L’INCHIESTA OPERAIA

LE ORIGINI, LA STORIA, L’ATTUALITà

   

Daniel Blanchard, Mario Lippolis: l’esperienza di «Socialisme ou Barbarie»; Montaldi e il concetto di esperienza proletaria; l’approccio critico alla sociologia.

 

Io sono un po’ spaesato nel senso che personalmente non ho conosciuto Danilo Montaldi mentre invece Daniel lo ha conosciuto, è stato suo ospite, oltre ad aver partecipato al periodo in cui Montaldi era strettamente legato a «Socialisme ou Barbarie». Anche se nel periodo intorno al ’68 Montaldi era presente per interposta persona, perché i compagni di Genova, a cui io ero collegato, lo conoscevano, qualcuno di più qualcuno di meno. Nello stesso tempo avevano partecipato alle prime fasi di «Classe operaia», quindi erano strettamente in contatto con gli ambienti che in qualche modo erano collegati con «Socialisme ou Barbarie» in Francia. Altri hanno cominciato a prendere coscienza di questi argomenti, di queste tendenze, proprio intorno al ’68 e si sono poi, io ad esempio, interessati più direttamente a «Socialisme ou Barbarie». Sarebbe un problema interessante quello di stabilire come mai il ’68 sia stato nello stesso tempo un punto di contatto e un tentativo di impadronirsi delle tendenze che ancora provenivano dal vecchio movimento operaio, da un lato, e dall’altro delle tendenze che come «Socialisme ou Barbarie» cercavano di fare un bilancio storico del vecchio movimento operaio nella consapevolezza che una fase storica si era conclusa e che bisognava elaborare nuovi punti di vista, bisognava appunto apprendere dall’esperienza proletaria secondo nuove modalità. Invece nel ’68 questo genere di gruppi che da un lato cercavano di impadronirsi di questa tradizione, di questo filo storico, nello stesso tempo, però, tendevano verso un’altra direzione. Poi di fatto questa saldatura effettiva – per quel che mi riguarda e per quel che riguarda altri gruppi che pur ritengo fossero interpreti più fedeli dei caratteri nuovi del movimento di allora – con la generazione di Montaldi e con i gruppi degli amici di Montaldi non c’è stata. Penso che ci siano delle cose che non sono ancora chiare che ci sia stata una certa fretta nel girare la pagina e considerare chiusi i rapporti con ambienti su cui Montaldi era estremamente critico come i primi gruppi che sono nati in questo lasso di tempo, gruppi che si possono chiamare gauchisti, come Avanguardia Operaia e i vari gruppi dell’estrema sinistra operaista. Di fatto avevano più contatti con loro che con noi. Mi ricordo che Montaldi nei suoi scritti chiama i gruppi prevalenti nella cosiddetta nuova sinistra di allora «comitati burocratici dissidenti» nel senso che li vedeva più come modi di decomposizione del grande corpo dello stalinismo, del movimento operaio ufficiale, quindi staliniano, in Italia. Però, la sua attenzione era diretta ai militanti e alle persone che, al di là dei micro apparati, delle loro alleanze e dei loro giochi, esistevano e lavoravano. Io penso che il rapporto con Avanguardia Operaia fosse legato a persone come quelle che avevano fatto il cub della Pirelli. Però ripeto c’è stata una diversa sensibilità.

L’esperienza proletaria, l’inchiesta operaia, che avete dato come argomento di questo incontro, sull’inchiesta operaia come termine tecnico non saprei dire molto. Conosco i tentativi dei gruppi come quelli americani o di «Socialisme ou Barbarie». Ricordo che da uno di questi tentativi è venuta fuori la traduzione di Montaldi dello scritto che a me sembra sempre molto interessante di Paul Romano sull’operaio americano. Però mi sembra di capire che poi questa inchiesta operaia sia stata, qui in Italia, codificata e teorizzata in maniera diversa che a dire il vero io non conosco nemmeno bene, ma che non conosco bene perché forse non l’ho voluta conoscere bene. Mi sembra molto riduttiva rispetto al modo che questo termine ha avuto in «Socialisme ou Barbarie» e forse anche in Montaldi. Io non conosco bene i lavori del gruppo di Cremona e la attività più minuta di Montaldi. Conosco i libri e i ciclostilati che sono stati pubblicati e mi sembrano molto interessanti. Penso che allora non avessimo riflettuto abbastanza anche se recentemente questo tema mi sembra che stia tornando fuori. Ad esempio l’ho visto trattato, in maniera priva d’interesse, per la verità solo sulla rivista romana «Invarianti». Piatta, «scientifica» in qualche modo positivista. Non mi sembra che possa avere un qualche aggancio, sia pur minimo con il modo di Montaldi. Non mi sembra che ci siano dei collegamenti. Probabilmente ci sono altri tentativi altri interessi, altri modi di proporsi qualche cosa di questo genere. Quello che mi sembra di percepire di Montaldi è qualche cosa di totalmente alieno da un approccio sociologico, anche se lui parla di sociologia non quantitativa. Poi di fatto mi sembra che sia Autobiografia della leggera sia Militanti politici di base siano un esempio di una considerazione completamente storica dei soggetti a cui si riferiscono. Nell’un caso e nell’altro a me fa un po’ ridere che possano essere chiamati casi di inchiesta operaia visto che per gli uni si tratta di una ricaduta come lui la chiama di ceti che fan pur parte in qualche modo del proletariato dell’agricoltura industriale della bassa padana, ricaduta che lui analizza in termini storici, e nell’altro caso nella contemporanea raccolta delle biografie dei militanti di base, mi sembra che ciò gli interessi non è certo la loro appartenenza o le loro qualifiche o i loro caratteri più o meno operai quanto il fatto che sono dei militanti, nel senso che sono delle persone che si sono inserite nella prospettiva storica del rovesciamento della società dominante e rientrano e possono essere considerati i portavoce dell’esperienza proletaria in senso lato. In tutte e due i casi mi sembra che la cosa più utile oggi stia nella capacità di Montaldi, non solo nella sua peculiare attenzione, a legarsi e ad ascoltare fino in fondo queste persone e nell’importanza che da alla loro biografia, e alla loro autobiografia, ed anche il modo in cui riesce a considerare nello stesso tempo la struttura sociale in cui sono inseriti. Ma ancora di più il modo in cui reagiscono sia alla struttura sociale che alla storia, il modo come si rappresentano, il significato che ha il loro stesso gesto di raccontarsi. Il modo di Montaldi di rivolgersi a loro mi sembra la negazione completa della sociologia intesa come scienza sociale. Mi sembra che questo termine si veramente abusivo riferito a esempi di questo genere. Mentre invece recentemente mi sembrava di aver colto una riproposizione da qualche parte di paradigmi, di proposte di tipo sociologico, sociologico di sinistra, oggettivista, privo di qualsiasi interesse. Invece, il problema mi sembra che sia quello di percepire qual è l’esperienza proletaria, come viene vissuto almeno da un polo della società il dominio, lo sfruttamento, l’alienazione. Il problema mi sembra se questa esperienza attuale può essere in qualche modo raccontata, come mai la leggera di Montaldi scriveva la propria vita, cosa voleva dire scrivendo la propria vita. Lui spiega, mi sembra, abbastanza bene, come mai i militanti degli anni dal ’20 al ’60 anche se non scrivevano la propria vita la raccontavano una volta che li si fosse coinvolti in questo loro raccontare, come mai la raccontavano volentieri a Montaldi, come mai la raccontavano inquadrandola in tutto un modo di mettere in prospettiva la storia, di mettere in prospettiva, quindi, il tentativo di rovesciamento della società. Invece oggi io penso che l’esperienza proletaria esista sempre però non si racconta. Quali sono i modi in cui si potrebbe, non dico indurla a raccontarsi, in cui questa esperienza proletaria può in qualche modo rappresentarsi, può in qualche modo dirsi.

Mi sembra che uno che volesse fare davvero una inchiesta «operaia» oggi se non si pone all’inizio e prima di tutto questo problema può fare solo delle cose prive di qualsiasi interesse.

 

Intervento: Leggendo il saggio L’esperienza proletaria tradotto da «Socialisme ou Barbarie» ho notato molti punti in comune con la tradizione operaista italiana e del resto una netta divergenza con quello che Lippolis indicava come oggettivismo o sociologismo, perché l’inchiesta nasce dall’esigenza di definire come si forma la soggettività, nel caso di «Socialisme ou Barbarie», la soggettività operaia. Penso che Blanchard ci potrebbe raccontare come nasce e come si è sviluppata questa tendenza in Francia e in «Socialisme ou Barbarie».

 

Daniel Blanchard: Mi sento un po’ a disagio a parlare un po’ perché non sono abituato a parlare in italiano, specialmente in pubblico e un po’ perché tutto questo è una vecchia storia. Avrei dovuto rileggere il testo di Lefort a proposito dell’esperienza proletaria per essere in grado di parlarne perché oggi non mi ricordo né il testo né il contesto in cui è stato scritto.

La prima cosa che voglio dire per illustrare il fatto che è una vecchia storia è che la rivista «Socialisme ou Barbarie» ha smesso di essere pubblicata nel 1965, trenta anni fa e il testo di Lefort è probabilmente di dieci anni prima.

Una prima cosa che voglio dire è una cosa molto personale: sono stato molto commosso di ricevere il libro di Montaldi. Mi sono ricordato del mio incontro con Montaldi a Parigi e poi a Cremona quando sono venuto a trovarlo e la cosa che mi ha colpito, io che ero un intellettuale piccolo borghese, era il legame molto forte che Montaldi e i suoi compagni, ma soprattutto Montaldi aveva con il movimento sociale nella sua regione, come conosceva molti attori di questa storia. Tutto questo per me era una grande novità perché noi a Parigi avevamo un legame molto ridotto con il proletariato. C’erano pochissimi operai nel gruppo di «Socialisme ou Barbarie», c’era uno che rifletteva sulla sua condizione e sulla sua esperienza che era Daniel Mothé che aveva scritto un libro di cui Montaldi fa una recensione. Mothé era un operaio della Renault, un operaio qualificato, in alto nella gerarchia degli operai nella fabbrica moderna. Invece il proletariato di cui parlava Montaldi e a cui era legato, era un proletariato fatto di contadini e di operai delle piccole fabbriche del Cremonese. Voglio dire che c’era una gran differenza tra i due ambienti, ma la differenza era anche per me la qualità della relazione e dei legami che Montaldi e i suoi compagni avevano con la gente della regione di Cremona e la storia delle lotte sociali tra i contadini e tra gli operai e il carattere molto affezionato di Montaldi con questa gente. Sono stato molto colpito da questo. Io ho compreso che quando parlava del proletariato parlava di una cosa molto più concreta rispetto a noi a Parigi, che avevamo come unica sorgente di esperienza proletaria quella di Mothé e di pochi altri operai che per lo più non parlavano, assistevano alle riunioni ma non dicevano niente. Penso che questa differenza spiega una divergenza apparsa più tardi tra Montaldi e una parte del gruppo di «Socialisme ou Barbarie», quella intorno a Castoriadis, che era più desiderosa di girare pagina, come diceva Mario, del proletariato come soggetto della storia, della rivoluzione, del cambiamento sociale. Invece per Montaldi la cosa era più concreta, più vivente, più viva ed è una delle ragioni per cui è rimasto attaccato all’idea del proletariato come soggetto sociale e mondiale.

Un altra cosa che Mario ha detto è che né nel caso di Montaldi né per noi, quando si trattava di esperienza proletaria non era in modo sociologico. Perché anche per noi, pur essendo molto lontani dalla realtà del proletariato, il nostro sforzo era di legare l’inchiesta sulla realtà proletaria con il movimento del rovesciamento della società dominante e non era la preoccupazione di fare un bilancio scientifico, ‘oggettivo’, del proletariato e della classe operaia. Ma penso che sarebbe meglio che la discussione e il dibattito cominci, forse sarò in grado di dire qualcosa di più.

 

INTERVENTO: Il dato di partenza è che l’esperienza di «Socialisme ou Barbarie» in Italia è assai poco conosciuta perché mentre di Castoriadis sono stati pubblicati, abbastanza recentemente gli scritti sul regime sociale dell’urss (i due volumi Il capitalismo burocratico), per quanto riguarda il resto dell’elaborazione e soprattutto dell’attività di elaborazione e del rapporto con soggetti sociali, con le fabbriche, non c’è nulla, a parte la traduzione del ’77 su «Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe» del saggio di Lefort su L’esperienza proletaria. Quindi, mi interesserebbe sapere un po’ di cose sui giornali operai vicini a «Socialisme ou Barbarie»: «Tribune Ouvrière» e poi successivamente l’esperienza di «Pouvoir Ouvrier» perché Montaldi li fa conoscere in Italia pubblicandone dei pezzi così come fa conoscere esperienze che considera analoghe negli usa e in Inghilterra. Questo insieme di gruppi che avevano all’epoca, da quel che si capisce, una serie di rapporti tra di loro e che nello stesso periodo erano discussi in Italia – ad esempio so che sia il libro di Mothé che il libro di Sarel sulla classe operaia della Germania Orientale erano molto letti e discussi. Però di questo dibattito molto grosso sul rapporto tra gruppo e fabbrica, operai nel loro ambiente di lavoro, nella loro rete di comunicazione e di attività e elaborazione di un programma che è poi l’esigenza prima che pone Montaldi, ecco, questo problema che pure ha segnato profondamente, a quel che mi risulta la stessa esperienza di «Classe operaia», perché quando se ne vanno i genovesi se ne vanno sulla questione di cosa dovesse essere «Classe operaia» se un giornale operaio, se l’unione di una serie di giornali operai fatti direttamente da nuclei di operai, oppure se dovesse essere un giornale politico, quindi più legato alle categorie della politica e quindi in quel contesto alla questione, ancora, del rapporto con il sindacato e con il pci. Di questo dibattito, che allora fu una cosa grossa, da quel che si capisce, non è rimasto praticamente nulla nell’esperienza dei militanti delle generazioni successive. A parte per le ragioni che diceva Mario, per quel che riguarda il giro radicale la questione del consiliarismo classico e per certi versi la stessa questione operaia queste cose non interessavano più, ma invece per la generalità dei compagni per la mancanza di materiali di riflessione e di conoscenza. Questa è la prima domanda.

La seconda situazione sulla quale desidererei avere informazioni è una cosa che ci ha raccontato Gianfranco Fiameni una sera che siamo andati a casa sua. Fiameni ci ha raccontato che negli Sessanta in estate in un ex villaggio di minatori nel Sud della Francia, ch’era stato abbandonato e che era stato rilevato da qualcuno, si svolgevano degli incontri internazionali a cui partecipavano un po’ tutti i gruppi dell’ultrasinistra e a cui partecipavano anche compagni dell’«Internazionale situazionista» con discussioni, scazzi ecc. Volevo sapere se ci avevi partecipato e se ti ricordi qualcosa del dibattito. Era un villaggio abbandonato che un compagno aveva rilevato e dove in estate si trovavano tutti. Questo compagno raccontava un po’ di episodi anche divertenti, di scazzi e di provocazioni con i situazionisti sugli alberi e gli altri sotto.

 

BLANCHARD: Sulla prima domanda bisogna dire che tutti questi giornali ed esperienze erano una specie di microcosmo. Il gruppo di «Socialisme ou Barbarie» negli anni Cinquanta era formato da una ventina o una trentina di persone, poi un po’ di più, dopo la presa del potere di De Gaulle e dopo la rivoluzione ungherese c’è stato un piccolo afflusso di membri e di militanti. Il gruppo di «Tribune ouvrière» era formato da tre o quattro operai della Renault. In Inghilterra «Solidarity» era lo stesso tipo di gruppo. Negli usa c’erano «News & Letters» e «Correspondence». In ogni caso c’erano uno o due operai in ogni gruppo. Non dico questo per sminuire il lavoro teorico che è stato fatto a partire da questa base. Voglio dire che questa base era estremamente stretta e che alla Renault «Tribune ouvrière» era composta essenzialmente da Mothé, Gasparre e uno o due altri compagni. Tutti erano professionisti, operai di alto livello. L’esperienza era molto stretta ma allo stesso tempo attraverso questa esperienza si ponevano i problemi del sindacato e della burocrazia sindacale, specialmente alla Renault dove l’unico sindacato era la cgt cioè il pcf, e il problema dello stalinismo. Inoltre si poneva il problema della trasformazione del lavoro, almeno tra i professionisti. Lo stesso vale per l’Inghilterra. In «Solidarity» c’era un operaio, delegato di reparto, ma in Inghilterra i delegati erano molto spesso opposti all’apparato sindacale perché erano in collegamento molto stretto con la base. Così «Solidarity» ha sviluppato una teoria della lotta di classe interna alla classe operaia tra la base del sindacato a partire da questa esperienza molto limitata ma erano le condizioni nelle quali si poteva riflettere in questo tempo. «Tribune ouvrière» non aveva un influenza molto grande in tempi normali, ma quando c’era uno sciopero o un movimento di base poteva avere un eco. Non è mai stato in grado di organizzare un movimento, uno sciopero.

Sulla seconda domanda posso dire soltanto che non c’ero.

 

INTERVENTO: Fra le tante cose che abbiamo domandato a Fiameni c’era anche il rapporto, esistente o meno con l’«Internazionale situazionista» che come riferimento non compare mai in Montaldi. Fiameni ricordava questo episodio e in generale diceva che loro faticavano a capirsi. Però diceva che di rapporti ce ne erano stati e soprattutto c’erano state queste discussioni nei primi anni Sessanta.

 

BLANCHARD: Dei rapporti tra «Socialisme ou Barbarie» e l’«Internazionale situazionista» posso parlare perché sono io ad avere incontrato Guy Debord per la prima volta e ho lavorato con lui quasi un anno a paragonare posizioni e tesi dei nostri due gruppi e finalmente abbiamo scritto un testo in comune che si chiamava in modo molto pretenzioso: Preliminari a una definizione di un programma rivoluzionario. Alla fine del ’60 sono dovuto partire; nel frattempo Debord è diventato un membro del gruppo di «Socialisme ou Barbarie» cosa che nessuno ha mai ricordato. È rimasto nel gruppo solo un anno ma ha partecipato attivamente. Nel ’61 c’erano i grandi scioperi in Belgio e tutto il gruppo si era trasferito per partecipare e per fare dell agitazione. Debord partecipò a questo movimento. Quando sono tornato ho incontrato Debord ma molto presto ha rotto tutti i legami con «Socialisme ou Barbarie» e ha cominciato a criticarlo. Penso che se c’è un anno in cui i situazionisti hanno partecipato a un convegno con «Socialisme ou Barbarie» e altri gruppi probabilmente era il 1961.

 

LIPPOLIS: Forse sarebbe interessante capire il problema di come nonostante Montaldi i temi sollevati da «Socialisme ou Barbarie» e anche le risposte che «Socialisme ou Barbarie» si dava siano filtrate in Italia in una maniera molto parziale, stravolta in senso sociologico e quindi abbiano potuto essere parzialmente recuperate in quella che poi è risultata la corrente prevalente dell’operaismo italiano che li rendeva compatibili con il pci, con il machiavellismo d’apparato. Questo sarebbe interessante per l’Italia e per i più giovani che sono cresciuti avendo come coordinate della loro esperienza questa versione un po’ interessata, un po’ particolare di come andassero interpretati, visti e sostenuti i nuovi movimenti delle giovani generazioni proletarie degli anni Sessanta e Settanta e non hanno avuto la possibilità di conoscere direttamente le fonti americane e francesi di questo modo di vedere le cose. D’altra parte essendosi Montaldi volontariamente limitato nel Cremonese, sia pur in tutti i suoi rapporti, non è stata la sua interpretazione o la sua visione che ha prevalso ma sono state altre. Recentemente ho letto che Alquati nel suo libro, che fra l’altro fa riferimento al libro di Montaldi Bisogna sognare anche nel titolo, ricordava che ad esempio lui negli anni Sessanta, anche se aveva deciso di andare nel centro di quella che sembrava il nuovo movimento operaio a Torino, diceva di essere sostanzialmente d’accordo con Montaldi nel recepire l’orientamento di «Socialisme ou Barbarie» e ricordava come Panzieri da trockista effettivo e quindi da entrista nelle istituzioni ufficiali del movimento operaio invece lo vedesse come fumo negli occhi. Poi, dopo la morte di Panzieri, sarebbe interessante percorrere come Tronti, Negri, Cacciari e via di questo passo abbiano un po’ quello a cui tu facevi riferimento e cioè la rottura con i genovesi con questa piega presa da «Classe operaia».

 

BLANCHARD: Io vorrei dire ancora una cosa a proposito del contenuto di questa esperienza proletaria. Il modo in cui la concepivamo non era solo un contenuto di lotta di critica della società e di negatività ma anche un contenuto positivo e questo era il legame più profondo tra i gruppi americani francesi e italiani. Si trattava di cercare il modo in cui il proletariato era il depositario di una esperienza positiva e cioè il possessore della produzione, di una socializzazione autonoma, della creatività, non solo nel lavoro ma nella vita nei suoi rapporto sociali. E questa era una grande differenza rispetto a tutti gli altri movimenti operaisti. In questo senso non era affatto una sociologia.

 

INTERVENTO: Per stravolgimenti in senso sociologico cosa si intendeva prima?

 

LIPPOLIS: Il ritagliare una figura astratta, una figura cardine da potere stilizzare come un nuovo soggetto che permettesse una manipolazione in termini di ingegneria sociale e quindi potesse essere giocata nelle dinamiche interne al ceto politico dominante della sinistra. Innanzitutto è un togliere tutto il senso storico che aveva la riflessione di «Socialisme ou Barbarie» e l’«Internazionale situazionista» sulla fine del movimento operaio, sulla fine dello stalinismo, sulla natura della burocrazia operaia, sulla burocratizzazione del mondo, sulla fine dell’iniziativa politica autonoma da parte dei proletari effettivi. Ecco, sfrondare tutto questo che era un discorso estremamente compromettente che avrebbe chiaramente rotto tutti i ponti con il psi per Panzieri, e con il pci e con il sindacato, e invece estrarre alcune figurine che possono essere l’operaio massa, l’operaio sociale, che possono essere spesi come una specie di target a cui ...

 

INTERVENTO: In Francia questa esperienza nasce su un retroterra già esistente di tipo trockista mentre in Italia il trockismo non ha mai avuto grosso spazio. I due grossi referenti sono sempre stati «Quaderni rossi» e «Classe operaia». L’entrismo trockista ha fatto da supporto a certe idee che però rimanevano sempre interne al pci. Non è un caso che «Quaderni rossi» si sono sempre dati una immagine di opposizione, di quelli che avevano rotto col pci e con il sindacato e non è mai stato vero perché in realtà hanno sempre agito con l’appoggio e la sinistra sindacale di allora, con personaggi tipo Garavini, Pugno e cioè burocrati stalinisti che non avevano alcuno scrupolo a picchiare chiunque andasse a dare anche solo volantini e facesse loro concorrenza davanti alle porte della fiat. Quindi non stupisce che queste esperienze in Italia condotte in quello spirito siano poi risultate piuttosto annacquate. La scoperta poi è avvenuta nel ’68 in seguito alla radicalizzazione della situazione. Allora è stato tutto ripreso riferendosi direttamente alle fonti, che sia «Quaderni rossi» che «Classe operaia» si guardavano bene dal dire quali erano. Sia Tronti che Negri, sia Rieser che Lanzardo, Panzieri anche, spacciavano questa roba come farina del loro sacco, quindi c’è tutta una grossa mistificazione, almeno in quegli anni. Poi in seguito è stato tutto recuperato in un quadro di autoesaltazione, di autorivalutazione posteriore. In realtà come sostanza si muoveva tutto nella sinistra sindacale di allora. Se non ci fosse stato il ’68 tutto sarebbe finito lì. Seconde me sarebbe interessante non solo vedere questi aspetti storici ma anche gli sviluppi successivi e cioè come l’operaismo, che sostanzialmente aveva il merito di ribaltare la concezione dominante che il partito fosse un effettivo soggetto autonomo e che tramite il partito si spiega tutto, di ribaltare questa concezione che in realtà sono i movimenti della classe che possono spiegare il partito quando il partito merita di essere spiegato. Quindi quello è stato il grande merito. Però, nello stesso tempo nel ’68 non bisogna dimenticare che tutto l’operaismo che va dal luxemburghismo alla sinistra tedesco olandese, «Socialisme ou Barbarie», «Internazionale situazionista» venne tutto scoperto di botto. Nel momento della riscoperta contemporaneamente avvenne anche una critica. Più che altro come strumento di critica a tutti i partitini di tipo neo-leninista che allora cercavano di recuperare il movimento. Però nello stesso tempo ci si rese conto dei limiti del discorso per cui se si vuole un quadro completo bisogna vedere entrambe queste due fasi: il fatto positivo di ribaltare il punto di vista allora dominante della centralità del partito come alfa e omega di ogni discorso. Ma nello stesso tempo ci si rese anche conto, a fronte di quello che avveniva nei movimenti degli anni Settanta, che quel tipo di configurazione della coscienza proletaria come coscienza operaia era di fatto già superato dagli avvenimenti e che i soggetti che si muovevano allora non potevano più considerarsi come soggetti operai in senso classico.

 

INTERVENTO: Vorrei dire due cose in riferimento al radicamento territoriale di Montaldi nel Cremonese.

È vero che negli scritti di Montaldi emerge una umanità radicata in un passato storico profondo, in tradizioni ben determinate, vive, non ancora occupate dall’industria culturale, dai media, dai modi della socialità capitalista moderna. Però c’è un altro elemento altrettanto e forse più importante per definire il contesto cremonese ed è l’elemento schiettamente politico, cioè l’esperienza politica del proletariato cremonese. Montaldi agisce fin da giovanissimo in un contesto che ha ancora legami molto stretti con la costruzione del pci, con il Biennio Rosso, con una Resistenza dai determinati caratteri di radicalità. E questa sua inserzione e il fatto che Montaldi si ponga soggettivamente il problema di riarticolare questo passato politico, non ancora consumato anche se bloccato dallo stalinismo, che è alla base della sua idea di «militanti politici di base» e della categoria che lui usa di «disperso partito marxista». E il fatto che esistono concretamente sul suo territorio tanti operai, compagni, gente che dentro e fuori la fabbrica ha avuto un rapporto storico con il proprio presente gli permette di trarre dalle autobiografie di quelli che sarebbero sociologicamente degli emarginati, informazioni e conoscenze sul fascismo, sull’ultimo dopoguerra, sugli anni Trenta. È questo che secondo me si deve intendere come radicamento padano e contestuale di Montaldi ed è questo che lo porta viceversa a scontrarsi con Bosio poiché lui accusa Bosio di non riuscire a realizzare questa riattualizzazione del passato ma di lavorare come custode di un’esperienza che comunque è morta o può essere raccolta come quello che non è stato macinato dalla storia. Credo che quando verrà Fiameni potrà dire molte cose su cosa significherà nella vita del gruppo.

Daniel, gli operai con cui avevano rapporto loro non stavano zitti. Magari, non intervenivano immediatamente nella riunione, però la loro esperienza doveva confrontarsi da vicino con anche grossi problemi e scazzi su cosa fare, su come agire e su come articolare una attività politica di base. L’attività del gruppo di Cremona per me è assolutamente particolare perché è l’attività comune di un gruppo di operai e di un gruppo di giovani ricercatori costretti a vedere le cose da vicino in senso pratico.

La seconda cosa che voleva riprendere è relativamente agli Usa e a Paul Romano. Un episodio interessante perché la questione americana ha intrigato da sempre il militante italiano e ha avuto diverse coniugazioni. Sostanzialmente mi pare che i compagni hanno scoperto che gli Usa non sono solo imperialismo dopo le lotte violente di fine anni Sessanta nelle città americane e dopo che sulla base di quelle esperienze si è formata una storiografia classista del proletariato americano che io considero ancora dal punto di vista della conoscenza uno dei punti migliori dell’intellettualità operaista. Questa acquisizione è datata inizio anni Settanta e fa riferimento essenzialmente all’esperienza del proletariato americano dei primi del secolo: il discorso sugli Industrial Workers of the World (iww) e il tentativo di collegamento, un po’ forzato ma sicuramente interessante, tra i contenuti e le forme d’espressione del proletariato attuale e quello che aveva il proletariato americano dei primi del secolo. In Paul Romano che è un testo del ’48 ci sono già tantissimi di questi elementi: c’è l’esperienza dell’operaio dequalificato, ci sono sudore, fatica, incidenti, esperienza di vita fuori dalla fabbrica ma determinata dalla settimana, rifiuto di questa ecc. C’è però una impostazione diversa da quella che veniva definita prima sociologica perché il pezzo non a caso si chiude con il problema, a partire dall’esperienza proletaria, di riarticolare un progetto di ridefinizione della società complessivamente intesa, e cioè con il problema del programma di trasformazione sociale che Romano vede doversi realizzare con gli operai comuni e non come distillazione di un piccolo gruppo, ma che rimane ancora al centro dell’attenzione di questo tipo di militante con questa ambizione di complessità. Viceversa quando si parla degli iww sono interessanti perché avrebbero fatto fuori il binomio ideologia-utopia, avrebbero accorpato il tutto nel movimento autonomo superando d’un sol balzo sia la socialdemocrazia che il pci. Infatti nel pezzo di sintesi del seminario di Padova del ’67 si parla di post-comunismo come portato di queste lotte.

Qui secondo me si gioca una grossa questione che già era accennata prima: il fatto che sostanzialmente l’operaismo in Italia si costituisce come paradigma complessivo a partire dall’idea che le questioni storico-politiche passate siano risolte. C’è stata la fine del Biennio Rosso prolungato poi fino al ’26 inglese con la sconfitta. C’è stata poi, su questa sconfitta, la definizione del modello fordista. Però questo è il passato che non riguarda più la nuova figura dell’operaio massa che a partire dal proprio agire diretto potrà andare al di là delle esperienze fallimentari del passato. Ecco, su questo punto credo che Montaldi non si trova assolutamente. Infatti c’è un documento del gruppo di Cremona su cosa non sono d’accordo con «Classe operaia» e c’è proprio questa questione del programma perché la specificità di Montaldi rispetto ad altri militanti della sua generazione secondo me sta nel  non prendere per definitiva questa scissione che pure è un fatto reale ma che lui cerca continuamente di rielaborare e quindi parla del proletariato come classe dell’esperienza ma dell’esperienza storica che è una esperienza di sconfitta ma non di annullamento dei tentativi rivoluzionari del passato. Questo gli permette anche, parlando della classe operaia italiana, di non tirare una riga sugli anni Cinquanta come anni dello stalinismo punto e basta, perché secondo lui la classe operaia negli anni Cinquanta cerca comunque di organizzarsi e di esprimersi come classe autonoma. Non ci riesce e, quindi, i conti vanno fatti in modo risolutivo. Però riesce a cogliere la complessità e la non definitività della vittoria dell’avversario. Mentre secondo me un vizio grosso che salta all’occhio nella fase attuale in cui non ci sono movimenti spontanei è proprio questo: la mancata riarticolazione del passato e della sconfitta.

 

LIPPOLIS: Visto che si parlava di «Tribune Ouvrière» sarebbe utile parlare della «Tribuna Operaia» che c’è stata a Genova e del Circolo Rosa Luxemburg, di Gianfranco Faina insieme ad alcuni operai.

 

INTERVENTO: Le cose che ci sarebbero da dire sono tantissime, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Io vorrei sottolineare la rilevanza della non conoscenza. Cioè buona parte delle cose dette – «Socialisme ou Barbarie», le riviste americane – erano sostanzialmente sconosciute anche se qualche compagno attivava un rapporto di corrispondenza con gli abbonamenti, non c’era una lettura, una elaborazione e una comunicazione di quello che qualcuno riusciva a conoscere a brandelli all’esterno. La stessa realtà di Montaldi a Genova non era conosciuta. L’esperienza di «Socialisme ou Barbarie» poteva essere conosciuta ma di fatto era come se non ci fosse e a Genova «Socialisme ou Barbarie» era stato conosciuto grazie ad alcuni compagni che avevano tradotto un testo del Cardan (pseudonimo di Castoriadis), Capitalismo moderno e rivoluzione. Per quello che so io quello è stato il primo caso in cui un testo di «Socialisme ou Barbarie» è stato diffuso in alcune centinaia di copie. Questo nel ’67. Quindi il problema della realtà che c’è ma è come se non ci fosse. L’esperienza genovese ha avuto delle caratteristiche proprie, di tipo endogeno, perché anche il rapporto con le altre realtà italiane, Torino e soprattutto il gruppo di «Classe Operaia» e prima i «Quaderni Rossi», non era molto approfondito. Ma il problema vero era quello di una scelta di vita che riguardava prevalentemente dei piccolo borghesi, degli studenti e qualche rarissimo operaio. La matrice dell’esperienza portante era la crisi con il pci, la crisi del ’56, lo stalinismo, l’intollerabilità di quell’ambito come luogo della propria esperienza, dei propri desideri, e quindi il desiderio necessario, biologicamente urgente, di vivere e di fare qualcosa in quello che era considerato il tessuto vivente. Quindi si cercava la fabbrica, si cercavano gli operai perché lì si pensava vi fosse la matrice della realtà. Quindi il discorso sulla fabbrica, sulla produzione, sull’operaio e quindi la vita come un sistema allargato della produzione. Quindi la gente deve riappropriarsi della vita e gli operai hanno nelle loro mani l’elemento determinante della vita perché producono le cose e hanno le conoscenze. Per questa serie di motivi il problema del conoscere non era molto importante perché si pensava che il senso delle cose fosse incorporato nella realtà e soprattutto nella fabbrica. Stabilire con la fabbrica e con le macchine un rapporto positivo attraverso la riappropriazione veniva percepito come un momento pratico ma contemporaneamente anche teorico. Per cui tutto ciò che passava attraverso la parola era considerato come qualcosa di accessorio. C’era una specie di desiderio, non del tutto conscio, di vivere in una dimensione di attualità, anche se il gruppo era estremamente sparuto – la consistenza del gruppo genovese poteva oscillare da cinque persone a quindici. Tuttavia questa dimensione che oggi può apparire drammatica non era percepita così. Anzi, era percepita come una dimensione positiva perché si faceva esattamente ciò che si aveva bisogno di fare e si pensava di essere collocati nel posto giusto nel tempo giusto. Quindi anche il fatto che gli operai fossero pochissimi veniva avvertito come un limite, ma di fatto non era tale da scoraggiare e da far sì che si chiudesse il capitolo, perché si pensava di riuscire a cogliere il significato della situazione. Il fatto di poter parlare con un operaio, di capire un problema e di tradurlo in parole in un volantino e di vedere che dando il volantino in qualche migliaia di copie c’era la corrispondenza, si aveva la percezione di riuscire a cortocircuitare il rapporti fra il pensiero, l’esperienza, la riflessione e la realtà. Non era azione politica ma un modo di vivere. Per alcuni anni quella è stata la nostra vita. Il resto non è che avesse grandissima importanza.

Rispetto ai rapporti con la gente che era in grado di stampare dei giornali, di mettere in piedi riviste, il che era percepito come l’elemento che dava speranza, un passo in avanti, si era capito subito che erano dei mandarini. Anche se stavano un po’ dentro e un po’ fuori dai partiti e teorizzavano in maniera molto radicale, la loro prospettiva si muoveva ancora sul piano della politica. Per cui parlavano dell’opportunità d’intervenire per favorire certe crisi, certe contraddizioni all’interno del pci e all’interno dei sindacati – tutto veniva ricondotto all’interno della politica che era esattamente il contrario di ciò che dicevamo noi. Alla radice della nostra esperienza c’era proprio l’abbandono della politica e la sperimentazione di una presenza e di una attività diretta. E questa attività diretta nella misura in cui si poneva e sussisteva veniva immediatamente in contrasto con il sindacato, con il partito e non c’erano mediazioni possibili. Il sentire questi compagni che, pur avendo praticato la rottura con la burocrazia sindacale, viceversa rilanciavano il discorso della politica a noi appariva intollerabile. A Genova si è mantenuto in piedi, in maniera fluttuante, il lavoro di fabbrica. Era stato pubblicato un testo di un operaio, Ruggeri, il cui capoverso è A passo d’uomo, in cui c’è un analisi del concreto modo di lavorare nella fabbrica. In questo testo viene fatto il discorso che l’organizzazione capitalistica del lavoro è una organizzazione per modo di dire, solamente formale perché di fatto è l’operaio che possiede la conoscenza effettiva, perché la descrizione del padrone e dei suoi tecnici non riesce a stabilire la continuità del vero meccanismo, del vero dispositivo, del vero corpo vivente della fabbrica. Solo l’operaio essendo fisicamente immerso è in grado di stabilire la continuità. Quindi veniva fatto il discorso della riappropriazione da parte degli operai e del rifiuto della scienza del padrone e della mediazione sindacale. La fabbrica era la matrice, l’operaio consapevole che si ribella ed è disposto a riappropriarsi era il prototipo dell’essere umano finalmente pronto per. Questa pubblicazione è stata molto apprezzata all’Italsider di Genova ma nonostante la notevole positività, quel testo non ha prodotto a livello di ricaduta organizzativa assolutamente nulla. Il risultato di questa attività era una positività ambientale, nel senso che quando si andava davanti alla fabbrica l’ambiente era a noi favorevole e avevamo buon gioco nei confronti dei sindacato e dei partiti. Avevamo conquistato un certo diritto al territorio ma non si andava oltre questo. L’ottimismo era giunto fino al punto di poter prendere l’iniziativa di uno sciopero all’Italsider, una fabbrica enorme. A partire da un piccolo reparto formato da venti persone, e sulla base di un analisi e di un giornaletto, viene lanciato uno sciopero che in modo molto conflittuale e con momenti anche drammatici non è riuscito ma si è in qualche modo enunciato. Poi con il ’68 c’è stata l’esplosione di queste cose, il discorso della riappropriazione e del rifiuto della politica è passato da quella piccola esperienza nell’ambito della scuola e dell’università e poi nella generalità dei rapporti sociali.

 

INTERVENTO: Io vorrei raccontare un aneddoto che si collega a quanto dicevamo in questa serata. Per lavoro mi trovo a fare dei corsi di informatica a persone espulse dalla fabbrica, cassaintegrati in corso di riqualificazione. Durante uno di questi corsi ho fatto digitare un testo per esercizio. Siccome in quei giorni circolavano le bozze del Paul Romano io le ho divise e le ho fatte digitare. Alcune persone di quelle che stavano facendo quella esercitazione erano operai ed erano convinti che il testo di Paul Romano era stato scritto l’altro ieri e cioè che fosse uno scritto contemporaneo. L’avevano letto a pezzi e quindi non avevano tutti gli estremi del testo. In particolare sono rimasto a discutere con due persone le quali dicevano che loro non trovavano alcuna differenza.

La questione del tempo è una questione difficile da districare. La domanda a proposito del villaggio dei minatori dove, pare, si trovavano annualmente gli elementi delle correnti rivoluzionarie europee, non è puramente archeologica ma è il tentativo di ricostruire gli elementi di una esperienza, e presi ad uno ad uno hanno un sapore simile a quello che è emerso nel suo racconto: un esperienza che promanava dalla volontà di fare e che oggi noi non possiamo non leggere come facenti parte di un’unica esperienza. Questa traslazione storica da una parte ci deve essere chiara: questi gruppi che sembrano muoversi su uno stesso piano e tessere rapporti tra di loro in realtà ne intessono pochissimi e i rapporti che noi intravediamo probabilmente non sono quelli che pragmaticamente si davano allora. Questo va riferito al principale discorso della serata, Montaldi e l’inchiesta. Dicendo due parole non tanto sulla genesi del libro Bisogna sognare quanto sul modo in cui sono venute fuori delle idee su questo argomento, ci sono le esperienze per così dire maggioritarie dell’operaismo italiano che costituiscono oggi una sorta di grande mito delle origini: lì sarebbe nato un nuovo modo d’intendere l’intervento politico nella classe, l’inchiesta operaia, la quale si articolerebbe sul metodo della conricerca. Intorno alla fine degli anni Ottanta alcune riviste di cui si parlava nel nostro primo incontro tipo «Klinamen» hanno ricominciato a riprendere il tema dell’inchiesta come sorta di chiave di volta, grimaldello metodico, di metodo d’intervento per attuare quel famoso radicamento che noi tutti diciamo di voler perseguire. Invece emerge come molto più realistica una posizione come quella dell’ultimo intervento. Però appunto oggi c’è una particolare considerazione dell’inchiesta operaia come metodo per il quale si vorrebbero avere dei paradigmi. È difficile trovare nel libro di Montaldi la stessa parola inchiesta se non come titolo. L’inchiesta era il modo di vivere che occorreva darsi. Per un militante come Montaldi che si ritrova a Cremona negli anni Cinquanta, con lo stalinismo da una parte ma poi l’esistenza di un partito marxista diffuso nelle organizzazioni di classe, il problema che si poneva era come opporsi allo stalinismo. Ciò non significa semplicemente dire quali tesi politiche opporre alle eventuali tesi politiche dello stalinismo, ma quale pratica reale, concreta, occorre fare per superare questo processo che chiamiamo stalinismo, perché lo stalinismo non è concepito come una corrente politica e tanto meno come una corrente politica che esprime la classe ma con cui elementi della classe possono essersi espressi. Lo stalinismo come processo del distacco, degli elementi di frattura all’interno della classe. Il problema non era quello della ricomposizione di una frattura ma quello di una prassi che fosse esterna e che potesse sottrarsi al giogo dello stalinismo inteso come processo.

Ma il problema su cui vorrei tornare è che l’inchiesta non è metodo ma forma di vita. Il modo di vivere di Montaldi sul fiume rientra nel fatto che lui era radicato lì, cercava di radicarsi e sradicarsi contemporaneamente, entrare nella situazione per poter cogliere gli elementi della situazione esemplari per un proletariato inteso nella sua maniera più universale. Quando si parla di Cremona non si può pensarla come una realtà periferica. Per Montaldi Cremona era il cuore di un segreto storico, la genesi storica del fascismo. Lui dice in uno dei suoi testi: non c’è modo di capire il fascismo in Italia, non come evento politico ma come processo, se non si capisce che cosa è successo a Cremona, nel Mantovano e nel Cremonese. Perché in questa zona, per una particolare sedimentazione storica, non c’è un movimento contadino, c’è un movimento proletario nelle campagne che si sviluppa in un microcosmo, che è però tale solo in una visione traslata di tutta la faccenda, di tutte le forme dell’organizzazione politica, ma non solo politica, della classe. È contro questo sedimentarsi di esperienze, d’organizzazione, di autonomia, che Cremona diventa il cuore del fascismo, che non potrebbe essere compresa in termini comunitari – l’appartenenza del fascismo cremonese alla comunità cremonese – come i cremonesi stanno facendo in questo momento – a Cremona stanno fiorendo studi sul fascismo, proprio per la sua collocazione, e la tendenza, per esempio il libro che si intitola Farinacci e i cremonesi, cerca di fare una storia del fascismo cremonese come interno alla comunità locale.

Non si tratta di intervenire nella comunità locale per insediarvisi ed essere in qualche modo i conservatori di un mondo folklorico che essa esprime, ma di farla finita con l’atteggiamento folklorico nei confronti di quelle che sono le espressioni delle classi cosiddette subalterne e di cogliere all’interno di queste sedimentazioni la storia dell’esperienza proletaria. Proprio perché questa storia permette di ricollocarsi continuamente nel presente e di sviluppare gli elementi dell’inchiesta intesa come modo di essere. Il libro in generale, ma tutta questa serie di seminari, dovrebbe mettere in risalto di più questo aspetto perché questo aspetto viene ad essere nascosto, sottovalutato, considerato quasi un elemento letterario della faccenda quando è l’elemento di fondo.

Quando Montaldi nel ’75 muore stava lavorando a una grande inchiesta sulla nuova classe operaia e si connetteva a quell’altro partito marxista della classe, che era la gente che girava nei gruppi, in particolare in Avanguardia Operaia anche se credo sia stata più una questione di contiguità che una questione di riconoscimenti reciproci. Ci sono queste lettere che furono pubblicate sui «Quaderni Piacentini» subito dopo la morte, in cui Montaldi cerca di dare forma al gruppo di lavoro che aveva creato. In una di queste lettere dice: bisogna rompere con l’invenzione di un proletariato sociometrico, il proletariato sociometrico non esiste. È il risultato di un trattamento che la massa proletaria riceve da parte di determinati saperi, che sono i saperi dell’organizzazione nel suo senso più vasto.

Il problema dell’inchiesta, il problema della conricerca è il problema della conoscenza della forma di vita, di quella specificità di forma di vita che attraversa una storia e nel raccontare questa storia prima di tutto ottiene un risultato per se, il risultato di raccontare la propria storia quando potrebbe non raccontarla mai, e in secondo luogo ottiene un risultato in un altro che attraverso questi percorsi conosce quelli che poi erano i processi reali di un individuo negli anni Venti, quale era la sua tecnica di sopravvivenza, in che modo organizzava quotidianamente la sopravvivenza. Tutti questi aspetti non vengono registrati nel discorso post-operaista. Prima di tutto per un atteggiamento di sufficienza nei confronti della sinistra comunista. È straordinario come questi gruppi, questi teorici siano vissuti in contiguità con una esperienza ricchissima della tradizione rivoluzionaria senza conoscerla, senza averla in qualche modo collocata in un ambito di relativa inoffensività.

Invece è molto importante il lavoro che fa Montaldi soprattutto nei primi scritti di questa raccolta che è un lavoro di commiato da questa esperienza. Montaldi nello stesso tempo dice la sua appartenenza a questa esperienza, la ricorda in vari punti ma nello stesso tempo pur scrivendo sull’organo ufficiale della corrente bordighiana va ad attaccare tutti gli elementi fondamentali del loro sapere. La sua proposta fondamentale era quella di raccogliere tutta la sedimentazione teorica che veniva da questa esperienza per riportarla ad una nuova impresa di conoscenza. Cioè, è assurdo che i gruppi della sinistra comunista si tengano il loro sapere teorico e storico come appannaggio del gruppo ristretto ma bene o male devono porsi il problema dell’intervento. Lui personalmente aveva sviluppato l’idea di una grande impresa di conoscenza che doveva attraversare diversi segmenti della classe ed ordina in maniera metodica i cosiddetti emarginati, ma non vuole essere uno storico dell’emarginazione. Lui rifiuta la categoria di storico dell’emarginazione: passo, scrive Montaldi, come uno che in queste cose ci sguazza in realtà non c’è nulla che sia più lontano da me come l’esaltazione delle marginalità, ma si tratta di conoscere quali sono le diverse configurazioni che le forme di vita possono assumere all’interno di una situazione storica. E allora ecco i marginali, i militanti politici di base e, infine, la nuova classe operaia delle fabbriche.

Ancora qualcosa sui militanti politici di base. I militanti politici di base si apre con una introduzione in cui si dice: i rivoluzionari vivono al di fuori della realtà, cioè non vivono la stessa realtà degli altri. Questa è la sua contraddizione, questo è il suo sapere, questo è il suo problema ecc. Il suo incubo, in una certa misura. Questo vivere fuori è l’esatto contrario del problema del radicamento. È il problema del radicamento visto da un altro punto di vista, un punto di vista per il quale la figura del militante rivoluzionario si costituisce per delle motivazioni del tutto personali all’interno di una determinata situazione. Perché possano divenire esperienza rivoluzionaria deve avere luogo una impresa di conoscenza e questa è precisamente la prassi per cui non c’è il momento separato dell’elaborazione della teoria e il problema poi di convincere della giustezza di questa teoria, ma c’è il problema di penetrare nella realtà superando questo genetico stato di relativa separatezza che la posizione rivoluzionaria costituisce. Quindi i problemi dell’inchiesta o dell’intervento sono i problemi che hanno avuto in Montaldi la problematizzazione più complessa e nello stesso tempo quella più vicina a noi.

Ci sono vari modi di leggere Bisogna sognare, uno potrebbe essere il secolo di Montaldi. Montaldi, a pezzi, a brani ricostruisce un secolo che approssimativamente parte nel 1905 e approssimativamente si conclude con la sua morte. Cioè il secolo dei consigli operai, il secolo di questa forma politica con la quale un rivoluzionario si trova in continua relazione. In tutta questa esperienza c’è uno strato che nasce, si forma, viene represso e si ricostituisce di militanti politici di base. Se noi riflettiamo su questo ci troviamo a pensare che questo strato non è più quello con cui Montaldi interagiva né noi lo siamo. Non c’è più la forma politica su cui questo segmento sociale si è andato costituendo, il consiglio operaio. Quindi, il problema del leggere oggi Montaldi se non è un problema meramente di conoscenza su che cosa dicevano venti anni fa o trenta anni fa è esattamente la problematizzazione dell’oggi, non intendendo che lì ci sarebbero gli elementi per capire la composizione dell’operaio post-fordista ma perché è la problematizzazione più adeguata al problema in cui noi siamo.

 

BLANCHARD: Sono del tutto d’accordo con le cose che hai detto. Vorrei aggiungere una cosa a proposito del senso dell’inchiesta. L’esprimersi di un operaio era concepito come l’inizio dell’autonomia della classe, di un individuo della base. Non era solo un modo d’essere. Ma vorrei insistere sull’aspetto microcosmico del funzionamento di questi microgruppi che erano «Socialisme ou Barbarie», il gruppo di Montaldi ecc. Perché la nostra ambizione che era completamente sproporzionata ai nostri mezzi era di avere un atteggiamento il più possibile in conformità con gli obbiettivi che concepivamo, come la società rivoluzionaria. Il modo d’organizzare i gruppi doveva essere sul modello dei consigli operai, non dare la parola ma aiutare gli operai ad esprimersi era un modo di iniziare la loro autonomia. Così, questa inchiesta era non solo un modo di essere ma un modo utopico di essere.

INTERVENTO: Di solito a questi convegni non sono mai seguite inchieste operaie vere e proprie e comunque anche le più celebri come quelle dei «Quaderni rossi» hanno investito non più operai di quanti ce ne stanno sulle cinque dita di una mano. C’è una sproporzione tra gruppi di persone che in certi momenti si costituiscono su certi progetti e che poi per misteriosi motivi, sicuramente non per la loro incisività, si scopre la loro importanza a posteriori. Quindi è interessante rilevare la sproporzione tra consistenza numerica, livelle di coscienza, quantità materiale di cose e di atti prodotti e poi la corrispondenza che c’è e che secondo me va sottolineata non in senso riduttivo come forse è stato fatto questa sera. Non credo che sia irrilevante anche se non è determinante. Questo anche per dire che l’importanza dell’iniziativa che si prende non dipende dalla forza organizzativa. Semmai la forza organizzativa è la diffusione, è il costituirsi delle cose come movimento ed è poi l’esito finale da non considerare come rapporto causa-effetto. Sempre nello spirito di quello che si diceva prima circa il valore effettivo della teoria operaista di ribaltare la storia e la consistenza reale delle azioni degli uomini, che non è quello che il gruppo organizzato che determina i movimenti storici, che è poi un’altra maniera della spiegazione borghese dei processi storici, o deterministici o come prodotto di singole individualità determinanti. Questo ha significato anche un ribaltamento del concepire le cose che fai non in una dimensione privata ma come dimensione pubblica, cioè del non concepirle come irrilevanti perché le fai come individuo e non come militante o esponente di una organizzazione. È importante, come dicevano i situazionisti, essere al momento giusto nel posto giusto, poi le cose vengono da se.

Gianfranco Fiameni: il gruppo cremonese: militanti e ricercatori; il problema del rapporto politico e conoscitivo con il territorio.

 

Oggi cercherò di centrare quello che dico sulla presenza di Montaldi in Unità Proletaria, perché per molti aspetti Unità Proletaria vuol dire anche Montaldi che è un cofondatore e che ha lavorato sempre in Unità Proletaria. Ci sono nella fase di preparazione del gruppo di cui parlerò, degli interessi specifici su questo che noi adesso chiamiamo problema del territorio, anche se l’espressione non è degli anni Cinquanta. Il problema del territorio nasce dopo gli anni Sessanta e comincia a venire formulato come problema del territorio. Posso tornare a Montaldi a partire da questo problema. In che senso? Nel senso che per quanto riguarda noi, abbiamo realizzato degli studi e delle inchieste comparse su una rivista che era «Presenza», a opera di Rozzi, di Montaldi, di Romano Alquati e mia. Quella di Rozzi sui cantieri scuola, che è stata un’emergenza territoriale, economica e sociale degli ani Cinquanta; quella mia che è stata un articolo piuttosto pionieristico sugli studenti, allora facevo il maestro in un paese tra il Cremonese e la Bergamasca; quella di Romano Alquati, ch’era piaciuta molto a De Martino, sull’interpretazione di una festa contadina e una serie di cose di Montaldi che peraltro coordinava tutto questo lavoro. Tutto questo è un lavoro che aveva a che fare con il territorio.

Seconda tappa. Se dovessi parlarne, parlerei di quella che è stata, non solo secondo me, una delle prime grandi inchieste sul territorio urbano che è il libro di Montaldi Milano Corea. Lo dico perché posso citare delle autorità come Aldo Rossi, il quale negli scritti sulla città dice che l’unico che aveva capito che il problema urbano non era più il problema delle periferie come invece era impostato e dal pci e da quelli che allora nella Facoltà d’Architettura s’interessavano della città e del territorio. L’unico che aveva capito che il problema era diverso era Montaldi, il quale non era un urbanista, che però riesce a scrivere in Milano, Corea delle cose che gli urbanisti stessi riconoscono come qualcosa di importante.

Adesso mi sposto sul Gruppo di Unità Proletaria del quale devo parlare oggi. So che sarò deludente ma mi tengo su un terreno quasi completamente informativo, cioè non vado molto sul terrene dell’interpretazione. Anche per un motivo molto serio: siccome il Centro Luca Rossi ha stampato recentemente il libro degli scritti sparsi di Montaldi e molti di questi scritti hanno a che vedere con il territorio, con l’inchiesta operaia, con l’esperienza operaia e con tutta questa serie di cose, supponendo che voi li conosciate, li potete mettere in parallelo con quanto io vado dicendo su un piano completamente fattuale cercando di interpretare il meno possibile e raccontandovi semplicemente che cosa ci è successo a Cremona più o meno dal ’53 fino a quello che Bellocchio ha la bontà di chiamare i primi gruppettari d’Italia. Lo dico un po’ ironicamente, naturalmente. Per farvi capire. Però voi giustamente sarete interessati anche all’interpretazione di queste cose e allora anche questo riservandomi di parlarvene in un altro momento vi dico che nel libro del Centro Luca Rossi ci sono almeno tre o quattro articoli di Montaldi che parlano delle caratteristiche del gruppo esterno e che recentemente sono usciti due libretti di Romano Alquati che parlano dello stesso argomento: uno che riecheggia il titolo Bisogna sognare, l’altro, che non ho ancora avuto, che parla di questa esperienza.

Di solito si fa risalire, nel dopo guerra, una certa presa di coscienza al 1956 che vuol dire la rivoluzione ungherese, che vuol dire i fatti di Polonia, che vuol dire la prima grande crisi che coinvolge i partiti della sinistra in Italia. Su questa data, che ormai è diventata una data canonica, Montaldi è in dissenso. Egli dice, cito a memoria ma il senso è questo: la presa di coscienza la farei risalire al ’55 e non al ’56 sulla scorta di un certo numero di avvenimenti internazionali come tutto il movimento di disubbidienza per la guerra d’Algeria, le lotte a Berlino nel ’53 e tutta una serie di lotte nelle campagne, sulle commissioni interne e sulle condizioni operaie. Allora, il ’55 o il ’56? Sulle caratteristiche di questa presa di coscienza, nel libro di Montaldi troverete alcune cose.

Per illustrare la figura di Montaldi vi dirò che da quando io l’ho conosciuto nel ’53 a quando è morto Montaldi è sempre stato membro di un gruppo politico, per l’esattezza di tre: Unità Proletaria, il Gruppo Karl Marx, e un po’ più lateralmente il Comitato d’Agitazione Studenti, Operai e Insegnanti. Dico questo per segnalare subito una caratteristica: parliamo infatti di un intellettuale che è sempre stato nei fatti minuti un militante, con delle forme di militanza che oggi potrebbero essere ritenute rigide ed eccessive. Ciò comportava riunioni settimanali, ne abbiamo sempre fatte e io ne ho contate almeno cinquecento, riunioni strutturate, voleva dire che c’era qualcuno che teneva dei verbali che ci sono ancora tutti, vuol dire che c’era una disciplina interna, vuol dire che c’era una suddivisione dei compiti, vuol dire che in casi specifici quando c’era una certa lotta le riunioni potevano diventare moltissime, con dei compiti ben precisi per gli appartenenti al gruppo. Dico questo per accostare all’impegno intellettuale quello militante. Montaldi di queste due cose è stato capace di farne una sola o, veramente, due aspetti inscindibili della propria personalità.

Ritornando indietro, Unità Proletaria dura dal ’57 al ’62, ha prodotto una certa letteratura di cui la prima parte, dal ’57 al ’59, è la parte che interessa di più e più o meno direttamente rispetto a quello che è il tema di oggi. L’inchiesta operaia e la conoscenza del territorio è fatta soprattutto di volantini di intervento. Dal ’59 in poi i volantini vengono affiancati da un giornale che si chiama «Unità proletaria» e oltre al giornale da un certo numero di documenti e di quaderni. Essi sono una elaborazione collettiva del gruppo, molto spesso la redazione materiale viene affidata a questo o a quel compagno ma sempre vengono discussi nelle riunioni nelle quali Montaldi partecipa in modo assolutamente paritetico anche se poi il suo peso è più che rilevante.

È una curiosità, ma visto che siamo a Brescia lo dico un po’ en passant. C’è stata una parentesi bresciana. In Val Trompia alla Glisenti calcina c’è stata una serie di interventi, soprattutto miei perché avevo una zia che abitava in zona, con altri compagni che avevamo trovato al momento. Stranamente ci eravamo incontrati qui con della gente che aveva fatto una roba al teatro sociale e che ci aveva proposto, quando dico chi c’era tra questi vi mettete a ridere, di fare un lavoro con quelli che chiamava i giapponesi d’Italia. Uno dei proponenti era Sandro Fontana che poi è diventato deputato dc e direttore de «Il Popolo».

La fase di preparazione del gruppo è forse una delle cose più interessanti ed è quella che va dal ’55 al ’59, che è conosciuta ma in modo lievemente distorto dopo l’uscita del volumetto di Alquati. Questa fase è quella che vi interessa di più perché è quella che sta dalla parte della conricerca e sulla problematica della conricerca. Alquati molto spesso da per scontate convergenze e somiglianze che non sempre ci sono. Però, siccome per lui ha un interesse centrale sia per il mestiere che fa, insegna sociologia a Torino, sia perché la reputa anche una sua invenzione, ed è anche vero, questo provoca una aberrazione nel senso banale, ottico del termine, nel senso che ci sono due modi di vedere le cose che confluiscono con l’inevitabile parzialità delle visioni personali. Questa fase è stata caratterizzata da una accentuata progettualità sia personale che collettiva che si è incontrata con tutta una serie di rapporti che venivano dall’estero: i fatti dell’ottobre ma anche il libro di Sarel sui moti tedeschi, tutto quanto veniva dalla Francia sul moto contro la guerra d’Algeria, tutta una serie di fenomeni di stampo europeo e anche qualcosa di molto italiano. Prima che nascesse il primo nucleo di quello che sarà il «Gruppo di unità proletaria», Montaldi aveva dato origine ad una specie di pre-gruppo informale di cui facevano parte Alquati, Maria Luparini che forse non conoscete ma è una donna piuttosto interessante – è per esempio non solo la protagonista di un paio di film di Godard ma anche l’autrice della sceneggiatura di Prima della rivoluzione di Bertolucci – un altro personaggio che adesso insegna in Sudafrica che era Ermanno Gardi. In questa sorta di pre-gruppo c’è una voglia di rinnovamento e di mettere insieme qualcosa di nuovo. Siccome là in fondo vedo che c’è il segno dell’anarchia e siccome non l’ho mai detto e siccome, invece, va detto, ricordo che non solo Montaldi è sempre stato abbonato a «Volontà», ma ha sempre ritenuto, come noi tutti del resto, che la componente anarchica fosse assolutamente essenziale per il movimento operaio. Scusate questa parentesi ma mi rendo conto che se no finisce per essere una cosa ultrabolscevica e io non ho nessuna intenzione di farla diventare in questo modo.

Danilo Montaldi in uno degli articoli disse una cosa che si tende a dimenticare e che invece è molto importante: negli anni Cinquanta, dice, non c’era una città dove non ci fossero dei gruppi connotabili alla sinistra del pci, gruppi che appartenevano alle organizzazioni della sinistra comunista, i vari partiti comunisti, i bordighisti, quelli di «Battaglia», gli internazionalisti. Io ricordo a Cremona nel ’52 un comizio di Onorato Damen, vale a dire un dichiarato oppositore della linea comunista, con piazza del Duomo piena di bandiere rosse. È stata una roba che ha sconvolto i burocrati del partito, ci saranno state non meno di ventimila persone venute con dei pullman, che sapevano benissimo chi era Damen, sapevano benissimo chi genericamente venivano chiamati gli internazionalisti senza fare molta differenza tra i bordighisti, quelli di «Programma» e quelli di «Battaglia comunista», ma comunque erano lì. Ora è vero che a Cremona c’erano state delle situazioni particolari, c’era stata della gente come Ferrari, c’era stato Seniga e tutta una serie di persone. Ferrari s’era fatto la galera come capo dell’ufficio illegale del pci durante il fascismo. Ma, c’era anche a Brescia e a Mantova una situazione del genere che però si è dissolta in pochi anni e questa presenza di massa aveva di fianco tutta una serie di gruppi più piccoli ma in qualche modo organizzati. Come è andata a finire questa vicenda? Direi che le righe finali del libro sul pci di Montaldi (la concludono) senza poter spiegare peraltro che questa è stata una vicenda sconfitta, non voglio dire perdente ma sconfitta. Dovrebbero avere, diciamo così, qualche indagine più approfondita sul piano storico.

Tutto questo cappello per dire che a Cremona le cose sono andate abbastanza diversamente. Oggi Cremona è una città che non esiste da questo punto di vista ma se certe cose sono nate lì non è del tutto a caso; Cremona è la città di Farinacci durante il fascismo, da un certo punto di vista della seconda anima del fascismo. Più ancora che Balbo, più ancora che gli altri, più ancora delle storie ferraresi, quelle cremonesi da questo punto di vista sono differenti. Cremona è la città dove c’è un giornale nel periodo del regime fascista nel quale finiscono per scrivere dei personaggi che saranno poi la destra estrema del fascismo, quelli che poi saranno gli uomini dei tedeschi; è una città nella quale il 26 aprile esce l’ultimo numero del «Regime fascista» con su scritto: ‘Ritorneremo’; è la città nella quale si sono scontrati le leghe bianche di Miglioli e le leghe rosse e i soresinesi. Cremona è una città che presenta un nodo particolare di memorie storiche e di presenze. È la città nella quale noi lavoriamo,  insieme a Bottaioli direttore responsabile del giornale di Damen, che viene dalla Francia, insieme a Gugielmetti, e insieme a tutta un’altra serie di personaggi, lui stesso responsabile insieme a suo fratello dell’ufficio illegale del pci in Sicilia fino a che è stato costretto a scappare in Francia. Insomma, ci sono delle presenze di questo tipo, molto eterogenee se vogliamo ma che compongono un quadro molto particolare. E dopo c’è Montaldi. Allora, noi, quando dico noi intendo un certo gruppo di militanti del Partito comunista internazionalista di Damen, quelli di «Battaglia», un paio di Bordighisti, quelli ritornati dalla Francia, alcuni anarchici come Bonini ecc., Montaldi e un certo numero di giovani usciti dalla Resistenza e due con le braghe corte come me e come Alquati che si sono trovati lì, alcuni ragazzi che pure si sono trovati lì, eravamo un gruppo di persone molto eterogeneo che visto adesso non si sarebbe mai messo insieme se non ci fosse stato Montaldi. Il quale aveva abbandonato la scuola due o tre anni prima, che si era messo a studiare come un disperato, che aveva già individuato una sua strada che vi interessa molto, naturalmente, quella che costeggia, fiancheggia e si interseca e prende dentro anche l’inchiesta operaia, mette insieme intorno ad un progetto d’intervento tutta questa disparità sia individuale che politica. I primi due anni, quelli che vanno fino al ’57 se volessimo descriverli dovremmo descriverli, utilizzando il linguaggio pomposo di oggi, come due anni di tentativi di riduzione della complessità o di riduzione di queste diversità. Questo a livello teorico si fa con delle formule o si fa con dei processi molto rarefatti, ma quando si mettono insieme degli esseri umani le dinamiche sono largamente […]. Ma tenete conto anche chi erano questi compagni e lo dico perché vi rendiate conto che è stata una cosa difficile, questi compagni, internazionalisti e tutto il resto, sono quasi sempre dei militanti stimabilissimi che molto spesso hanno dato moltissimo anche sul piano personale. Molti di loro sono stati in galera, molti hanno fatto la montagna, altri hanno fatto altre cose. Vengono fuori da una tradizione di estrema rigidezza che è l’altra faccia della medaglia di un forte impulso alla militanza, quella che, un po’ caricaturalmente, potrei chiamare militante di professione. Bottaioli lo era di sicuro, lo era stato proprio nei fatti; Ferragni lo era stato proprio nei fatti, vale a dire che erano proprio dei militanti che il partito aveva inviato uno in Sicilia l’altro a Roma. Ferragni è stato beccato nel primo «processone»; Giovanni ha fatto in tempo ad andarsene fuori dai coglioni prima che lo beccassero, lui e suo fratello. Però in Francia, di nuovo fino a quando si sono scontrati con tutti quelli andando fino alla svolta di Lione, hanno fatto i militanti di mestiere. Qui bisognerebbe andare sulla fenomenologia del militante senza voler fare dello psicologismo a buon mercato ma capire tutta una serie di cose che in parte attendono alla politica e a una cultura politica che aveva fatto della discriminante, anche a livello personale, un comportamento e chiunque abbia conosciuto questi militanti lo sa: uno poteva metterti lì in mezzo durante una riunione i ventuno punti dell’Internazionale e dirti: tu sei di qua e io sono di là e in mezzo ci stanno i ventun punti dell’Internazionale, lì c’è la discriminante e finiva qualsiasi discussione. Tutto questo può essere facilmente considerato un vizio del politico, però, da un altro punto di vista, è anche un modo di essere, uno strumento che una serie di persone che si sono trovate in situazioni di grande difficoltà, non tanto quelle dell’immigrazione francese, ma altri in situazioni molto più difficili, si sono trovate a dover usare per la propria sopravvivenza mentale, per la propria sopravvivenza fisica, per la propria sopravvivenza politica. Alla fine finiva per diventare un comportamento, un fattore di riconoscimento, un fattore di ascrizione e tutto quello che voi volete dire intorno a questa cosa qui come struttura di appartenenza. Per dire che di là ci si poteva trovare davanti a una cultura politica di questo tipo, una cultura politica che aveva un sottofondo non disprezzabile che va giudicato, che va analizzato che va considerato in tutta la sua interezza, che è quello che noi di solito chiamiamo, e che si chiamava allora, il patrimonialismo politico che è poi il tipo di argomentazioni e il tipo di obiezione che ti può essere fatta in una discussione in cui stai semplicemente di mettere assieme un gruppo di lavoro.

Danilo disse, da qualche parte, una cosa bella: tu stai parlando di una fabbrica, della possibilità di fare qualcosa, della possibilità di fare inchiesta e c’è uno che tira fuori dalla tasca Proudhon o Lenin e te lo gioca sul tavolo come una briscola e tu sei già fregato. Avete capito quello che voglio dire, no? Con tutto questo nessuno potrà mai dire che non si possa riflettere su Proudhon, che non faccia parte della vita di un militante riflettere sulla storia passata del movimento operaio, sulla storia passata del movimento comunista. Nessuno potrà mai invitare nessuno a disfarsi di un patrimonio politico culturale accumulato, vissuto e in qualche modo organizzato dentro la propria vita. Io credo che questo atteggiamento era ben esemplificato da certi titoli dei giornali bordighisti, titoli lunghi tre righe nelle quali si diceva cose di questo genere: contro tutti i liquidatori dell’immarcescibile teoria ... e poi siccome Bordiga non si firmava più tutti dicevano Lui, per via del culto della personalità e scriveva dei libri che tutti sapevano che erano suoi. Per dire che le persone con cui avevamo a che fare, il tipo di militante con cui avevamo a che fare, apparentemente poteva sembrare il militante più adatto per la sua cultura pregressa, per quello che aveva dietro, per il patrimonio di esperienze che aveva maturato un po’ dappertutto e quando te li trovavi così erano persone che ti raccontavano, che ti davano tutta una serie di dritte capaci di orientarti nelle situazioni difficili. Ma era anche il tipo di militante molto poco sensibile alla novità, molto poco sensibile al momento del rovesciamento di se stesso, molto poco sensibile alla potenza del negativo quando la potenza del negativo mette in questione te e la tua cultura.

Il problema più grosso dentro lì è il problema dello stalinismo, e il problema dello stalinismo come è visto da questi compagni. Ricordo che un giorno io e Danilo avemmo proposto al gruppo che avremmo voluto parlare dello stalinismo prescindendo da Stalin, dicendo che secondo noi il problema dello stalinismo ormai non aveva più nulla a che fare con Stalin ma che era stata una certa formazione politica e sociale che a noi interessava proprio nella misura in cui si sarebbe riusciti a non parlare di Stalin. Allora, si sarebbe riusciti a parlarne come di qualcosa di enormemente organico che aveva dato origine addirittura a delle formazioni sociali senza riferirci necessariamente a Stalin, con il vantaggio, secondo me e secondo noi, di poter parlare della Russia e dell’Italia, del togliattismo, dello stalinismo. Nemmeno questo per dei compagni di quella cultura era facilmente accettabile. Tutto questo è stato un enorme lavoro, visto adesso, e mi stupisco perfino che l’abbiamo fatto, un enorme lavoro continuo di chiarificazione. Ma alla fine, e soprattutto, la proposta che va nel senso dell’interesse dell’inchiesta operaia: mettere tra parentesi Alma Ata e tutto quello che era successo e ricominciare partendo dal proletariato, partendo dalle fabbriche, partendo da queste sicurezze, assumendo casomai tutto il resto secondo quello che saremmo venuti scoprendo in questa roba qui. Finalmente, questa cosa passa e allora il gruppo si costituisce, ma stavolta non deve più fare i conti con i militanti e con i quadri del pci e del sindacato. Noi ci troviamo a dover spiegare perché, unici in tutta la sinistra, non accettiamo alcuna forma di entrismo, perché vogliamo costruire un gruppo. Qui siamo paradossalmente aiutati dal tipo di lavoro che cominciano a fare – se voi siete interessati alla figura di Montaldi tenete presente e se leggete Paul Romano lui ve la dà, Montaldi è un sociologo, Romano è un sociologo. Montaldi è un sociologo e Bologna dice che non c’è peggior vigliaccata che dargli del sociologo. Il che è vero perché era molto di più. Però per vivere, molto male, molto poveramente come ha sempre vissuto doveva fare, oltre le traduzioni di libri per la Feltrinelli e per altri, dei lavori di sociologia. Naturalmente non c’era soltanto questo. C’era tutto questo orizzonte dell’uso marxista della sociologia. Non una sociologia marxista, non l’avrebbe mai detta una cosa di questo genere, perché è una cosa molto diversa l’uso marxista della sociologia, che in quel momento costituisce un nucleo di discussione e di dibattito. Comunque, tutti quanti, sociologi e non, cominciavano a dire che non ci si può muovere se non conoscendo le realtà di base. Esito un po’ a dire le realtà di fabbrica, perché per Brescia andrebbe benissimo, ma Cremona in quel momento non è una città industriale. Cremona è una città un po’ strana con una agricoltura che si sta rapidamente trasformando dopo la grande botta del 1953 e l’abolizione dell’imponibile di manodopera in agricoltura. Voi sapete che dal ’53 ogni azienda agricola era obbligata ad assumere un numero di addetti in proporzione alla sua estensione e le lotte per l’imponibile costituiscono un grande capitolo del dopoguerra italiano fino a che nel ’53 l’imponibile di manodopera viene abolito. Le campagne liberano, in questo caso verso Milano, la prima emigrazione, che è poi quella che costruisce le Coree e libera un enorme riserva di manodopera. Mano a mano che la manodopera va via dalle cascine il padrone meccanizza, l’agricoltura cambia completamente. L’agricoltura intesa come un complesso di pratiche codificate, in qualche modo legate al valore dell’uomo, finisce nel ’53 e da qui comincia un altro tipo di agricoltura, fino a qualche anno fa quando comincia un’altra storia ancora – ma di questo Crainz ve ne parla molto bene se leggete quello stupendo libro che si intitola Padania che racconta questa storia dei contadini secondo me al meglio, su tutta la Padania non soltanto sul Cremonese.

Davanti a tutte queste trasformazioni bisogna andare a conoscere le fabbriche e allora ci dividiamo i compiti. Avevamo un problema delle donne perché a Cremona c’erano molte ceramiche, molta manodopera femminile. A lungo non abbiamo avuto compagne che ci potessero dare informazioni, che potessero sostenere la nostra azione. Poi, finalmente, anche lì con tutta una serie di cose che sono state fatte le abbiamo trovate. Alla fine si può dire che avevamo praticamente dei punti fissi in quasi tutte le commissioni interne, e possiamo quindi cominciare a lavorare su delle situazioni interne alle fabbriche. Questo ha voluto dire fare tutta una serie di volantini che sono in qualche modo, presi uno per uno, episodi di inchiesta operaia, perché prima si tratta di mettere giù tutta la scheda della fabbrica, prendere contatto con chi ci lavora, elaborare insieme a loro con degli episodi anche alti. Per esempio con degli operai che ci hanno portati dentro in fabbrica e per cui ci siamo presi delle denuncie. «L’Unità» è saltata fuori nel ’59 con due articoli: chi li paga, chi sono costoro ecc. Però noi eravamo della gente che era riuscita a strappare, ed era proibito allora, non era possibile farlo, la riunione della commissione interna in fabbrica, presi di peso, portati dentro, imposti ai sindacalisti i quali qualche volta se ne sono andati via qualche volta hanno dovuto tollerarci, e ogni volantino era un prodotto in questo senso. Questo periodo dura due anni, alla fine dei quali abbiamo una specie di scrematura: alcuni compagni del Partito Comunista Internazionalista non ci stanno più. Qualcuno di loro vede che ormai il gruppo ha una vita propria e comincia ad avvertire che su certe cose noi non ci siamo più. La cosa finisce malamente, con uno scazzo terribile con Damen, e un certo gruppo di questi abbandona. Contemporaneamente, a livello di fabbrica si sono solidificate tutta una serie di situazioni e anche parecchie situazioni femminili molto dure. In queste fabbriche di ceramica veniva fabbricato un prodotto molto raffinato, perché erano proprietari di una cava di un caulino molto buono però anche molto volatile. Quindi, è una storia continua di silicosi, e come voi sapete uno che ha la silicosi potrebbe più o meno fare il conto di quando muore, e noi abbiamo avuto due o tre compagne in queste condizioni, che ogni tanto ti dicevano di avere ancora sei mesi di vita. Adesso viene tenuta dentro con dei vetri per cui viene fuori quando è già impastata e le possibilità di beccarsi la silicosi sono molto minori. Accettare di lavorare lì significava accettare un notevole rischio statistico di lasciarci le penne. Era molto difficile in questa situazione, lo dico perché ci sono delle donne che magari sono interessate al problema, far emergere un vero e proprio problema femminile dal nostro lavoro. Sono uscite delle situazioni di donne lavoratrici, ad un certo punto ne abbiamo avute anche parecchie, una quindicina che venivano alle riunioni e che poi vengono in fabbrica a distribuire dei volantini con delle situazioni continuamente da studiare. Una volta hanno portato i volantini in fabbrica, li hanno messi in un armadietto, il padrone ha scassinato l’armadietto e ha trovato i volantini. Portare volantini in fabbrica era impedito dal contratto di lavoro così il padrone le ha dovute licenziare, quindi poi c’è stato lo sciopero per farle riammettere ecc. Il periodo nelle fabbriche significherà un periodo di conoscenza abbastanza organica del territorio e non parlo di una sommatoria di informazioni che erano le informazioni che noi potevamo raccogliere sul problema delle fabbriche, ma di qualcosa di più: sui comportamenti operai interni. Questo vuol dire anche tutto un lavoro di interpretazione, e vi rimando, in mancanza di meglio, al lavoro di Danilo come pure potete leggere nel libro del «Luca Rossi», Caratteri del gruppo esterno.

Forse oggi è poco comprensibile perché io insista sulla questione del dentro e fuori, perché negli anni Cinquanta, se solo pensate cosa era la presenza del pci e del psi, anche se molto meno, la presenza dei partiti o del movimento operaio organizzato, porlo addirittura il problema di essere fuori, e noi eravamo fuori non come poteva essere fuori uno dal Partito Comunista Internazionalista, che era in qualche modo più comprensibile per il partito, poiché il pci sapeva dell’esistenza di gruppi alla sua sinistra. Voi sapete la parola d’ordine che ha improntato sempre la politica di Togliatti e di Stalin: nessun concorrente e nessun nemico alla nostra sinistra. Ma erano quattro sfigati, quattro o cinque gruppi che magari avevano una presenza storica, ma da questo punto di vista il togliattismo è riuscito in pieno fino alla morte di Togliatti ma anche oltre a non aver nemici alla propria sinistra. Proporsi di essere alla sinistra del pci. Avevamo anche noi forgiato la nostra bella frase: fuori dal partito ma dentro la classe, cercare di farlo davvero con una fisionomia che non aveva altro da proporre che delle problematiche: ma chi siete voi? e un altro poteva rispondere: faccio parte de «L’Impulso», quelli di Genova, oppure sono di «Azione comunista», oppure sono questo e quell’altro. Esterni ma dentro una formazione, ma tu non potevi rispondere nemmeno questo: Che cosa sei? Siamo della gente che vuole fare ecc.

Questa dinamica fra interno ed esterno per noi non è stata molto drammatica dal punto di vista della appartenenza al partito, ma dal punto di vista dell’azione sindacale è stata quella che ci è sempre stato proposto come una sorta di prova. In questi due anni, non dai compagni politicizzati ma dagli operai, ci è stato chiesto di lavorare nel sindacato. Fino a che è abbastanza chiaro che non possiamo eludere questa storia, nessuno lo voleva. Allora proponiamo di discutere insieme, tutti i compagni e tutti gli operai, una sorta di piattaforma: Noi ci entriamo anche nel sindacato ma a fare che cosa? Voi dite che ci sono cose che non vanno, che il sindacato per certi versi non è lo strumento di classe ecc. Se noi entriamo lo facciamo come una sorta di frazione, però come portatori di tutta una serie di cose che stabiliremo insieme. Questa cosa ha tirato in ballo tre o quattro mesi di discussione e alla fine abbiamo prodotto, c’è l’ho ancora da qualche parte, un documento in dieci punti, che i compagni operai si sono premurati di recapitare al sindacato dicendo che noi eravamo disposti, e in effetti fino a questo punto non ci chiamavamo neanche gruppo, a discutere questi punti, e a lavorare dentro il sindacato se il sindacato in qualche modo ci avesse accettato come portatori di questi punti. In questi dieci punti ce ne erano alcuni che avevamo elaborato insieme ai compagni di «Socialisme ou Barbarie» come la revocabilità dei dirigenti, l’essere revocabili in ogni momento dalla base, e cose di questo genere. Sul fatto che queste fossero inchieste da fare e questo voleva dire che venivano fatte tutta una serie di discussioni sul problema della burocrazia. Sono costretto a saltare una serie di cose ma nel ’53 «Socialisme ou Barbarie» pubblicò un articolo fondamentale per l’inchiesta operaia. Lo stende materialmente Lefort ma viene fuori un articolo alla cui redazione abbiamo un po’ partecipato da lontano, siamo andati io Danilo e Alquati qualche volta, su questo problema del potere operaio, sul problema della rappresentanza operaia. Naturalmente se il gruppo di operai che erano lì si convince ad adottare questi dieci punti è anche perché se ne era parlato e perché erano convinti che la burocratizzazione del movimento operaio o del sindacato era un problema essenziale per l’avvenire della lotta di classe. Il sindacato ci disse: vi becchiamo tutti ma non vogliamo gli internazionalisti, e noi rispondemmo o veniamo tutti o non viene nessuno. Si arriva comunque a questa riunione dove alla fine, ma neanche tanto ad opera nostra, si vede chiaramente che non c’è niente da fare, non è possibile che noi e loro si possa lavorare insieme. Dopo tre o quattro riunioni un senatore comunista stoppa tutto, tuttavia lui non è mai intervenuto, anzi. Becca il responsabile della cgil di Cremona, che ha avuto la bella pensata di accettare la cosa, e tutto finisce qui. Da quel momento, la sera stessa, nasce il Gruppo di Unità Proletaria. Adesso non avrei più intenzione di dire niente altrimenti diventa una cosa lunga e io sono un chiacchierone. Dico soltanto che i contenuti spulciati di quanto ho detto volendo possono essere anche letti come le problematiche che se ho capito bene vi interessano, cioè le problematiche della ricerca, della conricerca, dell’inchiesta operaia, della stessa elaborazione che noi facciamo che è l’eco di un dibattito europeo, che si svolge in particolare in Francia, e che peraltro sta tornando molto in questi tempi. Vedo che c’è stata una ripresa molto forte di Simone Weil nei mesi passati. Una figura interessantissima, per carità, non solo per le donne ma per tutti, con tutta la teorizzazione che c’è intorno a lei sulla condizione operaia e sulla ricezione in Italia della condizione operaia. A questa formula noi ne opponiamo una diversa, che naturalmente non è soltanto una formula, ed è quella dell’esperienza operaia. Ad essa si legano, anche, se volete, delle forme letterarie diverse. Un inchiesta operaia non è quello che deriva necessariamente da una impostazione come quella della Simone Weil. Riflettere sulla propria condizione ha semplicemente delle altre dimensioni, ha semplicemente un altro modo di vedere. Chiaramente la condizione operaia è un po’ come la condizione umana, è una condizione umana più qualcosa d’altro. Per noi l’esperienza operaia, il meglio dell’esperienza proletaria è una dimensione diversa, una dimensione che costituisce una condizione, è qualcosa che porta sul set. Puntare sull’esperienza operaia vuol dire puntare su qualcosa di mobile, sul lavoro, su qualcosa che magari Montaldi preferiva dire con le parole di Rimbaud, che era legato all’altra grande questione di Montaldi quella della coscienza, di ciò che costituisce la coscienza operaia. Mentre la condizione operaia riflette, anche sulla scorta di un certo esistenzialismo, l’essere messo en condition e riflette uno stato in cui sei, in qualche modo modificabile, ma in qualche modo ineliminabile, ma in qualche modo insormontabile perché può essere sormontato a partire soltanto da un progetto collettivo, cioè da qualcosa che porta direttamente all’abolizione delle classi e quindi all’abolizione del proletariato ecc. Può essere molto largo questo discorso e detto così può essere persino caricaturale. Quando Malraux scriverà La Condition humaine, o tutto questo condizionismo, questo emergere del concetto di condition, che è qualcosa nella quale ci sei: come si fa a distruggere la condizione umana, devi disumanarti. L’esperienza proletaria, non ha la pretesa forse di essere così esaustiva ma ha la pretesa di portarti subito sulle dimensioni umane dell’essere umano o sulle dimensioni disumane dell’essere – e allora c’era anche questa componente dell’olocausto, c’erano tante cose che culturalmente finivano in questa cosa qui – e di sicuro ha la pretesa di tirarti fuori da questa sorta di astrazione determinata che è il tuo essere operaio, e quindi di distruggere qualcosa che può sembrare apparentemente un problema di coscienza, qualcosa che è più ristretto della condition humaine, ma che rifiuta di prendere per buona la descrizione dell’uomo come di uno che è dans la condition humaine.

Una cosa che ho voluto risparmiarvi è le decine e decine di riunioni che abbiamo fatto per mettere insieme tutta una serie di persone e di gruppi in Italia. Vi risparmio le cinque o sei volte che io e Castoriadis siamo andati a Genova a cercare di mettere insieme quelli di Genova, vi risparmio le trenta o quaranta riunioni fatte a più riprese con gruppi della sinistra comunista ecc. Una cosa un po’ speciale riguarda i rapporti con Panzieri, ma quando c’è stata la storia di Piazza Statuto a Torino, dove siamo andati, avevamo già rapporti con Soave, Mottura e tutti. Soave aveva scritto una parte del nostro documento Il significato dei fatti di luglio  (Genova ’60), per cui li avevamo già questi rapporti ma erano con alcune persone perché con il gruppo non si era mai andati d’accordo. Non la racconto molto volentieri questa storia perché sembra un pettegolezzo nei confronti di Panzieri ma non è questo. Siamo arrivati a lui perché siamo arrivati all’Einaudi e non sapevamo dove andare. Siamo arrivati in tre a Torino disposti a battagliare su qualche piazza o a fare quello che c’era da fare. Così siamo andati da Panzieri. Siamo arrivati là e tenne una riunione. Sembrava che ci fosse tutto meno che piazza Statuto. Lui ce l’aveva un po’ con noi e con me in particolare, perché mi diceva che ero il più francesizzante del gruppo, mi chiamava Socialisme ou Barbarie, con Danilo no. Ma a parte queste cose lui diceva di piazza Statuto che erano quattro meridionali che tirano dei sassi. Cosa facciamo? Così ci disse: voi tornate a Cremona, noi ci interessiamo dell’industria, voi vi interessate dell’agricoltura. Danilo rispose: noi prima ci interessiamo di tutto, dell’industria, dell’agricoltura ecc. Poi la cosa è sfociata in qualcosa di più. Danilo nei primi due numeri di «Quaderni rossi» è stato nel comitato di redazione, ma non ha mai scritto. Dopo ne è venuto fuori.