Intervento
del Centro d’Iniziativa Luca Rossi di Milano alla Giornata di studio su Danilo
Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, organizzata
dall’Istituto Universitario Orientale (Dipartimento di Filosofia e Politica),
dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici e dall’Istituto Ernesto de
Martino, Napoli, 16 dicembre 1996
Montaldi
e l’«esperienza proletaria»
«Ti
dicevo: l’insufficienza del nostro linguaggio è la misura della nostra
inerzia in rapporto alle cose; che non si possono trasformare quando se ne è
perso il senso». Parigi,
andata e ritorno
Visto
che il titolo scelto per l’incontro odierno è Danilo
Montaldi e la cultura di sinistra del secondo dopoguerra, prima di trattare
del rapporto di Montaldi con il concetto di «esperienza proletaria» e con i
raggruppamenti teorici e d’intervento militante che vi hanno fatto riferimento
negli anni Cinquanta e Sessanta, vogliamo citare due passi che esprimono bene il
rapporto di Montaldi con la «cultura di sinistra»: «[…] gli operai fucilati
perché tradussero l’egualitarismo nell’impiccagione degli stachanovisti
alle travi delle officine, non potranno raccogliere omaggi se non dal
proletariato e soltanto quando lo stalinismo verrà riconosciuto come uno dei
rivestimenti ideologici dello sfruttamento, non come un vizio individuale della
mente o una delle dottrine politiche socialiste» [1].
«E allora si giustifica il saggio di Mascolo, per il quale la distinzione
sinistra-destra ha un senso reale poiché “serve a distinguere tra loro dei
borghesi”, ma esiste un’altra opposizione non meno reale della prima, ed è
tra “sinistra e rivoluzionario”». Questa seconda citazione proviene da Cronache
della Gauche, un saggio in cui Montaldi, giustamente, afferma che «La data
di nascita di quella che, nel tempo, si è convenuto chiamare “la Gauche”
è da ricercare nel decennio che precede la Seconda Guerra mondiale» [2],
ovvero nella «fase della dissoluzione del proletariato nel seno
dell’imperialismo» [3],
perché «Nella società che è un complesso intricato di classi e non la somma
aritmetica delle formazioni sociali, se si sopprime la barriera di classe, vi si
sovrappone l’altra barriera della lotta e della guerra fra gli Stati» [4].
Quindi:
la sinistra come espressione della stasi del movimento storico del proletariato
e come sua rappresentazione spettacolare.
E
per non permanere più a lungo negli equivoci interpretativi storico-politici
inaugurati da Stefano Merli – che aveva collocato Montaldi «alle origini
della nuova sinistra» [5],
in ciò affiancandosi a ricercatori legati a Lotta Continua e a «Ombre Rosse»
– e proseguiti recentemente da Attilio Mangano [6],
è bene ricordare che Montaldi non riservava i proprî strali unicamente alla «sinistra
storica», bensì qualificava i gruppi prevalenti nella cosiddetta «nuova
sinistra» di allora come «comitati burocratici dissidenti» – nel senso
che li vedeva più come modi di decomposizione del grande corpo del movimento
operaio ufficiale, che non come qualcosa di «nuovo» – e nel 1972
scriveva: «La fondazione del nuovo psiup [7],
con il suo coronamento di “nuova unità” da ottenere in prospettiva assieme
ai prolungamenti dissidenti del partito cattolico e dei partiti revisionisti, fa
ritenere che sia in movimento un progetto di istituzionalizzazione di una
“nuova sinistra” la quale serva da retroterra ai partiti ufficiali» [8].
Verso
la fine del 1953, il ventiquattrenne Montaldi si reca per la prima volta a
Parigi e vi resta per quaranta giorni. Nel corso di questo soggiorno, entra in
contatto con il gruppo che pubblica «Socialisme ou Barbarie». Il soggiorno
francese segna l’inizio dei rapporti politici tra Cremona e Parigi, con un
regolare scambio di lettere con i «social-barbaristi» Alberto Maso (alias
Albert Véga) [9]
e Jacques Gautrat (alias Daniel Mothé,
un operaio professionale della Renault, animatore di «Tribune Ouvrière»,
prima di diventare, all’inizio degli anni Settanta, un sindacalista della cfdt).
Nel 1954, traduce L’operaio americano
di Paul Romano, un testo già apparso su «Socialisme ou Barbarie» [10],
e lo pubblica a puntate su «Battaglia comunista» a partire dal numero di
febbraio-marzo dello stesso anno.
Su
«Socialisme ou Barbarie» è necessario spendere qualche parola, il dato di
partenza essendo che questa esperienza è assai poco conosciuta in Italia. Per
quanto riguarda l’editoria ufficiale, dopo il n. 10-12 di «Ragionamenti»
del maggio-ottobre 1957 – che aveva ospitato le Note
su «Socialisme ou Barbarie» di Gérard Genette, Edgar Morin e Claude
Lefort –, bisognerà aspettare il 1969 per vedere apparire una traduzione
italiana di testi «social-barbaristi». In quell’anno, l’editore Guanda
pubblicò, in una collana diretta da Giuseppe Del Bo, direttore dell’Istituto
Giangiacomo Feltrinelli, un’«antologia critica» curata in modo assai
truffaldino da Mario Baccianini e Angelo Tartarini [11].
Successivamente, il recuperatore «libertario» Paolo Flores d’Arcais farà
comparire La società burocratica di Cornelius Castoriadis [12]
e L’uomo al bando. Riflessioni sull’Arcipelago Gulag di Claude
Lefort [13].
La pubblicazione di questi due libri si spiega con il fatto che Castoriadis e
Lefort, muovendo dalla critica del «capitalismo burocratico» sovietico, erano
nel frattempo approdati a un’ideologia democratica e filo-occidentale, e si
prestavano quindi bene a essere «spesi» nel clima «antitotalitario» che
segue gli accordi di Helsinki (1º agosto 1975) e che prepara The New Cold
War [14].
Infine, negli anni Ottanta e Novanta, Edgar Morin tedierà mezzo mondo con la
sua «sfida della complessità» – la conoscenza della conoscenza, la vita
della vita, la natura della natura ecc. –, dove «la banale nullité du fond
se dissimule sous l’amphigouri de la forme» [15].
Questo
non significa che a suo tempo l’elaborazione di «Socialisme ou Barbarie» o
di raggruppamenti consimili fosse completamente sconosciuta in Italia. Per
esempio, Sergio Bologna qualche anno fa disse a uno di noi che sia il libro di
Daniel Mothé sia quello di Benno Sarel sulla classe operaia della Germania
Orientale (due testi prodotti da esponenti «social-barbaristi» e fatti
pubblicare da Montaldi nella “Collana bianca” einaudiana) erano stati molto
letti e discussi dai giovani che gravitavano attorno a «Quaderni Rossi» e «Classe
Operaia».
Di
questo dibattito non è però rimasto praticamente nulla nella ricostruzione ex
post che è stata fornita dagli esponenti «ufficiali» dell’operaismo e che
ha strutturato la cultura politica dei militanti dell’Autonomia Operaia degli
anni Settanta. Tanto per fare un esempio, Antonio Negri, nel libro-intervista Dall’operaio
massa all’operaio sociale, afferma che esperienze quali «quella che
faceva capo a Montaldi, che aveva recuperato dalla Francia il discorso di Socialisme
ou Barbarie, […] risultano affatto secondarie rispetto a quello che invece
è l’elemento fondamentale: il punto di vista soggettivo, il riprendere a fare
politica attraverso la ricerca, attraverso la conoscenza e attraverso
l’intervento» [16].
Questa
rimozione selettiva, come sempre, non è casuale, bensì ha a che fare, come ha
sostenuto Mario Lippolis in un seminario su Montaldi svoltosi al Centro sociale
Magazzino 47 [17],
con il fatto che, in Italia, l’«inchiesta operaia è stata codificata e
teorizzata in una maniera diversa – che a dire il vero io non conosco nemmeno
bene, ma che non conosco bene perché forse non l’ho
voluta conoscere bene –, e che è molto riduttiva rispetto al
significato che questo termine ha avuto in Socialisme
ou Barbarie e in Montaldi. […] Sarebbe interessante capire perché,
nonostante Montaldi, le tematiche sollevate da Socialisme ou Barbarie e anche le risposte che Socialisme ou Barbarie si dava siano filtrate in Italia in una
maniera molto parziale, stravolta in senso sociologico e quindi abbiano potuto
essere parzialmente recuperate in quella che poi è risultata la corrente
prevalente dell’operaismo italiano che le rendeva compatibili con il pci,
con il machiavellismo d’apparato». Dove, per «stravolgimento sociologico»,
Lippolis intende: «Il ritagliare una figura astratta, una figura cardine da
potere stilizzare come un nuovo soggetto che permettesse una manipolazione in
termini d’ingegneria sociale e quindi potesse essere giocata nelle dinamiche
interne al ceto politico dominante della sinistra. Togliere tutto il senso
storico che aveva la riflessione di Socialisme
ou Barbarie e dell’Internazionale
situazionista sulla fine del movimento operaio, sulla fine dello stalinismo,
sulla natura della burocrazia operaia, sulla burocratizzazione del mondo, sulla
fine dell’iniziativa politica autonoma da parte dei proletari effettivi. Ecco,
sfrondare tutto questo – ch’era un discorso estremamente compromettente
che avrebbe chiaramente rotto tutti i ponti sia con il psi (per Panzieri) sia con il pci e il sindacato (per gli operaisti) – ed estrarre
invece alcune figurine che possono essere l’operaio-massa, l’operaio
sociale, da spendere come una specie di target».
Oltre
a quanto argomentato da Lippolis sul piano teorico, è bene ricordare qui alcuni
aspetti della vicenda di «Quaderni Rossi» e «Classe Operaia» che sono
generalmente sconosciuti.
Dopo
i fatti di Piazza Statuto dell’estate ’62, all’interno di «Quaderni Rossi»
si produsse una rottura tra quanti ritenevano maturi i tempi per un intervento
autonomo nelle lotte operaie e quanti invece intendevano continuare a svolgere
prevalentemente un’attività di ricerca volta a verificare l’ipotesi teorica
dell’autonomia operaia. «Classe Operaia», «mensile politico degli operai in
lotta», nacque nel gennaio 1964, preceduto da «Cronache Operaie», una rivista
che nel corso del semestre precedente aveva unificato una serie di fogli
d’intervento: «Cronache operaie di Quaderni Rossi» e «Gatto selvaggio»
(Torino), «Potere Operaio» (Milano), «Classe Operaia» (Genova), «Potere
Operaio» (Marghera-Venezia).
Tre
– e non due, come in genere si
afferma – erano le componenti presenti in «Classe Operaia»: la prima –
facente capo a Mario Tronti, Alberto Asor Rosa e Massimo Cacciari – propugnava
una modernizzazione del pci legata
alla nuova composizione della classe operaia italiana e, a partire dal 1967, al
primo manifestarsi di una tendenza ascendente della lotta di classe, praticò
l’entrismo nel Partito comunista, sfociando poi negli anni Settanta nella
teorizzazione dell’«autonomia del politico»; la seconda era quella operaista
a dominanza neo-leninista che avrebbe dato vita prima del ’68 al Potere
Operaio veneto-emiliano e poi, nell’autunno del ’69, al Potere Operaio
nazionale; infine vi era una terza componente, che possiamo definire
marxista-libertaria. Quest’ultima – cui partecipavano Riccardo d’Este (che
avrebbe in seguito animato l’Organizzazione Consiliare e Comontismo),
Gianfranco Faina e Gianfranco Dellacasa – ruppe dopo pochi mesi (autunno 1964,
riunione di Piombino) sulle questioni del ruolo del partito, del recupero del
leninismo e del movimento operaio ufficiale. In seguito, fortemente influenzata
dal consiliarismo, da «Socialisme ou Barbarie» e dall’Internazionale
situazionista, fu al centro del movimento nel ’68 a Genova, svolse un ruolo
importante a Torino, ed ebbe il suo sbocco organizzativo in Ludd-Consigli
proletari.
A
proposito del rapporto di Montaldi con «Classe Operaia», va ricordato
ch’egli, allorché gli venne proposto di collaborare alla rivista, rifiutò,
ritenendo che troppi dei suoi esponenti fossero figure ancora legate al
movimento operaio tradizionale. E circa i rapporti con «Quaderni Rossi», ecco
cosa racconta Gianfranco Fiameni, che da quando conobbe Montaldi nel ’53 fu
con lui in tutte le esperienze politiche nel Cremonese (Unità Proletaria,
Gruppo Karl Marx, Comitato d’Agitazione Studenti, Operai e Insegnanti),
curando in particolare i rapporti italiani e internazionali del Gruppo di Unità
Proletaria: «Una cosa un po’ speciale riguarda i rapporti con Panzieri, ma
quando c’è stata la storia di Piazza Statuto a Torino, dove siamo andati,
avevamo già rapporti con Soave, Mottura e tutti gli altri. Soave aveva scritto
una parte del nostro documento Il
significato dei fatti di luglio (Genova ’60), per cui avevamo rapporti, ma
solo con alcune persone e non con il gruppo, perché con questo non si era mai
andati d’accordo. Non racconto molto volentieri questa storia, perché sembra
un pettegolezzo nei confronti di Panzieri, ma non si tratta di questo. Siamo
arrivati a lui perché siamo arrivati all’Einaudi e non sapevamo dove andare.
Siamo arrivati in tre a Torino disposti a battagliare su qualche piazza o a fare
quello che c’era da fare. Così siamo andati da Panzieri. Arrivammo là e lui
tenne una riunione: sembrava che ci fosse tutto meno che Piazza Statuto. Lui ce
l’aveva un po’ con noi e con me in particolare – perché diceva ch’ero
il più francesizzante del gruppo, mi chiamava Socialisme
ou Barbarie –, con Danilo no. Ma a parte ciò, di Piazza Statuto Panzieri
diceva, ch’erano quattro meridionali che tiravano dei sassi. Cosa facciamo?
Così lui ci disse: “voi tornate a Cremona, noi c’interessiamo
dell’industria, voi v’interessate dell’agricoltura”. Danilo rispose:
“No, noi prima c’interessiamo di tutto, dell’industria, dell’agricoltura
eccetera”. Poi la cosa è sfociata in qualcosa di più. Danilo nei primi due
numeri di Quaderni rossi è stato nel
comitato di redazione, ma non ha mai scritto. Dopo ne è venuto fuori» [18].
Senza
voler qui riassumere né la storia di «Socialisme ou Barbarie» né i temi da
essa affrontati (che spaziano da Babeuf alla natura sociale dell’urss,
dall’esperienza proletaria alla questione cinese, dal ciclo economico del
secondo dopoguerra alla «crisi del bordighismo», dal contenuto del socialismo
alla storia della Rivoluzione russa ecc.), poniamo alcuni punti di riferimento,
traendoli da uno scritto che è interno a un tentativo di bilancio delle
tendenze sovversive dell’età contemporanea che i rivoluzionari d’oggi
stanno compiendo: «Erede dell’ultrasinistra del primo dopoguerra, la rivista Socialisme ou Barbarie viene pubblicata in Francia tra il 1949 e il
1965. Dal punto di vista organizzativo, il gruppo che si costituisce attorno
alla rivista non è prodotto dalla Sinistra tedesco-olandese ma dal trockismo,
prima di essere rapidamente raggiunto da transfughi della Sinistra comunista
italiana. Socialisme ou Barbarie nondimeno
appartiene al consiliarismo, anche se non ha mai rivendicato questa filiazione,
alla quale giunge a partire da una riflessione sulla burocrazia, nata dal
rigetto delle posizioni trockiste sull’urss.
Uno
dei meriti di Socialisme ou Barbarie
fu di cercare “la soluzione” nel proletariato. Senza fare del populismo né
pretendere di ritrovare qualsivoglia “valore operaio”, comprese che la presa
di parola operaia era una condizione
del movimento comunista. Fu così che appoggiò forme di espressione quali Tribune Ouvrière, pubblicata da operai della Renault. In ciò,
s’inscriveva nel più vasto movimento che sarebbe culminato nel Maggio ’68 e
avrebbe dato vita ad abbozzi di organizzazioni autonome quali Inter-Entreprises.
Che una minoranza operaia si riunisca e prenda la parola è una condizione del
comunismo. […]
Socialisme
ou Barbarie ha dimostrato che
l’azione operaia contiene qualcos’altro oltre alla lotta contro lo
sfruttamento e porta in sé il germe di nuove relazioni, ma l’ha indicato
nell’autorganizzazione, e non nella pratica proletaria – metamorfosi
mostruosa della vita umana prodotta dal capitale, che, esplodendo, potrà
generare un altro mondo.
L’osservazione
della vita di fabbrica permette di mettere in luce il senso comunista della
lotta dei proletari, a condizione di non fossilizzarsi nelle questioni
dell’organizzazione e della gestione del lavoro. Così, la testimonianza di
Ria Stone [19]
andava più lontano della teorizzazione fatta in seguito da Chaulieu sul
contenuto del socialismo […].
Socialisme
ou Barbarie rompe con l’operaismo. L’Expérience prolétarienne è senza dubbio il testo più
profondo di Socialisme ou Barbarie
[20].
Ma ne indica i limiti e in questo ne annuncia l’impasse. Continua infatti a
cercare una mediazione tra la miseria della condizione operaia e la sua rivolta
aperta contro il capitale. È al suo interno che il proletariato trova gli
elementi della sua rivolta e il contenuto della rivoluzione, non in
un’organizzazione posta come preliminare, e che gli apporterebbe la coscienza
o gli offrirebbe una base di raggruppamento. Lefort vede il meccanismo
rivoluzionario nei proletari stessi, ma nella loro organizzazione
più che nella loro natura
contraddittoria. Così finisce col ridurre il contenuto del socialismo alla
gestione operaia.
Inoltre,
invece di ricevere le testimonianze operaie auspicate da Lefort, Socialisme ou Barbarie si lanciò nella sociologia operaia, finendo
per imperniare tutto sulla distinzione tra direzione ed esecuzione. In ciò si
distinguerà da Informations et
Correspondance Ouvrières (ico)
(cui si unirà lo stesso Lefort), bollettino e gruppo operaista e consiliarista,
espressione più immediata dell’autonomia operaia, e dal Groupe de Liason pour l’Action del Travailleurs (glat),
fondato nel 1959, egualmente operaista, ma attento a pubblicare analisi
minuziose sull’evoluzione del capitalismo. Ciascuno alla sua maniera, ico
e glat saranno presenti al Censier,
il centro universitario occupato dai rivoluzionari nel Maggio ’68 [21].
L’insurrezione
ungherese del 1956 diede un nuovo vigore a Socialisme
ou Barbarie, nel mentre lo impantanava ancor di più nel consiliarismo. Socialisme
ou Barbarie vi vide infatti la conferma delle proprie tesi, mentre la forma
“Consiglio” dava prova invece di essere capace di fare tutto il contrario
del consiliarismo, come ad esempio appoggiare uno staliniano liberale. Socialisme
ou Barbarie abbandonò ben presto i suoi vecchi riferimenti marxisti e si
lanciò in un vagabondaggio intellettuale che doveva aver fine nel 1965. Questa
evoluzione provocò la partenza dei “marxisti”, che nel 1963 fondarono Pouvoir
Ouvrier [22].
Come
l’Internazionale situazionista, ma
in altro modo, Socialisme ou Barbarie
seppe stare “incollata” alla modernizzazione della società occidentale. Le
sue tesi sul capitalismo e sulla società burocratica – nate al contempo
dall’ossessione di una presa del potere da parte degli staliniani e dallo
sconvolgimento della società francese diretto dallo Stato – esprimevano la
crisi che aveva iniziato a corrodere, soprattutto in Francia, il modello
industriale dominante. Diffondendo slogan quali “Potere Operaio – Potere
Contadino – Potere Studentesco” (come si legge in un volantino diffuso dal psu
[23]
nel giugno 1968), facendo della “gestione autonoma e democratica”
l’obiettivo numero uno, il movimento del Maggio ’68 popolarizzerà i temi di
Socialisme ou Barbarie, mostrando
d’un sol colpo i limiti del gruppo e dell’intero movimento» [24].
Wolf
Woland ha fatto una lettura assai stimolante del testo di Lefort, della quale
riproduciamo qui ampi stralci: «Uno degli apporti principali de L’esperienza proletaria è di aver cominciato a fare chiarezza su
questo punto: il proletariato è una classe in un senso nuovo, che non è mai
esistito prima. I borghesi compongono una classe in quanto hanno una funzione
economica simile […] Anche al proletariato è assegnata una funzione
economica, ma, al contrario che per la borghesia, essa non è “sua” e non è
sufficiente a fare del proletariato una classe. Il ruolo che il proletariato
svolge nella produzione e nella società non gli dà alcun potere né attuale né
futuro al loro interno, ma solo delle capacità che unicamente una rivoluzione
potrebbe consentirgli di realizzare positivamente. […] Il senso di classe del
proletariato non è quindi contenuto in un essere sociale in sé […] ma
proviene dalla sua peculiare e inestinguibile contrapposizione a queste
condizioni. Non è estendendo le proprie attribuzioni economiche che il
proletariato sviluppa il suo senso di classe, ma negandole per istituire un
nuovo ordine sociale. […] Il ruolo che […] è assegnato [al proletariato]
nella e dalla economia moderna implica una contraddizione e una trasformazione
costante, conflittuale, di questo stesso ruolo che lo spinge verso
l’abolizione, e un’esperienza sociale totale» [25].
Come
scrive Lefort, «il proletariato esige un approccio specifico che permetta di
coglierne lo sviluppo soggettivo» [26].
Questo perché «il proletariato concreto non è oggetto di conoscenza: esso
lavora, lotta, si trasforma: non si può in definitiva raggiungerlo
teoricamente, ma solo praticamente, partecipando alla sua storia» [27].
«Questa classe può essere conosciuta solo da se stessa, solo a condizione che
chi interroga ammetta il valore dell’esperienza proletaria, si radichi nella
sua situazione e faccia suo l’orizzonte socio-storico della classe; a
condizione dunque di rompere con le condizioni immediatamente date che sono
quelle del sistema di sfruttamento. […] Questo approccio concreto, che
giudichiamo dunque motivato dalla natura propria del proletariato, implica che
noi si possa raccogliere e interpretare delle testimonianze operaie; per
testimonianze intendiamo soprattutto delle narrazioni di vita o meglio di
esperienza individuale, fatte dagli interessati e tali da fornire informazioni
sulla loro vita sociale. […] Si cercherà di precisare: a)
la relazione dell’operaio con il suo lavoro […]; b)
i rapporti con gli altri operai e con gli elementi degli altri strati sociali in
seno all’impresa […]; c) la vita
sociale al di fuori della fabbrica e la conoscenza di ciò che avviene nella
società totale […]; d) il legame
con una tradizione e una storia propriamente proletarie […]» [28].
Continua Wolf Woland: «L’originalità del proletariato moderno non appare
soltanto sul piano dei rapporti sociali generali, ma anche nel suo ruolo
all’interno del processo immediato di produzione […]. Il campo
dell’industria (e, almeno dopo la Scuola di Francoforte, dovrebbe essere
chiaro che l’“industria materiale corrente” comprende anche quella
“culturale”, altro che terziario avanzato “postindustriale”!) col
capitalismo domina e informa tutti i campi e i proletari che vi lavorano, nel
momento stesso che da questo lavoro sono privati di partecipazione immediata
alla vita sociale, sono però da esso intimamente familiarizzati col modo di
produrla, determinarla, informarla, tutta questa vita sociale manchevole, tutta
la mancanza di vita sociale immediata. L’industria capitalistica è dalle sue
origini teatro di una rivoluzione costante, nei metodi produttivi, nelle
tecniche ecc. Le moderne ricerche rivoluzionarie, ma anche in parte quelle
accademiche, hanno evidenziato quanta parte di questa trasformazione continua
sia dovuta alla lotta costante del proletariato tanto nelle sue forme più
macroscopiche quanto nelle sue manifestazioni più informali e sottili […] Ciò
fa sì che, a differenza di ogni altra classe produttrice nella storia, il
proletariato è costretto a trasformare continuamente la sua percezione e la sua
appropriazione (contraddittoria) dei proprî compiti, ad adattarsi – restando
inadattato – a sempre nuovi strumenti e quindi a cambiare in continuazione la
sua critica della strumentalità. […] Solo col proletariato moderno viene
all’esperienza che “ciò” che gli uomini producono, “come” lo
producono e il “modo” in cui si pongono gli uni in rapporto agli altri sono
cose che si definiscono contemporaneamente. Anche gli sconvolgimenti tecnici non
si limitano ad accrescere lo sfruttamento, non sono soltanto subìti, ma
trasformano le capacità dei proletari. Questa trasformazione, per quanto
imposta, può avvenire solo a condizione che gli uomini, cui è imposta, poi la
compiano davvero e le attribuiscano un senso, ci mettano del proprio a
trasformarsi a loro volta, realizzando nuove sensibilità, capacità, anche
corporee. […] Chi vive in questo clima ha una percezione della collettività e
delle possibilità di questa diversa dagli altri gruppi sociali. […]
L’automazione della produzione accentua la spersonalizzazione e dà al lavoro
un carattere meramente accidentale, ma, favorendo l’intercambiabilità dei
compiti, familiarizzando coi modi e con le situazioni produttive più diverse,
rende il proletariato sensibile ad una “universalità” che solo
l’abolizione del modo di produzione basato sul salariato potrebbe permettergli
di conquistare positivamente. […] Il proletariato è quella classe che,
modellata dall’economia capitalistica, strutturata dalla divisione del lavoro
e dall’evoluzione tecnica, presa nell’automatismo della storia alienata,
trova nella contingenza della sua situazione il “passaggio” all’azione
storica. […] Ma questa azione storica della classe cambia essa stessa in
funzione delle trasformazioni empiriche perché è presa nella socialità e
nella storia globali, e il termine superiore (l’attività storica cosciente di
frazioni del proletariato) conserva il termine inferiore non solo conservandone
il senso, ma non potendo mai distaccarsi dalla forma che quello ha preparato,
restando tributario dei rapporti di fatto che costituiscono, in un momento dato,
la configurazione pratica del proletariato. […] La classe è una totalità
ultradifferenziata, non è ugualmente sensibile all’esperienza passata, non è
ugualmente cosciente dei compiti avvenire, è totalità solo in questo: che
comunque la sua situazione esige sempre da essa una lotta contro i termini già
dati, basilari, di questa situazione stessa. […] Producendo, oltre al
capitale, le forme materiali di tutta la vita sociale, il proletariato produce
il corso del capitalismo e il proprio, si trasforma, alimenta la propria
opposizione e sviluppa una storia, inscritta materialmente nell’assetto
raggiunto dal capitalismo, ma vissuta in un suo modo particolare. La pretesa
della teoria del proletariato è che a partire dalle ragioni più umili di
questo punto di vista “inferiore” si veda e si giudichi la verità del mondo»
[29].
Come
si capisce da quanto sin qui scritto, Lefort, a partire da un confronto critico
con gli enunciati marxiani sul proletariato «spogliato di ogni carattere umano,
fisico e morale» e sulla sua alienazione totale (confronto critico che non
tiene però conto di una serie di altri enunciati formulati da Marx, in primo
luogo nelle Glosse critiche in margine
all’articolo “Il re di Prussia e la riforma
sociale. Di un prussiano”,
testo fondamentale circa la posizione di Marx rispetto all’esperienza
proletaria e alla critica della politica, due temi strettamente collegati),
affronta una serie di questioni molto importanti in merito alla «produzione
dell’esperienza storica del proletariato» e al rapporto tra essa e i gruppi
teorici e d’intervento, nel periodo intercorso tra l’aprirsi del ciclo
neocapitalista del secondo dopoguerra e le lotte autonome della fine degli anni
Sessanta (la rivolta dei ghetti americani culminata nella vera e propria
insurrezione della metropoli operaia di Detroit, il Maggio francese, il Biennio
Rosso ’68-’69 in Italia, Danzica e Stettino eccetera) [30].
Sono
gli stessi temi che Montaldi propone in varî luoghi della sua opera, in primis nella sua premessa al saggio di Paul Romano, nella quale
egli scrive: «Tanto L’operaio americano
che il giornale Correspondence
esprimono con molta forza e profondità questa idea, dal movimento marxista
praticamente dimenticata dopo la pubblicazione del primo volume del Capitale,
che l’operaio è innanzi tutto un essere che vive nella produzione e nella
fabbrica capitalista […] e che è nella produzione che si forma tanto la sua
rivolta contro lo sfruttamento quanto la sua capacità di costruire un tipo
superiore di società, la sua solidarietà di classe con gli altri operai e il
suo odio per lo sfruttamento e gli sfruttatori, i padroni classici di ieri ed i
burocrati impersonali di oggi e di domani. Lo sviluppo di questa idea
fondamentale è l’apporto principale del gruppo al movimento rivoluzionario
contemporaneo. Ma il valore documentario del libro di Paul Romano risiede anche
in questo: che rivela come sia universale la condizione operaia. Per questo noi
invitiamo i compagni, gli operai, i lettori, a scrivere a Battaglia
confrontando la propria situazione con quella dell’“operaio americano”,
vale a dire con l’operaio di tutti i Paesi, con l’operaio per quello che è
là, là dove essi la sentono simile e là dove la vedono diversa» [31].
Ma
il testo di Lefort, dato il suo carattere di analisi teorica e di proposta, non
ci descrive la concretezza del vissuto, dei rapporti con i lavoratori, del modo
in cui si affrontavano i problemi e si producevano gli enunciati politici
nell’ambito di «Socialisme ou Barbarie». Questa visione ci viene offerta
dalle testimonianze di Daniel Blanchard (alias
Pierre Canjures), che collaborò con Montaldi.
Blanchard,
allorché l’anno scorso venne in Italia, dichiarò: «Una prima cosa che
voglio dire è una cosa molto personale: sono stato molto commosso nel ricevere
il libro di Montaldi. Mi sono ricordato del mio incontro con Montaldi a Parigi e
poi a Cremona quando venni a trovarlo. La cosa da cui fui colpito, io ch’ero
un intellettuale piccolo-borghese, era il legame molto forte che Montaldi –
insieme ai suoi compagni, ma lui in modo particolare –, aveva con il movimento
sociale nella sua regione, come conosceva molti attori di questa storia. Tutto
questo per me era una grande novità perché noi a Parigi avevamo un legame
molto ridotto con il proletariato. C’erano pochissimi operai nel gruppo di Socialisme
ou Barbarie, ce n’era uno che rifletteva sulla sua condizione e sulla sua
esperienza ed era Daniel Mothé, che aveva scritto un libro di cui Montaldi fa
una recensione. Mothé era un operaio della Renault, un operaio qualificato, in
alto nella gerarchia degli operai nella fabbrica moderna. Invece il proletariato
di cui parlava Montaldi, e a cui era legato, era un proletariato fatto di
salariati agricoli e di operai delle piccole fabbriche del Cremonese. Voglio
dire che c’era una gran differenza tra i nostri due ambienti, ma la differenza
era per me anche la qualità della relazione e dei legami che Montaldi e i suoi
compagni avevano con la gente del Cremonese e la storia delle lotte sociali
nelle campagne e tra gli operai e il carattere molto affezionato di Montaldi con
questa gente. Sono stato molto colpito da questo. Io ho compreso che quando
parlava del proletariato parlava di una cosa molto più concreta rispetto a noi
a Parigi, che avevamo come unica sorgente di esperienza proletaria quella di
Mothé e di pochi altri operai che per lo più non parlavano, assistevano alle
riunioni ma non dicevano niente. Penso che questa differenza spiega una
divergenza apparsa più tardi tra Montaldi e una parte del gruppo di Socialisme
ou Barbarie, quella intorno a Castoriadis, ch’era più desiderosa di
girare pagina del proletariato come soggetto della storia, della rivoluzione,
del cambiamento sociale. Invece per Montaldi la cosa era più concreta, più
vivente, ed è una delle ragioni per cui è rimasto attaccato all’idea del
proletariato come soggetto sociale e mondiale.
Né
per Montaldi né per noi, l’approccio all’esperienza proletaria aveva
alcunché di sociologico. Perché anche noi, pur essendo molto lontani dalla
realtà del proletariato, ci sforzavamo di legare l’inchiesta sulla realtà
proletaria con il movimento del rovesciamento della società dominante e non ci
ponevamo affatto la preoccupazione di fare un bilancio scientifico,
“oggettivo”, del proletariato e della classe operaia. […]
Tutti
questi giornali e queste esperienze erano una specie di microcosmo. Il gruppo di
Socialisme ou Barbarie negli anni
Cinquanta era formato da una ventina o una trentina di persone, poi un po’ di
più, dopo la presa del potere di De Gaulle; dopo la rivoluzione ungherese ci fu
un piccolo afflusso di membri e di militanti. Il gruppo di Tribune Ouvrière era formato da tre o quattro operai della Renault.
In Inghilterra Solidarity era lo
stesso tipo di gruppo. Negli usa
c’erano News & Letters e Correspondence.
In ogni caso c’erano uno o due operai in ogni gruppo. Non dico questo per
sminuire il lavoro teorico che è stato fatto a partire da questa base. Voglio
dire che questa base era estremamente stretta e che alla Renault Tribune
Ouvrière era composta essenzialmente da Mothé, Gasparre e uno o altri due
compagni. Tutti erano operai professionali, operai di alto livello.
L’esperienza era molto stretta ma allo stesso tempo attraverso questa
esperienza si ponevano i problemi del sindacato e della burocrazia sindacale,
specialmente alla Renault dove l’unico sindacato era quello comunista,
cioè il pcf e il problema dello stalinismo. Inoltre si poneva il
problema della trasformazione del lavoro, almeno tra gli operai professionali.
Lo stesso vale per l’Inghilterra. In Solidarity
c’era un operaio, delegato di reparto, ma in Inghilterra i delegati erano
molto spesso opposti all’apparato sindacale perché erano in collegamento
assai stretto con la base. Così Solidarity
ha sviluppato una teoria della lotta di classe interna alla classe operaia tra
la base del sindacato a partire da questa esperienza molto limitata, ma queste
erano le condizioni nelle quali si poteva riflettere a quel tempo. Tribune
Ouvrière non aveva un influenza molto grande in tempi normali, ma quando
c’era uno sciopero o un movimento di base poteva avere un’eco. Non è mai
stato in grado di organizzare un movimento, uno sciopero» [32].
Il
giornale «Tribune Ouvrière» aveva anche un omologo in Italia – «Tribuna
operaia» a Genova –, che qui vogliamo ricordare attraverso le parole di uno
dei suoi animatori – Gianni Armaroli –, in quanto vi si ritrovano, al di là
di alcune significative diversità, contenuti simili a quelli finora
considerati, pur in assenza di forti legami organizzativi tra le due esperienze
(e ciò è significativo circa un certo «spirito del tempo»). Armaroli
racconta: «L’esperienza di Socialisme ou Barbarie poteva essere conosciuta ma di fatto era come
se non ci fosse, e a Genova Socialisme ou
Barbarie era stata conosciuta grazie ad alcuni compagni che avevano tradotto
un testo di Paul Cardan (pseudonimo di Castoriadis), Capitalismo
moderno e rivoluzione. Per quello che so io quello è stato il primo caso in
cui un testo di Socialisme ou Barbarie
è stato diffuso in alcune centinaia di copie (questo nel ’67). Quindi il
problema della realtà che c’è ma è come se non ci fosse. L’esperienza
genovese ha avuto delle caratteristiche proprie, di tipo endogeno, perché anche
il rapporto con le altre realtà italiane, Torino e soprattutto il gruppo di Classe Operaia e prima i Quaderni
Rossi, non era molto approfondito. Ma il problema vero era quello di una
scelta di vita che riguardava prevalentemente dei piccoli borghesi, degli
studenti e qualche rarissimo operaio. La matrice dell’esperienza portante era
la crisi con il pci, la crisi del
’56, lo stalinismo, l’intollerabilità di quell’ambito come luogo della
propria esperienza, dei proprî desideri, e quindi il desiderio necessario,
biologicamente urgente, di vivere e di fare qualcosa in quello ch’era
considerato il tessuto vivente. Quindi si cercava la fabbrica, si cercavano gli
operai perché lì si pensava vi fosse la matrice della realtà. Quindi il
discorso sulla fabbrica, sulla produzione, sull’operaio e quindi la vita come
un sistema allargato della produzione. Quindi la gente deve riappropriarsi della
vita e gli operai hanno nelle loro mani l’elemento determinante della vita
perché producono le cose e hanno le conoscenze. Per questa serie di motivi il
problema del conoscere non era molto importante perché si pensava che il senso
delle cose fosse incorporato nella realtà e soprattutto nella fabbrica.
Stabilire con la fabbrica e con le macchine un rapporto positivo attraverso la
riappropriazione veniva percepito come un momento pratico ma contemporaneamente
anche teorico. Per cui tutto ciò che passava attraverso la parola era
considerato come qualcosa di accessorio. C’era una specie di desiderio, non
del tutto conscio, di vivere in una dimensione di attualità, anche se il gruppo
era estremamente sparuto (la consistenza del gruppo genovese poteva oscillare da
cinque persone a quindici). Tuttavia questa dimensione, che oggi può apparire
drammatica, non era percepita così. Anzi, era percepita come una dimensione
positiva perché si faceva esattamente ciò che si aveva bisogno di fare e si
pensava di essere collocati nel posto giusto nel tempo giusto. Quindi anche il
fatto che gli operai fossero pochissimi veniva avvertito come un limite, ma di
fatto non era tale da scoraggiare e da far sì che si chiudesse il capitolo,
perché si pensava di riuscire a cogliere il significato della situazione. Il
fatto di poter parlare con un operaio, di capire un problema e di tradurlo in
parole in un volantino e di vedere che dando il volantino in qualche migliaio di
copie c’era corrispondenza, dava la percezione di riuscire a cortocircuitare
il rapporto fra il pensiero, l’esperienza, la riflessione e la realtà. Non
era azione politica ma un modo di vivere. Per alcuni anni quella è stata la
nostra vita. Il resto non è che avesse grandissima importanza.
Rispetto
ai rapporti con la gente ch’era in grado di stampare dei giornali, di mettere
in piedi riviste, si era capito subito ch’erano dei “mandarini”. Anche se
stavano un po’ dentro e un po’ fuori dai partiti e teorizzavano in maniera
molto radicale, la loro prospettiva si muoveva ancora sul piano della politica.
Per cui parlavano dell’opportunità d’intervenire per favorire certe crisi,
certe contraddizioni all’interno del pci
e all’interno dei sindacati – tutto veniva ricondotto all’interno della
politica ch’era esattamente il contrario di ciò che dicevamo noi. Alla radice
della nostra esperienza c’era proprio l’abbandono della politica e la
sperimentazione di una presenza e di un’attività diretta. E questa attività
diretta nella misura in cui si poneva e sussisteva entrava immediatamente in
contrasto con il sindacato e con il partito, e non c’erano mediazioni
possibili. Il sentire questi compagni che, pur avendo praticato la rottura con
la burocrazia sindacale, viceversa rilanciavano il discorso della politica a noi
appariva intollerabile. A Genova si è mantenuto in piedi, in maniera
fluttuante, il lavoro di fabbrica. Era stato pubblicato un testo di un operaio,
Ruggeri, il cui capoverso è A passo
d’uomo, in cui c’è un analisi del concreto modo di lavorare nella
fabbrica. In questo testo viene fatto il discorso secondo cui l’organizzazione
capitalistica del lavoro è una organizzazione per modo di dire, solamente
formale perché di fatto è l’operaio che possiede la conoscenza effettiva,
perché la descrizione del padrone e dei suoi tecnici non riesce a stabilire la
continuità del vero meccanismo, del vero dispositivo, del vero corpo vivente
della fabbrica. Solo l’operaio, essendovi fisicamente immerso, è in grado di
stabilire la continuità. Quindi veniva fatto il discorso della riappropriazione
da parte degli operai e del rifiuto della scienza del padrone e della mediazione
sindacale. La fabbrica era la matrice, l’operaio consapevole che si ribella ed
è disposto a riappropriarsi era il prototipo dell’essere umano finalmente
pronto per… Questa pubblicazione è stata molto apprezzata all’Italsider di
Genova, ma nonostante la notevole positività, quel testo non ha prodotto a
livello di ricaduta organizzativa assolutamente nulla. Il risultato di
quest’attività era una positività ambientale, nel senso che quando si andava
davanti alla fabbrica l’ambiente ci era favorevole e avevamo buon gioco nei
confronti dei sindacati e dei partiti. Avevamo conquistato un certo diritto al
territorio ma non si andava oltre questo. L’ottimismo era giunto fino al punto
di poter prendere l’iniziativa di uno sciopero all’Italsider, una fabbrica
enorme. A partire da un piccolo reparto formato da venti persone, e sulla base
di un’analisi e di un giornaletto, viene lanciato uno sciopero che in modo
molto conflittuale e con momenti anche drammatici non è riuscito, ma si è in
qualche modo enunciato. Poi con il ’68 c’è stata l’esplosione di queste
cose, il discorso della riappropriazione e del rifiuto della politica è passato
da quella piccola esperienza nell’ambito della scuola e dell’università e
poi nella generalità dei rapporti sociali».
Vediamo
ora, avviandoci alla conclusione, i caratteri dell’esperienza del gruppo di
militanti, lavoratori e ricercatori che agiscono insieme a Montaldi, cogliendo
tali caratteri per differenza rispetto a «Socialisme ou Barbarie». Montaldi,
nel 1955, cerca di formare un’aggregazione intorno a un programma di ricerca
da definire e articolare. Di questo primo «gruppo di studio» fanno parte
Romano Alquati [33],
Giovanni Bottaioli, Ermanno Garbi e Marilù Parolini. A questo primo gruppo farà
seguito un secondo, più ampio, che stenderà una mappatura delle realtà
produttive del Cremonese e nel quale si svilupperà una dialettica complessa tra
gli operai che ne fanno parte e i giovani intellettuali e ricercatori intorno ai
problemi dell’esperienza e della cultura operaie, di un’iniziativa politica
di base e del rapporto con i sindacati e i partiti ufficiali del movimento
operaio.
Al
proposito, Fiameni racconta: «La fase di preparazione del gruppo è forse una
delle cose più interessanti ed è quella che va dal ’55 al ’59 […].
Questa fase è stata caratterizzata da una accentuata progettualità sia
personale che collettiva che si è incontrata con tutta una serie di rapporti
che venivano dall’estero: i fatti dell’ottobre ’56 ma anche il libro di
Sarel sui moti tedeschi, tutto quanto veniva dalla Francia sul moto contro la
guerra d’Algeria, tutta una serie di fenomeni di stampo europeo e anche
qualcosa di molto italiano. Prima che nascesse il primo nucleo di quello che sarà
il Gruppo di unità proletaria, Montaldi aveva dato origine ad una specie di
pre-gruppo informale di cui facevano parte Alquati, Maria Luparini che forse non
conoscete ma è una donna piuttosto interessante – è per esempio non solo la
protagonista di un paio di film di Godard ma anche l’autrice della
sceneggiatura di Prima della rivoluzione di Bertolucci – un altro personaggio che
adesso insegna in Sudafrica ch’era Ermanno Gardi. In questa sorta di
pre-gruppo c’è una voglia di rinnovamento e di mettere insieme qualcosa di
nuovo. Siccome vedo che in questa sala c’è il simbolo dell’anarchia e
siccome non l’ho mai detto e va, invece, rammentato, ricordo che non solo
Montaldi è sempre stato abbonato a Volontà,
ma ha sempre ritenuto, come noi tutti del resto, che la componente anarchica
fosse assolutamente essenziale per il movimento operaio. Scusate questa
parentesi ma mi rendo conto che altrimenti il tutto finisce per essere una cosa
ultrabolscevica e io non ho nessuna intenzione di farla diventare così.
Danilo
Montaldi in uno degli articoli disse una cosa che si tende a dimenticare e che
invece è molto importante: negli anni Cinquanta, dice, non c’era una città
dove non ci fossero dei gruppi connotabili alla sinistra del pci,
gruppi che appartenevano alle varie organizzazioni della sinistra comunista. Io
ricordo a Cremona nel ’52 un comizio di Onorato Damen, vale a dire un
dichiarato oppositore della linea comunista, con Piazza del Duomo piena di
bandiere rosse. È stata una roba che ha sconvolto i burocrati del partito, ci
saranno state non meno di ventimila persone venute con i pullman, che sapevano
benissimo chi era Damen, sapevano benissimo chi erano quelli che genericamente
venivano chiamati gli internazionalisti senza fare molta differenza tra i
bordighisti, quelli di Programma e
quelli di Battaglia, e ciononostante
erano lì a sentire Damen. Ora è vero che a Cremona c’erano state delle
situazioni particolari, c’era stata della gente come Ferrari, c’era stato
Seniga e tutta una serie di persone. Ferrari s’era fatto la galera come capo
dell’ufficio illegale del PCd’I durante il fascismo (ma, anche a Brescia e a
Mantova esisteva una situazione del genere che però si è dissolta in pochi
anni e questa presenza di massa aveva di fianco tutta una serie di gruppi più
piccoli ma in qualche modo organizzati). […] Se certe cose sono nate lì non
è del tutto a caso: Cremona è la città di Farinacci durante il fascismo, da
un certo punto di vista della seconda anima del fascismo. Più ancora che Balbo,
più ancora che gli altri, più ancora delle storie ferraresi, quelle cremonesi
da questo punto di vista sono differenti. Cremona è la città dove c’è un
giornale nel periodo del regime fascista nel quale finiscono per scrivere dei
personaggi che saranno poi la destra estrema del fascismo, quelli che poi
saranno gli uomini dei tedeschi; è una città nella quale il 26 aprile esce
l’ultimo numero de Il Regime fascista
con su scritto: “Ritorneremo”; è la città nella quale si sono scontrate le
leghe bianche di Miglioli e le leghe rosse. Cremona è una città che presenta
un nodo particolare di memorie storiche e di presenze. È la città nella quale
noi lavoriamo, insieme a Bottaioli direttore responsabile del giornale di Damen,
che viene dalla Francia, insieme a Guglielmetti, lui stesso responsabile insieme
a suo fratello dell’ufficio illegale del pci in Sicilia fino a che è stato costretto a scappare in
Francia, e insieme a tutta un’altra serie di personaggi. Insomma, ci sono
delle presenze di questo tipo, molto eterogenee, se vogliamo, ma che compongono
un quadro assai particolare. E dopo c’è Montaldi. Allora, noi – quando dico
noi intendo un gruppo di militanti del Partito Comunista Internazionalista di
Damen, un paio di bordighisti, quelli ritornati dalla Francia, alcuni anarchici
come Bonini ecc., Montaldi, un certo numero di giovani usciti dalla Resistenza e
due con le braghe corte come me e Alquati – eravamo un gruppo di persone molto
eterogeneo che, visto adesso, non si sarebbe mai messo insieme se non ci fosse
stato Montaldi. […] I primi due anni, quelli che vanno fino al ’57, se
volessimo descriverli utilizzando il linguaggio pomposo di oggi, dovremmo
qualificarli come un continuo tentativo di riduzione della complessità o di
riduzione di queste diversità. […] Tutto ciò, visto adesso, è stato un
enorme lavoro e mi stupisco perfino che l’abbiamo fatto, un enorme lavoro di
chiarificazione. Ma, alla fine, è emersa la proposta su cui si è costituito il
nostro intervento: mettere tra parentesi Alma Ata e tutto quello che era
successo in passato e ricominciare partendo dal proletariato, partendo dalle
fabbriche, partendo da queste sicurezze, assumendo casomai tutto il resto
secondo quello che saremmo venuti scoprendo in quest’attività. Finalmente,
questa idea «passa» e allora il gruppo si costituisce, ma stavolta non deve più
fare i conti con i militanti e con i quadri del pci
e del sindacato. Noi ci troviamo a dover spiegare perché, unici in tutta la
sinistra, non accettiamo alcuna forma di entrismo, perché vogliamo costruire un
gruppo. […] Naturalmente non c’era soltanto questo. C’era tutto
quest’orizzonte dell’uso marxista della sociologia. […] Comunque, tutti
quanti, sociologi e non, cominciavano a dire che non ci si può muovere se non
conoscendo le realtà di base. Esito un po’ a dire le realtà di fabbrica,
perché Cremona in quel momento non è una città industriale. Cremona è una
città un po’ strana con una agricoltura che si sta rapidamente trasformando
dopo la grande botta del 1953 e l’abolizione dell’imponibile di manodopera
in agricoltura. Fino al ’53 ogni azienda agricola era obbligata ad assumere un
numero di addetti in proporzione alla sua estensione e le lotte per
l’imponibile costituiscono un grande capitolo del dopoguerra italiano fino a
che nel ’53 l’imponibile di manodopera viene abolito. Le campagne liberano,
in questo caso verso Milano, la prima emigrazione, che è poi quella che
costruisce le Coree e libera un enorme riserva di manodopera. Mano a mano che la
manodopera va via dalle cascine il padrone meccanizza, l’agricoltura cambia
completamente. L’agricoltura intesa come un complesso di pratiche codificate,
in qualche modo legate al valore dell’uomo, finisce nel ’53 e da qui
comincia un altro tipo di agricoltura, fino a qualche anno fa, quando comincia
un’altra storia ancora» [34].
Nel
’57, quindi, sulla base di queste ipotesi di ricerca e d’intervento si
costituisce a Cremona il Gruppo di Unità Proletaria, per svolgere sul piano
locale un’attività di agitazione e di propaganda socialista e rivoluzionaria.
Unità Proletaria, grazie soprattutto al lavoro di mediazione di Giovanni
Bottaioli, continua a collaborare con il Partito Comunista Internazionalista,
nonostante le diverse vedute sulla prassi politica. A livello internazionale, il
gruppo avrà rapporti e contatti, oltre che con «Socialisme ou Barbarie» e «Tribune
Ouvrière», con il Pouvoir Ouvrier belga, con l’inglese «Solidarity for
Workers’ Power» (particolarmente a proposito del movimento degli shops’
stewards), con la Zengakuren giapponese (Federazione Nazionale delle
Associazioni Studentesche Autonome), con «News & Letters» (Chicago) e «Correspondence»
(Detroit). Di questo primo gruppo fanno parte, oltre a Danilo Montaldi, Romano
Alquati,, Renato Cavazzini, Maria Colombo, Gianfranco Fiameni, Stefano Ghilardi,
Stefana Mariotti, Giampietro Zelioli e Giovanni Bottaioli (dopo la cui morte,
nel 1959, Unità Proletaria si separerà dal Partito Comunista
Internazionalista). Sono di questo periodo anche i primi appunti per la grande
indagine che Montaldi si è proposto di scrivere in forma di trilogia – La
vita dei ladri; La vita dei contadini;
I militanti politici – che ci porta
su di un’altra dimensione fondamentale della sua attività, della quale
tratterà Cesare Bermani nella sua relazione.
Dalla
testimonianza di Fiameni traiamo due considerazioni che si riferiscono entrambe
al radicamento di Montaldi nell’esperienza vitale dei proletari e dei
proletarizzati del Cremonese.
La
prima è che dai suoi scritti emerge un’umanità radicata in un passato
storico profondo, in mondi vitali non ancora sussunti dall’industria della
coscienza e dalla sua massiccia opera di «culturalizzazione», dai media, dai
modi di produzione della sociabilità capitalistica moderna (quella che Giorgio
Cesarano, nel ’68-’69, definiva la «fabbrica della persona»). Si pensi,
solo per fare un esempio, al clima collettivo di «deriva psicogeografica»
ch’egli descrive ne La matàna de Po.
La
seconda considerazione verte sull’elemento schiettamente politico, cioè
sull’esperienza specifica del proletariato cremonese. Montaldi agisce fin da
giovanissimo in un contesto che ha ancora legami molto stretti con la fondazione
del Partito Comunista d’Italia, con il Biennio Rosso, con una Resistenza che lì
ha avuto determinati caratteri di radicalità. E nell’immediato dopoguerra
entra in contatto con i sopravvissuti del «Prolétariat fraction théorique»
[35]
degli anni Trenta, che, tornati a Cremona, vi avevano portato i materiali del
dibattito internazionale tra i rivoluzionari d’anteguerra e notizie di prima
mano sulla controrivoluzione staliniana. Questa sua inserzione e il fatto che
Montaldi si ponga soggettivamente il problema di riarticolare questo passato
politico, non ancora consumato anche se bloccato dallo stalinismo, sono alla
base della sua idea di «militanti politici di base» e della categoria di «disperso
partito marxista». Proprio l’esistenza sul territorio cremonese di tanti
operai, compagni, gente che dentro e fuori la fabbrica ha avuto un rapporto
storico con il proprio tempo permette a Montaldi di trarre dalle
autobiografie di quelli che sociologicamente sarebbero definibili come «emarginati»,
informazioni e conoscenze sul fascismo, sugli anni Trenta, sul dopoguerra ecc. E
nella maggiore ricchezza del tessuto politico proletario in cui Montaldi e i
suoi compagni si muovono, si disegna anche una sensibile differenza rispetto a
quanto raccontato da Blanchard a proposito della vita di gruppo in Socialisme
ou Barbarie e dell’espressione operaia. I lavoratori con cui Unità
Proletaria era in rapporto, loro, non stavano zitti. Magari, non intervenivano
immediatamente nelle riunioni, però si «facevano sentire». L’attività del
gruppo di Cremona è assolutamente particolare proprio perché è l’attività
comune di un gruppo di operai e di un gruppo di giovani ricercatori costretti,
nel rapporto dialettico con i primi, a vedere le cose da vicino, in un senso
molto pratico.
È
a partire da questo ambiente, e riflettendo sull’esperienza storica trascorsa,
in quanto essa insiste sulle circostanze attuali, che occorre situare la
specifica fisionomia di Montaldi e del suo gruppo. Coscienti del fatto che lo
stalinismo non dovesse essere inteso semplicemente come corrente politica, ma
come uno degli elementi costitutivi del nesso sociale capitalistico in cui il
proletariato si trovava immesso, essi tentarono una pratica d’intervento che
si sottraesse a questo dispositivo di potere.
Montaldi
non è né un sociologo né un antropologo[36].
È un militante rivoluzionario che si propone un intervento diretto, a partire
da una riarticolazione della piattaforma politica che derivi da una ripresa
dell’interazione con i proletari concreti, con ciò proponendosi l’obiettivo
di superare la «separatezza» nella quale sono stati confinati i militanti
delle «frazioni» del passato, separatezza che, secondo lui, ha segnato
profondamente la loro stessa percezione del carattere dell’attività
militante.
L’inchiesta
non è, per Montaldi, metodo bensì forma
di vita: non si tratta d’intervenire nella comunità locale per
testimoniare e conservare il mondo folklorico ch’essa esprime, ma di farla
finita con l’atteggiamento folklorico nei confronti delle espressioni delle
classi cosiddette subalterne e di cogliere le complessità ambientali
all’interno delle «differenze di sviluppo interno» prodotte dal processo di
accumulazione capitalistico, differenze che «si riassumono nella realtà di
profonde sopravvivenze e si illustrano attraverso lo studio di fenomeni sociali
ed umani che portano ad avvicinare la legge generale del processo, dalla quale
conoscenza non possono essere escluse le forme contingenti, transitorie,
aberranti prodotti dalle crisi»[37].
Quando
si parla di Cremona non si può pensarla come una realtà periferica. Per
Montaldi Cremona è il cuore di un segreto storico: la genesi del fascismo.
Nella Matàna de Po egli afferma che
si può capire il fascismo in Italia, inteso non come evento ma come processo,
solo se si capisce quanto accaduto «tra Cremona, Ferrara, Bologna, nella Bassa».
Lì, a causa di una particolare sedimentazione storica, fin dalla seconda metà
dell’Ottocento si era espresso nelle campagne un forte movimento proletario (e
non contadino): è contro questa sedimentazione di esperienze, organizzazione e
autonomia che il fascismo agrario fa la sua prova del fuoco e sconfigge «nel
’22 e nel ’23 il comunismo nascente come sviluppo divergente da un’antica
civiltà, come rivendicazione del proletariato, non uscita calma e tranquilla
dalle cooperative e dalle amministrazioni dei paesi, ma esigenza rossa,
rivoluzionaria»[38].
L’inchiesta
e la conricerca producono un doppio movimento di conoscenza: la forma di vita si
singolarizza nella narrazione e illumina i processi reali di un individuo, ad
esempio, negli anni Venti, qual era la sua tecnica di sopravvivenza, in che modo
organizzava quotidianamente la sua esistenza ecc. Il gruppo politico non mira a
radicarsi in una determinata situazione, ma piuttosto attua un movimento che, a
partire da una forte immedesimazione in essa, illumina i processi storici nelle
loro determinazioni concrete. È un processo di conoscenza che entra nella
situazione per cogliervi gli elementi esemplari di un’esperienza del
proletariato inteso come classe universale.
Montaldi
sviluppa l’idea di una grande impresa di conoscenza destinata ad attraversare
i diversi segmenti della classe, compresi quelli «marginali», ma non vuole
assolutamente passare per uno studioso dell’emarginazione, ed è ben lungi dal
condividere la «mistica del selvaggio»[39].
Per lui si tratta di conoscere quali sono le diverse configurazioni che le forme
di vita possono assumere all’interno di una situazione storica. E allora ecco
i marginali, i militanti politici di base e, infine, la «nuova classe operaia».
Nei
mesi precedenti la sua improvvisa scomparsa, Montaldi stava lavorando a una
grande inchiesta sugli operai protagonisti delle lotte dell’«autunno caldo».
In una lettera scritta nella fase di formazione del gruppo di lavoro che avrebbe
dovuto condurre l’indagine, egli ribadisce il proprio rifiuto di un approccio
sociometrico all’esperienza proletaria: «Avevamo escluso di condurre
un’inchiesta pianificante, che molto spesso è anche banalizzante. […] il
ricercatore dovrebbe essere il primo a ricercare un rapporto preciso, non
mediato dagli strumenti industriali e statali, di riconoscimento con il
protagonista della lotta. Per questo, fin dall’inizio, si è parlato di unica
possibilità di questa ricerca come ricerca fondata su presupposti collettivi,
di classe, escludendo possibilità di formule falsanti. […] non dobbiamo
esaminare l’oggetto-operaio, ma svolgere assieme al soggetto una comune
ricerca su quanto è stato il recente per capire anche, in tempi di tale crisi
(indicati dalla tua finale aggiunta nel questionario), come sorgere di nuovo, in
quanto classe (e in quanto cultura come parte della lotta di classe) a partire
dall’avvenire» [40].
Nei
suoi primi scritti, in una sorta di commiato dall’esperienza delle formazioni
internazionaliste storiche, Montaldi aveva detto la sua appartenenza a tale
esperienza, ma nello stesso tempo avanzato la proposta di raccoglierne la
sedimentazione teorica per riportarla ad una nuova impresa di conoscenza.
Nell’introduzione
al suo libro sui militanti politici di base Montaldi afferma che il
rivoluzionario è mosso da «un certo conflitto con il tempo storico, che si
estende dalle ragioni politiche a tutte le norme di vita e di costume», e che
«il dramma di una coscienza politica proletaria è proprio nell’isolamento,
nella paura di un tempo che fugga senza bisogno di protagonisti come il
militante “sa” di essere, in un certo timore di una storia che superi e
deformi maggiormente il senso di quanto è stato realizzato e il mondo stesso» [41].
Montaldi,
lungi dal fissare un’indeterminata «legge pura del rivoluzionario», lo
indaga sempre su di uno sfondo storico ben determinato, ricostruendo a pezzi, a
brani, un secolo iniziato approssimativamente nel 1905 e conclusosi con la metà
degli anni Settanta: il secolo dei Consigli operai, il secolo di questa forma
politica con la quale un rivoluzionario si trova in continua relazione. Lungo
tutta questa vicenda uno strato di militanti politici di base nasce, si forma,
viene represso e si ricostituisce.
Questo
strato, con cui Montaldi interagiva, oggi non esiste più. E nemmeno la forma
politica in rapporto alla quale tale segmento sociale si era andato costituendo,
il Consiglio.
Quindi,
leggere oggi Montaldi, se non vuol essere un’operazione antiquaria, deve
portare sulla problematizzazione del presente.
Tale
lettura non fornisce la chiave per comprendere la composizione di quello che
certuni chiamano l’operaio post-fordista, né potrebbe farlo. Ma la pratica
attraverso cui Montaldi si misura con il suo presente storico e tende a un «pensiero
fornito di mani» risulta a tutt’oggi paradigmatica.
Note
[1]
Danilo Montaldi, Saggio
sulla politica comunista in Italia 1919-1970, Edizioni «Quaderni
Piacentini», Piacenza, 1976, p. 53.
[2]
Danilo Montaldi, Cronache
della Gauche, «Questioni», Torino, a. IV, n. 3, maggio 1956,
ora in Id., Bisogna sognare. Scritti
1952-1975, a cura del Centro d’Iniziativa Luca Rossi (Milano), Colibrì,
Paderno Dugnano, 1994, p. 86.
[3]
Il plebiscito della Sarre, «Prometeo»,
Molenbeek-Bruxelles, n. 114, 3 febbraio 1935, p. 1.
[4]
Un punto culminante della decadenza
dello Stato Soviettico, «Prometeo», Molenbeek-Bruxelles, n. 118,
26 maggio 1935, p. 3.
[5]
Stefano Merli, Alle
origini della Nuova Sinistra, ma oggi forse non sarebbe con noi. In un
saggio inedito la figura e l’opera di Danilo Montaldi, «Il Quotidiano
dei Lavoratori», Milano, a. IV, n. 10, sabato 15 gennaio
1977, p. 6.
[6]
Attilio Mangano, L’altra
Linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova sinistra, Pullano
Editori, Catanzaro, 1992. Tra l’altro, l’ignoranza circa le vicende
dell’ultrasinistra storica – tratto che ancor oggi caratterizza
un’intellettualità che sistematicamente fallisce nella comprensione della
propria determinatezza – porta l’Autore a qualificare la posizione
montaldiana con l’equivoco e antistorico termine di
“terzinternazionalismo di sinistra” (cfr., ivi,
cap. 3: “Danilo Montaldi fra sociologie e culture di classe”,
§ 4: “Il terzinternazionalismo di sinistra”, pp. 67-71).
[7]
Ovverosia il Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (PdUP).
[8]
[Danilo Montaldi], La
fine del psiup, «Giornale
Operaio», Cremona, numero unico, p. 4, ora in Id., Bisogna
sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 461.
[9]
Di lui Jean Barrot scrive che aveva fatto parte di quella componente della
Fraction Française de la Gauche Communiste che «aveva raggiunto Socialisme
ou Barbarie nello stesso periodo in cui Damen rompeva con Bordiga. […]
Quando Socialisme ou Barbarie
respinse apertamente il marxismo, una parte se ne distaccò per formare
Pouvoir Ouvrier, di cui Véga fu l’animatore. Ma questo ex
“bordighista” non aveva trattenuto né apportato nulla di bordighista a Socialisme ou Barbarie, che d’altronde non voleva essere in debito
di alcunché né verso la Sinistra tedesca, né verso quella italiana, né
verso chiunque altro» (“Présentation” a «Bilan».
Contre-révolution en Espagne 1936-1939, uge 10/18,
Paris, 1979, nota 96, p. 410).
[10]
Paul Romano, L’Ouvrier
américain, «Socialisme ou Barbarie», Paris, a. I, n. 1,
marzo-aprile 1949, pp. 78-89; a. I, n. 2, maggio-giugno 1949,
pp. 83-94; a. I, n. 3, luglio-agosto 1949, pp. 68-81; a. I,
n. 4, ottobre-dicembre 1949, pp. 45-57; a. I, n. 5-6,
marzo-aprile 1950, pp. 124-135. The
American Worker, la cui prima edizione era comparsa a Detroit nel 1947,
si componeva di due parti: quella di Paul Romano e una seconda, scritta da
Ria Stone, che non venne però tradotta in italiano (vedi, infra,
nota 18).
[11]
Cfr. Mario Baccianini – Angelo
Tartarini (a cura di), Socialisme ou Barbarie. Antologia critica, Guanda, Parma, 1969, 331 pp.
A proposito di questo «falso integrale» – confezionato dai due «curatori»
assemblando traduzioni infedeli, censure e invenzioni di sana pianta –, si
veda Mario Lippolis, Aspetti
della critica radicale («Socialisme ou Barbarie») al sinistrismo francese
del dopoguerra, «Agaragar», Roma, n. 5, settembre-dicembre 1972,
nota 25, pp. 67-68.
[12]
SugarCo, Milano, 1978, 2 voll., 239+158 pp.
[13]
Vallecchi, Firenze, 1981, XIV+201 pp.
[14]
Cfr. Noam Chomsky – Edward S. Herman,
The Political Economy of Human Rights,
South End Press, Boston, 1979, 2 voll., XVII+441 e XX+392 pp.; Noam
Chomsky, Towards a New Cold
War. Essays on the Current Crisis and How We Got There, Pantheon Books,
New York, 1982, 499 pp.; Fred
Halliday, The Making of the
Second Cold War, Penguin, London, 1983.
[15]
Grand répertoire des petites têtes
molles de notre époque, voce “Pensée Danone (exemple
type: Edgar Morin)”, «Mordicus», Paris, n. 9, aprile 1993, p. 30.
[16]
Toni Negri, Dall’operaio
massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, a cura di
Paolo Pozzi e Roberta Tomassini, Multhipla, Milano, 1979, p. 45.
[17]
Brescia, mercoledì 12 aprile 1995.
[18]
Intervento di Gianfranco Fiameni al Centro sociale Magazzino 47, Brescia,
sabato 6 maggio 1995. Questa testimonianza nulla toglie all’amicizia e
alla stima che Montaldi portava a Panzieri (cfr. in proposito l’ultimo
scritto montaldiano, Esperienza operaia o spontaneità, apparso postumo su «Ombre Rosse»,
Roma, n. 13, febbraio 1976, ora in Danilo
Montaldi, Bisogna sognare.
Scritti 1952-1975, cit., p. 494), venendone ricambiato, ma illumina
alcune significative differenze tra i due, sia d’ordine politico-teorico
sia di sensibilità nei confronti delle esperienze di lotta.
[19]
Ria Stone, La
Reconstruction de la Société, «Socialisme ou Barbarie», Paris, a. II,
n. 7, agosto-settembre 1950, pp. 67-81; a. II, n. 8,
gennaio-febbraio 1951, pp. 50-72 (ripubbl. in Paul
Romano – Ria Stone, The
American Worker, Bewick/Ed., Detroit, 1972). Ria Stone è lo pseudonimo
di Grace Lee, un’esponente del Correspondence Publishing Committee. Tale
raggruppamento, che pubblicava il giornale operaio «Correspondence» di
Detroit, era stato formato da Martin Glaberman, Raya Dunayevskaya e Cyril
Lionel Robert James nel 1951, dopo la conclusione dell’esperienza della
Johnson-Forest Tendency, condotta dapprima in seno all’organizzazione
shachtmaniana (1941-’47) e poi al Socialist Workers Party (1948-’50).
[20]
Cfr. Claude Lefort, L’Expérience
prolétarienne, «Socialisme ou Barbarie», Paris, a. IV, n. 11,
novembre-dicembre 1952, pp. 1-19 (ripubbl. in Id., Éléments
d’une critique de la bureaucratie, Gallimard, Paris, 1979, pp. 71-97).
Questo scritto (del quale esiste una traduzione italiana, apparsa su «Collegamenti
per l’organizzazione diretta di classe», Firenze, n. 3-4, maggio 1978,
pp. 129-148) va letto insieme a De
la réponse à la question, «Les Temps Modernes», Paris, a. X, n. 104,
luglio 1954, pp. 157-184, con cui Lefort chiude la discussione aperta
con Le marxisme et Sartre, «Les
Temps Modernes», Paris, a. VIII, n. 89, aprile 1953, pp. 1541-1570.
[21]
Sull’esperienza del Censier, cfr. Jacques
Baynac, Mai retrouvé, Laffont, Paris, 1978 e Mario Lippolis, Ben
venga maggio e ’l gonfalon selvaggio!, edito a cura dell’Accademia
dei Testardi, Carraia, 1987, 371 pp.
[22]
Del quale il Gruppo Karl Marx di Cremona pubblicherà in Italia la
piattaforma politica, cfr. La
piattaforma del Potere Operaio, tr. it. a cura di Danilo Montaldi,
Cremona, 1970, ora in “Appendice” a Danilo
Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., pp. 596-607.
[23]
Parti Socialiste Unifié, guidato da Pierre Mendès-France,
socialdemocratico autogestionista, per certi versi simile al psiup
italiano.
[24]
Le roman de nos origines, sez.
“Comprénsion de la contre-révolution et reprise révolutionnaire”, §
“De la gauche allemand à Socialisme ou Barbarie”, «La Banquise», Paris, n. 2,
secondo trimestre 1983, pp. 15-16.
[25]
Wolf Woland, Note
sulla classe proletaria come esperienza, «Maelström», Carraia, n. 3,
novembre 1987, pp. 157-162.
[26]
Claude Lefort, L’Expérience
prolétarienne, «Socialisme ou Barbarie», cit., p. 6.
[27]
Ibidem, p. 15.
[28]
Ibidem, pp. 11-13.
[29]
Wolf Woland, Note
sulla classe proletaria come esperienza, «Maelström», cit., pp. 165-176.
«I cultori di un particolare patrimonio del movimento operaio o comunista
trascurano di situare il ruolo e la funzione della teoria rivoluzionaria e
delle ideologie nella loro reale dimensione, sia nel tempo, sia nello
spazio. […] Non è la particolare adesione a un indirizzo di
interpretazione dialettica che può salvaguardare il movimento dai
fallimenti e dalle sconfitte: la rivoluzione è un problema di forza, non di
forma. Soltanto quando la teoria rivoluzionaria diventa una sola cosa con la
prospettiva dell’insorto, si mette in movimento il complesso meccanismo
che trasforma la società borghese in società socialista. Ma queste due
forze maturano insieme, in continuo scambio dialettico, ed è questo che
costituisce il contenuto dell’esperienza proletaria nel nostro secolo» (Danilo
Montaldi, Esperienza operaia o
spontaneità, «Ombre Rosse», cit., ora in Id., Bisogna
sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 497).
[30]
Pur nell’impossibilità di sviluppare qui l’argomentazione, non possiamo
astenerci dall’accennare al fatto che la tematica dell’autonomia e
dell’autogestione della lotta – centrale in Montaldi, in «Socialisme ou
Barbarie», in «Correspondence» ecc. –, se trova in questi eventi la
verifica della sua portata, v’incontra anche il proprio limite, ben
esemplificato dall’impasse del movimento delle occupazioni nel
Maggio-giugno ’68, e non può perciò essere ripresa oggi prescindendo da
un bilancio della sua parabola storica.
[31]
In «Battaglia comunista», Milano, a. XV, n. 2, febbraio-marzo
1954, p. 3, ora in “Appendice” a Danilo
Montaldi, Bisogna sognare. Scritti 1952-1975, cit., pp. 501-502.
[32]
Brescia, mercoledì 12 aprile 1995.
[33]
Cfr. Romano Alquati, Per fare conricerca, Calusca Edizioni, Padova, 1993, pp. 10-11,
e Camminando per realizzare un sogno
comune, Velleità Alternative, Torino, 1994, in particolare il cap. 4:
“Su Montaldi (Panzieri, io) e la conricerca”, pp. 119-208, ma anche
la nota 78, p. 59.
[34]
Testimonianza di Gianfranco Fiameni, cit.
[35]
La definizione è di Raoul Brémont – un militante che aveva fatto parte
del «gruppo di Marsiglia» della Gauche Communiste Internationale (composta
dalle Frazioni italiana, belga e francese) –, che la usava per qualificare
se stesso, ed è tratta da un suo scritto del 1938 sulla comunità
rivoluzionaria (ried.: La Communauté,
Éditions de l’Oubli, Paris, 1975).
[36]
Un recente tentativo di ricondurre a forza Montaldi nel recinto del pensiero
universitario, è quello compiuto da Marco Gervasoni (Fra
Montaldi e Panzieri. Socialisme ou Barbarie
e l’inchiesta, «Per il Sessantotto», Pistoia, a. VI, n. 9,
1996). Nella chiusa del suo articolo, questo «giovane ricercatore» – che
tre anni fa ha scoperto la «feconda attualità» del rosselliano programma
di «rinnovamento europeo» e di «socialismo non classista» – scrive: «La
“conricerca” di Montaldi si pone dunque, non soltanto come anticipatrice
della “storia orale”, ma anche e soprattutto come rappresentante della
storia del movimento operaio in quanto storia della sociabilità
operaia» (ivi, p. 32).
Se di questo si trattasse, non metterebbe proprio conto di ricordare il
cremonese, giacché le università straboccano di gente che studia «la
classe operaia e le classi subalterne all’interno del loro proprio
universo culturale» e, ormai da tempo, «la storia quantitativa e basata su
dati statistici convive tranquillamente con la storia “liberata” a
contatto con la vita popolare, o con la storia delle mentalità. Basta
consultare l’indice delle riviste storiche per vedere che si studia di
tutto, ma quasi mai l’essenziale» (Denis
Authier – Jean Barrot, La
sinistra comunista in Germania, La Salamandra, Milano, 1981, p. 14).
Da ultimo, in quella Parigi ove si esercitò la rabdomanzia montaldiana –
capace d’individuare le scaturigini segrete e i sotterranei percorsi del
pensiero rivoluzionario, così come di decifrare le tracce degli
affrontamenti storici dell’èra contemporanea inscritte nel tessuto
metropolitano –, si possono vedere frotte di universitari seguire, chi
sbadigliando e chi interpretando in modo engagé
il ruolo studentile, le escursioni dell’«etnologo nel metrò», senza
ricavarne, ovviamente, alcuna illuminazione né su se stessi né sul loro «oggetto
di studio».
[37]
Danilo Montaldi, Crisi
del mito contadino (con una nota su Cesare Pavese), «Presenza»,
Milano, a. I, n. 1, luglio 1958, ora in Id., Bisogna
sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 201.
[38]
Danilo Montaldi, La
Matàna de Po, «Presenza», Milano, a. II, n. 6-7,
luglio-dicembre 1959, ora in Id., Bisogna
sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 338.
[39]
Tant’è ch’egli si lamenta di vedere frainteso il proprio approccio: «Posso
ben aver criticato il naturalismo e la cosiddetta civiltà contadina, posso
ben aver scritto contro questi miti da una parte e dall’altra, cercando di
sputtanare l’ideale del “selvaggio”. Passo per uno che ci vive dentro
a suo agio» (Danilo Montaldi, La
Matàna de Po, «Presenza», cit., ora in Id., Bisogna
sognare. Scritti 1952-1975, cit., p. 334). L’esigenza di operare
questa netta demarcazione motiva anche la dura critica che Montaldi muove a
Bosio, accusandolo di restare «sotto l’abbaglio della cultura sedicente
spontanea» e di concludere «nell’esaltazione di quanto sta subordinato»,
in una «scoperta del “buon selvaggio”, del buon selvaggio questa volta
proletario, socialista o anarchico», quest’ultimo fatto oggetto di un «compiacimento
statico» da ricercatori politicamente incapaci di muovere «verso cerchi
emancipatori sempre più vasti» e perciò impossibilitati a realizzare la
riattualizzazione del passato e ridotti a fare da custodi di un’esperienza
che o è defunta o può essere raccolta solo come quanto è rimasto ai
margini della storia (Danilo Montaldi,
Esperienza operaia o spontaneità,
cit.).
[40]
Danilo Montaldi,
“Introduzione” a Militanti
politici di base, Einaudi, Torino, 1971, pp. XI e XIX.
[41]
Lettera a Guido Bobbio, 23 febbraio 1975, pubblicata postuma su «Quaderni
Piacentini», Piacenza, a. XVIII, n. 72-73, ottobre 1979, pp. 98-100.
In un’altra lettera, indirizzata a Goffredo Fofi e datata 3 marzo
1975, Montaldi scrive che «lo scopo della ricerca sarebbe di far conoscere
a se stessa, innanzitutto, questa “nuova classe operaia”, attraverso
biografie, documentazioni “interne” di vario tipo (come lettere, diari
ecc.), di svolgere un lavoro che la avvicini alla riflessione sugli anni
’68-’70 che l’hanno vista manifestarsi, sia a un avvenire che, proprio
da un punto di vista di classe, si può vedere attraverso di essa, e con
essa, in prospezione», e invoca che «non si torni a qualche opprimente
questionario che tutto pianifica e banalizza» (ibidem,
p. 100). A essere messa in questione da Montaldi è insomma l’idea
stessa dell’esistenza di un proletariato sociometrico, in quanto esso è
il risultato di un trattamento che la massa proletaria riceve da parte di
determinati saperi, che sono i saperi dell’organizzazione nella sua
accezione più vasta.