L’INCHIESTA OPERAIA
LE ORIGINI, LA STORIA, L’ATTUALITà
Daniel Blanchard, Mario Lippolis: l’esperienza di «Socialisme ou Barbarie»; Montaldi e il concetto di esperienza proletaria; l’approccio critico alla sociologia.
Io
sono un po’ spaesato nel senso che personalmente non ho conosciuto Danilo
Montaldi mentre invece Daniel lo ha conosciuto, è stato suo ospite, oltre ad
aver partecipato al periodo in cui Montaldi era strettamente legato a «Socialisme
ou Barbarie». Anche se nel periodo intorno al ’68 Montaldi era presente per
interposta persona, perché i compagni di Genova, a cui io ero collegato, lo
conoscevano, qualcuno di più qualcuno di meno. Nello stesso tempo avevano
partecipato alle prime fasi di «Classe operaia», quindi erano strettamente in
contatto con gli ambienti che in qualche modo erano collegati con «Socialisme
ou Barbarie» in Francia. Altri hanno cominciato a prendere coscienza di questi
argomenti, di queste tendenze, proprio intorno al ’68 e si sono poi, io ad
esempio, interessati più direttamente a «Socialisme ou Barbarie». Sarebbe un
problema interessante quello di stabilire come mai il ’68 sia stato nello
stesso tempo un punto di contatto e un tentativo di impadronirsi delle tendenze
che ancora provenivano dal vecchio movimento operaio, da un lato, e dall’altro
delle tendenze che come «Socialisme ou Barbarie» cercavano di fare un bilancio
storico del vecchio movimento operaio nella consapevolezza che una fase storica
si era conclusa e che bisognava elaborare nuovi punti di vista, bisognava
appunto apprendere dall’esperienza proletaria secondo nuove modalità. Invece
nel ’68 questo genere di gruppi che da un lato cercavano di impadronirsi di
questa tradizione, di questo filo storico, nello stesso tempo, però, tendevano
verso un’altra direzione. Poi di fatto questa saldatura effettiva – per quel
che mi riguarda e per quel che riguarda altri gruppi che pur ritengo fossero
interpreti più fedeli dei caratteri nuovi del movimento di allora – con la
generazione di Montaldi e con i gruppi degli amici di Montaldi non c’è stata.
Penso che ci siano delle cose che non sono ancora chiare che ci sia stata una
certa fretta nel girare la pagina e considerare chiusi i rapporti con ambienti
su cui Montaldi era estremamente critico come i primi gruppi che sono nati in
questo lasso di tempo, gruppi che si possono chiamare gauchisti, come
Avanguardia Operaia e i vari gruppi dell’estrema sinistra operaista. Di fatto
avevano più contatti con loro che con noi. Mi ricordo che Montaldi nei suoi
scritti chiama i gruppi prevalenti nella cosiddetta nuova sinistra di allora «comitati
burocratici dissidenti» nel senso che li vedeva più come modi di
decomposizione del grande corpo dello stalinismo, del movimento operaio
ufficiale, quindi staliniano, in Italia. Però, la sua attenzione era diretta ai
militanti e alle persone che, al di là dei micro apparati, delle loro alleanze
e dei loro giochi, esistevano e lavoravano. Io penso che il rapporto con
Avanguardia Operaia fosse legato a persone come quelle che avevano fatto il cub
della Pirelli. Però ripeto c’è stata una diversa sensibilità.
L’esperienza
proletaria, l’inchiesta operaia, che avete dato come argomento di questo
incontro, sull’inchiesta operaia come termine tecnico non saprei dire molto.
Conosco i tentativi dei gruppi come quelli americani o di «Socialisme ou
Barbarie». Ricordo che da uno di questi tentativi è venuta fuori la traduzione
di Montaldi dello scritto che a me sembra sempre molto interessante di Paul
Romano sull’operaio americano. Però mi sembra di capire che poi questa
inchiesta operaia sia stata, qui in Italia, codificata e teorizzata in maniera
diversa che a dire il vero io non conosco nemmeno bene, ma che non conosco bene
perché forse non l’ho voluta conoscere bene. Mi sembra molto riduttiva
rispetto al modo che questo termine ha avuto in «Socialisme ou Barbarie» e
forse anche in Montaldi. Io non conosco bene i lavori del gruppo di Cremona e la
attività più minuta di Montaldi. Conosco i libri e i ciclostilati che sono
stati pubblicati e mi sembrano molto interessanti. Penso che allora non avessimo
riflettuto abbastanza anche se recentemente questo tema mi sembra che stia
tornando fuori. Ad esempio l’ho visto trattato, in maniera priva
d’interesse, per la verità solo sulla rivista romana «Invarianti». Piatta,
«scientifica» in qualche modo positivista. Non mi sembra che possa avere un
qualche aggancio, sia pur minimo con il modo di Montaldi. Non mi sembra che ci
siano dei collegamenti. Probabilmente ci sono altri tentativi altri interessi,
altri modi di proporsi qualche cosa di questo genere. Quello che mi sembra di
percepire di Montaldi è qualche cosa di totalmente alieno da un approccio
sociologico, anche se lui parla di sociologia non quantitativa. Poi di fatto mi
sembra che sia Autobiografia della leggera
sia Militanti politici di base siano
un esempio di una considerazione completamente storica dei soggetti a cui si
riferiscono. Nell’un caso e nell’altro a me fa un po’ ridere che possano
essere chiamati casi di inchiesta operaia visto che per gli uni si tratta di una
ricaduta come lui la chiama di ceti che fan pur parte in qualche modo del
proletariato dell’agricoltura industriale della bassa padana, ricaduta che lui
analizza in termini storici, e nell’altro caso nella contemporanea raccolta
delle biografie dei militanti di base, mi sembra che ciò gli interessi non è
certo la loro appartenenza o le loro qualifiche o i loro caratteri più o meno
operai quanto il fatto che sono dei militanti, nel senso che sono delle persone
che si sono inserite nella prospettiva storica del rovesciamento della società
dominante e rientrano e possono essere considerati i portavoce dell’esperienza
proletaria in senso lato. In tutte e due i casi mi sembra che la cosa più utile
oggi stia nella capacità di Montaldi, non solo nella sua peculiare attenzione,
a legarsi e ad ascoltare fino in fondo queste persone e nell’importanza che da
alla loro biografia, e alla loro autobiografia, ed anche il modo in cui riesce a
considerare nello stesso tempo la struttura sociale in cui sono inseriti. Ma
ancora di più il modo in cui reagiscono sia alla struttura sociale che alla
storia, il modo come si rappresentano, il significato che ha il loro stesso
gesto di raccontarsi. Il modo di Montaldi di rivolgersi a loro mi sembra la
negazione completa della sociologia intesa come scienza sociale. Mi sembra che
questo termine si veramente abusivo riferito a esempi di questo genere. Mentre
invece recentemente mi sembrava di aver colto una riproposizione da qualche
parte di paradigmi, di proposte di tipo sociologico, sociologico di sinistra,
oggettivista, privo di qualsiasi interesse. Invece, il problema mi sembra che
sia quello di percepire qual è l’esperienza proletaria, come viene vissuto
almeno da un polo della società il dominio, lo sfruttamento, l’alienazione.
Il problema mi sembra se questa esperienza attuale può essere in qualche modo
raccontata, come mai la leggera di Montaldi scriveva la propria vita, cosa
voleva dire scrivendo la propria vita. Lui spiega, mi sembra, abbastanza bene,
come mai i militanti degli anni dal ’20 al ’60 anche se non scrivevano la
propria vita la raccontavano una volta che li si fosse coinvolti in questo loro
raccontare, come mai la raccontavano volentieri a Montaldi, come mai la
raccontavano inquadrandola in tutto un modo di mettere in prospettiva la storia,
di mettere in prospettiva, quindi, il tentativo di rovesciamento della società.
Invece oggi io penso che l’esperienza proletaria esista sempre però non si
racconta. Quali sono i modi in cui si potrebbe, non dico indurla a raccontarsi,
in cui questa esperienza proletaria può in qualche modo rappresentarsi, può in
qualche modo dirsi.
Mi
sembra che uno che volesse fare davvero una inchiesta «operaia» oggi se non si
pone all’inizio e prima di tutto questo problema può fare solo delle cose
prive di qualsiasi interesse.
Intervento:
Leggendo il saggio L’esperienza
proletaria tradotto da «Socialisme ou Barbarie» ho notato molti punti in
comune con la tradizione operaista italiana e del resto una netta divergenza con
quello che Lippolis indicava come oggettivismo o sociologismo, perché
l’inchiesta nasce dall’esigenza di definire come si forma la soggettività,
nel caso di «Socialisme ou Barbarie», la soggettività operaia. Penso che
Blanchard ci potrebbe raccontare come nasce e come si è sviluppata questa
tendenza in Francia e in «Socialisme ou Barbarie».
Daniel Blanchard:
Mi sento un po’ a disagio a parlare un po’ perché non sono abituato a
parlare in italiano, specialmente in pubblico e un po’ perché tutto questo è
una vecchia storia. Avrei dovuto rileggere il testo di Lefort a proposito
dell’esperienza proletaria per essere in grado di parlarne perché oggi non mi
ricordo né il testo né il contesto in cui è stato scritto.
La
prima cosa che voglio dire per illustrare il fatto che è una vecchia storia è
che la rivista «Socialisme ou Barbarie» ha smesso di essere pubblicata nel
1965, trenta anni fa e il testo di Lefort è probabilmente di dieci anni prima.
Una
prima cosa che voglio dire è una cosa molto personale: sono stato molto
commosso di ricevere il libro di Montaldi. Mi sono ricordato del mio incontro
con Montaldi a Parigi e poi a Cremona quando sono venuto a trovarlo e la cosa
che mi ha colpito, io che ero un intellettuale piccolo borghese, era il legame
molto forte che Montaldi e i suoi compagni, ma soprattutto Montaldi aveva con il
movimento sociale nella sua regione, come conosceva molti attori di questa
storia. Tutto questo per me era una grande novità perché noi a Parigi avevamo
un legame molto ridotto con il proletariato. C’erano pochissimi operai nel
gruppo di «Socialisme ou Barbarie», c’era uno che rifletteva sulla sua
condizione e sulla sua esperienza che era Daniel Mothé che aveva scritto un
libro di cui Montaldi fa una recensione. Mothé era un operaio della Renault, un
operaio qualificato, in alto nella gerarchia degli operai nella fabbrica
moderna. Invece il proletariato di cui parlava Montaldi e a cui era legato, era
un proletariato fatto di contadini e di operai delle piccole fabbriche del
Cremonese. Voglio dire che c’era una gran differenza tra i due ambienti, ma la
differenza era anche per me la qualità della relazione e dei legami che
Montaldi e i suoi compagni avevano con la gente della regione di Cremona e la
storia delle lotte sociali tra i contadini e tra gli operai e il carattere molto
affezionato di Montaldi con questa gente. Sono stato molto colpito da questo. Io
ho compreso che quando parlava del proletariato parlava di una cosa molto più
concreta rispetto a noi a Parigi, che avevamo come unica sorgente di esperienza
proletaria quella di Mothé e di pochi altri operai che per lo più non
parlavano, assistevano alle riunioni ma non dicevano niente. Penso che questa
differenza spiega una divergenza apparsa più tardi tra Montaldi e una parte del
gruppo di «Socialisme ou Barbarie», quella intorno a Castoriadis, che era più
desiderosa di girare pagina, come diceva Mario, del proletariato come soggetto
della storia, della rivoluzione, del cambiamento sociale. Invece per Montaldi la
cosa era più concreta, più vivente, più viva ed è una delle ragioni per cui
è rimasto attaccato all’idea del proletariato come soggetto sociale e
mondiale.
Un
altra cosa che Mario ha detto è che né nel caso di Montaldi né per noi,
quando si trattava di esperienza proletaria non era in modo sociologico. Perché
anche per noi, pur essendo molto lontani dalla realtà del proletariato, il
nostro sforzo era di legare l’inchiesta sulla realtà proletaria con il
movimento del rovesciamento della società dominante e non era la preoccupazione
di fare un bilancio scientifico, ‘oggettivo’, del proletariato e della
classe operaia. Ma penso che sarebbe meglio che la discussione e il dibattito
cominci, forse sarò in grado di dire qualcosa di più.
INTERVENTO:
Il dato di partenza è che l’esperienza di «Socialisme ou Barbarie» in
Italia è assai poco conosciuta perché mentre di Castoriadis sono stati
pubblicati, abbastanza recentemente gli scritti sul regime sociale dell’urss
(i due volumi Il capitalismo burocratico), per quanto riguarda il resto
dell’elaborazione e soprattutto dell’attività di elaborazione e del
rapporto con soggetti sociali, con le fabbriche, non c’è nulla, a parte la
traduzione del ’77 su «Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe»
del saggio di Lefort su L’esperienza
proletaria. Quindi, mi interesserebbe sapere un po’ di cose sui giornali
operai vicini a «Socialisme ou Barbarie»: «Tribune Ouvrière» e poi
successivamente l’esperienza di «Pouvoir Ouvrier» perché Montaldi li fa
conoscere in Italia pubblicandone dei pezzi così come fa conoscere esperienze
che considera analoghe negli usa e
in Inghilterra. Questo insieme di gruppi che avevano all’epoca, da quel che si
capisce, una serie di rapporti tra di loro e che nello stesso periodo erano
discussi in Italia – ad esempio so che sia il libro di Mothé che il libro di
Sarel sulla classe operaia della Germania Orientale erano molto letti e
discussi. Però di questo dibattito molto grosso sul rapporto tra gruppo e
fabbrica, operai nel loro ambiente di lavoro, nella loro rete di comunicazione e
di attività e elaborazione di un programma che è poi l’esigenza prima che
pone Montaldi, ecco, questo problema che pure ha segnato profondamente, a quel
che mi risulta la stessa esperienza di «Classe operaia», perché quando se ne
vanno i genovesi se ne vanno sulla questione di cosa dovesse essere «Classe
operaia» se un giornale operaio, se l’unione di una serie di giornali operai
fatti direttamente da nuclei di operai, oppure se dovesse essere un giornale
politico, quindi più legato alle categorie della politica e quindi in quel
contesto alla questione, ancora, del rapporto con il sindacato e con il pci.
Di questo dibattito, che allora fu una cosa grossa, da quel che si capisce, non
è rimasto praticamente nulla nell’esperienza dei militanti delle generazioni
successive. A parte per le ragioni che diceva Mario, per quel che riguarda il
giro radicale la questione del consiliarismo classico e per certi versi la
stessa questione operaia queste cose non interessavano più, ma invece per la
generalità dei compagni per la mancanza di materiali di riflessione e di
conoscenza. Questa è la prima domanda.
La
seconda situazione sulla quale desidererei avere informazioni è una cosa che ci
ha raccontato Gianfranco Fiameni una sera che siamo andati a casa sua. Fiameni
ci ha raccontato che negli Sessanta in estate in un ex villaggio di minatori nel
Sud della Francia, ch’era stato abbandonato e che era stato rilevato da
qualcuno, si svolgevano degli incontri internazionali a cui partecipavano un
po’ tutti i gruppi dell’ultrasinistra e a cui partecipavano anche compagni
dell’«Internazionale situazionista» con discussioni, scazzi ecc. Volevo
sapere se ci avevi partecipato e se ti ricordi qualcosa del dibattito. Era un
villaggio abbandonato che un compagno aveva rilevato e dove in estate si
trovavano tutti. Questo compagno raccontava un po’ di episodi anche
divertenti, di scazzi e di provocazioni con i situazionisti sugli alberi e gli
altri sotto.
BLANCHARD:
Sulla prima domanda bisogna dire che tutti questi giornali ed esperienze erano
una specie di microcosmo. Il gruppo di «Socialisme ou Barbarie» negli anni
Cinquanta era formato da una ventina o una trentina di persone, poi un po’ di
più, dopo la presa del potere di De Gaulle e dopo la rivoluzione ungherese c’è
stato un piccolo afflusso di membri e di militanti. Il gruppo di «Tribune ouvrière»
era formato da tre o quattro operai della Renault. In Inghilterra «Solidarity»
era lo stesso tipo di gruppo. Negli usa c’erano «News & Letters» e «Correspondence». In
ogni caso c’erano uno o due operai in ogni gruppo. Non dico questo per
sminuire il lavoro teorico che è stato fatto a partire da questa base. Voglio
dire che questa base era estremamente stretta e che alla Renault «Tribune ouvrière»
era composta essenzialmente da Mothé, Gasparre
e uno o due altri compagni. Tutti erano professionisti, operai di alto livello.
L’esperienza era molto stretta ma allo stesso tempo attraverso questa
esperienza si ponevano i problemi del sindacato e della burocrazia sindacale,
specialmente alla Renault dove l’unico sindacato era la cgt cioè il pcf,
e il problema dello stalinismo. Inoltre si poneva il problema della
trasformazione del lavoro, almeno tra i professionisti. Lo stesso vale per
l’Inghilterra. In «Solidarity» c’era un operaio, delegato di reparto, ma
in Inghilterra i delegati erano molto spesso opposti all’apparato sindacale
perché erano in collegamento molto stretto con la base. Così «Solidarity» ha
sviluppato una teoria della lotta di classe interna alla classe operaia tra la
base del sindacato a partire da questa esperienza molto limitata ma erano le
condizioni nelle quali si poteva riflettere in questo tempo. «Tribune ouvrière»
non aveva un influenza molto grande in tempi normali, ma quando c’era uno
sciopero o un movimento di base poteva avere un eco. Non è mai stato in grado
di organizzare un movimento, uno sciopero.
Sulla
seconda domanda posso dire soltanto che non c’ero.
INTERVENTO:
Fra le tante cose che abbiamo domandato a Fiameni c’era anche il rapporto,
esistente o meno con l’«Internazionale situazionista» che come riferimento
non compare mai in Montaldi. Fiameni ricordava questo episodio e in generale
diceva che loro faticavano a capirsi. Però diceva che di rapporti ce ne erano
stati e soprattutto c’erano state queste discussioni nei primi anni Sessanta.
BLANCHARD:
Dei rapporti tra «Socialisme ou Barbarie» e l’«Internazionale situazionista»
posso parlare perché sono io ad avere incontrato Guy Debord per la prima volta
e ho lavorato con lui quasi un anno a paragonare posizioni e tesi dei nostri due
gruppi e finalmente abbiamo scritto un testo in comune che si chiamava in modo
molto pretenzioso: Preliminari a una
definizione di un programma rivoluzionario. Alla fine del ’60 sono dovuto
partire; nel frattempo Debord è diventato un membro del gruppo di «Socialisme
ou Barbarie» cosa che nessuno ha mai ricordato. È rimasto nel gruppo solo un
anno ma ha partecipato attivamente. Nel ’61 c’erano i grandi scioperi in
Belgio e tutto il gruppo si era trasferito per partecipare e per fare dell
agitazione. Debord partecipò a questo movimento. Quando sono tornato ho
incontrato Debord ma molto presto ha rotto tutti i legami con «Socialisme ou
Barbarie» e ha cominciato a criticarlo. Penso che se c’è un anno in cui i
situazionisti hanno partecipato a un convegno con «Socialisme ou Barbarie» e
altri gruppi probabilmente era il 1961.
LIPPOLIS:
Forse sarebbe interessante capire il problema di come nonostante Montaldi i temi
sollevati da «Socialisme ou Barbarie» e anche le risposte che «Socialisme ou
Barbarie» si dava siano filtrate in Italia in una maniera molto parziale,
stravolta in senso sociologico e quindi abbiano potuto essere parzialmente
recuperate in quella che poi è risultata la corrente prevalente
dell’operaismo italiano che li rendeva compatibili con il pci,
con il machiavellismo d’apparato. Questo sarebbe interessante per l’Italia e
per i più giovani che sono cresciuti avendo come coordinate della loro
esperienza questa versione un po’ interessata, un po’ particolare di come
andassero interpretati, visti e sostenuti i nuovi movimenti delle giovani
generazioni proletarie degli anni Sessanta e Settanta e non hanno avuto la
possibilità di conoscere direttamente le fonti americane e francesi di questo
modo di vedere le cose. D’altra parte essendosi Montaldi volontariamente
limitato nel Cremonese, sia pur in tutti i suoi rapporti, non è stata la sua
interpretazione o la sua visione che ha prevalso ma sono state altre.
Recentemente ho letto che Alquati nel suo libro, che fra l’altro fa
riferimento al libro di Montaldi Bisogna
sognare anche nel titolo, ricordava che ad esempio lui negli anni Sessanta,
anche se aveva deciso di andare nel centro di quella che sembrava il nuovo
movimento operaio a Torino, diceva di essere sostanzialmente d’accordo con
Montaldi nel recepire l’orientamento di «Socialisme ou Barbarie» e ricordava
come Panzieri da trockista effettivo e quindi da entrista nelle istituzioni
ufficiali del movimento operaio invece lo vedesse come fumo negli occhi. Poi,
dopo la morte di Panzieri, sarebbe interessante percorrere come Tronti, Negri,
Cacciari e via di questo passo abbiano un po’ quello a cui tu facevi
riferimento e cioè la rottura con i genovesi con questa piega presa da «Classe
operaia».
BLANCHARD:
Io vorrei dire ancora una cosa a proposito del contenuto di questa esperienza
proletaria. Il modo in cui la concepivamo non era solo un contenuto di lotta di
critica della società e di negatività ma anche un contenuto positivo e questo
era il legame più profondo tra i gruppi americani francesi e italiani. Si
trattava di cercare il modo in cui il proletariato era il depositario di una
esperienza positiva e cioè il possessore della produzione, di una
socializzazione autonoma, della creatività, non solo nel lavoro ma nella vita
nei suoi rapporto sociali. E questa era una grande differenza rispetto a tutti
gli altri movimenti operaisti. In questo senso non era affatto una sociologia.
INTERVENTO:
Per stravolgimenti in senso sociologico cosa si intendeva prima?
LIPPOLIS:
Il ritagliare una figura astratta, una figura cardine da potere stilizzare come
un nuovo soggetto che permettesse una manipolazione in termini di ingegneria
sociale e quindi potesse essere giocata nelle dinamiche interne al ceto politico
dominante della sinistra. Innanzitutto è un togliere tutto il senso storico che
aveva la riflessione di «Socialisme ou Barbarie» e l’«Internazionale
situazionista» sulla fine del movimento operaio, sulla fine dello stalinismo,
sulla natura della burocrazia operaia, sulla burocratizzazione del mondo, sulla
fine dell’iniziativa politica autonoma da parte dei proletari effettivi. Ecco,
sfrondare tutto questo che era un discorso estremamente compromettente che
avrebbe chiaramente rotto tutti i ponti con il psi
per Panzieri, e con il pci e con il
sindacato, e invece estrarre alcune figurine che possono essere l’operaio
massa, l’operaio sociale, che possono essere spesi come una specie di target a
cui ...
INTERVENTO:
In Francia questa esperienza nasce su un retroterra già esistente di tipo
trockista mentre in Italia il trockismo non ha mai avuto grosso spazio. I due
grossi referenti sono sempre stati «Quaderni rossi» e «Classe operaia». L’entrismo
trockista ha fatto da supporto a certe idee che però rimanevano sempre interne
al pci. Non è un caso che «Quaderni
rossi» si sono sempre dati una immagine di opposizione, di quelli che avevano
rotto col pci e con il sindacato e
non è mai stato vero perché in realtà hanno sempre agito con l’appoggio e
la sinistra sindacale di allora, con personaggi tipo Garavini, Pugno e cioè
burocrati stalinisti che non avevano alcuno scrupolo a picchiare chiunque
andasse a dare anche solo volantini e facesse loro concorrenza davanti alle
porte della fiat. Quindi non
stupisce che queste esperienze in Italia condotte in quello spirito siano poi
risultate piuttosto annacquate. La scoperta poi è avvenuta nel ’68 in seguito
alla radicalizzazione della situazione. Allora è stato tutto ripreso
riferendosi direttamente alle fonti, che sia «Quaderni rossi» che «Classe
operaia» si guardavano bene dal dire quali erano. Sia Tronti che Negri, sia
Rieser che Lanzardo, Panzieri anche, spacciavano questa roba come farina del
loro sacco, quindi c’è tutta una grossa mistificazione, almeno in quegli
anni. Poi in seguito è stato tutto recuperato in un quadro di autoesaltazione,
di autorivalutazione posteriore. In realtà come sostanza si muoveva tutto nella
sinistra sindacale di allora. Se non ci fosse stato il ’68 tutto sarebbe
finito lì. Seconde me sarebbe interessante non solo vedere questi aspetti
storici ma anche gli sviluppi successivi e cioè come l’operaismo, che
sostanzialmente aveva il merito di ribaltare la concezione dominante che il
partito fosse un effettivo soggetto autonomo e che tramite il partito si spiega
tutto, di ribaltare questa concezione che in realtà sono i movimenti della
classe che possono spiegare il partito quando il partito merita di essere
spiegato. Quindi quello è stato il grande merito. Però, nello stesso tempo nel
’68 non bisogna dimenticare che tutto l’operaismo che va dal luxemburghismo
alla sinistra tedesco olandese, «Socialisme ou Barbarie», «Internazionale
situazionista» venne tutto scoperto di botto. Nel momento della riscoperta
contemporaneamente avvenne anche una critica. Più che altro come strumento di
critica a tutti i partitini di tipo neo-leninista che allora cercavano di
recuperare il movimento. Però nello stesso tempo ci si rese conto dei limiti
del discorso per cui se si vuole un quadro completo bisogna vedere entrambe
queste due fasi: il fatto positivo di ribaltare il punto di vista allora
dominante della centralità del partito come alfa e omega di ogni discorso. Ma
nello stesso tempo ci si rese anche conto, a fronte di quello che avveniva nei
movimenti degli anni Settanta, che quel tipo di configurazione della coscienza
proletaria come coscienza operaia era di fatto già superato dagli avvenimenti e
che i soggetti che si muovevano allora non potevano più considerarsi come
soggetti operai in senso classico.
INTERVENTO:
Vorrei dire due cose in riferimento al radicamento territoriale di Montaldi nel
Cremonese.
È
vero che negli scritti di Montaldi emerge una umanità radicata in un passato
storico profondo, in tradizioni ben determinate, vive, non ancora occupate
dall’industria culturale, dai media, dai modi della socialità capitalista
moderna. Però c’è un altro elemento altrettanto e forse più importante per
definire il contesto cremonese ed è l’elemento schiettamente politico, cioè
l’esperienza politica del proletariato cremonese. Montaldi agisce fin da
giovanissimo in un contesto che ha ancora legami molto stretti con la
costruzione del pci, con il Biennio
Rosso, con una Resistenza dai determinati caratteri di radicalità. E questa sua
inserzione e il fatto che Montaldi si ponga soggettivamente il problema di
riarticolare questo passato politico, non ancora consumato anche se bloccato
dallo stalinismo, che è alla base della sua idea di «militanti politici di
base» e della categoria che lui usa di «disperso partito marxista». E il
fatto che esistono concretamente sul suo territorio tanti operai, compagni,
gente che dentro e fuori la fabbrica ha avuto un rapporto storico con il proprio
presente gli permette di trarre dalle autobiografie di quelli che sarebbero
sociologicamente degli emarginati, informazioni e conoscenze sul fascismo,
sull’ultimo dopoguerra, sugli anni Trenta. È questo che secondo me si deve
intendere come radicamento padano e contestuale di Montaldi ed è questo che lo
porta viceversa a scontrarsi con Bosio poiché lui accusa Bosio di non riuscire
a realizzare questa riattualizzazione del passato ma di lavorare come custode di
un’esperienza che comunque è morta o può essere raccolta come quello che non
è stato macinato dalla storia. Credo che quando verrà Fiameni potrà dire
molte cose su cosa significherà nella vita del gruppo.
Daniel,
gli operai con cui avevano rapporto loro non stavano zitti. Magari, non
intervenivano immediatamente nella riunione, però la loro esperienza doveva
confrontarsi da vicino con anche grossi problemi e scazzi su cosa fare, su come
agire e su come articolare una attività politica di base. L’attività del
gruppo di Cremona per me è assolutamente particolare perché è l’attività
comune di un gruppo di operai e di un gruppo di giovani ricercatori costretti a
vedere le cose da vicino in senso pratico.
La
seconda cosa che voleva riprendere è relativamente agli Usa e a Paul Romano. Un
episodio interessante perché la questione americana ha intrigato da sempre il
militante italiano e ha avuto diverse coniugazioni. Sostanzialmente mi pare che
i compagni hanno scoperto che gli Usa non sono solo imperialismo dopo le lotte
violente di fine anni Sessanta nelle città americane e dopo che sulla base di
quelle esperienze si è formata una storiografia classista del proletariato
americano che io considero ancora dal punto di vista della conoscenza uno dei
punti migliori dell’intellettualità operaista. Questa acquisizione è datata
inizio anni Settanta e fa riferimento essenzialmente all’esperienza del
proletariato americano dei primi del secolo: il discorso sugli Industrial
Workers of the World (iww) e il
tentativo di collegamento, un po’ forzato ma sicuramente interessante, tra i
contenuti e le forme d’espressione del proletariato attuale e quello che aveva
il proletariato americano dei primi del secolo. In Paul Romano che è un testo
del ’48 ci sono già tantissimi di questi elementi: c’è l’esperienza
dell’operaio dequalificato, ci sono sudore, fatica, incidenti, esperienza di
vita fuori dalla fabbrica ma determinata dalla settimana, rifiuto di questa ecc.
C’è però una impostazione diversa da quella che veniva definita prima
sociologica perché il pezzo non a caso si chiude con il problema, a partire
dall’esperienza proletaria, di riarticolare un progetto di ridefinizione della
società complessivamente intesa, e cioè con il problema del programma di
trasformazione sociale che Romano vede doversi realizzare con gli operai comuni
e non come distillazione di un piccolo gruppo, ma che rimane ancora al centro
dell’attenzione di questo tipo di militante con questa ambizione di complessità.
Viceversa quando si parla degli iww
sono interessanti perché avrebbero fatto fuori il binomio ideologia-utopia,
avrebbero accorpato il tutto nel movimento autonomo superando d’un sol balzo
sia la socialdemocrazia che il pci.
Infatti nel pezzo di sintesi del seminario di Padova del ’67 si parla di
post-comunismo come portato di queste lotte.
Qui
secondo me si gioca una grossa questione che già era accennata prima: il fatto
che sostanzialmente l’operaismo in Italia si costituisce come paradigma
complessivo a partire dall’idea che le questioni storico-politiche passate
siano risolte. C’è stata la fine del Biennio Rosso prolungato poi fino al
’26 inglese con la sconfitta. C’è stata poi, su questa sconfitta, la
definizione del modello fordista. Però questo è il passato che non riguarda più
la nuova figura dell’operaio massa che a partire dal proprio agire diretto
potrà andare al di là delle esperienze fallimentari del passato. Ecco, su
questo punto credo che Montaldi non si trova assolutamente. Infatti c’è un
documento del gruppo di Cremona su cosa non sono d’accordo con «Classe
operaia» e c’è proprio questa questione del programma perché la specificità
di Montaldi rispetto ad altri militanti della sua generazione secondo me sta nel non prendere per definitiva questa scissione che pure è un
fatto reale ma che lui cerca continuamente di rielaborare e quindi parla del
proletariato come classe dell’esperienza ma dell’esperienza storica che è
una esperienza di sconfitta ma non di annullamento dei tentativi rivoluzionari
del passato. Questo gli permette anche, parlando della classe operaia italiana,
di non tirare una riga sugli anni Cinquanta come anni dello stalinismo punto e
basta, perché secondo lui la classe operaia negli anni Cinquanta cerca comunque
di organizzarsi e di esprimersi come classe autonoma. Non ci riesce e, quindi, i
conti vanno fatti in modo risolutivo. Però riesce a cogliere la complessità e
la non definitività della vittoria dell’avversario. Mentre secondo me un
vizio grosso che salta all’occhio nella fase attuale in cui non ci sono
movimenti spontanei è proprio questo: la mancata riarticolazione del passato e
della sconfitta.
LIPPOLIS:
Visto che si parlava di «Tribune Ouvrière» sarebbe utile parlare della «Tribuna
Operaia» che c’è stata a Genova e del Circolo Rosa Luxemburg, di Gianfranco
Faina insieme ad alcuni operai.
INTERVENTO:
Le cose che ci sarebbero da dire sono tantissime, c’è solo l’imbarazzo
della scelta. Io vorrei sottolineare la rilevanza della non conoscenza. Cioè
buona parte delle cose dette – «Socialisme ou Barbarie», le riviste
americane – erano sostanzialmente sconosciute anche se qualche compagno
attivava un rapporto di corrispondenza con gli abbonamenti, non c’era una
lettura, una elaborazione e una comunicazione di quello che qualcuno riusciva a
conoscere a brandelli all’esterno. La stessa realtà di Montaldi a Genova non
era conosciuta. L’esperienza di «Socialisme ou Barbarie» poteva essere
conosciuta ma di fatto era come se non ci fosse e a Genova «Socialisme ou
Barbarie» era stato conosciuto grazie ad alcuni compagni che avevano tradotto
un testo del Cardan (pseudonimo di Castoriadis), Capitalismo
moderno e rivoluzione. Per quello che so io quello è stato il primo caso in
cui un testo di «Socialisme ou Barbarie» è stato diffuso in alcune centinaia
di copie. Questo nel ’67. Quindi il problema della realtà che c’è ma è
come se non ci fosse. L’esperienza genovese ha avuto delle caratteristiche
proprie, di tipo endogeno, perché anche il rapporto con le altre realtà
italiane, Torino e soprattutto il gruppo di «Classe Operaia» e prima i «Quaderni
Rossi», non era molto approfondito. Ma il problema vero era quello di una
scelta di vita che riguardava prevalentemente dei piccolo borghesi, degli
studenti e qualche rarissimo operaio. La matrice dell’esperienza portante era
la crisi con il pci, la crisi del
’56, lo stalinismo, l’intollerabilità di quell’ambito come luogo della
propria esperienza, dei propri desideri, e quindi il desiderio necessario,
biologicamente urgente, di vivere e di fare qualcosa in quello che era
considerato il tessuto vivente. Quindi si cercava la fabbrica, si cercavano gli
operai perché lì si pensava vi fosse la matrice della realtà. Quindi il
discorso sulla fabbrica, sulla produzione, sull’operaio e quindi la vita come
un sistema allargato della produzione. Quindi la gente deve riappropriarsi della
vita e gli operai hanno nelle loro mani l’elemento determinante della vita
perché producono le cose e hanno le conoscenze. Per questa serie di motivi il
problema del conoscere non era molto importante perché si pensava che il senso
delle cose fosse incorporato nella realtà e soprattutto nella fabbrica.
Stabilire con la fabbrica e con le macchine un rapporto positivo attraverso la
riappropriazione veniva percepito come un momento pratico ma contemporaneamente
anche teorico. Per cui tutto ciò che passava attraverso la parola era
considerato come qualcosa di accessorio. C’era una specie di desiderio, non
del tutto conscio, di vivere in una dimensione di attualità, anche se il gruppo
era estremamente sparuto – la consistenza del gruppo genovese poteva oscillare
da cinque persone a quindici. Tuttavia questa dimensione che oggi può apparire
drammatica non era percepita così. Anzi, era percepita come una dimensione
positiva perché si faceva esattamente ciò che si aveva bisogno di fare e si
pensava di essere collocati nel posto giusto nel tempo giusto. Quindi anche il
fatto che gli operai fossero pochissimi veniva avvertito come un limite, ma di
fatto non era tale da scoraggiare e da far sì che si chiudesse il capitolo,
perché si pensava di riuscire a cogliere il significato della situazione. Il
fatto di poter parlare con un operaio, di capire un problema e di tradurlo in
parole in un volantino e di vedere che dando il volantino in qualche migliaia di
copie c’era la corrispondenza, si aveva la percezione di riuscire a
cortocircuitare il rapporti fra il pensiero, l’esperienza, la riflessione e la
realtà. Non era azione politica ma un modo di vivere. Per alcuni anni quella è
stata la nostra vita. Il resto non è che avesse grandissima importanza.
Rispetto
ai rapporti con la gente che era in grado di stampare dei giornali, di mettere
in piedi riviste, il che era percepito come l’elemento che dava speranza, un
passo in avanti, si era capito subito che erano dei mandarini. Anche se stavano
un po’ dentro e un po’ fuori dai partiti e teorizzavano in maniera molto
radicale, la loro prospettiva si muoveva ancora sul piano della politica. Per
cui parlavano dell’opportunità d’intervenire per favorire certe crisi,
certe contraddizioni all’interno del pci
e all’interno dei sindacati – tutto veniva ricondotto all’interno della
politica che era esattamente il contrario di ciò che dicevamo noi. Alla radice
della nostra esperienza c’era proprio l’abbandono della politica e la
sperimentazione di una presenza e di una attività diretta. E questa attività
diretta nella misura in cui si poneva e sussisteva veniva immediatamente in
contrasto con il sindacato, con il partito e non c’erano mediazioni possibili.
Il sentire questi compagni che, pur avendo praticato la rottura con la
burocrazia sindacale, viceversa rilanciavano il discorso della politica a noi
appariva intollerabile. A Genova si è mantenuto in piedi, in maniera
fluttuante, il lavoro di fabbrica. Era stato pubblicato un testo di un operaio,
Ruggeri, il cui capoverso è A passo
d’uomo, in cui c’è un analisi del concreto modo di lavorare nella
fabbrica. In questo testo viene fatto il discorso che l’organizzazione
capitalistica del lavoro è una organizzazione per modo di dire, solamente
formale perché di fatto è l’operaio che possiede la conoscenza effettiva,
perché la descrizione del padrone e dei suoi tecnici non riesce a stabilire la
continuità del vero meccanismo, del vero dispositivo, del vero corpo vivente
della fabbrica. Solo l’operaio essendo fisicamente immerso è in grado di
stabilire la continuità. Quindi veniva fatto il discorso della riappropriazione
da parte degli operai e del rifiuto della scienza del padrone e della mediazione
sindacale. La fabbrica era la matrice, l’operaio consapevole che si ribella ed
è disposto a riappropriarsi era il prototipo dell’essere umano finalmente
pronto per. Questa pubblicazione è stata molto apprezzata all’Italsider di
Genova ma nonostante la notevole positività, quel testo non ha prodotto a
livello di ricaduta organizzativa assolutamente nulla. Il risultato di questa
attività era una positività ambientale, nel senso che quando si andava davanti
alla fabbrica l’ambiente era a noi favorevole e avevamo buon gioco nei
confronti dei sindacato e dei partiti. Avevamo conquistato un certo diritto al
territorio ma non si andava oltre questo. L’ottimismo era giunto fino al punto
di poter prendere l’iniziativa di uno sciopero all’Italsider, una fabbrica
enorme. A partire da un piccolo reparto formato da venti persone, e sulla base
di un analisi e di un giornaletto, viene lanciato uno sciopero che in modo molto
conflittuale e con momenti anche drammatici non è riuscito ma si è in qualche
modo enunciato. Poi con il ’68 c’è stata l’esplosione di queste cose, il
discorso della riappropriazione e del rifiuto della politica è passato da
quella piccola esperienza nell’ambito della scuola e dell’università e poi
nella generalità dei rapporti sociali.
INTERVENTO:
Io vorrei raccontare un aneddoto che si collega a quanto dicevamo in questa
serata. Per lavoro mi trovo a fare dei corsi di informatica a persone espulse
dalla fabbrica, cassaintegrati in corso di riqualificazione. Durante uno di
questi corsi ho fatto digitare un testo per esercizio. Siccome in quei giorni
circolavano le bozze del Paul Romano io le ho divise e le ho fatte digitare.
Alcune persone di quelle che stavano facendo quella esercitazione erano operai
ed erano convinti che il testo di Paul Romano era stato scritto l’altro ieri e
cioè che fosse uno scritto contemporaneo. L’avevano letto a pezzi e quindi
non avevano tutti gli estremi del testo. In particolare sono rimasto a discutere
con due persone le quali dicevano che loro non trovavano alcuna differenza.
La
questione del tempo è una questione difficile da districare. La domanda a
proposito del villaggio dei minatori dove, pare, si trovavano annualmente gli
elementi delle correnti rivoluzionarie europee, non è puramente archeologica ma
è il tentativo di ricostruire gli elementi di una esperienza, e presi ad uno ad
uno hanno un sapore simile a quello che è emerso nel suo racconto: un
esperienza che promanava dalla volontà di fare e che oggi noi non possiamo non
leggere come facenti parte di un’unica esperienza. Questa traslazione storica
da una parte ci deve essere chiara: questi gruppi che sembrano muoversi su uno
stesso piano e tessere rapporti tra di loro in realtà ne intessono pochissimi e
i rapporti che noi intravediamo probabilmente non sono quelli che
pragmaticamente si davano allora. Questo va riferito al principale discorso
della serata, Montaldi e l’inchiesta. Dicendo due parole non tanto sulla
genesi del libro Bisogna sognare quanto sul modo in cui sono venute fuori delle
idee su questo argomento, ci sono le esperienze per così dire maggioritarie
dell’operaismo italiano che costituiscono oggi una sorta di grande mito delle
origini: lì sarebbe nato un nuovo modo d’intendere l’intervento politico
nella classe, l’inchiesta operaia, la quale si articolerebbe sul metodo della
conricerca. Intorno alla fine degli anni Ottanta alcune riviste di cui si
parlava nel nostro primo incontro tipo «Klinamen» hanno ricominciato a
riprendere il tema dell’inchiesta come sorta di chiave di volta, grimaldello
metodico, di metodo d’intervento per attuare quel famoso radicamento che noi
tutti diciamo di voler perseguire. Invece emerge come molto più realistica una
posizione come quella dell’ultimo intervento. Però appunto oggi c’è una
particolare considerazione dell’inchiesta operaia come metodo per il quale si
vorrebbero avere dei paradigmi. È difficile trovare nel libro di Montaldi la
stessa parola inchiesta se non come titolo. L’inchiesta era il modo di vivere
che occorreva darsi. Per un militante come Montaldi che si ritrova a Cremona
negli anni Cinquanta, con lo stalinismo da una parte ma poi l’esistenza di un
partito marxista diffuso nelle organizzazioni di classe, il problema che si
poneva era come opporsi allo stalinismo. Ciò non significa semplicemente dire
quali tesi politiche opporre alle eventuali tesi politiche dello stalinismo, ma
quale pratica reale, concreta, occorre fare per superare questo processo che
chiamiamo stalinismo, perché lo stalinismo non è concepito come una corrente
politica e tanto meno come una corrente politica che esprime la classe ma con
cui elementi della classe possono essersi espressi. Lo stalinismo come processo
del distacco, degli elementi di frattura all’interno della classe. Il problema
non era quello della ricomposizione di una frattura ma quello di una prassi che
fosse esterna e che potesse sottrarsi al giogo dello stalinismo inteso come
processo.
Ma
il problema su cui vorrei tornare è che l’inchiesta non è metodo ma forma di
vita. Il modo di vivere di Montaldi sul fiume rientra nel fatto che lui era
radicato lì, cercava di radicarsi e sradicarsi contemporaneamente, entrare
nella situazione per poter cogliere gli elementi della situazione esemplari per
un proletariato inteso nella sua maniera più universale. Quando si parla di
Cremona non si può pensarla come una realtà periferica. Per Montaldi Cremona
era il cuore di un segreto storico, la genesi storica del fascismo. Lui dice in
uno dei suoi testi: non c’è modo di capire il fascismo in Italia, non come
evento politico ma come processo, se non si capisce che cosa è successo a
Cremona, nel Mantovano e nel Cremonese. Perché in questa zona, per una
particolare sedimentazione storica, non c’è un movimento contadino, c’è un
movimento proletario nelle campagne che si sviluppa in un microcosmo, che è però
tale solo in una visione traslata di tutta la faccenda, di tutte le forme
dell’organizzazione politica, ma non solo politica, della classe. È contro
questo sedimentarsi di esperienze, d’organizzazione, di autonomia, che Cremona
diventa il cuore del fascismo, che non potrebbe essere compresa in termini
comunitari – l’appartenenza del fascismo cremonese alla comunità cremonese
– come i cremonesi stanno facendo in questo momento – a Cremona stanno
fiorendo studi sul fascismo, proprio per la sua collocazione, e la tendenza, per
esempio il libro che si intitola Farinacci
e i cremonesi, cerca di fare una storia del fascismo cremonese come interno
alla comunità locale.
Non
si tratta di intervenire nella comunità locale per insediarvisi ed essere in
qualche modo i conservatori di un mondo folklorico che essa esprime, ma di farla
finita con l’atteggiamento folklorico nei confronti di quelle che sono le
espressioni delle classi cosiddette subalterne e di cogliere all’interno di
queste sedimentazioni la storia dell’esperienza proletaria. Proprio perché
questa storia permette di ricollocarsi continuamente nel presente e di
sviluppare gli elementi dell’inchiesta intesa come modo di essere. Il libro in
generale, ma tutta questa serie di seminari, dovrebbe mettere in risalto di più
questo aspetto perché questo aspetto viene ad essere nascosto, sottovalutato,
considerato quasi un elemento letterario della faccenda quando è l’elemento
di fondo.
Quando
Montaldi nel ’75 muore stava lavorando a una grande inchiesta sulla nuova
classe operaia e si connetteva a quell’altro partito marxista della classe,
che era la gente che girava nei gruppi, in particolare in Avanguardia Operaia
anche se credo sia stata più una questione di contiguità che una questione di
riconoscimenti reciproci. Ci sono queste lettere che furono pubblicate sui «Quaderni
Piacentini» subito dopo la morte, in cui Montaldi cerca di dare forma al gruppo
di lavoro che aveva creato. In una di queste lettere dice: bisogna rompere con
l’invenzione di un proletariato sociometrico, il proletariato sociometrico non
esiste. È il risultato di un trattamento che la massa proletaria riceve da
parte di determinati saperi, che sono i saperi dell’organizzazione nel suo
senso più vasto.
Il
problema dell’inchiesta, il problema della conricerca è il problema della
conoscenza della forma di vita, di quella specificità di forma di vita che
attraversa una storia e nel raccontare questa storia prima di tutto ottiene un
risultato per se, il risultato di raccontare la propria storia quando potrebbe
non raccontarla mai, e in secondo luogo ottiene un risultato in un altro che
attraverso questi percorsi conosce quelli che poi erano i processi reali di un
individuo negli anni Venti, quale era la sua tecnica di sopravvivenza, in che
modo organizzava quotidianamente la sopravvivenza. Tutti questi aspetti non
vengono registrati nel discorso post-operaista. Prima di tutto per un
atteggiamento di sufficienza nei confronti della sinistra comunista. È
straordinario come questi gruppi, questi teorici siano vissuti in contiguità
con una esperienza ricchissima della tradizione rivoluzionaria senza conoscerla,
senza averla in qualche modo collocata in un ambito di relativa inoffensività.
Invece
è molto importante il lavoro che fa Montaldi soprattutto nei primi scritti di
questa raccolta che è un lavoro di commiato da questa esperienza. Montaldi
nello stesso tempo dice la sua appartenenza a questa esperienza, la ricorda in
vari punti ma nello stesso tempo pur scrivendo sull’organo ufficiale della
corrente bordighiana va ad attaccare tutti gli elementi fondamentali del loro
sapere. La sua proposta fondamentale era quella di raccogliere tutta la
sedimentazione teorica che veniva da questa esperienza per riportarla ad una
nuova impresa di conoscenza. Cioè, è assurdo che i gruppi della sinistra
comunista si tengano il loro sapere teorico e storico come appannaggio del
gruppo ristretto ma bene o male devono porsi il problema dell’intervento. Lui
personalmente aveva sviluppato l’idea di una grande impresa di conoscenza che
doveva attraversare diversi segmenti della classe ed ordina in maniera metodica
i cosiddetti emarginati, ma non vuole essere uno storico dell’emarginazione.
Lui rifiuta la categoria di storico dell’emarginazione: passo, scrive Montaldi,
come uno che in queste cose ci sguazza in realtà non c’è nulla che sia più
lontano da me come l’esaltazione delle marginalità, ma si tratta di conoscere
quali sono le diverse configurazioni che le forme di vita possono assumere
all’interno di una situazione storica. E allora ecco i marginali, i militanti
politici di base e, infine, la nuova classe operaia delle fabbriche.
Ancora
qualcosa sui militanti politici di base. I militanti politici di base si apre
con una introduzione in cui si dice: i rivoluzionari vivono al di fuori della
realtà, cioè non vivono la stessa realtà degli altri. Questa è la sua
contraddizione, questo è il suo sapere, questo è il suo problema ecc. Il suo
incubo, in una certa misura. Questo vivere fuori è l’esatto contrario del
problema del radicamento. È il problema del radicamento visto da un altro punto
di vista, un punto di vista per il quale la figura del militante rivoluzionario
si costituisce per delle motivazioni del tutto personali all’interno di una
determinata situazione. Perché possano divenire esperienza rivoluzionaria deve
avere luogo una impresa di conoscenza e questa è precisamente la prassi per cui
non c’è il momento separato dell’elaborazione della teoria e il problema
poi di convincere della giustezza di questa teoria, ma c’è il problema di
penetrare nella realtà superando questo genetico stato di relativa separatezza
che la posizione rivoluzionaria costituisce. Quindi i problemi dell’inchiesta
o dell’intervento sono i problemi che hanno avuto in Montaldi la
problematizzazione più complessa e nello stesso tempo quella più vicina a noi.
Ci
sono vari modi di leggere Bisogna sognare, uno potrebbe essere il secolo di
Montaldi. Montaldi, a pezzi, a brani ricostruisce un secolo che
approssimativamente parte nel 1905 e approssimativamente si conclude con la sua
morte. Cioè il secolo dei consigli operai, il secolo di questa forma politica
con la quale un rivoluzionario si trova in continua relazione. In tutta questa
esperienza c’è uno strato che nasce, si forma, viene represso e si
ricostituisce di militanti politici di base. Se noi riflettiamo su questo ci
troviamo a pensare che questo strato non è più quello con cui Montaldi
interagiva né noi lo siamo. Non c’è più la forma politica su cui questo
segmento sociale si è andato costituendo, il consiglio operaio. Quindi, il
problema del leggere oggi Montaldi se non è un problema meramente di conoscenza
su che cosa dicevano venti anni fa o trenta anni fa è esattamente la
problematizzazione dell’oggi, non intendendo che lì ci sarebbero gli elementi
per capire la composizione dell’operaio post-fordista ma perché è la
problematizzazione più adeguata al problema in cui noi siamo.
BLANCHARD:
Sono del tutto d’accordo con le cose che hai detto. Vorrei aggiungere una cosa
a proposito del senso dell’inchiesta. L’esprimersi di un operaio era
concepito come l’inizio dell’autonomia della classe, di un individuo della
base. Non era solo un modo d’essere. Ma vorrei insistere sull’aspetto
microcosmico del funzionamento di questi microgruppi che erano «Socialisme ou
Barbarie», il gruppo di Montaldi ecc. Perché la nostra ambizione che era
completamente sproporzionata ai nostri mezzi era di avere un atteggiamento il più
possibile in conformità con gli obbiettivi che concepivamo, come la società
rivoluzionaria. Il modo d’organizzare i gruppi doveva essere sul modello dei
consigli operai, non dare la parola ma aiutare gli operai ad esprimersi era un
modo di iniziare la loro autonomia. Così, questa inchiesta era non solo un modo
di essere ma un modo utopico di essere.
INTERVENTO:
Di solito a questi convegni non sono mai seguite inchieste operaie vere e
proprie e comunque anche le più celebri come quelle dei «Quaderni rossi»
hanno investito non più operai di quanti ce ne stanno sulle cinque dita di una
mano. C’è una sproporzione tra gruppi di persone che in certi momenti si
costituiscono su certi progetti e che poi per misteriosi motivi, sicuramente non
per la loro incisività, si scopre la loro importanza a posteriori. Quindi è
interessante rilevare la sproporzione tra consistenza numerica, livelle di
coscienza, quantità materiale di cose e di atti prodotti e poi la
corrispondenza che c’è e che secondo me va sottolineata non in senso
riduttivo come forse è stato fatto questa sera. Non credo che sia irrilevante
anche se non è determinante. Questo anche per dire che l’importanza
dell’iniziativa che si prende non dipende dalla forza organizzativa. Semmai la
forza organizzativa è la diffusione, è il costituirsi delle cose come
movimento ed è poi l’esito finale da non considerare come rapporto
causa-effetto. Sempre nello spirito di quello che si diceva prima circa il
valore effettivo della teoria operaista di ribaltare la storia e la consistenza
reale delle azioni degli uomini, che non è quello che il gruppo organizzato che
determina i movimenti storici, che è poi un’altra maniera della spiegazione
borghese dei processi storici, o deterministici o come prodotto di singole
individualità determinanti. Questo ha significato anche un ribaltamento del
concepire le cose che fai non in una dimensione privata ma come dimensione
pubblica, cioè del non concepirle come irrilevanti perché le fai come
individuo e non come militante o esponente di una organizzazione. È importante,
come dicevano i situazionisti, essere al momento giusto nel posto giusto, poi le
cose vengono da se.
Gianfranco
Fiameni: il gruppo cremonese: militanti e ricercatori; il problema del rapporto
politico e conoscitivo con il territorio.
Oggi
cercherò di centrare quello che dico sulla presenza di Montaldi in Unità
Proletaria, perché per molti aspetti Unità Proletaria vuol dire anche Montaldi
che è un cofondatore e che ha lavorato sempre in Unità Proletaria. Ci sono
nella fase di preparazione del gruppo di cui parlerò, degli interessi specifici
su questo che noi adesso chiamiamo problema del territorio, anche se
l’espressione non è degli anni Cinquanta. Il problema del territorio nasce
dopo gli anni Sessanta e comincia a venire formulato come problema del
territorio. Posso tornare a Montaldi a partire da questo problema. In che senso?
Nel senso che per quanto riguarda noi, abbiamo realizzato degli studi e delle
inchieste comparse su una rivista che era «Presenza», a opera di Rozzi, di
Montaldi, di Romano Alquati e mia. Quella di Rozzi sui cantieri scuola, che è
stata un’emergenza territoriale, economica e sociale degli ani Cinquanta;
quella mia che è stata un articolo piuttosto pionieristico sugli studenti,
allora facevo il maestro in un paese tra il Cremonese e la Bergamasca; quella di
Romano Alquati, ch’era piaciuta molto a De Martino, sull’interpretazione di
una festa contadina e una serie di cose di Montaldi che peraltro coordinava
tutto questo lavoro. Tutto questo è un lavoro che aveva a che fare con il
territorio.
Seconda
tappa. Se dovessi parlarne, parlerei di quella che è stata, non solo secondo
me, una delle prime grandi inchieste sul territorio urbano che è il libro di
Montaldi Milano Corea. Lo dico perché
posso citare delle autorità come Aldo Rossi, il quale negli scritti sulla città
dice che l’unico che aveva capito che il problema urbano non era più il
problema delle periferie come invece era impostato e dal pci
e da quelli che allora nella Facoltà d’Architettura s’interessavano della
città e del territorio. L’unico che aveva capito che il problema era diverso
era Montaldi, il quale non era un urbanista, che però riesce a scrivere in Milano,
Corea delle cose che gli urbanisti stessi riconoscono come qualcosa di
importante.
Adesso
mi sposto sul Gruppo di Unità Proletaria del quale devo parlare oggi. So che
sarò deludente ma mi tengo su un terreno quasi completamente informativo, cioè
non vado molto sul terrene dell’interpretazione. Anche per un motivo molto
serio: siccome il Centro Luca Rossi ha stampato recentemente il libro degli
scritti sparsi di Montaldi e molti di questi scritti hanno a che vedere con il
territorio, con l’inchiesta operaia, con l’esperienza operaia e con tutta
questa serie di cose, supponendo che voi li conosciate, li potete mettere in
parallelo con quanto io vado dicendo su un piano completamente fattuale cercando
di interpretare il meno possibile e raccontandovi semplicemente che cosa ci è
successo a Cremona più o meno dal ’53 fino a quello che Bellocchio ha la bontà
di chiamare i primi gruppettari d’Italia. Lo dico un po’ ironicamente,
naturalmente. Per farvi capire. Però voi giustamente sarete interessati anche
all’interpretazione di queste cose e allora anche questo riservandomi di
parlarvene in un altro momento vi dico che nel libro del Centro Luca Rossi ci
sono almeno tre o quattro articoli di Montaldi che parlano delle caratteristiche
del gruppo esterno e che recentemente sono usciti due libretti di Romano Alquati
che parlano dello stesso argomento: uno che riecheggia il titolo Bisogna
sognare, l’altro, che non ho ancora avuto, che parla di questa esperienza.
Di
solito si fa risalire, nel dopo guerra, una certa presa di coscienza al 1956 che
vuol dire la rivoluzione ungherese, che vuol dire i fatti di Polonia, che vuol
dire la prima grande crisi che coinvolge i partiti della sinistra in Italia. Su
questa data, che ormai è diventata una data canonica, Montaldi è in dissenso.
Egli dice, cito a memoria ma il senso è questo: la presa di coscienza la farei
risalire al ’55 e non al ’56 sulla scorta di un certo numero di avvenimenti
internazionali come tutto il movimento di disubbidienza per la guerra
d’Algeria, le lotte a Berlino nel ’53 e tutta una serie di lotte nelle
campagne, sulle commissioni interne e sulle condizioni operaie. Allora, il ’55
o il ’56? Sulle caratteristiche di questa presa di coscienza, nel libro di
Montaldi troverete alcune cose.
Per
illustrare la figura di Montaldi vi dirò che da quando io l’ho conosciuto nel
’53 a quando è morto Montaldi è sempre stato membro di un gruppo politico,
per l’esattezza di tre: Unità Proletaria, il Gruppo Karl Marx, e un po’ più
lateralmente il Comitato d’Agitazione Studenti, Operai e Insegnanti. Dico
questo per segnalare subito una caratteristica: parliamo infatti di un
intellettuale che è sempre stato nei fatti minuti un militante, con delle forme
di militanza che oggi potrebbero essere ritenute rigide ed eccessive. Ciò
comportava riunioni settimanali, ne abbiamo sempre fatte e io ne ho contate
almeno cinquecento, riunioni strutturate, voleva dire che c’era qualcuno che
teneva dei verbali che ci sono ancora tutti, vuol dire che c’era una
disciplina interna, vuol dire che c’era una suddivisione dei compiti, vuol
dire che in casi specifici quando c’era una certa lotta le riunioni potevano
diventare moltissime, con dei compiti ben precisi per gli appartenenti al
gruppo. Dico questo per accostare all’impegno intellettuale quello militante.
Montaldi di queste due cose è stato capace di farne una sola o, veramente, due
aspetti inscindibili della propria personalità.
Ritornando
indietro, Unità Proletaria dura dal ’57 al ’62, ha prodotto una certa
letteratura di cui la prima parte, dal ’57 al ’59, è la parte che interessa
di più e più o meno direttamente rispetto a quello che è il tema di oggi.
L’inchiesta operaia e la conoscenza del territorio è fatta soprattutto di
volantini di intervento. Dal ’59 in poi i volantini vengono affiancati da un
giornale che si chiama «Unità proletaria» e oltre al giornale da un certo
numero di documenti e di quaderni. Essi sono una elaborazione collettiva del
gruppo, molto spesso la redazione materiale viene affidata a questo o a quel
compagno ma sempre vengono discussi nelle riunioni nelle quali Montaldi
partecipa in modo assolutamente paritetico anche se poi il suo peso è più che
rilevante.
È
una curiosità, ma visto che siamo a Brescia lo dico un po’ en passant. C’è
stata una parentesi bresciana. In Val Trompia alla Glisenti calcina c’è stata
una serie di interventi, soprattutto miei perché avevo una zia che abitava in
zona, con altri compagni che avevamo trovato al momento. Stranamente ci eravamo
incontrati qui con della gente che aveva fatto una roba al teatro sociale e che
ci aveva proposto, quando dico chi c’era tra questi vi mettete a ridere, di
fare un lavoro con quelli che chiamava i giapponesi d’Italia. Uno dei
proponenti era Sandro Fontana che poi è diventato deputato dc
e direttore de «Il Popolo».
La
fase di preparazione del gruppo è forse una delle cose più interessanti ed è
quella che va dal ’55 al ’59, che è conosciuta ma in modo lievemente
distorto dopo l’uscita del volumetto di Alquati. Questa fase è quella che vi
interessa di più perché è quella che sta dalla parte della conricerca e sulla
problematica della conricerca. Alquati molto spesso da per scontate convergenze
e somiglianze che non sempre ci sono. Però, siccome per lui ha un interesse
centrale sia per il mestiere che fa, insegna sociologia a Torino, sia perché la
reputa anche una sua invenzione, ed è anche vero, questo provoca una
aberrazione nel senso banale, ottico del termine, nel senso che ci sono due modi
di vedere le cose che confluiscono con l’inevitabile parzialità delle visioni
personali. Questa fase è stata caratterizzata da una accentuata progettualità
sia personale che collettiva che si è incontrata con tutta una serie di
rapporti che venivano dall’estero: i fatti dell’ottobre ma anche il libro di
Sarel sui moti tedeschi, tutto quanto veniva dalla Francia sul moto contro la
guerra d’Algeria, tutta una serie di fenomeni di stampo europeo e anche
qualcosa di molto italiano. Prima che nascesse il primo nucleo di quello che sarà
il «Gruppo di unità proletaria», Montaldi aveva dato origine ad una specie di
pre-gruppo informale di cui facevano parte Alquati, Maria Luparini che forse non
conoscete ma è una donna piuttosto interessante – è per esempio non solo la
protagonista di un paio di film di Godard ma anche l’autrice della
sceneggiatura di Prima della rivoluzione
di Bertolucci – un altro personaggio che adesso insegna in Sudafrica che era
Ermanno Gardi. In questa sorta di pre-gruppo c’è una voglia di rinnovamento e
di mettere insieme qualcosa di nuovo. Siccome là in fondo vedo che c’è il
segno dell’anarchia e siccome non l’ho mai detto e siccome, invece, va
detto, ricordo che non solo Montaldi è sempre stato abbonato a «Volontà», ma
ha sempre ritenuto, come noi tutti del resto, che la componente anarchica fosse
assolutamente essenziale per il movimento operaio. Scusate questa parentesi ma
mi rendo conto che se no finisce per essere una cosa ultrabolscevica e io non ho
nessuna intenzione di farla diventare in questo modo.
Danilo
Montaldi in uno degli articoli disse una cosa che si tende a dimenticare e che
invece è molto importante: negli anni Cinquanta, dice, non c’era una città
dove non ci fossero dei gruppi connotabili alla sinistra del pci, gruppi che appartenevano alle organizzazioni della
sinistra comunista, i vari partiti comunisti, i bordighisti, quelli di «Battaglia»,
gli internazionalisti. Io ricordo a Cremona nel ’52 un comizio di Onorato
Damen, vale a dire un dichiarato oppositore della linea comunista, con piazza
del Duomo piena di bandiere rosse. È stata una roba che ha sconvolto i
burocrati del partito, ci saranno state non meno di ventimila persone venute con
dei pullman, che sapevano benissimo chi era Damen, sapevano benissimo chi
genericamente venivano chiamati gli internazionalisti senza fare molta
differenza tra i bordighisti, quelli di «Programma» e quelli di «Battaglia
comunista», ma comunque erano lì. Ora è vero che a Cremona c’erano state
delle situazioni particolari, c’era stata della gente come Ferrari, c’era
stato Seniga e tutta una serie di persone. Ferrari s’era fatto la galera come
capo dell’ufficio illegale del pci
durante il fascismo. Ma, c’era anche a Brescia e a Mantova una situazione del
genere che però si è dissolta in pochi anni e questa presenza di massa aveva
di fianco tutta una serie di gruppi più piccoli ma in qualche modo organizzati.
Come è andata a finire questa vicenda? Direi che le righe finali del libro sul pci
di Montaldi (la concludono) senza poter spiegare peraltro che questa è stata
una vicenda sconfitta, non voglio dire perdente ma sconfitta. Dovrebbero avere,
diciamo così, qualche indagine più approfondita sul piano storico.
Tutto
questo cappello per dire che a Cremona le cose sono andate abbastanza
diversamente. Oggi Cremona è una città che non esiste da questo punto di vista
ma se certe cose sono nate lì non è del tutto a caso; Cremona è la città di
Farinacci durante il fascismo, da un certo punto di vista della seconda anima
del fascismo. Più ancora che Balbo, più ancora che gli altri, più ancora
delle storie ferraresi, quelle cremonesi da questo punto di vista sono
differenti. Cremona è la città dove c’è un giornale nel periodo del regime
fascista nel quale finiscono per scrivere dei personaggi che saranno poi la
destra estrema del fascismo, quelli che poi saranno gli uomini dei tedeschi; è
una città nella quale il 26 aprile esce l’ultimo numero del «Regime fascista»
con su scritto: ‘Ritorneremo’; è la città nella quale si sono scontrati le
leghe bianche di Miglioli e le leghe rosse e i soresinesi. Cremona è una città
che presenta un nodo particolare di memorie storiche e di presenze. È la città
nella quale noi lavoriamo, insieme
a Bottaioli direttore responsabile del giornale di Damen, che viene dalla
Francia, insieme a Gugielmetti, e insieme a tutta un’altra serie di
personaggi, lui stesso responsabile insieme a suo fratello dell’ufficio
illegale del pci in Sicilia fino a
che è stato costretto a scappare in Francia. Insomma, ci sono delle presenze di
questo tipo, molto eterogenee se vogliamo ma che compongono un quadro molto
particolare. E dopo c’è Montaldi. Allora, noi, quando dico noi intendo un
certo gruppo di militanti del Partito comunista internazionalista di Damen,
quelli di «Battaglia», un paio di Bordighisti, quelli ritornati dalla Francia,
alcuni anarchici come Bonini ecc., Montaldi e un certo numero di giovani usciti
dalla Resistenza e due con le braghe corte come me e come Alquati che si sono
trovati lì, alcuni ragazzi che pure si sono trovati lì, eravamo un gruppo di
persone molto eterogeneo che visto adesso non si sarebbe mai messo insieme se
non ci fosse stato Montaldi. Il quale aveva abbandonato la scuola due o tre anni
prima, che si era messo a studiare come un disperato, che aveva già individuato
una sua strada che vi interessa molto, naturalmente, quella che costeggia,
fiancheggia e si interseca e prende dentro anche l’inchiesta operaia, mette
insieme intorno ad un progetto d’intervento tutta questa disparità sia
individuale che politica. I primi due anni, quelli che vanno fino al ’57 se
volessimo descriverli dovremmo descriverli, utilizzando il linguaggio pomposo di
oggi, come due anni di tentativi di riduzione della complessità o di riduzione
di queste diversità. Questo a livello teorico si fa con delle formule o si fa
con dei processi molto rarefatti, ma quando si mettono insieme degli esseri
umani le dinamiche sono largamente […]. Ma tenete conto anche chi erano questi compagni e lo
dico perché vi rendiate conto che è stata una cosa difficile, questi compagni,
internazionalisti e tutto il resto, sono quasi sempre dei militanti
stimabilissimi che molto spesso hanno dato moltissimo anche sul piano personale.
Molti di loro sono stati in galera, molti hanno fatto la montagna, altri hanno
fatto altre cose. Vengono fuori da una tradizione di estrema rigidezza che è
l’altra faccia della medaglia di un forte impulso alla militanza, quella che,
un po’ caricaturalmente, potrei chiamare militante di professione. Bottaioli
lo era di sicuro, lo era stato proprio nei fatti; Ferragni lo era stato proprio
nei fatti, vale a dire che erano proprio dei militanti che il partito aveva
inviato uno in Sicilia l’altro a Roma. Ferragni è stato beccato nel primo «processone»;
Giovanni ha fatto in tempo ad andarsene fuori dai coglioni prima che lo
beccassero, lui e suo fratello. Però in Francia, di nuovo fino a quando si sono
scontrati con tutti quelli andando fino alla svolta di Lione, hanno fatto i
militanti di mestiere. Qui bisognerebbe andare sulla fenomenologia del militante
senza voler fare dello psicologismo a buon mercato ma capire tutta una serie di
cose che in parte attendono alla politica e a una cultura politica che aveva
fatto della discriminante, anche a livello personale, un comportamento e
chiunque abbia conosciuto questi militanti lo sa: uno poteva metterti lì in
mezzo durante una riunione i ventuno punti dell’Internazionale e dirti: tu sei
di qua e io sono di là e in mezzo ci stanno i ventun punti
dell’Internazionale, lì c’è la discriminante e finiva qualsiasi
discussione. Tutto questo può essere facilmente considerato un vizio del
politico, però, da un altro punto di vista, è anche un modo di essere, uno
strumento che una serie di persone che si sono trovate in situazioni di grande
difficoltà, non tanto quelle dell’immigrazione francese, ma altri in
situazioni molto più difficili, si sono trovate a dover usare per la propria
sopravvivenza mentale, per la propria sopravvivenza fisica, per la propria
sopravvivenza politica. Alla fine finiva per diventare un comportamento, un
fattore di riconoscimento, un fattore di ascrizione e tutto quello che voi
volete dire intorno a questa cosa qui come struttura di appartenenza. Per dire
che di là ci si poteva trovare davanti a una cultura politica di questo tipo,
una cultura politica che aveva un sottofondo non disprezzabile che va giudicato,
che va analizzato che va considerato in tutta la sua interezza, che è quello
che noi di solito chiamiamo, e che si chiamava allora, il patrimonialismo
politico che è poi il tipo di argomentazioni e il tipo di obiezione che ti può
essere fatta in una discussione in cui stai semplicemente di mettere assieme un
gruppo di lavoro.
Danilo
disse, da qualche parte, una cosa bella: tu stai parlando di una fabbrica, della
possibilità di fare qualcosa, della possibilità di fare inchiesta e c’è uno
che tira fuori dalla tasca Proudhon o Lenin e te lo gioca sul tavolo come una
briscola e tu sei già fregato. Avete capito quello che voglio dire, no? Con
tutto questo nessuno potrà mai dire che non si possa riflettere su Proudhon,
che non faccia parte della vita di un militante riflettere sulla storia passata
del movimento operaio, sulla storia passata del movimento comunista. Nessuno
potrà mai invitare nessuno a disfarsi di un patrimonio politico culturale
accumulato, vissuto e in qualche modo organizzato dentro la propria vita. Io
credo che questo atteggiamento era ben esemplificato da certi titoli dei
giornali bordighisti, titoli lunghi tre righe nelle quali si diceva cose di
questo genere: contro tutti i liquidatori dell’immarcescibile teoria ... e poi
siccome Bordiga non si firmava più tutti dicevano Lui, per via del culto della
personalità e scriveva dei libri che tutti sapevano che erano suoi. Per dire
che le persone con cui avevamo a che fare, il tipo di militante con cui avevamo
a che fare, apparentemente poteva sembrare il militante più adatto per la sua
cultura pregressa, per quello che aveva dietro, per il patrimonio di esperienze
che aveva maturato un po’ dappertutto e quando te li trovavi così erano
persone che ti raccontavano, che ti davano tutta una serie di dritte capaci di
orientarti nelle situazioni difficili. Ma era anche il tipo di militante molto
poco sensibile alla novità, molto poco sensibile al momento del rovesciamento
di se stesso, molto poco sensibile alla potenza del negativo quando la potenza
del negativo mette in questione te e la tua cultura.
Il
problema più grosso dentro lì è il problema dello stalinismo, e il problema
dello stalinismo come è visto da questi compagni. Ricordo che un giorno io e
Danilo avemmo proposto al gruppo che avremmo voluto parlare dello stalinismo
prescindendo da Stalin, dicendo che secondo noi il problema dello stalinismo
ormai non aveva più nulla a che fare con Stalin ma che era stata una certa
formazione politica e sociale che a noi interessava proprio nella misura in cui
si sarebbe riusciti a non parlare di Stalin. Allora, si sarebbe riusciti a
parlarne come di qualcosa di enormemente organico che aveva dato origine
addirittura a delle formazioni sociali senza riferirci necessariamente a Stalin,
con il vantaggio, secondo me e secondo noi, di poter parlare della Russia e
dell’Italia, del togliattismo, dello stalinismo. Nemmeno questo per dei
compagni di quella cultura era facilmente accettabile. Tutto questo è stato un
enorme lavoro, visto adesso, e mi stupisco perfino che l’abbiamo fatto, un
enorme lavoro continuo di chiarificazione. Ma alla fine, e soprattutto, la
proposta che va nel senso dell’interesse dell’inchiesta operaia: mettere tra
parentesi Alma Ata e tutto quello che era successo e ricominciare partendo dal
proletariato, partendo dalle fabbriche, partendo da queste sicurezze, assumendo
casomai tutto il resto secondo quello che saremmo venuti scoprendo in questa
roba qui. Finalmente, questa cosa passa e allora il gruppo si costituisce, ma
stavolta non deve più fare i conti con i militanti e con i quadri del pci
e del sindacato. Noi ci troviamo a dover spiegare perché, unici in tutta la
sinistra, non accettiamo alcuna forma di entrismo, perché vogliamo costruire un
gruppo. Qui siamo paradossalmente aiutati dal tipo di lavoro che cominciano a
fare – se voi siete interessati alla figura di Montaldi tenete presente e se
leggete Paul Romano lui ve la dà, Montaldi è un sociologo, Romano è un
sociologo. Montaldi è un sociologo e Bologna dice che non c’è peggior
vigliaccata che dargli del sociologo. Il che è vero perché era molto di più.
Però per vivere, molto male, molto poveramente come ha sempre vissuto doveva
fare, oltre le traduzioni di libri per la Feltrinelli e per altri, dei lavori di
sociologia. Naturalmente non c’era soltanto questo. C’era tutto questo
orizzonte dell’uso marxista della sociologia. Non una sociologia marxista, non
l’avrebbe mai detta una cosa di questo genere, perché è una cosa molto
diversa l’uso marxista della sociologia, che in quel momento costituisce un
nucleo di discussione e di dibattito. Comunque, tutti quanti, sociologi e non,
cominciavano a dire che non ci si può muovere se non conoscendo le realtà di
base. Esito un po’ a dire le realtà di fabbrica, perché per Brescia andrebbe
benissimo, ma Cremona in quel momento non è una città industriale. Cremona è
una città un po’ strana con una agricoltura che si sta rapidamente
trasformando dopo la grande botta del 1953 e l’abolizione dell’imponibile di
manodopera in agricoltura. Voi sapete che dal ’53 ogni azienda agricola era
obbligata ad assumere un numero di addetti in proporzione alla sua estensione e
le lotte per l’imponibile costituiscono un grande capitolo del dopoguerra
italiano fino a che nel ’53 l’imponibile di manodopera viene abolito. Le
campagne liberano, in questo caso verso Milano, la prima emigrazione, che è poi
quella che costruisce le Coree e libera un enorme riserva di manodopera. Mano a
mano che la manodopera va via dalle cascine il padrone meccanizza,
l’agricoltura cambia completamente. L’agricoltura intesa come un complesso
di pratiche codificate, in qualche modo legate al valore dell’uomo, finisce
nel ’53 e da qui comincia un altro tipo di agricoltura, fino a qualche anno fa
quando comincia un’altra storia ancora – ma di questo Crainz ve ne parla
molto bene se leggete quello stupendo libro che si intitola Padania che racconta questa storia dei contadini secondo me al
meglio, su tutta la Padania non soltanto sul Cremonese.
Davanti
a tutte queste trasformazioni bisogna andare a conoscere le fabbriche e allora
ci dividiamo i compiti. Avevamo un problema delle donne perché a Cremona
c’erano molte ceramiche, molta manodopera femminile. A lungo non abbiamo avuto
compagne che ci potessero dare informazioni, che potessero sostenere la nostra
azione. Poi, finalmente, anche lì con tutta una serie di cose che sono state
fatte le abbiamo trovate. Alla fine si può dire che avevamo praticamente dei
punti fissi in quasi tutte le commissioni interne, e possiamo quindi cominciare
a lavorare su delle situazioni interne alle fabbriche. Questo ha voluto dire
fare tutta una serie di volantini che sono in qualche modo, presi uno per uno,
episodi di inchiesta operaia, perché prima si tratta di mettere giù tutta la
scheda della fabbrica, prendere contatto con chi ci lavora, elaborare insieme a
loro con degli episodi anche alti. Per esempio con degli operai che ci hanno
portati dentro in fabbrica e per cui ci siamo presi delle denuncie. «L’Unità»
è saltata fuori nel ’59 con due articoli: chi li paga, chi sono costoro ecc.
Però noi eravamo della gente che era riuscita a strappare, ed era proibito
allora, non era possibile farlo, la riunione della commissione interna in
fabbrica, presi di peso, portati dentro, imposti ai sindacalisti i quali qualche
volta se ne sono andati via qualche volta hanno dovuto tollerarci, e ogni
volantino era un prodotto in questo senso. Questo periodo dura due anni, alla
fine dei quali abbiamo una specie di scrematura: alcuni compagni del Partito
Comunista Internazionalista non ci stanno più. Qualcuno di loro vede che ormai
il gruppo ha una vita propria e comincia ad avvertire che su certe cose noi non
ci siamo più. La cosa finisce malamente, con uno scazzo terribile con Damen, e
un certo gruppo di questi abbandona. Contemporaneamente, a livello di fabbrica
si sono solidificate tutta una serie di situazioni e anche parecchie situazioni
femminili molto dure. In queste fabbriche di ceramica veniva fabbricato un
prodotto molto raffinato, perché erano proprietari di una cava di un caulino
molto buono però anche molto volatile. Quindi, è una storia continua di
silicosi, e come voi sapete uno che ha la silicosi potrebbe più o meno fare il
conto di quando muore, e noi abbiamo avuto due o tre compagne in queste
condizioni, che ogni tanto ti dicevano di avere ancora sei mesi di vita. Adesso
viene tenuta dentro con dei vetri per cui viene fuori quando è già impastata e
le possibilità di beccarsi la silicosi sono molto minori. Accettare di lavorare
lì significava accettare un notevole rischio statistico di lasciarci le penne.
Era molto difficile in questa situazione, lo dico perché ci sono delle donne
che magari sono interessate al problema, far emergere un vero e proprio problema
femminile dal nostro lavoro. Sono uscite delle situazioni di donne lavoratrici,
ad un certo punto ne abbiamo avute anche parecchie, una quindicina che venivano
alle riunioni e che poi vengono in fabbrica a distribuire dei volantini con
delle situazioni continuamente da studiare. Una volta hanno portato i volantini
in fabbrica, li hanno messi in un armadietto, il padrone ha scassinato
l’armadietto e ha trovato i volantini. Portare volantini in fabbrica era
impedito dal contratto di lavoro così il padrone le ha dovute licenziare,
quindi poi c’è stato lo sciopero per farle riammettere ecc. Il periodo nelle
fabbriche significherà un periodo di conoscenza abbastanza organica del
territorio e non parlo di una sommatoria di informazioni che erano le
informazioni che noi potevamo raccogliere sul problema delle fabbriche, ma di
qualcosa di più: sui comportamenti operai interni. Questo vuol dire anche tutto
un lavoro di interpretazione, e vi rimando, in mancanza di meglio, al lavoro di
Danilo come pure potete leggere nel libro del «Luca Rossi», Caratteri del
gruppo esterno.
Forse
oggi è poco comprensibile perché io insista sulla questione del dentro e
fuori, perché negli anni Cinquanta, se solo pensate cosa era la presenza del pci
e del psi, anche se molto meno, la presenza dei partiti o del
movimento operaio organizzato, porlo addirittura il problema di essere fuori, e
noi eravamo fuori non come poteva essere fuori uno dal Partito Comunista
Internazionalista, che era in qualche modo più comprensibile per il partito,
poiché il pci sapeva
dell’esistenza di gruppi alla sua sinistra. Voi sapete la parola d’ordine
che ha improntato sempre la politica di Togliatti e di Stalin: nessun
concorrente e nessun nemico alla nostra sinistra. Ma erano quattro sfigati,
quattro o cinque gruppi che magari avevano una presenza storica, ma da questo
punto di vista il togliattismo è riuscito in pieno fino alla morte di Togliatti
ma anche oltre a non aver nemici alla propria sinistra. Proporsi di essere alla
sinistra del pci. Avevamo anche noi
forgiato la nostra bella frase: fuori dal partito ma dentro la classe, cercare
di farlo davvero con una fisionomia che non aveva altro da proporre che delle
problematiche: ma chi siete voi? e un altro poteva rispondere: faccio parte de
«L’Impulso», quelli di Genova, oppure sono di «Azione comunista», oppure
sono questo e quell’altro. Esterni ma dentro una formazione, ma tu non potevi
rispondere nemmeno questo: Che cosa sei? Siamo della gente che vuole fare ecc.
Questa
dinamica fra interno ed esterno per noi non è stata molto drammatica dal punto
di vista della appartenenza al partito, ma dal punto di vista dell’azione
sindacale è stata quella che ci è sempre stato proposto come una sorta di
prova. In questi due anni, non dai compagni politicizzati ma dagli operai, ci è
stato chiesto di lavorare nel sindacato. Fino a che è abbastanza chiaro che non
possiamo eludere questa storia, nessuno lo voleva. Allora proponiamo di
discutere insieme, tutti i compagni e tutti gli operai, una sorta di
piattaforma: Noi ci entriamo anche nel sindacato ma a fare che cosa? Voi dite
che ci sono cose che non vanno, che il sindacato per certi versi non è lo
strumento di classe ecc. Se noi entriamo lo facciamo come una sorta di frazione,
però come portatori di tutta una serie di cose che stabiliremo insieme. Questa
cosa ha tirato in ballo tre o quattro mesi di discussione e alla fine abbiamo
prodotto, c’è l’ho ancora da qualche parte, un documento in dieci punti,
che i compagni operai si sono premurati di recapitare al sindacato dicendo che
noi eravamo disposti, e in effetti fino a questo punto non ci chiamavamo neanche
gruppo, a discutere questi punti, e a lavorare dentro il sindacato se il
sindacato in qualche modo ci avesse accettato come portatori di questi punti. In
questi dieci punti ce ne erano alcuni che avevamo elaborato insieme ai compagni
di «Socialisme ou Barbarie» come la revocabilità dei dirigenti, l’essere
revocabili in ogni momento dalla base, e cose di questo genere. Sul fatto che
queste fossero inchieste da fare e questo voleva dire che venivano fatte tutta
una serie di discussioni sul problema della burocrazia. Sono costretto a saltare
una serie di cose ma nel ’53 «Socialisme ou Barbarie» pubblicò un articolo
fondamentale per l’inchiesta operaia. Lo stende materialmente Lefort ma viene
fuori un articolo alla cui redazione abbiamo un po’ partecipato da lontano,
siamo andati io Danilo e Alquati qualche volta, su questo problema del potere
operaio, sul problema della rappresentanza operaia. Naturalmente se il gruppo di
operai che erano lì si convince ad adottare questi dieci punti è anche perché
se ne era parlato e perché erano convinti che la burocratizzazione del
movimento operaio o del sindacato era un problema essenziale per l’avvenire
della lotta di classe. Il sindacato ci disse: vi becchiamo tutti ma non vogliamo
gli internazionalisti, e noi rispondemmo o veniamo tutti o non viene nessuno. Si
arriva comunque a questa riunione dove alla fine, ma neanche tanto ad opera
nostra, si vede chiaramente che non c’è niente da fare, non è possibile che
noi e loro si possa lavorare insieme. Dopo tre o quattro riunioni un senatore
comunista stoppa tutto, tuttavia lui non è mai intervenuto, anzi. Becca il
responsabile della cgil di Cremona, che ha avuto la bella pensata di accettare
la cosa, e tutto finisce qui. Da quel momento, la sera stessa, nasce il Gruppo
di Unità Proletaria. Adesso non avrei più intenzione di dire niente altrimenti
diventa una cosa lunga e io sono un chiacchierone. Dico soltanto che i contenuti
spulciati di quanto ho detto volendo possono essere anche letti come le
problematiche che se ho capito bene vi interessano, cioè le problematiche della
ricerca, della conricerca, dell’inchiesta operaia, della stessa elaborazione
che noi facciamo che è l’eco di un dibattito europeo, che si svolge in
particolare in Francia, e che peraltro sta tornando molto in questi tempi. Vedo
che c’è stata una ripresa molto forte di Simone Weil nei mesi passati. Una
figura interessantissima, per carità, non solo per le donne ma per tutti, con
tutta la teorizzazione che c’è intorno a lei sulla condizione operaia e sulla
ricezione in Italia della condizione operaia. A questa formula noi ne opponiamo
una diversa, che naturalmente non è soltanto una formula, ed è quella
dell’esperienza operaia. Ad essa si legano, anche, se volete, delle forme
letterarie diverse. Un inchiesta operaia non è quello che deriva
necessariamente da una impostazione come quella della Simone Weil. Riflettere
sulla propria condizione ha semplicemente delle altre dimensioni, ha
semplicemente un altro modo di vedere. Chiaramente la condizione operaia è un
po’ come la condizione umana, è una condizione umana più qualcosa d’altro.
Per noi l’esperienza operaia, il meglio dell’esperienza proletaria è una
dimensione diversa, una dimensione che costituisce una condizione, è qualcosa
che porta sul set. Puntare sull’esperienza operaia vuol dire puntare su
qualcosa di mobile, sul lavoro, su qualcosa che magari Montaldi preferiva dire
con le parole di Rimbaud, che era legato all’altra grande questione di
Montaldi quella della coscienza, di ciò che costituisce la coscienza operaia.
Mentre la condizione operaia riflette, anche sulla scorta di un certo
esistenzialismo, l’essere messo en
condition e riflette uno stato in cui sei, in qualche modo modificabile, ma
in qualche modo ineliminabile, ma in qualche modo insormontabile perché può
essere sormontato a partire soltanto da un progetto collettivo, cioè da
qualcosa che porta direttamente all’abolizione delle classi e quindi
all’abolizione del proletariato ecc. Può essere molto largo questo discorso e
detto così può essere persino caricaturale. Quando Malraux scriverà La
Condition humaine, o tutto questo condizionismo, questo emergere del
concetto di condition, che è qualcosa
nella quale ci sei: come si fa a distruggere la condizione umana, devi
disumanarti. L’esperienza proletaria, non ha la pretesa forse di essere così
esaustiva ma ha la pretesa di portarti subito sulle dimensioni umane
dell’essere umano o sulle dimensioni disumane dell’essere – e allora
c’era anche questa componente dell’olocausto, c’erano tante cose che
culturalmente finivano in questa cosa qui – e di sicuro ha la pretesa di
tirarti fuori da questa sorta di astrazione determinata che è il tuo essere
operaio, e quindi di distruggere qualcosa che può sembrare apparentemente un
problema di coscienza, qualcosa che è più ristretto della condition
humaine, ma che rifiuta di prendere per buona la descrizione dell’uomo
come di uno che è dans la condition
humaine.
Una
cosa che ho voluto risparmiarvi è le decine e decine di riunioni che abbiamo
fatto per mettere insieme tutta una serie di persone e di gruppi in Italia. Vi
risparmio le cinque o sei volte che io e Castoriadis siamo andati a Genova a
cercare di mettere insieme quelli di Genova, vi risparmio le trenta o quaranta
riunioni fatte a più riprese con gruppi della sinistra comunista ecc. Una cosa
un po’ speciale riguarda i rapporti con Panzieri, ma quando c’è stata la
storia di Piazza Statuto a Torino, dove siamo andati, avevamo già rapporti con
Soave, Mottura e tutti. Soave aveva scritto una parte del nostro documento Il
significato dei fatti di luglio (Genova
’60), per cui li avevamo già questi rapporti ma erano con alcune persone
perché con il gruppo non si era mai andati d’accordo. Non la racconto molto
volentieri questa storia perché sembra un pettegolezzo nei confronti di
Panzieri ma non è questo. Siamo arrivati a lui perché siamo arrivati all’Einaudi
e non sapevamo dove andare. Siamo arrivati in tre a Torino disposti a
battagliare su qualche piazza o a fare quello che c’era da fare. Così siamo
andati da Panzieri. Siamo arrivati là e tenne una riunione. Sembrava che ci
fosse tutto meno che piazza Statuto. Lui ce l’aveva un po’ con noi e con me
in particolare, perché mi diceva che ero il più francesizzante del gruppo, mi
chiamava Socialisme ou Barbarie, con
Danilo no. Ma a parte queste cose lui diceva di piazza Statuto che erano quattro
meridionali che tirano dei sassi. Cosa facciamo? Così ci disse: voi tornate a
Cremona, noi ci interessiamo dell’industria, voi vi interessate
dell’agricoltura. Danilo rispose: noi prima ci interessiamo di tutto,
dell’industria, dell’agricoltura ecc. Poi la cosa è sfociata in qualcosa di
più. Danilo nei primi due numeri di «Quaderni rossi» è stato nel comitato di
redazione, ma non ha mai scritto. Dopo ne è venuto fuori.