una delle parti più fertili ed originali del corpus della sua opera) non pretendono né di essere rappresentativi della multiformità delle condizioni proletarie e sottoproletarie né di essere gli addenda di un corpo variegato di classe che si va componendo per aggiunzioni successive, ma piuttosto sembrano rappresentare degli indicatori di trasformazioni sociali e politiche in atto che, traguardate sulla trama delle microstorie individuali, rendono espliciti e leggibili i momenti elementari di frammentazione e di sviluppo ineguale della coscienza di classe tipici delle fasi di transizione e di crisi, elusi spesso dalla potenza astrattiva della macroanalisi.
Mi sembra superfluo aggiungere altro proprio per la complessità del pensiero montaldiano (testimoniata tra l'altro dalla "variegatezza" delle schede che alcuni volenterosi hanno compilato ciascuno dal proprio particolare punto d'osservazione) e dunque rimanderei ad una rilettura delle opere di Montaldi con riguardo al contesto in cui sono state scritte ma fatta con gli occhi di oggi.
Bibliografia essenziale
F.Alasia - D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati, Milano, Feltrinelli, 1960, nuova edizione 1975.
D. Montaldi, Autobiografie della leggera, Torino, Einaudi, 1961, seconda edizione, 1972.
D. Montaldi, Militanti politici di base, Torino, Einaudi, 1971.
D. Montaldi, Korsch e i comunisti italiani. Contro un facile spirito di assimilazione, Roma, Samonà e Savelli, 1975.
D. Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970), Piacenza, Ed. Quaderni Piacentini, 1976.
D. Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, Milano, Ed. Centro d'Iniziativa Luca Rossi, 1994
Scheda 1 e 2: "Autobiografia della leggera" - "Militanti politici di base"
L'"Autobiografia della leggera" e "Militanti politici di base" costituiscono due momenti della ricerca di Danilo Montaldi sulla gente della Bassa padana.
I protagonisti (sottoproletari e proletari del Cremonese), raccontandosi in prima persona, compongono un documento materiale dei rapporti di classe di un mondo in transizione tra civiltà contadina e sviluppo industriale nel periodo compreso tra gli anni che precedono la I guerra mondiale e il secondo dopoguerra.
Le cascine, le osterie, i linguaggi e poi gli scioperi, il carcere, i mille mestieri costituiscono lo sfondo comune delle due inchieste, concepite da Montaldi come strumenti di conoscenza e trasformazione della realtà.
Non c'è tuttavia nelle premesse di Montaldi ad entrambe le inchieste nessuna nostalgia e nessun richiamo ad un'ipotetica age d'or incontaminata e non guastata dallo straripare dei rapporti sociali di produzione capitalistici nella Bassa padana.
Il passato è morto ed ogni richiamo ad esso nelle memorie dei protagonisti è l'emblema, la spia delle pulsioni degenerative di ogni transizione sociale.
Le parole dei protagonisti finiscono così per disegnare un complesso intreccio di motivi culturali, sociale ed economici che, nelle loro pur diverse articolazioni, li rende oggettivi antagonisti del processo di trasformazione a cui li si vorrebbe assoggettare.
Dall'inchiesta del '71, più direttamente leggibile su un piano politico tradizionale, perché priva degli elementi picareschi che costituiscono l'ossatura dell'"Autobiografia", emergono in modo esplicito i temi del dibattito degli anni '60 in merito alla forma Partito e alle organizzazioni di massa.
Sono i "militanti di base", anello di congiunzione tra le masse e il Partito (poiché partecipano all'esperienza e ai valori di entrambi) a rivelare i termini di un progressivo e inesorabile scollamento tra base e vertici delle organizzazioni storiche della Sinistra.
Montaldi non interviene nel racconto, non ne media le incongruenze, non ne abolisce le ripetizioni, non ne rielabora il linguaggio. Non c'è operazione di filtro ma, volendo, una raffinata opera di "montaggio" delle testimonianze che trasforma la storia "orale" in occasione di riflessione individuale e collettiva.
Spetta comunque a chi legge trovare il filo di continuità, o di rottura, tra il dettaglio concreto e un'analisi politica che non prescinde mai dal vissuto personale.
A questo punto chi parla e chi ascolta sono sottratti alle regole dell'impianto sociologico e, o per aver vissuto determinati avvenimenti o per la volontà di riflettere su di essi, diventano soggetti attivi del processo di trasformazione sociale.
Processo che, per Montaldi, passa attraverso la ricerca del "partito che non c'è", tema centrale del dibattito di quegli anni da parte di una Sinistra che rifiutava di riconoscersi nell'"autonomia del politico" e di cui forse solo oggi si riesce a cogliere l'intera portata.
Resta da dire che a più di venti anni di distanza, mutate le condizioni e i codici interpretativi, molti di quei nodi restano ancora da sciogliere.
Rileggere, ripensare alcuni di quei passaggi può significare riproporli, negarli o superarli, ma questa è materia dell'oggi. Prescinderne è comunque difficile.
Scheda 3: "Saggio sulla politica comunista in Italia (1919-1970)"
Ci sono obbiettive difficoltà a recensire, o anche solo a commentare, quest'opera di Montaldi. Si potrebbe considerare questo testo come una rilettura da "sinistra" della storia del P.C.I. dalle origini agli inizi degli anni '70, una rilettura in decisa contrapposizione con quella storiografia "ufficiale" (Spriano in testa) che - apologetica, sacrale o critica - non perde mai il suo carattere di ritualità e sancisce dunque e sempre la sostanziale mancanza d'autonomia intellettuale delle teste d'uovo dell'intellighenzia d'apparato e non.
Farebbero propendere per questa interpretazione l'accurata ricostruzione delle vicende che portarono alla fondazione del partito nel '21, dei ruoli e delle posizioni politiche di Togliatti, Bordiga, Gramsci e Tasca in quegli eventi, l'analisi dei rapporti del P.C.d'I. con l'Internazionale Comunista, la dirigenza del partito bolscevico e poi con Stalin, la lotta antifascista, il "centro" in esilio, la rottura con i "dissidenti", ecc., ecc.
Ci sono tuttavia ottimi motivi per ritenere questa interpretazione alquanto restrittiva. Il primo è, con tutta evidenza e banalità, il titolo stesso dell'opera: saggio sulla politica comunista e non sul partito. Il secondo è la sua struttura, slegata dalla diacronia degli eventi: si passa dall'analisi del "Memoriale" togliattiano di Yalta del '64 a quella della Direttiva per lo studio delle questioni russe del '27 ad uso dei comunisti italiani in clandestinità e in esilio, e così via, avanti e indietro nel tempo a cogliere i momenti topici, le "svolte" e la consequenzialità della politica del gruppo dirigente comunista italiano, svariando dalla questione nazionale ai grandi nodi del movimento comunista internazionale. Una struttura analitica - in definitiva e paradossalmente - più predisposta a cogliere il filo conduttore della continuità del centrismo togliattiano-gramsciano dalla fondazione agli anni '70. Il terzo motivo è il posto che quest'opera occupa nell'indagine montaldiana e la natura stessa di questa. C'è insomma uno iato abbastanza sensibile tra l'impostazione questo saggio e quella di un'ipotetica controstoria del partito comunista scritta da un oppositore storico (sia esso bordighista o trotzskista).
Non so se, come sostiene N.Gallerano nella nota introduttiva, questa Storia dovesse - nelle intenzioni di Montaldi - far parte del ciclo aperto con le Autobiografie della Leggera e proseguito con Milano, Corea e Militanti politici di base. Ci sono tuttavia buone ragioni - come dicevamo - per inquadrare questo saggio a pieno titolo nel corpus montaldiano dell'indagine socio-storico-politica.
Alcune delle categorie di fondo della concezione di Montaldi infatti emergono anche sul terreno che apparentemente meno si presta al loro impiego e cioè quello della storia di un partito, della sua dirigenza, dei suoi rapporti e delle sue crisi, in una parola della sua politica.
L'"esperienza proletaria" (intesa nel suo senso più generale di esperienza di lotta, di sconfitta e financo di distacco e scollamento dall'organizzazione dai suoi centri dirigenti) e il "partito diffuso" (inteso come contraltare "genuino", e fondato su una pratica di classe - sia essa antifascista o anticapitalista - che supera i distinguo e le differenziazioni ideologiche, all'istituzionalità del partito e dell'organizzazione politica) sono a mio avviso il collante dell'opera politica montaldiana e nello specifico la premessa sottintesa del Saggio, il suo contesto naturale e il filtro da cui sono traguardati gli eventi della politica comunista.
Non dunque, al di là delle apparenze, il contrasto tra due "anime" (Bordiga - Togliatti e Gramsci, internazionalismo - specificità nazionale, materialismo - storicismo crociano, marxismo - liberalismo, lotta di classe - union sacrèe, ecc.) ma piuttosto il dipanarsi di una coscienza "grezza" di classe che si interseca e si riflette nel grande dibattito teorico e politico, condiziona ed è condizionata dal susseguirsi delle strategie, delle alleanze e delle svolte tattiche in sessant'anni di storia comunista.
I microcosmi dei Militanti e della Leggera sono, in quanto vissuti individuali concreti di classe, il dato oggettivo, la materia bruta ma non informe, che è ad un tempo contestualizzato e contestualizzatore rispetto alle grandi questioni, alla politica dei gruppi dirigenti, al montare e al defluire della coscienza proletaria (antiborghese, antifascista, antimperialista) che, ciclicamente, irrompe nel quadro delle rappresentazioni razionalizzatrici, storicizzanti o dialettiche rivelando a volte la carente congruenza di strategie e direttive con i concreti percorsi di classe.
L'esperienza proletaria, nella Weltansicht di Montaldi, si dispone sempre sulle linee di minor resistenza e maggiore radicalità rispetto alle parole d'ordine a alle indicazioni del quadro dirigente. Nel senso che ne estremizza, nel dibattito decentrato e nella pratica di lotta, le indicazioni e a volte le stravolge rispettando curiosamente e formalmente il quadro d'insieme delle direttive stesse. I militanti di base traducono nella loro esperienza concreta ciò che spesso è intraducibile trasferendo nelle proprie coordinate politiche ed intellettuali - che derivano da un vissuto di relazioni, rapporti, sfruttamento e subordinazione - "socialfascismi", "fronti popolari", "convergenze", "unità popolari e nazionali". Il rapporto dialettico è saltato o meglio non sono le dirigenze politiche, le avanguardie di classe a padroneggiarlo ma i proletari, i militanti politici di base, in modo rozzo e approssimativo, comunque commisurato alla loro esperienza.
Il partito diffuso è quindi di volta in volta ciò che l'esperienza proletaria rappresenta a sé come strumento di lotta di classe. Ne possono dunque far parte a volte i dissidenti dalla linea del partito, i socialisti, gli anarchici, i trotzskisti, i bordighisti, mai gli aderenti ai partiti borghesi. Il partito diffuso è l'esperienza proletaria materializzata, grondante dei propri limiti e carica delle proprie potenzialità.
La "politica comunista" vi si sovrappone - totalizzante ma non comprensiva, razionalizzante ma distorcente, astraente ma non dialettica - qualunque sia la fase storica e l'apparato organizzativo che la esprime. Questa è forse una lezione che le pagine di Montaldi (anche quelle del Saggio) riescono ancora a trasmettere o meglio che qualcuno può ancora aver voglia di cogliere.
Scheda 4: " Korsch e i comunisti italiani"
Il testo prende in analisi i rapporti fra Korsch e la sinistra italiana nella persona di Bordiga, ma anche in quella sinistra - Pappalardi in primis - che, in disaccordo politico e teorico sulla natura dell'Internazionale e dell'URSS, rompe già nel 1923 col PCd'I per partecipare, successivamente, in Francia alle riviste Reveil Communiste e l'Ouvrier Communiste su posizioni che si avvicineranno sempre più a quelle della sinistra comunista tedesca e della KAPD per finire poi su posizioni vicine all'anarchismo.
Montaldi, oltre un veloce excursus sulla tendenza di Pappalardi, fuori dello "storicismo" tutto italiano, recupera il marxismo rivoluzionario rispetto a un Gramsci ormai "bolscevizzato" e portato a condurre a termine un'impossibile rivoluzione nazionale: per questo non può non emergere la figura di Bordiga, troppo a lungo tenuta nascosta in Italia dalla sinistra ufficiale e anche dalla pretesa sinistra rivoluzionaria di quegli anni.
Secondo noi il testo è invece carente sui rapporti fra Korsch e la Frazione di Sinistra del PCd'I (poi Frazione italiana della Sinistra Comunista Internazionale) fondata a Pantin nel 1928 sulla piattaforma della sinistra del PCd'I (Bordiga) del 1926. E' inspiegabile il fatto, tanto più che una serie di questioni - il rifiuto al sostegno delle lotte di liberazione nazionale, la nozione di "decadenza" del capitalismo, la funzione del partito - avvicinava la Frazione alle tesi della sinistra comunista tedesca e questo tanto più inspiegabile per il fatto che il saggio non è sul rapporto tra Korsch e Bordiga, ma tra quello e i comunisti italiani. Ora, la Frazione - che comunque viene citata appena da Montaldi - era quella che coerentemente rifiutava di venire identificata con la persona e il pensiero di Bordiga, in coerenza con Bordiga stesso, per questo si imponeva un confronto fra Korsch e la Frazione.
Per quanto riguarda quello che generalmente viene definito il comunismo italiano in generale, è importante rimarcare il fatto che l'autore rende giustizia su una presunta affinità fra Korsch e Gramsci a proposito della democrazia consiliare, mentre affinità esiste fra Korsch e Bordiga sulla denuncia del corso degenerativo dell'Internazionale Comunista. Scrive Montaldi: "Dire che esiste relazione fra Gramsci e Korsch è come dire che ne esiste una tra Bordiga e Stalin". Montaldi mette anche in risalto la visione sostanzialmente idealista del Gramsci de La rivoluzione contro il Capitale che poi è una visione che peserà abbondantemente anche in futuro: su questo punto giocherà poi pesantemente la direzione del PCI negli anni '40, quando Togliatti, ad esempio, appoggerà la monarchia con la giustificazione che in Italia esistevano resti di feudalesimo, rappresentato dal fascismo (la cosiddetta svolta di Salerno).
L'affinità, una certa affinità, esiste invece tra l'autore di Marxismo e filosofia e Bordiga. Ma, mentre il tedesco intende porsi nella prospettiva di una nuova organizzazione o sul piano dell'attività, Bordiga ritiene che, dato ormai il corso controrivoluzionario in atto, il problema si pone solo nell'attesa di tempi migliori; tutt'al più Bordiga tendeva a dilazionare nel tempo la prospettiva di una presa di posizione disciplinare da parte dell'Internazionale e continuare a muoversi con elasticità ma con fermezza nel partito fino alla chiusura del periodo storico controrivoluzionario - che riteneva più ravvicinata nel tempo di quanto poi non sarebbe stato - al fine di saldare ciò che restava del passato periodo rivoluzionario con una nuova fase; questa linea d'azione veniva ad infrangersi nel 1930 con il provvedimento di espulsione dal partito. Non a caso nel 1926 in un incontro a Napoli fra Repossi e Bordiga, quest'ultimo è contrario all'idea della formazione di una frazione e su questo punto, casomai è proprio Repossi che per un certo tempo è sulla stessa lunghezza d'onda di Korsch.
Il volume su Korsch e i comunisti italiani comprende un'appendice con la lettera di Bordiga a Korsch del 28 ottobre 1926 dove si nega il carattere borghese della rivoluzione russa, tesi sostenuta da quest'ultimo in linea con la KAPD e con i futuri consiliari, e dove si nega la possibilità di un nuovo raggruppamento esterno all'Internazionale; conclude il testo una serie di Risoluzioni e mozioni approvate dal gruppo Kommunistische Politik. Si tratta degli atti della III Conferenza nazionale del gruppo Kommunistische Politik: da questa risoluzione si evidenziano i tratti in comune con la sinistra italiana e quelli invece particolarmente lontani. Per Korsch e i suoi, la rivoluzione in Russia del 1917 "è stata una forte spinta per la rivoluzione proletaria internazionale (...) essa ha realizzato, nel suo corso, il programma di Lenin per il compimento della rivoluzione borghese tramite il proletariato (ma) nel riflusso della rivoluzione mondiale si manifesta sempre più chiaramente il carattere borghese della rivoluzione russa". La sinistra italiana in quegli anni non si pronuncia sul carattere sociale della rivoluzione in Russia, non tutto è ancora perduto e si può lavorare per raddrizzare il corso in URSS. Assonanza c'è invece sul giudizio dell'Internazionale: la tattica del fronte unico successiva al III Congresso mondiale è il punto di inizio della degenerazione dell'IC. Si noti, tra parentesi, che a suo tempo, Korsch era stato però un entusiasta sostenitore della politica del fronte unico e della formula del governo operaio e contadino. Per quanto concerne il partito, Korsch e i suoi ritengono che in questo periodo intermedio il partito comunista non esista più e il nuovo non esista ancora, mentre la sinistra italiana continua a definirsi Frazione di sinistra del PCd'I fino al 1935, quando giudica morta l'Internazionale e il partito passato nel campo della controrivoluzione, tanto che cambierà nome in quello di Frazione dei comunisti di sinistra, poi, con l'unione dei comunisti di sinistra belgi e altri, Frazione italiana della sinistra comunista internazionale. Da parte sua Bordiga nella lettera a Korsch del 1926 sostiene che "non bisogna volere la scissione dei partiti e dell'Internazionale. Bisogna lasciare compiere l'esperienza della disciplina artificiosa e meccanica col seguirla nei suoi assurdi di procedura fino a che sarà possibile, senza mai rinunciare alle posizioni di critica ideologica e politica e senza mai solidarizzare con con l'indirizzo prevalente".
Un'altra carenza che ravvisiamo nel testo di Montaldi è la diversa opinione di Korsch e dei comunisti italiani e la divergenza di giudizio sull'opposizione trockista, ma d'altra parte si tratta non di un ponderoso volume di ricerca storica, ma di un veloce excursus su Korsch e gli italiani, più che altro un pretesto per stampare la lettera di Bordiga e gli atti della III Conferenza del gruppo di Korsch e allora di più non poteva essere trattato.
In questo testo Danilo Montaldi abbandona la ricerca sociologica e l'attività volta alla riscoperta e alla riscrittura delle tradizioni operaie attraverso le testimonianze orali, così come abbandona la militanza immediata a contatto con i proletari per abbracciare invece l'obiettivo, pur sempre militante, di ristabilire certe verità, soffocate, in Italia, dallo stalinismo aperto prima e successivamente nascosto di tutta la sinistra compresa quella che si definiva rivoluzionaria o di classe.
Scheda 5: "Bisogna sognare - Scritti 1952-1975"
Si tratta di un libro importante, estremamente articolato, che proprio per l'apparente eterogeneità degli scritti raccolti riesce a rendere con fedeltà il ritratto di un intellettuale e militante atipico, dei suoi rapporti con la politica, la sinistra, le trasformazioni sociali e la classe in un percorso che va dal secondo dopoguerra alla metà degli anni settanta. Un periodo storico che con la complessità degli eventi registrati segna tuttora pesantemente prospettive e rapporti socio-politici della classe e del corpo sociale.
Tre filoni principali nell'antologia degli scritti di Montaldi: quelli "militanti" su Battaglia Comunista (e in seguito su Azione Comunista) classicamente disposti intorno alle proprie granitiche certezze come si conviene ad una certa linea di pensiero iper-bordighista; quelli "politico-culturali" dedicati al dibattito nell'intellettualità e nella Gauche francese a partire dagli anni '50 e quelli "teorico-sociologici", ovvero a carattere socio-politico dedicati al proletariato cremonese, al suo "ambiente" e ai militanti politici del dopoguerra che già delineano lo stile dell'inchiesta operaia che troverà compimento nelle "Autobiografie della leggera" e "Militanti politici di base". Attorno a questi scritti una miriade di articoli di critica letteraria, di critica di costume, di critica d'arte e cinematografica, sceneggiature ("La matàna de Po" (1959)), recensioni, biografie. In appendice, fra l'altro, una traduzione importante: "L'operaio americano" di Paul Romano, la cui lettura converrebbe a molti in tempi di "postford-taylorismo" galoppante e imperante.
Un libro estremamente complesso, dicevamo, il cui taglio e la scelta (o meglio la non-scelta) degli scritti può lasciare legittimamente perplessi quelli che sono abituati ad un'opera preventiva di filtro e di interpretazione che rende più fruibile opere di questo tipo.
Io credo sia preferibile - particolarmente in questo caso - mettere a disposizione tutto il materiale "ordinato grezzamente" in modo cronologico perché a obbiettive difficoltà di lettura (come riconnettere i fili sparsi della critica montaldiana alle vicende della sinistra di classe o autosedicente tale che vanno da "Curva discendente: Trotzky, trotzkismo, trotzkisti" (1953) a ""La Verità" (1945-1946)" e ""Prometeo" (1946-1952)" (1962) o a "La fine del PSIUP" (1972) passando per una moltitudine di note e considerazioni, di spezzoni d'analisi contenuti in altri articoli; o ricollegare gli interventi sulla questione sindacale o quelli sul ruolo dei partiti di massa della sinistra nel teatrino della politica italiana?) si contrappone la possibilità di cogliere uno sviluppo di pensiero in divenire, in progress o in regress, mai comunque statico. Pensiero che è costituito di osservazione attenta e generalmente radicalmente critica di trent'anni di vicende italiane e non solo, o di illuminanti anticipazioni sui topòi di certa "autorappresentazione sociale" - "Cronaca nera" (1959).
Intendiamoci, quello di Montaldi non è un punto di vista né privilegiato, né centrale rispetto ai fenomeni di cui in lui cerchiamo testimonianza: l'estrazione, l'humus culturale, i riferimenti sono indissolubilmente legati alla Padania come testimoniano la peculiare angolazione degli scritti in cui tratta dei "militanti politici di base" e del "partito diffuso" come categorie di un certo milieu di provincia - "Un inchiesta nel cremonese" (1956). Tuttavia è proprio questo "sbilanciamento" che gli consente di "chiosare" con rigore alcune fasi del dibattito sulla questione agraria, in quegli anni molto più centrale di oggi - "Crisi del mito contadino" (1957) e "Miglioli, Grieco e il contadino della Valle Padana" (1958).
Ritornando ai tre filoni principali degli scritti di Montaldi, mi pare di poter affermare che quello che oggi mostra meno i segni del tempo, quello meno datato, sia quello che potrebbe essere chiamato "sociologico". Non perché gli articoli "militanti" su "Battaglia Comunista", "Azione Comunista" e "Questioni" - sebbene paludati di certezze apodittiche - non affrontino temi ancor oggi importanti come la degenerazione burocratica degli apparati, il parlamentarismo, l'opportunismo e così via. Non perché gli articoli sulla Francia affrontino questioni "chiuse". Non è chiuso il problema del colonialismo affrontato dagli articoli sulla lotta di liberazione algerina. Non è chiuso il dibattito sul ruolo degli intellettuali e del loro rapporto con il "partito" trattato negli articoli su Camus, Sartre, il marxismo e il PCF. Ma piuttosto perché Montaldi - che al di là delle apparenze non è uomo da "teoresi" rivoluzionaria - in questo campo propone stimoli che in un periodo di trasformazioni sociali accelerate come quello che stiamo vivendo conservano la loro capacità di "pungere".
In opposizione alla considerazione della sociologia come "scienza" di rapporti e leggi che prescindono metastoricamente dal divenire sociale e dalle sue determinazioni concrete e pure in opposizione ad una certa sociologia marxista che riduce questa disciplina ad una propaggine ancillare della teoria rivoluzionaria dove l'ontologia dei soggetti sociali è la cristallizzazione morta di queste determinazioni, Montaldi dispone i paletti di un recupero del marxismo come "scienza sociale" nella pienezza del termine, cioè come teoria critica, radicale e generale della società non coartata né dal determinismo, né dall'economicismo, né dal politicismo. Si tratta certo di tentativi, di spezzoni d'analisi metodologica, di parziali risultanze di ricerche, di annotazioni critiche sparpagliati un po' dappertutto nei suoi scritti a partire dalle chiose al primo Congresso nazionale di Scienze Sociali - "Sociologia di un congresso" (1958).
Tentativi non sempre e non troppo riusciti che tuttavia illustrano uno scopo tenacemente perseguito e una tensione continua al suo raggiungimento. Che testimoniano di un valore della ricerca in sé e per sé, e per chi voglia oggi raccoglierne la sfida.
Per concludere questa breve recensione direi che di Montaldi da questi scritti emergono almeno tre caratteristiche fondamentali: l'atipicità, l'eclettismo culturale e il rigore analitico. Caratteristiche che cozzano contro l'iperconformismo ristretto e sciatto di molta dell'intellighenzia di sinistra (anche la più celebrata) e dell'avanguardia della sinistra di classe che ha animato il dibattito politico di questi ultimi decenni.