Intervento del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano alla Giornata di studio su Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, organizzata dall’Istituto Universitario Orientale (Dipartimento di Filosofia e Politica), dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall’Istituto Ernesto de Martino, Napoli, 16 dicembre 1996

Montaldi e l’«esperienza proletaria»

«Ti dicevo: l’insufficienza del nostro linguaggio è la misura della nostra inerzia in rapporto alle cose; che non si possono trasformare quando se ne è perso il senso». Parigi, andata e ritorno

Visto che il titolo scelto per l’incontro odierno è Danilo Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, prima di trattare del rapporto di Montaldi con il concetto di «esperienza proletaria» e con i raggruppamenti teorici e d’intervento militante che vi hanno fatto riferimento negli anni Cinquanta e Sessanta, vogliamo citare due passi che esprimono bene il rapporto di Montaldi con la «cultura di sinistra»: «[…] gli operai fucilati perché tradussero l’egualitarismo nell’impiccagione degli stachanovisti alle travi delle officine, non potranno raccogliere omaggi se non dal proletariato e soltanto quando lo stalinismo verrà riconosciuto come uno dei rivestimenti ideologici dello sfruttamento, non come un vizio individuale della mente o una delle dottrine politiche socialiste» [1]. «E allora si giustifica il saggio di Mascolo, per il quale la distinzione sinistra-destra ha un senso reale poiché “serve a distinguere tra loro dei borghesi”, ma esiste un’altra opposizione non meno reale della prima, ed è tra “sinistra e rivoluzionario”». Questa seconda citazione proviene da Cronache della Gauche, un saggio in cui Montaldi, giustamente, afferma che «La data di nascita di quella che, nel tempo, si è convenuto chiamare “la Gauche” è da ricercare nel decennio che precede la Seconda Guerra mondiale» [2], ovvero nella «fase della dissoluzione del proletariato nel seno dell’imperialismo» [3], perché «Nella società che è un complesso intricato di classi e non la somma aritmetica delle formazioni sociali, se si sopprime la barriera di classe, vi si sovrappone l’altra barriera della lotta e della guerra fra gli Stati» [4].

Quindi: la sinistra come espressione della stasi del movimento storico del proletariato e come sua rappresentazione spettacolare.

E per non permanere più a lungo negli equivoci interpretativi storico-politici inaugurati da Stefano Merli – che aveva collocato Montaldi «alle origini della nuova sinistra» [5], in ciò affiancandosi a ricercatori legati a Lotta Continua e a «Ombre Rosse» – e proseguiti recentemente da Attilio Mangano [6], è bene ricordare che Montaldi non riservava i proprî strali unicamente alla «sinistra storica», bensì qualificava i gruppi prevalenti nella cosiddetta «nuova sinistra» di allora come «comitati burocratici dissidenti» – nel senso che li vedeva più come modi di decomposizione del grande corpo del movimento operaio ufficiale, che non come qualcosa di «nuovo» – e nel 1972 scriveva: «La fondazione del nuovo psiup [7], con il suo coronamento di “nuova unità” da ottenere in prospettiva assieme ai prolungamenti dissidenti del partito cattolico e dei partiti revisionisti, fa ritenere che sia in movimento un progetto di istituzionalizzazione di una “nuova sinistra” la quale serva da retroterra ai partiti ufficiali» [8].  

Verso la fine del 1953, il ventiquattrenne Montaldi si reca per la prima volta a Parigi e vi resta per quaranta giorni. Nel corso di questo soggiorno, entra in contatto con il gruppo che pubblica «Socialisme ou Barbarie». Il soggiorno francese segna l’inizio dei rapporti politici tra Cremona e Parigi, con un regolare scambio di lettere con i «social-barbaristi» Alberto Maso (alias Albert Véga) [9] e Jacques Gautrat (alias Daniel Mothé, un operaio professionale della Renault, animatore di «Tribune Ouvrière», prima di diventare, all’inizio degli anni Settanta, un sindacalista della cfdt). Nel 1954, traduce L’operaio americano di Paul Romano, un testo già apparso su «Socialisme ou Barbarie» [10], e lo pubblica a puntate su «Battaglia comunista» a partire dal numero di febbraio-marzo dello stesso anno.

 Su «Socialisme ou Barbarie» è necessario spendere qualche parola, il dato di partenza essendo che questa esperienza è assai poco conosciuta in Italia. Per quanto riguarda l’editoria ufficiale, dopo il n. 10-12 di «Ragionamenti» del maggio-ottobre 1957 – che aveva ospitato le Note su «Socialisme ou Barbarie» di Gérard Genette, Edgar Morin e Claude Lefort –, bisognerà aspettare il 1969 per vedere apparire una traduzione italiana di testi «social-barbaristi». In quell’anno, l’editore Guanda pubblicò, in una collana diretta da Giuseppe Del Bo, direttore dell’Istituto Giangiacomo Feltrinelli, un’«antologia critica» curata in modo assai truffaldino da Mario Baccianini e Angelo Tartarini [11]. Successivamente, il recuperatore «libertario» Paolo Flores d’Arcais farà comparire La società burocratica di Cornelius Castoriadis [12] e L’uomo al bando. Riflessioni sull’Arcipelago Gulag di Claude Lefort [13]. La pubblicazione di questi due libri si spiega con il fatto che Castoriadis e Lefort, muovendo dalla critica del «capitalismo burocratico» sovietico, erano nel frattempo approdati a un’ideologia democratica e filo-occidentale, e si prestavano quindi bene a essere «spesi» nel clima «antitotalitario» che segue gli accordi di Helsinki (1º agosto 1975) e che prepara The New Cold War [14]. Infine, negli anni Ottanta e Novanta, Edgar Morin tedierà mezzo mondo con la sua «sfida della complessità» – la conoscenza della conoscenza, la vita della vita, la natura della natura ecc. –, dove «la banale nullité du fond se dissimule sous l’amphigouri de la forme» [15].

Questo non significa che a suo tempo l’elaborazione di «Socialisme ou Barbarie» o di raggruppamenti consimili fosse completamente sconosciuta in Italia. Per esempio, Sergio Bologna qualche anno fa disse a uno di noi che sia il libro di Daniel Mothé sia quello di Benno Sarel sulla classe operaia della Germania Orientale (due testi prodotti da esponenti «social-barbaristi» e fatti pubblicare da Montaldi nella “Collana bianca” einaudiana) erano stati molto letti e discussi dai giovani che gravitavano attorno a «Quaderni Rossi» e «Classe Operaia».

Di questo dibattito non è però rimasto praticamente nulla nella ricostruzione ex post che è stata fornita dagli esponenti «ufficiali» dell’operaismo e che ha strutturato la cultura politica dei militanti dell’Autonomia Operaia degli anni Settanta. Tanto per fare un esempio, Antonio Negri, nel libro-intervista Dall’operaio massa all’operaio sociale, afferma che esperienze quali «quella che faceva capo a Montaldi, che aveva recuperato dalla Francia il discorso di Socialisme ou Barbarie, […] risultano affatto secondarie rispetto a quello che invece è l’elemento fondamentale: il punto di vista soggettivo, il riprendere a fare politica attraverso la ricerca, attraverso la conoscenza e attraverso l’intervento» [16].

Questa rimozione selettiva, come sempre, non è casuale, bensì ha a che fare, come ha sostenuto Mario Lippolis in un seminario su Montaldi svoltosi al Centro sociale Magazzino 47 [17], con il fatto che, in Italia, l’«inchiesta operaia è stata codificata e teorizzata in una maniera diversa – che a dire il vero io non conosco nemmeno bene, ma che non conosco bene perché forse non l’ho voluta conoscere bene –, e che è molto riduttiva rispetto al significato che questo termine ha avuto in Socialisme ou Barbarie e in Montaldi. […] Sarebbe interessante capire perché, nonostante Montaldi, le tematiche sollevate da Socialisme ou Barbarie e anche le risposte che Socialisme ou Barbarie si dava siano filtrate in Italia in una maniera molto parziale, stravolta in senso sociologico e quindi abbiano potuto essere parzialmente recuperate in quella che poi è risultata la corrente prevalente dell’operaismo italiano che le rendeva compatibili con il pci, con il machiavellismo d’apparato». Dove, per «stravolgimento sociologico», Lippolis intende: «Il ritagliare una figura astratta, una figura cardine da potere stilizzare come un nuovo soggetto che permettesse una manipolazione in termini d’ingegneria sociale e quindi potesse essere giocata nelle dinamiche interne al ceto politico dominante della sinistra. Togliere tutto il senso storico che aveva la riflessione di Socialisme ou Barbarie e dell’Internazionale situazionista sulla fine del movimento operaio, sulla fine dello stalinismo, sulla natura della burocrazia operaia, sulla burocratizzazione del mondo, sulla fine dell’iniziativa politica autonoma da parte dei proletari effettivi. Ecco, sfrondare tutto questo – ch’era un discorso estremamente compromettente che avrebbe chiaramente rotto tutti i ponti sia con il psi (per Panzieri) sia con il pci e il sindacato (per gli operaisti) – ed estrarre invece alcune figurine che possono essere l’operaio-massa, l’operaio sociale, da spendere come una specie di target».

Oltre a quanto argomentato da Lippolis sul piano teorico, è bene ricordare qui alcuni aspetti della vicenda di «Quaderni Rossi» e «Classe Operaia» che sono generalmente sconosciuti.

Dopo i fatti di Piazza Statuto dell’estate ’62, all’interno di «Quaderni Rossi» si produsse una rottura tra quanti ritenevano maturi i tempi per un intervento autonomo nelle lotte operaie e quanti invece intendevano continuare a svolgere prevalentemente un’attività di ricerca volta a verificare l’ipotesi teorica dell’autonomia operaia. «Classe Operaia», «mensile politico degli operai in lotta», nacque nel gennaio 1964, preceduto da «Cronache Operaie», una rivista che nel corso del semestre precedente aveva unificato una serie di fogli d’intervento: «Cronache operaie di Quaderni Rossi» e «Gatto selvaggio» (Torino), «Potere Operaio» (Milano), «Classe Operaia» (Genova), «Potere Operaio» (Marghera-Venezia).

Tre – e non due, come in genere si afferma – erano le componenti presenti in «Classe Operaia»: la prima – facente capo a Mario Tronti, Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari – propugnava una modernizzazione del pci legata alla nuova composizione della classe operaia italiana e, a partire dal 1967, al primo manifestarsi di una tendenza ascendente della lotta di classe, praticò l’entrismo nel Partito comunista, sfociando poi negli anni Settanta nella teorizzazione dell’«autonomia del politico»; la seconda era quella operaista a dominanza neo-leninista che avrebbe dato vita prima del ’68 al Potere Operaio veneto-emiliano e poi, nell’autunno del ’69, al Potere Operaio nazionale; infine vi era una terza componente, che possiamo definire marxista-libertaria. Quest’ultima – cui partecipavano Riccardo d’Este (che avrebbe in seguito animato l’Organizzazione Consiliare e Comontismo), Gianfranco Faina e Gianfranco Dellacasa – ruppe dopo pochi mesi (autunno 1964, riunione di Piombino) sulle questioni del ruolo del partito, del recupero del leninismo e del movimento operaio ufficiale. In seguito, fortemente influenzata dal consiliarismo, da «Socialisme ou Barbarie» e dall’Internazionale situazionista, fu al centro del movimento nel ’68 a Genova, svolse un ruolo importante a Torino, ed ebbe il suo sbocco organizzativo in Ludd-Consigli proletari.

A proposito del rapporto di Montaldi con «Classe Operaia», va ricordato ch’egli, allorché gli venne proposto di collaborare alla rivista, rifiutò, ritenendo che troppi dei suoi esponenti fossero figure ancora legate al movimento operaio tradizionale. E circa i rapporti con «Quaderni Rossi», ecco cosa racconta Gianfranco Fiameni, che da quando conobbe Montaldi nel ’53 fu con lui in tutte le esperienze politiche nel Cremonese (Unità Proletaria, Gruppo Karl Marx, Comitato d’Agitazione Studenti, Operai e Insegnanti), curando in particolare i rapporti italiani e internazionali del Gruppo di Unità Proletaria: «Una cosa un po’ speciale riguarda i rapporti con Panzieri, ma quando c’è stata la storia di Piazza Statuto a Torino, dove siamo andati, avevamo già rapporti con Soave, Mottura e tutti gli altri. Soave aveva scritto una parte del nostro documento Il significato dei fatti di luglio (Genova ’60), per cui avevamo rapporti, ma solo con alcune persone e non con il gruppo, perché con questo non si era mai andati d’accordo. Non racconto molto volentieri questa storia, perché sembra un pettegolezzo nei confronti di Panzieri, ma non si tratta di questo. Siamo arrivati a lui perché siamo arrivati all’Einaudi e non sapevamo dove andare. Siamo arrivati in tre a Torino disposti a battagliare su qualche piazza o a fare quello che c’era da fare. Così siamo andati da Panzieri. Arrivammo là e lui tenne una riunione: sembrava che ci fosse tutto meno che Piazza Statuto. Lui ce l’aveva un po’ con noi e con me in particolare – perché diceva ch’ero il più francesizzante del gruppo, mi chiamava Socialisme ou Barbarie –, con Danilo no. Ma a parte ciò, di Piazza Statuto Panzieri diceva, ch’erano quattro meridionali che tiravano dei sassi. Cosa facciamo? Così lui ci disse: “voi tornate a Cremona, noi c’interessiamo dell’industria, voi v’interessate dell’agricoltura”. Danilo rispose: “No, noi prima c’interessiamo di tutto, dell’industria, dell’agricoltura eccetera”. Poi la cosa è sfociata in qualcosa di più. Danilo nei primi due numeri di Quaderni rossi è stato nel comitato di redazione, ma non ha mai scritto. Dopo ne è venuto fuori» [18].

Senza voler qui riassumere né la storia di «Socialisme ou Barbarie» né i temi da essa affrontati (che spaziano da Babeuf alla natura sociale dell’urss, dall’esperienza proletaria alla questione cinese, dal ciclo economico del secondo dopoguerra alla «crisi del bordighismo», dal contenuto del socialismo alla storia della Rivoluzione russa ecc.), poniamo alcuni punti di riferimento, traendoli da uno scritto che è interno a un tentativo di bilancio delle tendenze sovversive dell’età contemporanea che i rivoluzionari d’oggi stanno compiendo: «Erede dell’ultrasinistra del primo dopoguerra, la rivista Socialisme ou Barbarie viene pubblicata in Francia tra il 1949 e il 1965. Dal punto di vista organizzativo, il gruppo che si costituisce attorno alla rivista non è prodotto dalla Sinistra tedesco-olandese ma dal trockismo, prima di essere rapidamente raggiunto da transfughi della Sinistra comunista italiana. Socialisme ou Barbarie nondimeno appartiene al consiliarismo, anche se non ha mai rivendicato questa filiazione, alla quale giunge a partire da una riflessione sulla burocrazia, nata dal rigetto delle posizioni trockiste sull’urss.

Uno dei meriti di Socialisme ou Barbarie fu di cercare “la soluzione” nel proletariato. Senza fare del populismo né pretendere di ritrovare qualsivoglia “valore operaio”, comprese che la presa di parola operaia era una condizione del movimento comunista. Fu così che appoggiò forme di espressione quali Tribune Ouvrière, pubblicata da operai della Renault. In ciò, s’inscriveva nel più vasto movimento che sarebbe culminato nel Maggio ’68 e avrebbe dato vita ad abbozzi di organizzazioni autonome quali Inter-Entreprises. Che una minoranza operaia si riunisca e prenda la parola è una condizione del comunismo. […]

Socialisme ou Barbarie ha dimostrato che l’azione operaia contiene qualcos’altro oltre alla lotta contro lo sfruttamento e porta in sé il germe di nuove relazioni, ma l’ha indicato nell’autorganizzazione, e non nella pratica proletaria – metamorfosi mostruosa della vita umana prodotta dal capitale, che, esplodendo, potrà generare un altro mondo.

L’osservazione della vita di fabbrica permette di mettere in luce il senso comunista della lotta dei proletari, a condizione di non fossilizzarsi nelle questioni dell’organizzazione e della gestione del lavoro. Così, la testimonianza di Ria Stone [19] andava più lontano della teorizzazione fatta in seguito da Chaulieu sul contenuto del socialismo […].

Socialisme ou Barbarie rompe con l’operaismo. L’Expérience prolétarienne è senza dubbio il testo più profondo di Socialisme ou Barbarie [20]. Ma ne indica i limiti e in questo ne annuncia l’impasse. Continua infatti a cercare una mediazione tra la miseria della condizione operaia e la sua rivolta aperta contro il capitale. È al suo interno che il proletariato trova gli elementi della sua rivolta e il contenuto della rivoluzione, non in un’organizzazione posta come preliminare, e che gli apporterebbe la coscienza o gli offrirebbe una base di raggruppamento. Lefort vede il meccanismo rivoluzionario nei proletari stessi, ma nella loro organizzazione più che nella loro natura contraddittoria. Così finisce col ridurre il contenuto del socialismo alla gestione operaia.

Inoltre, invece di ricevere le testimonianze operaie auspicate da Lefort, Socialisme ou Barbarie si lanciò nella sociologia operaia, finendo per imperniare tutto sulla distinzione tra direzione ed esecuzione. In ciò si distinguerà da Informations et Correspondance Ouvrières (ico) (cui si unirà lo stesso Lefort), bollettino e gruppo operaista e consiliarista, espressione più immediata dell’autonomia operaia, e dal Groupe de Liason pour l’Action del Travailleurs (glat), fondato nel 1959, egualmente operaista, ma attento a pubblicare analisi minuziose sull’evoluzione del capitalismo. Ciascuno alla sua maniera, ico e glat saranno presenti al Censier, il centro universitario occupato dai rivoluzionari nel Maggio ’68 [21].

L’insurrezione ungherese del 1956 diede un nuovo vigore a Socialisme ou Barbarie, nel mentre lo impantanava ancor di più nel consiliarismo. Socialisme ou Barbarie vi vide infatti la conferma delle proprie tesi, mentre la forma “Consiglio” dava prova invece di essere capace di fare tutto il contrario del consiliarismo, come ad esempio appoggiare uno staliniano liberale. Socialisme ou Barbarie abbandonò ben presto i suoi vecchi riferimenti marxisti e si lanciò in un vagabondaggio intellettuale che doveva aver fine nel 1965. Questa evoluzione provocò la partenza dei “marxisti”, che nel 1963 fondarono Pouvoir Ouvrier [22].

Come l’Internazionale situazionista, ma in altro modo, Socialisme ou Barbarie seppe stare “incollata” alla modernizzazione della società occidentale. Le sue tesi sul capitalismo e sulla società burocratica – nate al contempo dall’ossessione di una presa del potere da parte degli staliniani e dallo sconvolgimento della società francese diretto dallo Stato – esprimevano la crisi che aveva iniziato a corrodere, soprattutto in Francia, il modello industriale dominante. Diffondendo slogan quali “Potere Operaio – Potere Contadino – Potere Studentesco” (come si legge in un volantino diffuso dal psu [23] nel giugno 1968), facendo della “gestione autonoma e democratica” l’obiettivo numero uno, il movimento del Maggio ’68 popolarizzerà i temi di Socialisme ou Barbarie, mostrando d’un sol colpo i limiti del gruppo e dell’intero movimento» [24].

Wolf Woland ha fatto una lettura assai stimolante del testo di Lefort, della quale riproduciamo qui ampi stralci: «Uno degli apporti principali de L’esperienza proletaria è di aver cominciato a fare chiarezza su questo punto: il proletariato è una classe in un senso nuovo, che non è mai esistito prima. I borghesi compongono una classe in quanto hanno una funzione economica simile […] Anche al proletariato è assegnata una funzione economica, ma, al contrario che per la borghesia, essa non è “sua” e non è sufficiente a fare del proletariato una classe. Il ruolo che il proletariato svolge nella produzione e nella società non gli dà alcun potere né attuale né futuro al loro interno, ma solo delle capacità che unicamente una rivoluzione potrebbe consentirgli di realizzare positivamente. […] Il senso di classe del proletariato non è quindi contenuto in un essere sociale in sé […] ma proviene dalla sua peculiare e inestinguibile contrapposizione a queste condizioni. Non è estendendo le proprie attribuzioni economiche che il proletariato sviluppa il suo senso di classe, ma negandole per istituire un nuovo ordine sociale. […] Il ruolo che […] è assegnato [al proletariato] nella e dalla economia moderna implica una contraddizione e una trasformazione costante, conflittuale, di questo stesso ruolo che lo spinge verso l’abolizione, e un’esperienza sociale totale» [25].

Come scrive Lefort, «il proletariato esige un approccio specifico che permetta di coglierne lo sviluppo soggettivo» [26]. Questo perché «il proletariato concreto non è oggetto di conoscenza: esso lavora, lotta, si trasforma: non si può in definitiva raggiungerlo teoricamente, ma solo praticamente, partecipando alla sua storia» [27]. «Questa classe può essere conosciuta solo da se stessa, solo a condizione che chi interroga ammetta il valore dell’esperienza proletaria, si radichi nella sua situazione e faccia suo l’orizzonte socio-storico della classe; a condizione dunque di rompere con le condizioni immediatamente date che sono quelle del sistema di sfruttamento. […] Questo approccio concreto, che giudichiamo dunque motivato dalla natura propria del proletariato, implica che noi si possa raccogliere e interpretare delle testimonianze operaie; per testimonianze intendiamo soprattutto delle narrazioni di vita o meglio di esperienza individuale, fatte dagli interessati e tali da fornire informazioni sulla loro vita sociale. […] Si cercherà di precisare: a) la relazione dell’operaio con il suo lavoro […]; b) i rapporti con gli altri operai e con gli elementi degli altri strati sociali in seno all’impresa […]; c) la vita sociale al di fuori della fabbrica e la conoscenza di ciò che avviene nella società totale […]; d) il legame con una tradizione e una storia propriamente proletarie […]» [28]. Continua Wolf Woland: «L’originalità del proletariato moderno non appare soltanto sul piano dei rapporti sociali generali, ma anche nel suo ruolo all’interno del processo immediato di produzione […]. Il campo dell’industria (e, almeno dopo la Scuola di Francoforte, dovrebbe essere chiaro che l’“industria materiale corrente” comprende anche quella “culturale”, altro che terziario avanzato “postindustriale”!) col capitalismo domina e informa tutti i campi e i proletari che vi lavorano, nel momento stesso che da questo lavoro sono privati di partecipazione immediata alla vita sociale, sono però da esso intimamente familiarizzati col modo di produrla, determinarla, informarla, tutta questa vita sociale manchevole, tutta la mancanza di vita sociale immediata. L’industria capitalistica è dalle sue origini teatro di una rivoluzione costante, nei metodi produttivi, nelle tecniche ecc. Le moderne ricerche rivoluzionarie, ma anche in parte quelle accademiche, hanno evidenziato quanta parte di questa trasformazione continua sia dovuta alla lotta costante del proletariato tanto nelle sue forme più macroscopiche quanto nelle sue manifestazioni più informali e sottili […] Ciò fa sì che, a differenza di ogni altra classe produttrice nella storia, il proletariato è costretto a trasformare continuamente la sua percezione e la sua appropriazione (contraddittoria) dei proprî compiti, ad adattarsi – restando inadattato – a sempre nuovi strumenti e quindi a cambiare in continuazione la sua critica della strumentalità. […] Solo col proletariato moderno viene all’esperienza che “ciò” che gli uomini producono, “come” lo producono e il “modo” in cui si pongono gli uni in rapporto agli altri sono cose che si definiscono contemporaneamente. Anche gli sconvolgimenti tecnici non si limitano ad accrescere lo sfruttamento, non sono soltanto subìti, ma trasformano le capacità dei proletari. Questa trasformazione, per quanto imposta, può avvenire solo a condizione che gli uomini, cui è imposta, poi la compiano davvero e le attribuiscano un senso, ci mettano del proprio a trasformarsi a loro volta, realizzando nuove sensibilità, capacità, anche corporee. […] Chi vive in questo clima ha una percezione della collettività e delle possibilità di questa diversa dagli altri gruppi sociali. […] L’automazione della produzione accentua la spersonalizzazione e dà al lavoro un carattere meramente accidentale, ma, favorendo l’intercambiabilità dei compiti, familiarizzando coi modi e con le situazioni produttive più diverse, rende il proletariato sensibile ad una “universalità” che solo l’abolizione del modo di produzione basato sul salariato potrebbe permettergli di conquistare positivamente. […] Il proletariato è quella classe che, modellata dall’economia capitalistica, strutturata dalla divisione del lavoro e dall’evoluzione tecnica, presa nell’automatismo della storia alienata, trova nella contingenza della sua situazione il “passaggio” all’azione storica. […] Ma questa azione storica della classe cambia essa stessa in funzione delle trasformazioni empiriche perché è presa nella socialità e nella storia globali, e il termine superiore (l’attività storica cosciente di frazioni del proletariato) conserva il termine inferiore non solo conservandone il senso, ma non potendo mai distaccarsi dalla forma che quello ha preparato, restando tributario dei rapporti di fatto che costituiscono, in un momento dato, la configurazione pratica del proletariato. […] La classe è una totalità ultradifferenziata, non è ugualmente sensibile all’esperienza passata, non è ugualmente cosciente dei compiti avvenire, è totalità solo in questo: che comunque la sua situazione esige sempre da essa una lotta contro i termini già dati, basilari, di questa situazione stessa. […] Producendo, oltre al capitale, le forme materiali di tutta la vita sociale, il proletariato produce il corso del capitalismo e il proprio, si trasforma, alimenta la propria opposizione e sviluppa una storia, inscritta materialmente nell’assetto raggiunto dal capitalismo, ma vissuta in un suo modo particolare. La pretesa della teoria del proletariato è che a partire dalle ragioni più umili di questo punto di vista “inferiore” si veda e si giudichi la verità del mondo» [29].

Come si capisce da quanto sin qui scritto, Lefort, a partire da un confronto critico con gli enunciati marxiani sul proletariato «spogliato di ogni carattere umano, fisico e morale» e sulla sua alienazione totale (confronto critico che non tiene però conto di una serie di altri enunciati formulati da Marx, in primo luogo nelle Glosse critiche in margine all’articolo “Il re di Prussia e la riforma sociale. Di un prussiano”, testo fondamentale circa la posizione di Marx rispetto all’esperienza proletaria e alla critica della politica, due temi strettamente collegati), affronta una serie di questioni molto importanti in merito alla «produzione dell’esperienza storica del proletariato» e al rapporto tra essa e i gruppi teorici e d’intervento, nel periodo intercorso tra l’aprirsi del ciclo neocapitalista del secondo dopoguerra e le lotte autonome della fine degli anni Sessanta (la rivolta dei ghetti americani culminata nella vera e propria insurrezione della metropoli operaia di Detroit, il Maggio francese, il Biennio Rosso ’68-’69 in Italia, Danzica e Stettino eccetera) [30].

Sono gli stessi temi che Montaldi propone in varî luoghi della sua opera, in primis nella sua premessa al saggio di Paul Romano, nella quale egli scrive: «Tanto L’operaio americano che il giornale Correspondence esprimono con molta forza e profondità questa idea, dal movimento marxista praticamente dimenticata dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale, che l’operaio è innanzi tutto un essere che vive nella produzione e nella fabbrica capitalista […] e che è nella produzione che si forma tanto la sua rivolta contro lo sfruttamento quanto la sua capacità di costruire un tipo superiore di società, la sua solidarietà di classe con gli altri operai e il suo odio per lo sfruttamento e gli sfruttatori, i padroni classici di ieri ed i burocrati impersonali di oggi e di domani. Lo sviluppo di questa idea fondamentale è l’apporto principale del gruppo al movimento rivoluzionario contemporaneo. Ma il valore documentario del libro di Paul Romano risiede anche in questo: che rivela come sia universale la condizione operaia. Per questo noi invitiamo i compagni, gli operai, i lettori, a scrivere a Battaglia confrontando la propria situazione con quella dell’“operaio americano”, vale a dire con l’operaio di tutti i Paesi, con l’operaio per quello che è là, là dove essi la sentono simile e là dove la vedono diversa» [31].

Ma il testo di Lefort, dato il suo carattere di analisi teorica e di proposta, non ci descrive la concretezza del vissuto, dei rapporti con i lavoratori, del modo in cui si affrontavano i problemi e si producevano gli enunciati politici nell’ambito di «Socialisme ou Barbarie». Questa visione ci viene offerta dalle testimonianze di Daniel Blanchard (alias Pierre Canjures), che collaborò con Montaldi.

Blanchard, allorché l’anno scorso venne in Italia, dichiarò: «Una prima cosa che voglio dire è una cosa molto personale: sono stato molto commosso nel ricevere il libro di Montaldi. Mi sono ricordato del mio incontro con Montaldi a Parigi e poi a Cremona quando venni a trovarlo. La cosa da cui fui colpito, io ch’ero un intellettuale piccolo-borghese, era il legame molto forte che Montaldi – insieme ai suoi compagni, ma lui in modo particolare –, aveva con il movimento sociale nella sua regione, come conosceva molti attori di questa storia. Tutto questo per me era una grande novità perché noi a Parigi avevamo un legame molto ridotto con il proletariato. C’erano pochissimi operai nel gruppo di Socialisme ou Barbarie, ce n’era uno che rifletteva sulla sua condizione e sulla sua esperienza ed era Daniel Mothé, che aveva scritto un libro di cui Montaldi fa una recensione. Mothé era un operaio della Renault, un operaio qualificato, in alto nella gerarchia degli operai nella fabbrica moderna. Invece il proletariato di cui parlava Montaldi, e a cui era legato, era un proletariato fatto di salariati agricoli e di operai delle piccole fabbriche del Cremonese. Voglio dire che c’era una gran differenza tra i nostri due ambienti, ma la differenza era per me anche la qualità della relazione e dei legami che Montaldi e i suoi compagni avevano con la gente del Cremonese e la storia delle lotte sociali nelle campagne e tra gli operai e il carattere molto affezionato di Montaldi con questa gente. Sono stato molto colpito da questo. Io ho compreso che quando parlava del proletariato parlava di una cosa molto più concreta rispetto a noi a Parigi, che avevamo come unica sorgente di esperienza proletaria quella di Mothé e di pochi altri operai che per lo più non parlavano, assistevano alle riunioni ma non dicevano niente. Penso che questa differenza spiega una divergenza apparsa più tardi tra Montaldi e una parte del gruppo di Socialisme ou Barbarie, quella intorno a Castoriadis, ch’era più desiderosa di girare pagina del proletariato come soggetto della storia, della rivoluzione, del cambiamento sociale. Invece per Montaldi la cosa era più concreta, più vivente, ed è una delle ragioni per cui è rimasto attaccato all’idea del proletariato come soggetto sociale e mondiale.

Né per Montaldi né per noi, l’approccio all’esperienza proletaria aveva alcunché di sociologico. Perché anche noi, pur essendo molto lontani dalla realtà del proletariato, ci sforzavamo di legare l’inchiesta sulla realtà proletaria con il movimento del rovesciamento della società dominante e non ci ponevamo affatto la preoccupazione di fare un bilancio scientifico, “oggettivo”, del proletariato e della classe operaia. […]

Tutti questi giornali e queste esperienze erano una specie di microcosmo. Il gruppo di Socialisme ou Barbarie negli anni Cinquanta era formato da una ventina o una trentina di persone, poi un po’ di più, dopo la presa del potere di De Gaulle; dopo la rivoluzione ungherese ci fu un piccolo afflusso di membri e di militanti. Il gruppo di Tribune Ouvrière era formato da tre o quattro operai della Renault. In Inghilterra Solidarity era lo stesso tipo di gruppo. Negli usa c’erano News & Letters e Correspondence. In ogni caso c’erano uno o due operai in ogni gruppo. Non dico questo per sminuire il lavoro teorico che è stato fatto a partire da questa base. Voglio dire che questa base era estremamente stretta e che alla Renault Tribune Ouvrière era composta essenzialmente da Mothé, Gasparre e uno o altri due compagni. Tutti erano operai professionali, operai di alto livello. L’esperienza era molto stretta ma allo stesso tempo attraverso questa esperienza si ponevano i problemi del sindacato e della burocrazia sindacale, specialmente alla Renault dove l’unico sindacato era quello comunista, cioè il pcf e il problema dello stalinismo. Inoltre si poneva il problema della trasformazione del lavoro, almeno tra gli operai professionali. Lo stesso vale per l’Inghilterra. In Solidarity c’era un operaio, delegato di reparto, ma in Inghilterra i delegati erano molto spesso opposti all’apparato sindacale perché erano in collegamento assai stretto con la base. Così Solidarity ha sviluppato una teoria della lotta di classe interna alla classe operaia tra la base del sindacato a partire da questa esperienza molto limitata, ma queste erano le condizioni nelle quali si poteva riflettere a quel tempo. Tribune Ouvrière non aveva un influenza molto grande in tempi normali, ma quando c’era uno sciopero o un movimento di base poteva avere un’eco. Non è mai stato in grado di organizzare un movimento, uno sciopero» [32].

 Il giornale «Tribune Ouvrière» aveva anche un omologo in Italia – «Tribuna operaia» a Genova –, che qui vogliamo ricordare attraverso le parole di uno dei suoi animatori – Gianni Armaroli –, in quanto vi si ritrovano, al di là di alcune significative diversità, contenuti simili a quelli finora considerati, pur in assenza di forti legami organizzativi tra le due esperienze (e ciò è significativo circa un certo «spirito del tempo»). Armaroli racconta: «L’esperienza di Socialisme ou Barbarie poteva essere conosciuta ma di fatto era come se non ci fosse, e a Genova Socialisme ou Barbarie era stata conosciuta grazie ad alcuni compagni che avevano tradotto un testo di Paul Cardan (pseudonimo di Castoriadis), Capitalismo moderno e rivoluzione. Per quello che so io quello è stato il primo caso in cui un testo di Socialisme ou Barbarie è stato diffuso in alcune centinaia di copie (questo nel ’67). Quindi il problema della realtà che c’è ma è come se non ci fosse. L’esperienza genovese ha avuto delle caratteristiche proprie, di tipo endogeno, perché anche il rapporto con le altre realtà italiane, Torino e soprattutto il gruppo di Classe Operaia e prima i Quaderni Rossi, non era molto approfondito. Ma il problema vero era quello di una scelta di vita che riguardava prevalentemente dei piccoli borghesi, degli studenti e qualche rarissimo operaio. La matrice dell’esperienza portante era la crisi con il pci, la crisi del ’56, lo stalinismo, l’intollerabilità di quell’ambito come luogo della propria esperienza, dei proprî desideri, e quindi il desiderio necessario, biologicamente urgente, di vivere e di fare qualcosa in quello ch’era considerato il tessuto vivente. Quindi si cercava la fabbrica, si cercavano gli operai perché lì si pensava vi fosse la matrice della realtà. Quindi il discorso sulla fabbrica, sulla produzione, sull’operaio e quindi la vita come un sistema allargato della produzione. Quindi la gente deve riappropriarsi della vita e gli operai hanno nelle loro mani l’elemento determinante della vita perché producono le cose e hanno le conoscenze. Per questa serie di motivi il problema del conoscere non era molto importante perché si pensava che il senso delle cose fosse incorporato nella realtà e soprattutto nella fabbrica. Stabilire con la fabbrica e con le macchine un rapporto positivo attraverso la riappropriazione veniva percepito come un momento pratico ma contemporaneamente anche teorico. Per cui tutto ciò che passava attraverso la parola era considerato come qualcosa di accessorio. C’era una specie di desiderio, non del tutto conscio, di vivere in una dimensione di attualità, anche se il gruppo era estremamente sparuto (la consistenza del gruppo genovese poteva oscillare da cinque persone a quindici). Tuttavia questa dimensione, che oggi può apparire drammatica, non era percepita così. Anzi, era percepita come una dimensione positiva perché si faceva esattamente ciò che si aveva bisogno di fare e si pensava di essere collocati nel posto giusto nel tempo giusto. Quindi anche il fatto che gli operai fossero pochissimi veniva avvertito come un limite, ma di fatto non era tale da scoraggiare e da far sì che si chiudesse il capitolo, perché si pensava di riuscire a cogliere il significato della situazione. Il fatto di poter parlare con un operaio, di capire un problema e di tradurlo in parole in un volantino e di vedere che dando il volantino in qualche migliaio di copie c’era corrispondenza, dava la percezione di riuscire a cortocircuitare il rapporto fra il pensiero, l’esperienza, la riflessione e la realtà. Non era azione politica ma un modo di vivere. Per alcuni anni quella è stata la nostra vita. Il resto non è che avesse grandissima importanza.

Rispetto ai rapporti con la gente ch’era in grado di stampare dei giornali, di mettere in piedi riviste, si era capito subito ch’erano dei “mandarini”. Anche se stavano un po’ dentro e un po’ fuori dai partiti e teorizzavano in maniera molto radicale, la loro prospettiva si muoveva ancora sul piano della politica. Per cui parlavano dell’opportunità d’intervenire per favorire certe crisi, certe contraddizioni all’interno del pci e all’interno dei sindacati – tutto veniva ricondotto all’interno della politica ch’era esattamente il contrario di ciò che dicevamo noi. Alla radice della nostra esperienza c’era proprio l’abbandono della politica e la sperimentazione di una presenza e di un’attività diretta. E questa attività diretta nella misura in cui si poneva e sussisteva entrava immediatamente in contrasto con il sindacato e con il partito, e non c’erano mediazioni possibili. Il sentire questi compagni che, pur avendo praticato la rottura con la burocrazia sindacale, viceversa rilanciavano il discorso della politica a noi appariva intollerabile. A Genova si è mantenuto in piedi, in maniera fluttuante, il lavoro di fabbrica. Era stato pubblicato un testo di un operaio, Ruggeri, il cui capoverso è A passo d’uomo, in cui c’è un analisi del concreto modo di lavorare nella fabbrica. In questo testo viene fatto il discorso secondo cui l’organizzazione capitalistica del lavoro è una organizzazione per modo di dire, solamente formale perché di fatto è l’operaio che possiede la conoscenza effettiva, perché la descrizione del padrone e dei suoi tecnici non riesce a stabilire la continuità del vero meccanismo, del vero dispositivo, del vero corpo vivente della fabbrica. Solo l’operaio, essendovi fisicamente immerso, è in grado di stabilire la continuità. Quindi veniva fatto il discorso della riappropriazione da parte degli operai e del rifiuto della scienza del padrone e della mediazione sindacale. La fabbrica era la matrice, l’operaio consapevole che si ribella ed è disposto a riappropriarsi era il prototipo dell’essere umano finalmente pronto per… Questa pubblicazione è stata molto apprezzata all’Italsider di Genova, ma nonostante la notevole positività, quel testo non ha prodotto a livello di ricaduta organizzativa assolutamente nulla. Il risultato di quest’attività era una positività ambientale, nel senso che quando si andava davanti alla fabbrica l’ambiente ci era favorevole e avevamo buon gioco nei confronti dei sindacati e dei partiti. Avevamo conquistato un certo diritto al territorio ma non si andava oltre questo. L’ottimismo era giunto fino al punto di poter prendere l’iniziativa di uno sciopero all’Italsider, una fabbrica enorme. A partire da un piccolo reparto formato da venti persone, e sulla base di un’analisi e di un giornaletto, viene lanciato uno sciopero che in modo molto conflittuale e con momenti anche drammatici non è riuscito, ma si è in qualche modo enunciato. Poi con il ’68 c’è stata l’esplosione di queste cose, il discorso della riappropriazione e del rifiuto della politica è passato da quella piccola esperienza nell’ambito della scuola e dell’università e poi nella generalità dei rapporti sociali».

Vediamo ora, avviandoci alla conclusione, i caratteri dell’esperienza del gruppo di militanti, lavoratori e ricercatori che agiscono insieme a Montaldi, cogliendo tali caratteri per differenza rispetto a «Socialisme ou Barbarie». Montaldi, nel 1955, cerca di formare un’aggregazione intorno a un programma di ricerca da definire e articolare. Di questo primo «gruppo di studio» fanno parte Romano Alquati [33], Giovanni Bottaioli, Ermanno Garbi e Marilù Parolini. A questo primo gruppo farà seguito un secondo, più ampio, che stenderà una mappatura delle realtà produttive del Cremonese e nel quale si svilupperà una dialettica complessa tra gli operai che ne fanno parte e i giovani intellettuali e ricercatori intorno ai problemi dell’esperienza e della cultura operaie, di un’iniziativa politica di base e del rapporto con i sindacati e i partiti ufficiali del movimento operaio.

Al proposito, Fiameni racconta: «La fase di preparazione del gruppo è forse una delle cose più interessanti ed è quella che va dal ’55 al ’59 […]. Questa fase è stata caratterizzata da una accentuata progettualità sia personale che collettiva che si è incontrata con tutta una serie di rapporti che venivano dall’estero: i fatti dell’ottobre ’56 ma anche il libro di Sarel sui moti tedeschi, tutto quanto veniva dalla Francia sul moto contro la guerra d’Algeria, tutta una serie di fenomeni di stampo europeo e anche qualcosa di molto italiano. Prima che nascesse il primo nucleo di quello che sarà il Gruppo di unità proletaria, Montaldi aveva dato origine ad una specie di pre-gruppo informale di cui facevano parte Alquati, Maria Luparini che forse non conoscete ma è una donna piuttosto interessante – è per esempio non solo la protagonista di un paio di film di Godard ma anche l’autrice della sceneggiatura di Prima della rivoluzione di Bertolucci – un altro personaggio che adesso insegna in Sudafrica ch’era Ermanno Gardi. In questa sorta di pre-gruppo c’è una voglia di rinnovamento e di mettere insieme qualcosa di nuovo. Siccome vedo che in questa sala c’è il simbolo dell’anarchia e siccome non l’ho mai detto e va, invece, rammentato, ricordo che non solo Montaldi è sempre stato abbonato a Volontà, ma ha sempre ritenuto, come noi tutti del resto, che la componente anarchica fosse assolutamente essenziale per il movimento operaio. Scusate questa parentesi ma mi rendo conto che altrimenti il tutto finisce per essere una cosa ultrabolscevica e io non ho nessuna intenzione di farla diventare così.

Danilo Montaldi in uno degli articoli disse una cosa che si tende a dimenticare e che invece è molto importante: negli anni Cinquanta, dice, non c’era una città dove non ci fossero dei gruppi connotabili alla sinistra del pci, gruppi che appartenevano alle varie organizzazioni della sinistra comunista. Io ricordo a Cremona nel ’52 un comizio di Onorato Damen, vale a dire un dichiarato oppositore della linea comunista, con Piazza del Duomo piena di bandiere rosse. È stata una roba che ha sconvolto i burocrati del partito, ci saranno state non meno di ventimila persone venute con i pullman, che sapevano benissimo chi era Damen, sapevano benissimo chi erano quelli che genericamente venivano chiamati gli internazionalisti senza fare molta differenza tra i bordighisti, quelli di Programma e quelli di Battaglia, e ciononostante erano lì a sentire Damen. Ora è vero che a Cremona c’erano state delle situazioni particolari, c’era stata della gente come Ferrari, c’era stato Seniga e tutta una serie di persone. Ferrari s’era fatto la galera come capo dell’ufficio illegale del PCd’I durante il fascismo (ma, anche a Brescia e a Mantova esisteva una situazione del genere che però si è dissolta in pochi anni e questa presenza di massa aveva di fianco tutta una serie di gruppi più piccoli ma in qualche modo organizzati). […] Se certe cose sono nate lì non è del tutto a caso: Cremona è la città di Farinacci durante il fascismo, da un certo punto di vista della seconda anima del fascismo. Più ancora che Balbo, più ancora che gli altri, più ancora delle storie ferraresi, quelle cremonesi da questo punto di vista sono differenti. Cremona è la città dove c’è un giornale nel periodo del regime fascista nel quale finiscono per scrivere dei personaggi che saranno poi la destra estrema del fascismo, quelli che poi saranno gli uomini dei tedeschi; è una città nella quale il 26 aprile esce l’ultimo numero de Il Regime fascista con su scritto: “Ritorneremo”; è la città nella quale si sono scontrate le leghe bianche di Miglioli e le leghe rosse. Cremona è una città che presenta un nodo particolare di memorie storiche e di presenze. È la città nella quale noi lavoriamo, insieme a Bottaioli direttore responsabile del giornale di Damen, che viene dalla Francia, insieme a Guglielmetti, lui stesso responsabile insieme a suo fratello dell’ufficio illegale del pci in Sicilia fino a che è stato costretto a scappare in Francia, e insieme a tutta un’altra serie di personaggi. Insomma, ci sono delle presenze di questo tipo, molto eterogenee, se vogliamo, ma che compongono un quadro assai particolare. E dopo c’è Montaldi. Allora, noi – quando dico noi intendo un gruppo di militanti del Partito Comunista Internazionalista di Damen, un paio di bordighisti, quelli ritornati dalla Francia, alcuni anarchici come Bonini ecc., Montaldi, un certo numero di giovani usciti dalla Resistenza e due con le braghe corte come me e Alquati – eravamo un gruppo di persone molto eterogeneo che, visto adesso, non si sarebbe mai messo insieme se non ci fosse stato Montaldi. […] I primi due anni, quelli che vanno fino al ’57, se volessimo descriverli utilizzando il linguaggio pomposo di oggi, dovremmo qualificarli come un continuo tentativo di riduzione della complessità o di riduzione di queste diversità. […] Tutto ciò, visto adesso, è stato un enorme lavoro e mi stupisco perfino che l’abbiamo fatto, un enorme lavoro di chiarificazione. Ma, alla fine, è emersa la proposta su cui si è costituito il nostro intervento: mettere tra parentesi Alma Ata e tutto quello che era successo in passato e ricominciare partendo dal proletariato, partendo dalle fabbriche, partendo da queste sicurezze, assumendo casomai tutto il resto secondo quello che saremmo venuti scoprendo in quest’attività. Finalmente, questa idea «passa» e allora il gruppo si costituisce, ma stavolta non deve più fare i conti con i militanti e con i quadri del pci e del sindacato. Noi ci troviamo a dover spiegare perché, unici in tutta la sinistra, non accettiamo alcuna forma di entrismo, perché vogliamo costruire un gruppo. […] Naturalmente non c’era soltanto questo. C’era tutto quest’orizzonte dell’uso marxista della sociologia. […] Comunque, tutti quanti, sociologi e non, cominciavano a dire che non ci si può muovere se non conoscendo le realtà di base. Esito un po’ a dire le realtà di fabbrica, perché Cremona in quel momento non è una città industriale. Cremona è una città un po’ strana con una agricoltura che si sta rapidamente trasformando dopo la grande botta del 1953 e l’abolizione dell’imponibile di manodopera in agricoltura. Fino al ’53 ogni azienda agricola era obbligata ad assumere un numero di addetti in proporzione alla sua estensione e le lotte per l’imponibile costituiscono un grande capitolo del dopoguerra italiano fino a che nel ’53 l’imponibile di manodopera viene abolito. Le campagne liberano, in questo caso verso Milano, la prima emigrazione, che è poi quella che costruisce le Coree e libera un enorme riserva di manodopera. Mano a mano che la manodopera va via dalle cascine il padrone meccanizza, l’agricoltura cambia completamente. L’agricoltura intesa come un complesso di pratiche codificate, in qualche modo legate al valore dell’uomo, finisce nel ’53 e da qui comincia un altro tipo di agricoltura, fino a qualche anno fa, quando comincia un’altra storia ancora» [34].

Nel ’57, quindi, sulla base di queste ipotesi di ricerca e d’intervento si costituisce a Cremona il Gruppo di Unità Proletaria, per svolgere sul piano locale un’attività di agitazione e di propaganda socialista e rivoluzionaria. Unità Proletaria, grazie soprattutto al lavoro di mediazione di Giovanni Bottaioli, continua a collaborare con il Partito Comunista Internazionalista, nonostante le diverse vedute sulla prassi politica. A livello internazionale, il gruppo avrà rapporti e contatti, oltre che con «Socialisme ou Barbarie» e «Tribune Ouvrière», con il Pouvoir Ouvrier belga, con l’inglese «Solidarity for Workers’ Power» (particolarmente a proposito del movimento degli shops’ stewards), con la Zengakuren giapponese (Federazione Nazionale delle Associazioni Studentesche Autonome), con «News & Letters» (Chicago) e «Correspondence» (Detroit). Di questo primo gruppo fanno parte, oltre a Danilo Montaldi, Romano Alquati,, Renato Cavazzini, Maria Colombo, Gianfranco Fiameni, Stefano Ghilardi, Stefana Mariotti, Giampietro Zelioli e Giovanni Bottaioli (dopo la cui morte, nel 1959, Unità Proletaria si separerà dal Partito Comunista Internazionalista). Sono di questo periodo anche i primi appunti per la grande indagine che Montaldi si è proposto di scrivere in forma di trilogia – La vita dei ladri; La vita dei contadini; I militanti politici – che ci porta su di un’altra dimensione fondamentale della sua attività, della quale tratterà Cesare Bermani nella sua relazione.

Dalla testimonianza di Fiameni traiamo due considerazioni che si riferiscono entrambe al radicamento di Montaldi nell’esperienza vitale dei proletari e dei proletarizzati del Cremonese.

La prima è che dai suoi scritti emerge un’umanità radicata in un passato storico profondo, in mondi vitali non ancora sussunti dall’industria della coscienza e dalla sua massiccia opera di «culturalizzazione», dai media, dai modi di produzione della sociabilità capitalistica moderna (quella che Giorgio Cesarano, nel ’68-’69, definiva la «fabbrica della persona»). Si pensi, solo per fare un esempio, al clima collettivo di «deriva psicogeografica» ch’egli descrive ne La matàna de Po.

La seconda considerazione verte sull’elemento schiettamente politico, cioè sull’esperienza specifica del proletariato cremonese. Montaldi agisce fin da giovanissimo in un contesto che ha ancora legami molto stretti con la fondazione del Partito Comunista d’Italia, con il Biennio Rosso, con una Resistenza che lì ha avuto determinati caratteri di radicalità. E nell’immediato dopoguerra entra in contatto con i sopravvissuti del «Prolétariat fraction théorique» [35] degli anni Trenta, che, tornati a Cremona, vi avevano portato i materiali del dibattito internazionale tra i rivoluzionari d’anteguerra e notizie di prima mano sulla controrivoluzione staliniana. Questa sua inserzione e il fatto che Montaldi si ponga soggettivamente il problema di riarticolare questo passato politico, non ancora consumato anche se bloccato dallo stalinismo, sono alla base della sua idea di «militanti politici di base» e della categoria di «disperso partito marxista». Proprio l’esistenza sul territorio cremonese di tanti operai, compagni, gente che dentro e fuori la fabbrica ha avuto un rapporto storico con il proprio tempo permette a Montaldi di trarre dalle autobiografie di quelli che sociologicamente sarebbero definibili come «emarginati», informazioni e conoscenze sul fascismo, sugli anni Trenta, sul dopoguerra ecc. E nella maggiore ricchezza del tessuto politico proletario in cui Montaldi e i suoi compagni si muovono, si disegna anche una sensibile differenza rispetto a quanto raccontato da Blanchard a proposito della vita di gruppo in Socialisme ou Barbarie e dell’espressione operaia. I lavoratori con cui Unità Proletaria era in rapporto, loro, non stavano zitti. Magari, non intervenivano immediatamente nelle riunioni, però si «facevano sentire». L’attività del gruppo di Cremona è assolutamente particolare proprio perché è l’attività comune di un gruppo di operai e di un gruppo di giovani ricercatori costretti, nel rapporto dialettico con i primi, a vedere le cose da vicino, in un senso molto pratico.

È a partire da questo ambiente, e riflettendo sull’esperienza storica trascorsa, in quanto essa insiste sulle circostanze attuali, che occorre situare la specifica fisionomia di Montaldi e del suo gruppo. Coscienti del fatto che lo stalinismo non dovesse essere inteso semplicemente come corrente politica, ma come uno degli elementi costitutivi del nesso sociale capitalistico in cui il proletariato si trovava immesso, essi tentarono una pratica d’intervento che si sottraesse a questo dispositivo di potere.

Montaldi non è né un sociologo né un antropologo[36]. È un militante rivoluzionario che si propone un intervento diretto, a partire da una riarticolazione della piattaforma politica che derivi da una ripresa dell’interazione con i proletari concreti, con ciò proponendosi l’obiettivo di superare la «separatezza» nella quale sono stati confinati i militanti delle «frazioni» del passato, separatezza che, secondo lui, ha segnato profondamente la loro stessa percezione del carattere dell’attività militante.

L’inchiesta non è, per Montaldi, metodo bensì forma di vita: non si tratta d’intervenire nella comunità locale per testimoniare e conservare il mondo folklorico ch’essa esprime, ma di farla finita con l’atteggiamento folklorico nei confronti delle espressioni delle classi cosiddette subalterne e di cogliere le complessità ambientali all’interno delle «differenze di sviluppo interno» prodotte dal processo di accumulazione capitalistico, differenze che «si riassumono nella realtà di profonde sopravvivenze e si illustrano attraverso lo studio di fenomeni sociali ed umani che portano ad avvicinare la legge generale del processo, dalla quale conoscenza non possono essere escluse le forme contingenti, transitorie, aberranti prodotti dalle crisi»[37].

Quando si parla di Cremona non si può pensarla come una realtà periferica. Per Montaldi Cremona è il cuore di un segreto storico: la genesi del fascismo. Nella Matàna de Po egli afferma che si può capire il fascismo in Italia, inteso non come evento ma come processo, solo se si capisce quanto accaduto «tra Cremona, Ferrara, Bologna, nella Bassa». Lì, a causa di una particolare sedimentazione storica, fin dalla seconda metà dell’Ottocento si era espresso nelle campagne un forte movimento proletario (e non contadino): è contro questa sedimentazione di esperienze, organizzazione e autonomia che il fascismo agrario fa la sua prova del fuoco e sconfigge «nel ’22 e nel ’23 il comunismo nascente come sviluppo divergente da un’antica civiltà, come rivendicazione del proletariato, non uscita calma e tranquilla dalle cooperative e dalle amministrazioni dei paesi, ma esigenza rossa, rivoluzionaria»[38].

L’inchiesta e la conricerca producono un doppio movimento di conoscenza: la forma di vita si singolarizza nella narrazione e illumina i processi reali di un individuo, ad esempio, negli anni Venti, qual era la sua tecnica di sopravvivenza, in che modo organizzava quotidianamente la sua esistenza ecc. Il gruppo politico non mira a radicarsi in una determinata situazione, ma piuttosto attua un movimento che, a partire da una forte immedesimazione in essa, illumina i processi storici nelle loro determinazioni concrete. È un processo di conoscenza che entra nella situazione per cogliervi gli elementi esemplari di un’esperienza del proletariato inteso come classe universale.

Montaldi sviluppa l’idea di una grande impresa di conoscenza destinata ad attraversare i diversi segmenti della classe, compresi quelli «marginali», ma non vuole assolutamente passare per uno studioso dell’emarginazione, ed è ben lungi dal condividere la «mistica del selvaggio»[39]. Per lui si tratta di conoscere quali sono le diverse configurazioni che le forme di vita possono assumere all’interno di una situazione storica. E allora ecco i marginali, i militanti politici di base e, infine, la «nuova classe operaia».

Nei mesi precedenti la sua improvvisa scomparsa, Montaldi stava lavorando a una grande inchiesta sugli operai protagonisti delle lotte dell’«autunno caldo». In una lettera scritta nella fase di formazione del gruppo di lavoro che avrebbe dovuto condurre l’indagine, egli ribadisce il proprio rifiuto di un approccio sociometrico all’esperienza proletaria: «Avevamo escluso di condurre un’inchiesta pianificante, che molto spesso è anche banalizzante. […] il ricercatore dovrebbe essere il primo a ricercare un rapporto preciso, non mediato dagli strumenti industriali e statali, di riconoscimento con il protagonista della lotta. Per questo, fin dall’inizio, si è parlato di unica possibilità di questa ricerca come ricerca fondata su presupposti collettivi, di classe, escludendo possibilità di formule falsanti. […] non dobbiamo esaminare l’oggetto-operaio, ma svolgere assieme al soggetto una comune ricerca su quanto è stato il recente per capire anche, in tempi di tale crisi (indicati dalla tua finale aggiunta nel questionario), come sorgere di nuovo, in quanto classe (e in quanto cultura come parte della lotta di classe) a partire dall’avvenire» [40].

Nei suoi primi scritti, in una sorta di commiato dall’esperienza delle formazioni internazionaliste storiche, Montaldi aveva detto la sua appartenenza a tale esperienza, ma nello stesso tempo avanzato la proposta di raccoglierne la sedimentazione teorica per riportarla ad una nuova impresa di conoscenza.

Nell’introduzione al suo libro sui militanti politici di base Montaldi afferma che il rivoluzionario è mosso da «un certo conflitto con il tempo storico, che si estende dalle ragioni politiche a tutte le norme di vita e di costume», e che «il dramma di una coscienza politica proletaria è proprio nell’isolamento, nella paura di un tempo che fugga senza bisogno di protagonisti come il militante “sa” di essere, in un certo timore di una storia che superi e deformi maggiormente il senso di quanto è stato realizzato e il mondo stesso» [41].

Montaldi, lungi dal fissare un’indeterminata «legge pura del rivoluzionario», lo indaga sempre su di uno sfondo storico ben determinato, ricostruendo a pezzi, a brani, un secolo iniziato approssimativamente nel 1905 e conclusosi con la metà degli anni Settanta: il secolo dei Consigli operai, il secolo di questa forma politica con la quale un rivoluzionario si trova in continua relazione. Lungo tutta questa vicenda uno strato di militanti politici di base nasce, si forma, viene represso e si ricostituisce.

Questo strato, con cui Montaldi interagiva, oggi non esiste più. E nemmeno la forma politica in rapporto alla quale tale segmento sociale si era andato costituendo, il Consiglio.

Quindi, leggere oggi Montaldi, se non vuol essere un’operazione antiquaria, deve portare sulla problematizzazione del presente.

Tale lettura non fornisce la chiave per comprendere la composizione di quello che certuni chiamano l’operaio post-fordista, né potrebbe farlo. Ma la pratica attraverso cui Montaldi si misura con il suo presente storico e tende a un «pensiero fornito di mani» risulta a tutt’oggi paradigmatica.

 


Note

[1] Danilo Montaldi, Saggio sulla politica comunista in Italia 1919-1970, Edizioni «Quaderni Piacentini», Piacenza, 1976, p. 53.

[2] Danilo Montaldi, Cronache della Gauche, «Questioni», Torino, a. IV, n. 3, maggio 1956, ora in Id., Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, a cura del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano), Colibrì, Paderno Dugnano, 1994, p. 86.

[3] Il plebiscito della Sarre, «Prometeo», Molenbeek-Bruxelles, n. 114, 3 febbraio 1935, p. 1.

[4] Un punto culminante della decadenza dello Stato Soviettico, «Prometeo», Molenbeek-Bruxelles, n. 118, 26 maggio 1935, p. 3.

[5] Stefano Merli, Alle origini della Nuova Sinistra, ma oggi forse non sarebbe con noi. In un saggio inedito la figura e l’opera di Danilo Montaldi, «Il Quotidiano dei Lavoratori», Milano, a. IV, n. 10, sabato 15 gennaio 1977, p. 6.

[6] Attilio Mangano, L’altra Linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova sinistra, Pullano Editori, Catanzaro, 1992. Tra l’altro, l’ignoranza circa le vicende dell’ultrasinistra storica – tratto che ancor oggi caratterizza un’intellettualità che sistematicamente fallisce nella comprensione della propria determinatezza – porta l’Autore a qualificare la posizione montaldiana con l’equivoco e antistorico termine di “terzinternazionalismo di sinistra” (cfr., ivi, cap. 3: “Danilo Montaldi fra sociologie e culture di classe”, § 4: “Il terzinternazionalismo di sinistra”, pp. 67-71).

[7] Ovverosia il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (PdUP).

[8] [Danilo Montaldi], La fine del psiup, «Giornale Operaio», Cremona, numero unico, p. 4, ora in Id., Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 461.

[9] Di lui Jean Barrot scrive che aveva fatto parte di quella componente della Fraction Française de la Gauche Communiste che «aveva raggiunto Socialisme ou Barbarie nello stesso periodo in cui Damen rompeva con Bordiga. […] Quando Socialisme ou Barbarie respinse apertamente il marxismo, una parte se ne distaccò per formare Pouvoir Ouvrier, di cui Véga fu l’animatore. Ma questo ex “bordighista” non aveva trattenuto né apportato nulla di bordighista a Socialisme ou Barbarie, che d’altronde non voleva essere in debito di alcunché né verso la Sinistra tedesca, né verso quella italiana, né verso chiunque altro» (“Présentation” a «Bilan». Contre-révolution en Espagne 1936-1939, uge 10/18, Paris, 1979, nota 96, p. 410).

[10] Paul Romano, L’Ouvrier américain, «Socialisme ou Barbarie», Paris, a. I, n. 1, marzo-aprile 1949, pp. 78-89; a. I, n. 2, maggio-giugno 1949, pp. 83-94; a. I, n. 3, luglio-agosto 1949, pp. 68-81; a. I, n. 4, ottobre-dicembre 1949, pp. 45-57; a. I, n. 5-6, marzo-aprile 1950, pp. 124-135. The American Worker, la cui prima edizione era comparsa a Detroit nel 1947, si componeva di due parti: quella di Paul Romano e una seconda, scritta da Ria Stone, che non venne però tradotta in italiano (vedi, infra, nota 18).

[11] Cfr. Mario Baccianini – Angelo Tartarini (a cura di), Socialisme ou Barbarie. Antologia critica, Guanda, Parma, 1969, 331 pp. A proposito di questo «falso integrale» – confezionato dai due «curatori» assemblando traduzioni infedeli, censure e invenzioni di sana pianta –, si veda Mario Lippolis, Aspetti della critica radicale («Socialisme ou Barbarie») al sinistrismo francese del dopoguerra, «Agaragar», Roma, n. 5, settembre-dicembre 1972, nota 25, pp. 67-68.

[12] SugarCo, Milano, 1978, 2 voll., 239+158 pp.

[13] Vallecchi, Firenze, 1981, XIV+201 pp.

[14] Cfr. Noam Chomsky – Edward S. Herman, The Political Economy of Human Rights, South End Press, Boston, 1979, 2 voll., XVII+441 e XX+392 pp.; Noam Chomsky, Towards a New Cold War. Essays on the Current Crisis and How We Got There, Pantheon Books, New York, 1982, 499 pp.; Fred Halliday, The Making of the Second Cold War, Penguin, London, 1983.

[15] Grand répertoire des petites têtes molles de notre époque, voce “Pensée Danone (exemple type: Edgar Morin)”, «Mordicus», Paris, n. 9, aprile 1993, p. 30.

[16] Toni Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tomassini, Multhipla, Milano, 1979, p. 45.

[17] Brescia, mercoledì 12 aprile 1995.

[18] Intervento di Gianfranco Fiameni al Centro sociale Magazzino 47, Brescia, sabato 6 maggio 1995. Questa testimonianza nulla toglie all’amicizia e alla stima che Montaldi portava a Panzieri (cfr. in proposito l’ultimo scritto montaldiano, Esperienza operaia o spontaneità, apparso postumo su «Ombre Rosse», Roma, n. 13, febbraio 1976, ora in Danilo Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 494), venendone ricambiato, ma illumina alcune significative differenze tra i due, sia d’ordine politico-teorico sia di sensibilità nei confronti delle esperienze di lotta.

[19] Ria Stone, La Reconstruction de la Société, «Socialisme ou Barbarie», Paris, a. II, n. 7, agosto-settembre 1950, pp. 67-81; a. II, n. 8, gennaio-febbraio 1951, pp. 50-72 (ripubbl. in Paul Romano – Ria Stone, The American Worker, Bewick/Ed., Detroit, 1972). Ria Stone è lo pseudonimo di Grace Lee, un’esponente del Correspondence Publishing Committee. Tale raggruppamento, che pubblicava il giornale operaio «Correspondence» di Detroit, era stato formato da Martin Glaberman, Raya Dunayevskaya e Cyril Lionel Robert James nel 1951, dopo la conclusione dell’esperienza della Johnson-Forest Tendency, condotta dapprima in seno all’organizzazione shachtmaniana (1941-’47) e poi al Socialist Workers Party (1948-’50).

[20] Cfr. Claude Lefort, L’Expérience prolétarienne, «Socialisme ou Barbarie», Paris, a. IV, n. 11, novembre-dicembre 1952, pp. 1-19 (ripubbl. in Id., Éléments d’une critique de la bureaucratie, Gallimard, Paris, 1979, pp. 71-97). Questo scritto (del quale esiste una traduzione italiana, apparsa su «Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe», Firenze, n. 3-4, maggio 1978, pp. 129-148) va letto insieme a De la réponse à la question, «Les Temps Modernes», Paris, a. X, n. 104, luglio 1954, pp. 157-184, con cui Lefort chiude la discussione aperta con Le marxisme et Sartre, «Les Temps Modernes», Paris, a. VIII, n. 89, aprile 1953, pp. 1541-1570.

[21] Sull’esperienza del Censier, cfr. Jacques Baynac, Mai retrouvé, Laffont, Paris, 1978 e Mario Lippolis, Ben venga maggio e ’l gonfalon selvaggio!, edito a cura dell’Accademia dei Testardi, Carraia, 1987, 371 pp.

[22] Del quale il Gruppo Karl Marx di Cremona pubblicherà in Italia la piattaforma politica, cfr. La piattaforma del Potere Operaio, tr. it. a cura di Danilo Montaldi, Cremona, 1970, ora in “Appendice” a Danilo Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., pp. 596-607.

[23] Parti Socialiste Unifié, guidato da Pierre Mendès-France, socialdemocratico autogestionista, per certi versi simile al psiup italiano.

[24] Le roman de nos origines, sez. “Comprénsion de la contre-révolution et reprise révolutionnaire”, § “De la gauche allemand à Socialisme ou Barbarie”, «La Banquise», Paris, n. 2, secondo trimestre 1983, pp. 15-16.

[25] Wolf Woland, Note sulla classe proletaria come esperienza, «Maelström», Carraia, n. 3, novembre 1987, pp. 157-162.

[26] Claude Lefort, L’Expérience prolétarienne, «Socialisme ou Barbarie», cit., p. 6.

[27] Ibidem, p. 15.

[28] Ibidem, pp. 11-13.

[29] Wolf Woland, Note sulla classe proletaria come esperienza, «Maelström», cit., pp. 165-176. «I cultori di un particolare patrimonio del movimento operaio o comunista trascurano di situare il ruolo e la funzione della teoria rivoluzionaria e delle ideologie nella loro reale dimensione, sia nel tempo, sia nello spazio. […] Non è la particolare adesione a un indirizzo di interpretazione dialettica che può salvaguardare il movimento dai fallimenti e dalle sconfitte: la rivoluzione è un problema di forza, non di forma. Soltanto quando la teoria rivoluzionaria diventa una sola cosa con la prospettiva dell’insorto, si mette in movimento il complesso meccanismo che trasforma la società borghese in società socialista. Ma queste due forze maturano insieme, in continuo scambio dialettico, ed è questo che costituisce il contenuto dell’esperienza proletaria nel nostro secolo» (Danilo Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, «Ombre Rosse», cit., ora in Id., Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 497).

[30] Pur nell’impossibilità di sviluppare qui l’argomentazione, non possiamo astenerci dall’accennare al fatto che la tematica dell’autonomia e dell’autogestione della lotta – centrale in Montaldi, in «Socialisme ou Barbarie», in «Correspondence» ecc. –, se trova in questi eventi la verifica della sua portata, v’incontra anche il proprio limite, ben esemplificato dall’impasse del movimento delle occupazioni nel Maggio-giugno ’68, e non può perciò essere ripresa oggi prescindendo da un bilancio della sua parabola storica.

[31] In «Battaglia comunista», Milano, a. XV, n. 2, febbraio-marzo 1954, p. 3, ora in “Appendice” a Danilo Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., pp. 501-502.

[32] Brescia, mercoledì 12 aprile 1995.

[33] Cfr. Romano Alquati, Per fare conricerca, Calusca Edizioni, Padova, 1993, pp. 10-11, e Camminando per realizzare un sogno comune, Velleità Alternative, Torino, 1994, in particolare il cap. 4: “Su Montaldi (Panzieri, io) e la conricerca”, pp. 119-208, ma anche la nota 78, p. 59.

[34] Testimonianza di Gianfranco Fiameni, cit.

[35] La definizione è di Raoul Brémont – un militante che aveva fatto parte del «gruppo di Marsiglia» della Gauche Communiste Internationale (composta dalle Frazioni italiana, belga e francese) –, che la usava per qualificare se stesso, ed è tratta da un suo scritto del 1938 sulla comunità rivoluzionaria (ried.: La Communauté, Éditions de l’Oubli, Paris, 1975).

[36] Un recente tentativo di ricondurre a forza Montaldi nel recinto del pensiero universitario, è quello compiuto da Marco Gervasoni (Fra Montaldi e Panzieri. Socialisme ou Barbarie e l’inchiesta, «Per il Sessantotto», Pistoia, a. VI, n. 9, 1996). Nella chiusa del suo articolo, questo «giovane ricercatore» – che tre anni fa ha scoperto la «feconda attualità» del rosselliano programma di «rinnovamento europeo» e di «socialismo non classista» – scrive: «La “conricerca” di Montaldi si pone dunque, non soltanto come anticipatrice della “storia orale”, ma anche e soprattutto come rappresentante della storia del movimento operaio in quanto storia della sociabilità operaia» (ivi, p. 32). Se di questo si trattasse, non metterebbe proprio conto di ricordare il cremonese, giacché le università straboccano di gente che studia «la classe operaia e le classi subalterne all’interno del loro proprio universo culturale» e, ormai da tempo, «la storia quantitativa e basata su dati statistici convive tranquillamente con la storia “liberata” a contatto con la vita popolare, o con la storia delle mentalità. Basta consultare l’indice delle riviste storiche per vedere che si studia di tutto, ma quasi mai l’essenziale» (Denis Authier – Jean Barrot, La sinistra comunista in Germania, La Salamandra, Milano, 1981, p. 14). Da ultimo, in quella Parigi ove si esercitò la rabdomanzia montaldiana – capace d’individuare le scaturigini segrete e i sotterranei percorsi del pensiero rivoluzionario, così come di decifrare le tracce degli affrontamenti storici dell’èra contemporanea inscritte nel tessuto metropolitano –, si possono vedere frotte di universitari seguire, chi sbadigliando e chi interpretando in modo engagé il ruolo studentile, le escursioni dell’«etnologo nel metrò», senza ricavarne, ovviamente, alcuna illuminazione né su se stessi né sul loro «oggetto di studio».

[37] Danilo Montaldi, Crisi del mito contadino (con una nota su Cesare Pavese), «Presenza», Milano, a. I, n. 1, luglio 1958, ora in Id., Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 201.

[38] Danilo Montaldi, La Matàna de Po, «Presenza», Milano, a. II, n. 6-7, luglio-dicembre 1959, ora in Id., Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 338.

[39] Tant’è ch’egli si lamenta di vedere frainteso il proprio approccio: «Posso ben aver criticato il naturalismo e la cosiddetta civiltà contadina, posso ben aver scritto contro questi miti da una parte e dall’altra, cercando di sputtanare l’ideale del “selvaggio”. Passo per uno che ci vive dentro a suo agio» (Danilo Montaldi, La Matàna de Po, «Presenza», cit., ora in Id., Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 334). L’esigenza di operare questa netta demarcazione motiva anche la dura critica che Montaldi muove a Bosio, accusandolo di restare «sotto l’abbaglio della cultura sedicente spontanea» e di concludere «nell’esaltazione di quanto sta subordinato», in una «scoperta del “buon selvaggio”, del buon selvaggio questa volta proletario, socialista o anarchico», quest’ultimo fatto oggetto di un «compiacimento statico» da ricercatori politicamente incapaci di muovere «verso cerchi emancipatori sempre più vasti» e perciò impossibilitati a realizzare la riattualizzazione del passato e ridotti a fare da custodi di un’esperienza che o è defunta o può essere raccolta solo come quanto è rimasto ai margini della storia (Danilo Montaldi, Esperienza operaia o spontaneità, cit.).

[40] Danilo Montaldi, “Introduzione” a Militanti politici di base, Einaudi, Torino, 1971, pp. XI e XIX.

[41] Lettera a Guido Bobbio, 23 febbraio 1975, pubblicata postuma su «Quaderni Piacentini», Piacenza, a. XVIII, n. 72-73, ottobre 1979, pp. 98-100. In un’altra lettera, indirizzata a Goffredo Fofi e datata 3 marzo 1975, Montaldi scrive che «lo scopo della ricerca sarebbe di far conoscere a se stessa, innanzitutto, questa “nuova classe operaia”, attraverso biografie, documentazioni “interne” di vario tipo (come lettere, diari ecc.), di svolgere un lavoro che la avvicini alla riflessione sugli anni ’68-’70 che l’hanno vista manifestarsi, sia a un avvenire che, proprio da un punto di vista di classe, si può vedere attraverso di essa, e con essa, in prospezione», e invoca che «non si torni a qualche opprimente questionario che tutto pianifica e banalizza» (ibidem, p. 100). A essere messa in questione da Montaldi è insomma l’idea stessa dell’esistenza di un proletariato sociometrico, in quanto esso è il risultato di un trattamento che la massa proletaria riceve da parte di determinati saperi, che sono i saperi dell’organizzazione nella sua accezione più vasta.