Dallo sfruttamento nei lager
allo sfruttamento dei lager

 «La Guerre sociale», n.3, giugno 1979

 

[...] mi è sembrato indispensabile fissare le cause dell'orrore in tutti i loro aspetti, non fosse altro che per ricondurre al suo giusto valore l'argomento soggettivo di cui venne fatto così largo uso, e per orientare un po' di più verso la natura stessa delle cose [...] (P. Rassinier, Le Mensonge d'Ulysse)

 

Vent'anni dopo la Prima Guerra mondiale, il mito dei bambini cui i tedeschi avrebbero tagliato le mani aveva ancora corso. Fin dal 1914 André Gide rifiutava di prestarvi fede e reclamava delle prove. Non fu possibile fornirgliene. Ci si risentì con lui sia per la sua «mancanza di patriottismo», sia perché aveva messo certi francesi nell'obbligo increscioso di riconoscere il loro errore: si erano fatti passare per vittime della barbarie teutonica dei bambini che si erano feriti giocando con granate abbandonate sul campo di battaglia. La Seconda Guerra mondiale ha suscitato miti ancora più stravaganti, ma prenderli di petto non è igienico. R. Faurisson, A-t-on lu Lautréamont?

 

Su cinquanta libri dedicati alla Germania in una biblioteca municipale ordinaria, trenta riguardano il 1939-45 e, di questi trenta, venti riguardano la deportazione. La visione dei campi proiettata per il grande pubblico è quella del regno dell'orrore allo stato puro, un orrore guidato da una logica sola, quella del terrore. Questa visione poggia su una descrizione apocalittica della vita di campo e su analisi storiche che affermano che i nazisti hanno pianificato lo sterminio di milioni di uomini, in particolare di sei milioni di ebrei. Certi autori, come David Rousset, vanno più lontano: i nazisti non volevano soltanto uccidere, ma volevano degradare, far sì che dei «subumani» prendessero coscienza della propria condizione attraverso un invilimento calcolato e della propria subumanità attraverso un decadimento organizzato.

Regolarmente, questa visione esce dalle biblioteche e invade l'insieme dei mass media. Così è accaduto di recente: prima a seguito di un'intervista di Darquier de Pellepoix, ex-commissario alle questioni ebraiche nel governo di Vichy, poi dopo la proiezione del telefilm Olocausto in parecchi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, la Germania federale e la Francia. A seguito di ciò, siamo stati gratificati non solo da numerosi commenti giornalistici, ma anche da interventi di uomini di Stato. L'11 novembre '78 Giscard d'Estaing parlava di «questa perversione dello spirito che è costituita da tutte le forme di razzismo». Sarà perché ha lo spirito perverso che la Francia rifornisce di armi il Sudafrica? Helmut Schmidt, in un'intervista diffusa il 6 marzo '79, faceva suo pro di tutto affermando:

Bisogna che i giovani vedano bene qual è il parallelismo di quei concatenamenti di tappe psicologiche che ieri hanno portato a milioni di morti e che oggi portano ad atti terroristici che causano anch'essi la morte di persone.

L'insistenza sui crimini nazisti ha come prima funzione quella di giustificare la Seconda Guerra mondiale e, più in generale, la difesa della democrazia contro il fascismo: la Seconda Guerra mondiale non sarebbe stata tanto un conflitto fra nazioni o imperialismi, quanto piuttosto una lotta fra l'umanità da una parte e la barbarie dall'altra. I dirigenti nazisti erano ci si dice dei mostri e dei criminali che si erano impadroniti del potere. Quelli di loro che sono stati catturati dopo la disfatta sono stati giudicati a Norimberga dai loro vincitori. Per questa visione è essenziale mostrare nei nazisti una volontà di massacro. Certo, uccisioni ce ne sono in tutte le guerre, ma loro, i nazisti, volevano uccidere. Questo è il peggio, ed è questo, prima di ogni altra cosa, che viene loro rimproverato. Moralismo aiutando, li si biasima non tanto di aver fatto la guerra, dato che uno Stato rispettabile vi si può lasciar andare, ma di essere stati sadici. I bombardamenti intensivi e assassini di Amburgo, Tokyo, Dresda, le due bombe atomiche, tutti quei morti vengono giustificati come un male necessario per evitare altri massacri il cui orrore sarebbe consistito nel fatto che, questi, sarebbero stati sistematici. Fra i crimini di guerra nazisti e le pratiche dei loro vincitori non vi sarebbe paragone possibile. Lasciar intendere il contrario sarebbe già farsi complici, consapevoli o inconsapevoli, di quei crimini e permettere ch'essi si producano di nuovo. La giustificazione del 1939-45 non è affare da poco. Bisogna dare un senso a questa strage senza eguali che ha fatto decine di milioni di vittime: si potrebbe forse ammettere che era per riassorbire la crisi del '29 e per consentire al capitalismo di ripartire di buona lena? Questa giustificazione sorregge l'antifascismo di oggi e di domani e dunque la sinistra che se ne alimenta, scusando così la propria partecipazione al sistema.

Lo Stato d'Israele, esso stesso in gran parte un sottoprodotto della Seconda Guerra mondiale, ha rifatto un processo di Norimberga alla propria scala, giudicando Eichmann nel '61, per giustificare la propria esistenza. Il ricordo del razzismo nazista e dell'«olocausto», così come la cattiva coscienza occidentale nei confronti degli ebrei, permettono di dimenticare o di minimizzare il fatto che questo Stato fu fondato sulla cacciata della popolazione palestinese, con la forza del denaro e delle armi. L'aiuto finanziario fornito dalla Germania federale a titolo di riparazione è tutt'altro che trascurabile. Israele ha rotto recentemente le relazioni sportive con il Sudafrica e il suo apartheid per poter prendere parte ai giochi olimpici di Mosca, cioè in un paese in cui l'antisemitismo se la passa bene. In Israele, le opposizioni etniche permangono all'interno della comunità ebraica, intersecando delle opposizioni sociali. Hannah Arendt nel suo libro La banalità del male (Feltrinelli), sul processo di Eichmann a Gerusalemme, trova che al momento del processo c'era

qualcosa di stupefacente nel candore con cui il procuratore denunciò le inique leggi di Norimberga che, nel '35, avevano proibito il matrimonio e i rapporti sessuali fra ebrei e tedeschi.

Infatti anche in Israele esistevano leggi del genere. D'altro canto, il precedente che, a rigore, avrebbe potuto permettere di giustificare sul piano della giurisdizione internazionale il rapimento dell'apolide Eichmann, compiuto per poterlo giudicare a Gerusalemme, era il rapimento di un ebreo apolide compiuto in Svizzera nel '35 da agenti della Gestapo. Israele ha rimesso in onore i principî dello spazio vitale e della guerra preventiva, principi di cui si servivano i nazisti.

Si insiste sui morti nella deportazione piuttosto che sui milioni di uomini che ogni anno muoiono di fame nel mondo. Nannen, caporedattore della rivista tedesca «Stern», a proposito delle persecuzioni antisemite ha dichiarato: «Sì, lo sapevo, ed ero troppo vile per oppormici». Ci confida che sua moglie, vedendo le immagini di Olocausto, si è messa a piangere ricordandosi che quando aveva appena vent'anni passava davanti alle vecchie ebree che facevano la coda e si faceva servire prima di loro. Oggi c'è ancora gente che continua ad essere servita prima degli altri, e non possiamo non saperlo. Recentemente Jean Ziegler, presentando il libro Paysans écrasés, terres massacrées, di René Dumont, ci insegnava che

il solo raccolto mondiale di cereali del '77 un miliardo e quattrocento milioni di tonnellate sarebbe bastato a nutrire correttamente tra i cinque e i sei miliardi di esseri umani. In questo momento noi siamo sulla terra solo un po' di più di quattro miliardi, e ogni giorno dodicimila di noi muoiono di fame.

Si rimprovererà ai nazisti di avere organizzato la morte in maniera scientifica e di avere ucciso in nome della scienza con esperimenti medici su cavie umane, ma queste pratiche non sono per nulla un loro monopolio. All'indomani di Hiroshima «Le Monde» titolava: Una rivoluzione scientifica.

Ma l'ideologia non è soltanto l'insistenza su certi fatti per sostenere i vincitori contro i vinti, le sofferenze passate contro le sofferenze presenti; queste giustificazioni sono sottese da tutta una concezione che è il prodotto dei rapporti sociali capitalistici e tende a mistificare la natura di questi rapporti. Que-sta concezione è in larga parte comune ai democratici e ai fascisti. Essa riconduce le divisioni sociali a questioni di potere e considera la miseria e l'orrore come il risultato di delitti. Essa è sistematizzata da un pensiero antifascista, antitotalitario, ma per prima cosa controrivoluzionario. L'assenza del proletariato come classe rivoluzionaria, molto più del pericolo nazista o fascista, oggi abbastanza debole, dà a questa ideologia la sua forza e le permette di ricostruire a suo profitto la storia. Infatti, la messinscena e la falsificazione storica non sono un monopolio staliniano. Fioriscono anche in un ambiente democratico di libertà di pensiero e di espressione.

La nostra preoccupazione non è quella di riequilibrare in uno spirito di giustizia i torti e il numero di cadaveri, e di non dar ragione a nessuno in quanto i crimini nazisti sarebbero, in sostanza, solo crimini del capitale, dei quali si potrebbe allungare indefinitamente l'elenco sperando così di condannare meglio il sistema; non è neanche quella di scusare i crimini di Stato in nome di una fatalità socio-economica che si servirebbe della mano degli uomini evitando loro di dover rendere conto a chicchessia. Non si esce dalla visione politico-giudiziaria ripetendo che il grande responsabile è la società, vale a dire tutti e nessuno. Se questa visione deve essere criticata è per il fatto che il modo di accusa del capitale è in pari misura il suo modo di giustificazione. Si tratta di smontare questa messinscena per mezzo della quale il sistema cioè anche dei politicanti, degli intellettuali si serve della miseria e dell'orrore da esso stesso prodotto per difendersi contro la critica reale di questa miseria e di questo orrore.

 

Il fenomeno concentrazionario

 

Nella sua forma moderna il fatto concentrazionario inizia con la guerra anglo-boera nel Sudafrica (1899-1902) ed è il risultato di tre realtà.

 

1. I trasferimenti di popolazione

Pur non datando da oggi (ebrei deportati a Babilonia), i trasferimenti di popolazione prendono un nuovo slancio con la creazione degli Stati moderni e con la determinazione conflittuale del loro territorio. Là dove l'unità nazionale è fragile, le minoranze, spesso lacerate e disputate fra più paesi, pongono un problema agli Stati incapaci sia di assimilarle sia di espellerle, soprattutto dopo il '18 e il '45. Circa trenta milioni di europei, dei quali il 60% tedeschi, hanno perso il loro focolare a seguito della guerra del 1939-45. La decolonizzazione ha provocato emigrazioni volontarie o forzate che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di persone (specialmente in occasione della spartizione delle antiche Indie inglesi tra l'India e il Pakistan). Accade che trasferimenti forzati abbiano per movente non il bisogno diretto di unificare il paese, ma quello di porre in disparte, talora all'interno del paese stesso, una minoranza pericolosa. Nel 1915 l'Impero ottomano non si accontentò di uccidere numerosi armeni, ma ne deportò anche molti, e buona parte di essi morì nel deserto. Nel 1940-41 l'urss spostò un grandissimo numero di polacchi dell'Est verso la Russia del Nord; poi, dopo l'attacco tedesco, deportò i tedeschi del Volga, i baltici, i tatari, ecc.

Chi dice migrazione forzata dice necessità di riunire delle popolazioni per l'attesa della partenza, per il trasporto e l'attesa di una soluzione all'arrivo: tutto questo in campi dove le si concentra. Dopo il '45 c'erano in Europa milioni di «persone spostate», molte delle quali vivevano in campi in condizioni difficilissime. Nel '50 uno scandalo rivelò che degli orfanelli ricevevano solo da trecento a quattrocento calorie al giorno. È improbabile che si sia cercato di farli morire di fame: più semplicemente, essi non avevano nessun mezzo di pressione e venivano serviti per ultimi.

 

2. Il lavoro forzato

L'indifferenza del capitale per l'attività umana, la sua preoccupazione esclusiva di procurarsi manodopera per valorizzare se stesso, fa si che esso rinunci, quando non può fare altrimenti, ad uno dei suoi principi: la libertà di vendere o non vendere la propria forza lavoro. Nelle colonie esso fece ricorso alla costrizione quando nulla spingeva l'indigeno ad andare a sfinirsi nella piantagione o sulla linea ferroviaria, prima che la penetrazione monetaria non lo incitasse a vendere di propria iniziativa la sua forza lavoro per acquistare mezzi di consumo diventati necessari. L'originalità di Stalin, a paragone con Hitler, è di aver fatto del lavoro forzato una base permanente della società e dell'economia russa per decenni, rendendo sistematici i procedimenti autoritari successivi al '17 (militarizzazione del lavoro), spogliandoli di ogni ambiguità rivoluzionaria per farne uno strumento d'inquadramento dirigistico della manodopera. D'altronde è successo che un detenuto liberato si sia augurato di rientrare nel campo in quanto fuori viveva da miserabile, pur esercitando lo stesso mestiere.

L'impiego su larga scala del lavoro forzato è un sintomo di arcaicità dal punto di vista capitalistico: testimonia un'incapacità di far entrare in azione le molle del salariato. Inevitabil-mente il lavoro forzato è più estensivo che intensivo: rimedia all'assenza delle macchine nei grandi lavori di interesse pubblico (prigionieri tedeschi impiegati a scavare canali in Russia, dove molti fra loro hanno trovato la morte). Il lavoro forzato si attaglia ad attività in cui la massa conti più di ogni altra cosa e male si presta all'industria. Lo Stato tedesco dovette appunto venire a patti con i suoi operai perché non si poteva mettere una SS davanti ad ogni macchina utensile.

Caricatura del lavoro salariato, il lavoro forzato fa ciò di cui la specifica logica del capitale non si fa carico, in quanto non darebbe abbastanza profitto o in quanto manchi il capitale necessario. È la conseguenza di una falla nella logica capitalistica, ma questa eccezione non ha senso ed esiste solamente per l'insieme del capitale. Il lavoro forzato non è la negazione del salariato più di quanto il fatto che lo Stato si faccia carico di settori in deficit neghi il capitale. Così nella Russia staliniana le aberrazioni del lavoro dei deportati, come il canale scavato che successivamente non servirà a nulla, riproducono, esasperandoli, gli sciupii specifici del capitalismo di Stato, che a loro volta generano altre aberrazioni nell'economia "normale".

Le deportazioni massicce di ebrei e non-ebrei ebbero luogo soprattutto nel 1942-44 perché fu allora che la Germania abbisognava di tutte le sue forze in una guerra che cominciava a perdere. Essa mobilitò il lavoro rendendolo obbligatorio. Bisognava sostituire i lavoratori tedeschi mandati al fronte con prigionieri, deportati e volontari. Su una trentina di milioni di lavoratori impiegati nell'economia tedesca di guerra, da dodici a tredici milioni erano stranieri, ivi compresi i concentrazionari. Questa cifra era al di sotto delle possibilità obiettive e dei bisogni. Ma l'occupante entrò in urto con le popolazioni. Se riuniva un gran numero di lavoratori, perdeva però sulla qualità e dissipava una quantità inaudita di forze produttive.

 

3. La neutralizzazione sociale

L'assenza di repressione dichiarata non rivela un capitale meno forte o più contestato. Una società come quella dell'Ancien Régime non può impedire anticipatamente gli atti che la rimettono in discussione e neppure può conoscerli bene; infligge dunque un castigo esemplare a quelli fra i colpevoli, o ritenuti tali, sui quali può metter la mano. L'affermarsi del capitale ha coinciso con la pratica dell'imprigionamento, con una razionalizzazione delle punizioni e con una minore accentuazione della loro spettacolarità. L'attuale tendenza degli Stati all'abolizione della pena di morte è solo il prolungarsi di questo movimento, non un progresso e una vittoria della compassione sul sadismo. In Occidente ci si agita a causa del ritorno della legge coranica in certi paesi arabi: mano tagliata ai ladri, bastonatura per l'adultero, ecc., ma quello che turba è il carattere immediato e spettacolare della punizione piuttosto che la crudeltà in sé. Ci si adatta benissimo al fatto che degli uomini marciscano e riescano o non riescano a suicidarsi in carceri "a cinque stelle".

Ma perché i campi? Perché le prigioni sono già piene, perché sono costose e, per l'urss, per ovviare alla mancanza di manodopera nei settori economici ingrati: miniere, regioni dal clima aspro. Un capitalismo sviluppato attirerebbe la manodopera mediante salari superiori, un'attrezzatura e delle abitazioni confortevoli. L'urss, al contrario, disponeva di regioni poco popolate, marginali, nelle quali era necessario un lavoro estensivo. Essa doveva produrre degli sradicati, dei lavoratori messi ai margini, inevitabilmente poco produttivi. Il «Grande Terrore» era tanto una necessità economica quanto una necessità politica. Evidentemente negli usa gli americani non avevano avvertito il bisogno economico di far lavorare le migliaia di loro concittadini chiusi nei campi dopo Pearl Harbor perché di origine giapponese. Se hanno dato loro qualcosa da fare, è stato soprattutto per evitare loro l'ozio e la disgregazione.

L'internamento in campi è un fenomeno generale dell'epoca moderna. Anche in Inghilterra vi sono stati rinchiusi coloro che si opponevano alla guerra. In Francia campi per repubblicani spagnoli erano stati creati nel '38 vicino alla frontiera a Gurs e a Rivesaltes. Saranno utilizzati nel '39 per gli apolidi, specie per quelli di origine tedesca, e per gli spagnoli liberati del 1 o Reggimento di campagna dei volontari stranieri, che nel '42 saranno scaricati nei campi tedeschi nello stesso modo in cui, dalla firma del patto germano-sovietico dell'agosto '39 al 21 giugno '41, si sono effettuati tra campi sovietici e campi tedeschi alcuni trasferimenti di cittadini sovietici e tedeschi. I giapponesi impiantarono campi in Indocina, ce ne furono in Grecia, se ne fecero di nuovi in Indonesia dopo la caduta di Sukarno per centinaia di migliaia di "comunisti" o supposti tali. Questo elenco non è completo. Taluni che sono passati da campo a campo sono arrivati a dire che quelli della Francia e dell'Inghilterra potevano essere peggiori dei campi tedeschi. Questo giudizio può sembrare eccessivo, ma istituire un paragone non è cosa priva di senso.

Il fatto concentrazionario non è un'invenzione né del nazismo né dello stalinismo. È una risposta al problema delle migrazioni forzate economiche o politiche: neutralizzare un certo numero di persone che sono tanto più numerose quanto meno il potere si sente sicuro di sé, facendole lavorare secondo i bisogni e le possibilità. Risposta improvvisata, ma anche risposta burocratica, in quanto organizza dal di fuori un'attività che non si può organizzare da sola.

Perché questi uomini sono esclusi dalla società? Perché, nel caso delle minoranze etniche, esse sono considerate di troppo. Il dramma degli ebrei è stato di essere di troppo dappertutto, respinti dalla totalità degli Stati prima di creare il loro, il che è stato possibile solo quando il loro nemico, lo Stato tedesco, si è ritrovato diviso in due parti. Le minoranze deportate da Stalin hanno avuto un po' più di fortuna, perché hanno sì lasciato molti morti lungo la strada, ma almeno hanno trovato all'arrivo una regione e qualcosa da fare, anche se le condizioni generali e il clima erano ben lontani dal loro modo di vita originario. Quanto ai "devianti" politici o sociali, essi sono esclusi perché la società non ha, in queste situazioni di crisi, altro mezzo di neutralizzarli fuorché quello di toglierli dalla circolazione. Poiché il problema è quello di sbarazzarsene, sapere se viene riservata loro una sorte sopportabile diventa del tutto secondario.

Riguardo ai nordafricani in Francia che sostenevano il Fronte Nazionale di Liberazione, Alex Moscovitch dichiarava al Consiglio comunale di Parigi:

Cinque milioni di francesi possono essere colpiti dall'oggi al domani nei loro beni e nella loro vita a causa di circostanze che essi né hanno voluto né hanno provocato.

E proponeva una soluzione radicale:

Tutti questi agenti del nemico debbono essere mandati via dal territorio metropolitano. Sono due anni che domandiamo la possibilità di farlo. Quel che ci occorre è molto semplice e molto chiaro: l'autorizzazione e un numero sufficiente di navigli. Il problema consistente nel far colare a picco questi navigli, non è, ahimè, di competenza del Consiglio comunale di Parigi.

Egli confermava questo discorso il 15 gennaio '63 in occasione di un processo per diffamazione da lui intentato:

Ho effettivamente deplorato che i nemici della Francia non siano stati sterminati e lo deploro ancora! («Le Monde», 17 gennaio 1963).

 

Leggere Rassinier

 

I campi sono un prodotto del capitalismo non solo nella loro origine ma anche nel loro funzionamento. L'interesse delle opere di Paul Rassinier e in modo particolare de La menzogna di Ulisse sta nel permettere una concezione materialistica della vita, e quindi della morte, all'interno dei campi.

Paul Rassinier (1906-1967) aderisce al Partito comunista nel '22. Si schiererà con l'opposizione di sinistra e verrà espulso nel '32. Milita a sinistra del pcf, poi passa alla sfio per partecipare alla Sinistra rivoluzionaria di Marceau Pivert. Di fronte all'ingigantirsi dei pericoli difende le tesi pacifiste. Scoppiata la guerra, sarà un resistente della prima ora. Arrestato dalla Gestapo nell'ottobre '43, torturato e poi deportato a Buchen-wald e Dora per diciannove mesi, ne ritornerà grande invalido.

Dopo la guerra, Rassinier scrisse in giornali pacifisti e libertari ma anche in riviste di estrema destra. Le sue opere sulla questione concentrazionaria furono pubblicate per conto del-l'autore o da editori di estrema destra. Coloro che da ciò traggono di che argomentare contro di lui sono proprio quelli che avrebbero voluto che egli non fosse mai pubblicato. Di lui la Vielle Taupe (B.P. 9805, 75224 Paris Cedex 05) ha ripubblicato Le Mensonge d'Ulysse, Le Drame des Juifs europeens, Le Véritable Procès Eichmann, ecc.

Nel '62, nell'introduzione al libro sul processo Eichmann, Rassinier si spiega così:

Quando finirono le ostilità, ci furono sul momento solo poche persone che pensavano che fosse necessario passare al vaglio gli orrori e le responsabilità della Seconda Guerra mondiale, ed è degno di nota il fatto che queste persone siano state soprattutto di destra e che, inoltre, abbiano fondato la loro posizione sui principi in nome dei quali venticinque anni prima gli intellettuali di sinistra avevano rifiutato Versailles. Quanto agli intellettuali di sinistra, essi, nella loro schiacciante maggioranza, hanno approvato ed esaltato Norim-berga in nome di principi dei quali, al tempo di Versailles, rimproveravano il carattere reazionario a quelli della destra che li facevano propri, e il fenomeno non è meno degno di nota. In ogni caso, vi è in ciò un'inversione abbastanza curiosa nel campo dei principi ed è in questa inversione che si situa il mio dramma personale.

E spiega il suo itinerario:

Bisognava ricominciare tutto a partire da zero: prendere i fatti uno ad uno, studiarli nella loro materialità e infine ricollocarli correttamente nel loro contesto storico []. Io cominciai con il fatto storico sul quale, per averlo vissuto, mi credevo informato al meglio: il fenomeno concentrazionario. Poiché esso era in primo piano nell'attualità e poiché tutti i dibattiti pubblici vi si riconducevano, mi si scuserà se ho pensato che mai occasione sarebbe stata più favorevole. La menzogna di Ulisse fu il primo atto di fedeltà ai principi della sinistra del '19.

L'opera di Rassinier va nel senso di una limitazione. Verso la fine della sua vita egli attribuirà un peso eccessivo alle pressioni della comunità ebraica internazionale nello scatenamento della Seconda Guerra mondiale. Ciò dipende dal fatto che Rassinier, pacifista, crede che la guerra sia stata provocata - oltre che dal crollo della sinistra rivoluzionaria, con cui da principio aveva simpatizzato - da circostanze superficiali e che avrebbe potuto essere evitata. Il suo terribile isolamento lo porterà a frequentare personaggi di estrema destra e a subirne l'influenza.

Una delle prime preoccupazioni di Rassinier è quella di respingere l'idea di una volontà cosciente di sterminio. Egli mostra l'inconsistenza dei testi su cui a Norimberga e in prosieguo ci si è fondati per accusare i nazisti di aver pianificato la morte lenta o violenta degli ebrei. Il massacro degli ebrei dice è il risultato di una situazione inestricabile nella quale anche gli Alleati hanno le loro responsabilità. Cosa che i giudici di Norimberga evidentemente non potevano ammettere; occorrevano dei colpevoli. Occorreva fare del Partito nazionalsocialista il responsabile della guerra e dei suoi massacri. Rassinier sottolinea le contraddizioni, gli errori di traduzione, le menzogne e soprattutto l'abbondanza dei sentito dire sulla deportazione. Ma gli statuti di Norimberga non sancivano che «il Tribunale non sarà vincolato dalle regole tecniche relative all'amministrazione delle prove []. Il Tribunale non esigerà che sia recata la prova di fatti di pubblica notorietà, bensì li terrà per acquisiti»? Curiosa procedura, perché, così pare, le "prove" flagranti di tutto ciò che sui campi è stato rimproverato ai nazisti sarebbero innumerevoli: perché, allora, accontentarsi dei sentito dire? Basterà poi stabilire il principio di una responsabilità collettiva degli esecutori che imponeva retroattivamente ad ogni tedesco il dovere di essere obiettore di coscienza, diritto rifiutato dai vincitori ai cittadini dei loro Stati.

Quello che l'opinione pubblica e anche dei rivoluzionari oggi accettano come cosa evidente appare singolarmente fragile quando si legge Rassinier. In una ricerca la cui minuziosità può sorprendere, Rassinier smonta, dopo un interminabile spoglio delle statistiche, la cifra generalmente ammessa di sei milioni di vittime ebree. «Anticomunisti» a parte, la leggenda dei «75.000 fucilati» del pcf non era, neanche essa, messa in discussione alla fine della guerra da chicchessia, almeno pubblicamente. Solamente quando ebbe inizio la guerra fredda ci si accorse che vi sarebbero stati in totale solo 26.000 francesi fucilati dai tedeschi tra il '40 e il '44. Oggi anche i membri del pcf ammettono che un dubbio plana sui "loro" 75.000 fucilati. Allo stesso modo, i dirigenti nazisti hanno inizialmente valutato il numero dei morti a Dresda in più centinaia di migliaia. Ma dopo la guerra il numero ufficiale di questi morti è stato fissato in 135.000; questa valutazione non riscuote peraltro l'unanimità (250.000 secondo il Petit Robert). La precisione delle cifre conferisce un carattere scientifico e sacro a valutazioni che risultano da orientamenti politici, mentre è molto azzardato pretendere all'esattezza. Probabilmente non si saprà mai con precisione quanti furono i morti di Dresda. La città ospitava un numero imprecisato di profughi. La gente si è riparata nelle cantine e, causa l'intensità dei bombardamenti al fosforo, il calore si è fatto intenso abbastanza da non lasciare altro che uno strato di resti calcinati.

Qui non saremo categorici né entreremo nel dettaglio di calcoli che occupano più di cento pagine ne Le Drame des Juifs européens. Per Rassinier la cifra di sei milioni risulta dal fatto che viene trascurata la circostanza che sarebbe possibile che almeno quattro milioni e mezzo di ebrei europei abbiano lasciato l'Europa fra il '31 e il '45: al massimo vi sarebbero stati un milione e mezzo di ebrei morti per fatti di guerra di ogni genere. La cifra non è senza importanza, perché dal numero delle vittime dipendono metodi e procedimenti impiegati. La posta in gioco nel dibattito non è dunque la critica di eventuali esagerazioni, bensì stabilire se queste esagerazioni non siano la conseguenza di un'assenza di analisi o il risultato di un'analisi tendenziosa e falsa.

Come si è arrivati a questi sei milioni? Nel 1945-46 i giudici di Norimberga non disponevano di statistiche serie sul numero di ebrei sopravvissuti, e neanche avevano potuto consultare le tonnellate di carte d'archivio cadute nelle mani degli Alleati. Al processo si lanciò la cifra di dieci milioni, poi di sei milioni, e su quest'ultima si basarono infine l'accusa e la sentenza. Poi, per legittimare scientificamente Norimberga, gli esperti si sono sempre accordati su sei milioni come "media aritmetica" fra le loro diverse stime, senza necessariamente che fra loro vi sia stato accordo sui rispettivi effettivi di ciascun campo e sul numero di ebrei in ciascun paese prima e dopo la guerra. Bisogna trovare sei milioni. E quando gli storici sono condotti dalle loro ricerche a dubitare della versione generalmente ammessa preferiscono, per simpatia verso i deportati o per paura delle reazioni, non pubblicare il risultato delle loro ricerche (così fa il Comitato di Storia della Seconda Guerra mondiale per ciò che riguarda il numero dei deportati francesi tornati dai campi).

Rassinier è andato incontro al silenzio e alla calunnia perché ha svelato il ruolo repressivo di una minoranza di detenuti, specialmente politici, nell'organizzazione interna dei campi, e i vantaggi che costoro ne ricavavano. I professionisti della Resistenza e della Deportazione, per discolparsi, faranno di Rassinier l'uomo che ha preteso che a Buchenwald e ad Auschwitz si vivesse felici.

Nel corso del processo per diffamazione intentato da Rassinier nell'ottobre '64 al «Droit de vivre», organo della lica [Lega internazionale contro l'antisemitismo, diventata successivamente licra, Lega internazionale contro il razzismo e l'antisemitismo], che l'accusava di essere un «agente dell'Internazionale nazista», David Rousset dichiarava:

Quando Rassinier scrive quel che scrive, è peggiore di una SS, perché è stato uno schiavo come me, e ha tradito gli schiavi e ha tradito se stesso. Quanto a me, non ho la prova che Rassinier sia membro dell'Internazionale nazista, ma so che le spiana la strada e, dato che non è un demente, ho l'intima convinzione che sia membro di questa Internazionale.

La querela presentata da Rassinier fu respinta. Il testo della sentenza «dice che l'accusato [Bernard Lecache, direttore del «Droit de vivre»] ha fornito la prova che nel suo libro La menzogna di Ulisse, il signor Rassinier "ha fatto coro con i suoi nuovi amici neonazisti"» (riportato nel «Droit de vivre», dicembre 1978). Anche Patrice Chairoff, in Dossier néo-nazi, definisce Rassinier come «autore di diverse opere di ispirazione neonazista».

Con l'aiuto del tempo, non è più il direttore del «Droit de vivre», B. Lecache, a essere stato assolto, ma Rassinier a essere stato condannato:

Questa tesi, che Darquier de Pellepoix riprende, è quella di quel falsario di Rassinier, le cui abominevoli menzogne la lica aveva ottenuto fossero chiaramente condannate dalla giustizia del nostro paese. È anche quella di Robert Faurisson, maître-assistant all'Univer-sità di Lyon-II (Pierre-Bloch, «Le Matin», 22 febbraio 1978).

«Le Monde» del 3/4 ottobre 1978, in contrasto con il rendiconto del processo che aveva pubblicato all'epoca («Le Monde» del 7 ottobre 1964), afferma per la penna di Viansson-Ponté la stessa controverità: «La lica nel '64 aveva fatto condannare uno di questi diffamatori, Paul Rassinier.» Questa automistificazione sulla persona di Rassinier non ha altro scopo fuorché quello di sostenere una automistificazione su ciò di cui Rassinier parla. Rassinier «il falsario» non è tenero, neanche lui, con gli specialisti della letteratura concentrazionaria. Ma è preciso nei suoi attacchi e specifica le falsificazioni. Perché non averlo attaccato per calunnia su questo o quel punto e nei confronti di questa o quella persona, se era vero che egli falsificava, invece che rimproverargli una vaga appartenenza ad una Internazionale nazista?

La tendenza falsificatrice di Rassinier si tradurrebbe forse in una minuzia malsana, in un'interrogazione sospetta dei fatti, nell'ipercritica viziosa riguardo ai documenti? Suona così una risposta di Merleau-Ponty ad una lettera di Rassinier a proposito della testimonianza di Nyiszli Miklos apparsa in «Les Temps modernes»:

Saranno gli storici a doversi porre queste domande. Ma nel presente questa maniera di analizzare le testimonianze ha il risultato di gettare il sospetto su di esse come se venissero meno ad un'esattezza che si sarebbe in diritto di attendere da esse. E poiché oggi come oggi la tendenza è piuttosto quella di dimenticare i campi tedeschi, questa esigenza di verità storica rigorosa incoraggia una falsificazione, questa sì massiccia, che consiste nel ritenere grosso modo che il nazismo è una favola.

Sono passati degli anni, ma questo tipo di risposta rimane sempre di attualità. Non è inutile constatare che su questo o quel punto autori pur opposti a Rassinier hanno mostrato che le cose non sono così chiare come si crede.

Un fatto abbastanza comunemente ammesso è che non è stato ritrovato nessun ordine generale scritto di sterminio. Per rimediare a questa assenza si invoca un ordine del novembre '44 di arrestare lo sterminio e un altro, alla fine della guerra, di massacrare i sopravvissuti dei campi. Riguardo a ciò Olga Wormser-Migot, in Le Système concentrationnaire nazi. 1933-1945 (puf), scrive:

Tre soluzioni per questo enigma:

1.     Gli ordini possono essere stati distrutti casualmente nei bombardamenti degli ultimi mesi, volontariamente dai capi nazisti prima della loro fuga.

2.     Gli ordini sono nascosti in archivi segreti, messi in luogo sicuro o in fondi d'archivio non ancora repertoriati, come ne esistono ancora qua e là per il mondo.

3.     Gli ordini sono stati inventati a posteriori da alcuni esecutori per giustificare atti che erano loro rimproverati e per far gravare le responsabilità sulla testa di Himmler che si è dato la morte il 23 marzo '45 e non può smentire.

Infatti tutto è avvenuto come se effettivamente gli ordini fossero stati dati quali la tradizione li riferisce. Ma, se negli scritti "ideologici" di Hitler, di Rosenberg, negli articoli di Streicher nello «Stürmer», si trovano mille allusioni alla necessità di distruggere la razza ebraica, di trovare una soluzione finale alla questione ebraica, abbiamo trovato il termine Vergasungskeller solo nei testi già citati di impostazione generale della soluzione finale (a parte le note scambiate tra i membri SS dell'amministrazione del campo di Auschwitz e la ditta Topf che costruì nel '42, a Birke-nau, camere a gas e crematori). [...] quando in qualche luogo c'è stato sterminio totale [] non si trova, a nostra conoscenza, ordine scritto, ma la volontà locale di esecutori, comandanti di campo, o di SS di grado inferiore, sbigottiti dalla prossimità degli alleati che avanzavano o sconvolti dalla paura di non poter salvare la loro personale esistenza.

Nel '53 Gerald Reitlinger, in The Final Solution (La soluzione finale, Il Saggiatore), rimette in discussione la cifra di sei milioni di vittime ebree e la stima da un minimo di 4.194.200 a un massimo di 4.581.200, la qual cosa doveva far dire a Léon Poliakov, che recensiva il libro nella «Revue d'Histoire de la Seconde Guerre mondiale» (luglio-settembre 1954), che un tale «scrupolo di obiettività [] può essere pericoloso in simile materia, perché si tratta di un argomento per il quale la nozione di imparzialità finisce col perdere ogni senso []».

In una nota de La banalità del male la Arendt scrive:

Non si può che indovinare, ad esempio, quale era il numero di ebrei vittime della soluzione definitiva. La cifra da quattro milioni e mezzo a sei milioni non è stata mai verificata; lo stesso si dica per il numero di vittime nei differenti paesi.

Riguardo al processo Eichmann nel '61, dice:

Si è mosso lo stesso rimprovero al processo di Norimberga: là l'ineguaglianza tra la difesa e l'accusa era tale da colpire ancora di più. A Norimberga come a Gerusalemme la difesa non aveva a propria disposizione la squadra di collaboratori specializzati che sarebbe stata necessaria per esaminare la massa di documenti ed estrarne ciò che poteva essere utile al processo. Ancor oggi, diciott'anni dopo la guerra, ciò che sappiamo degli immensi archivi del regime nazista proviene in gran parte dalle selezioni fatte a fini di accusa.

Essa riconosce a Israele il diritto di giudicare Eichmann e la necessità del castigo, ma deve constatare le numerose irregolarità e anomalie del processo. Nota che a Norimberga, nel 1945-46, Eichmann è stato tanto più caricato di delitti in quanto era assente dal processo e che, d'altro canto, la sua attività era interamente dedicata alla questione ebraica; poi rileva che in definitiva Eichmann, dirigente di rango secondario, non aveva partecipato direttamente a massacri e non ne aveva ordinati.

L'autore di SS-Staat, Eugen Kogon, ex deportato a Buchen-wald, scrive sulla vita al campo, a proposito di una distribuzione di pacchi della Croce Rossa:

La ripartizione fu organizzata in modo scandaloso per intere settimane; c'era, infatti, un solo pacchetto per ogni gruppo di dieci francesi che si trovavano in quello che veniva chiamato il "piccolo campo", e la loro situazione era molto precaria [] mentre i loro compatrioti incaricati della distribuzione, e che avevano alla loro testa il capo del gruppo comunista francese nel campo, riservavano a se stessi cumuli di pacchi e li utilizzavano a favore dei loro "amici di riguardo".

Le conseguenze della vita in campo lo preoccupano:

Senza alcun dubbio, uno dei peggiori tra i mali che la SS ha fatto ai detenuti è quello di aver fatto perdere a molti di loro, per anni, se non per tutt'intera la loro vita, il gusto di un lavoro effettivo continuo e coscienzioso. È cosa certa che con un sistema di lavoro ragionevole, suscitando l'interesse degli operai e considerandoli come degli uomini, si sarebbe realizzato il doppio o il triplo di lavoro con solo un quinto della manodopera.

D'altra parte Czeslaw Milosz, in La Pensée captive, cita il caso di un giovane scrittore polacco che nel '46 pubblica una testimonianza su Auschwitz. Questo scrittore non s'indigna, riferisce:

B. descriveva i campi di concentramento come li aveva visti, non come si sarebbe dovuto vederli []. Cosa bisognava vedere nei campi di concentramento? Non è difficile stabilirlo:

1.     I prigionieri dovevano costituire delle organizzazioni clandestine.

2.     Erano i comunisti che dovevano dirigere queste organizzazioni.

3.     Tutti i prigionieri russi che apparivano nelle pagine del libro dovevano distinguersi per la loro forza morale e il loro eroismo.

4.     Occorreva dimostrare che le differenze di convinzione politica portavano con sé quelle di condotta dei prigionieri. Niente di simile si trovava nei racconti di B.

È contro ciò che si sarebbe dovuto vedere che si leva Rassinier.

 

Dora o la burocrazia concentrazionaria

 

Campo di lavoro vicino a Buchenwald, non lontano da Wei-mar, Dora è creata all'inizio del secolo per sfruttare le rocce ricche di ammoniaca con una manodopera di condannati. Fer-mati nel 1910 perché poco redditizi, i lavori riprendono nel 1914-18 con i prigionieri di guerra. Nel 1943-45 i luoghi, rimessi in ordine, vengono utilizzati nuovamente per attività industriali sotterranee, in particolare per la fabbricazione delle V1 e delle V2. Insieme al campo vicino, Dora non occupa mai più di 15.000 lavoratori. Tra essi anche dei civili, dai 6.000 ai 7.000 nell'aprile '45: soprastanti tedeschi, effettivi del Servizio di lavoro obbligatorio e volontari, che vivono nel campo, sono ben pagati, lavorano dieci ore al giorno, mangiano soddisfacentemente e sono liberi di circolare in un raggio di trenta chilometri.

Rassinier descrive uno sfrenato sciupio di tempo e di forza-lavoro: appelli interminabili, spostamenti in treni che bisogna attendere per ore mentre si farebbe prima andando a piedi, ecc. È il prezzo da pagare per un'organizzazione burocratica che è inevitabile in assenza di stimolo reale: soltanto la costrizione anima i deportati e i Kapò. La stessa brutalità è legata alla mancanza di personale d'inquadramento.

Infatti le SS intervengono poco, delegando i loro poteri alla H.-Führung (Häftlingsführung, vale a dire «direzione da parte dei detenuti»). Rassinier parla di «self-bureaucratie». La guerra accresce considerevolmente il numero dei detenuti, ma quello dei guardiani aumenta molto poco; di qui una delegazione di potere ad una frazione dei detenuti e la formazione di bande di racket.

Le comunità più omogenee (raggruppamenti per nazionalità o per affinità politica) sopravvivevano meglio, ed è per questo che i detenuti politici soppiantarono quelli di diritto comune. Rassinier sostiene che gran parte dei morti per fame nei campi derivano da una ripartizione ineguale degli alimenti disponibili, accaparrati da una minoranza privilegiata. Allo stesso modo, se oggi imperversa la fame, esiste però in assoluto una quantità di derrate sufficienti a nutrire tutti, quando le si suddividesse egualitariamente fra tutti. Ma perché mai le si suddividerebbe egualitariamente in un mondo diviso da differenze di funzione, di fortuna, ecc.? Le SS stornavano anche loro delle vettovaglie per rivenderle prima che arrivassero al campo. Qui, come in un paese sottosviluppato di oggi, i rapporti mercantili sono spinti dalla penuria fino all'atrocità. I campi non erano luoghi impermeabili alla logica mercantile: essi hanno riprodotto in peggio i tratti tipici del capitalismo contemporaneo. Gran parte dell'orrore che suscitano i campi proviene dal fatto che la Germania ha fatto subire a degli europei quello che gli occidentali avevano inflitto e infliggono tuttora ai non-bianchi. Le vittime della deportazione dei neri africani verso le Americhe sono senza dubbio più numerose di quelle delle deportazioni naziste.

A Buchenwald e a Dora, al termine di una lotta accanita, i detenuti politici sostituiscono i detenuti comuni nella H.-Führung. Perché i politici erano così competenti? E perché hanno svolto così bene il ruolo che si attendeva da loro? Lo si può comprendere partendo da ciò che erano questi militanti, il loro rapporto col resto del mondo, la loro solidarietà di comunità rinserrata nel suo partito o nel suo sindacato, la loro illusione di essere al di sopra della massa, di doverla guidare, inquadrare, di doverla occorrendo reprimere. Quasi tutti i deportati dovevano fare i conti con la repressione esercitata da altri deportati armati di bastone. Al militante staliniano o socialdemocratico fare la polizia del campo pareva tanto naturale quanto era parso naturale ai socialisti tedeschi reprimere le insurrezioni del 1919-21.

Un atteggiamento paragonabile esisteva nei responsabili delle comunità ebraiche in Europa. Erano pronti a partecipare all'organizzazione della deportazione degli altri ebrei, compilavano delle liste, raccoglievano dei fondi, distribuivano dei bracciali, redigevano dei manifesti.

Leggendo i manifesti, ispirati ma non dettati dai nazisti, che i responsabili ebrei stilarono, si sente fino a che punto quel potere così nuovo piaceva loro: «Il Consiglio centrale degli Anziani ebrei è stato abilitato a disporre in maniera assoluta di tutte le ricchezze ebraiche, materiali e spirituali e di tutta la manodopera ebraica» (prima dichiarazione del Consiglio di Budapest). Sappiamo quali erano i sentimenti dei responsabili ebrei divenuti strumenti degli assassini: si paragonavano a capitani "la cui nave stava per affondare e che riuscivano a metterla in salvo gettando fuori bordo la maggior parte di un carico prezioso"; a salvatori che "risparmiavano mille persone sacrificandone cento, diecimila sacrificandone mille" (Hannah Arendt, La banalità del male).

Nessun potere può mutare la società: esso la amministra soltanto più o meno male. In caso di penuria, preleva per sé la parte del leone. Nei campi questa tendenza si esacerbava con la disfatta imminente della Germania. Sono spesso le imprese o la SS-Führung che rimettono ordine in ciò che l'autoamministrazione non sa amministrare. È l'impresa privata in accomandita per il tunnel di Dora che obbliga la H.-Führung a lasciare che gli operai risalgano all'aria aperta per mangiare. In occasione di una disinfestazione, invece di fissare un orario scaglionando dei gruppi nel tempo, la H.-Führung fa andare tutti in una sola volta davanti alla porta dell'edificio e li fa spogliare in anticipo; la folla di detenuti si pressa per poter entrare, taluni trascorrono tutta la notte all'esterno contraendo delle congestioni polmonari. Da cui numerosi morti, dato che la H.-Führung ha trascurato di fissare un orario, mentre la SS-Führung gliene lasciava la possibilità: l'indomani la SS-Führung ne fissa uno essa stessa.

Nelle condizioni particolarmente dure del campo, i detenuti incaricati di inquadrare gli altri non potevano non ricorrere ad una terribile violenza, unico mezzo di far regnare la calma in un ambiente così esplosivo. Rassinier non li giudica, non cerca di definire il "buon" atteggiamento. Ricorda solo che la prigione interna nel campo fu costruita e le punizioni aggravate su iniziativa della polizia interna, composta di deportati.

Secondo Rassinier, la H.-Führung raggruppa circa il 10% dei detenuti i quali, fra le altra attività, saccheggiano i pacchi. Dice lui stesso di essere rimasto in vita solo perché fin dal principio ha dato una parte del contenuto dei suoi pacchi al capoblocco. Nemmeno il salario da due a cinque marchi al giorno previsto per i detenuti viene consegnato loro: le resse in occasione della consegna delle somme presto li dissuadono dal riscuoterlo. La H.-Führung si appropria anche dei trenta marchi mensili che le famiglie possono inviare, come pure dei vestiti e degli oggetti depositati dai detenuti al loro arrivo. Tutto questo alimenta un traffico che permette alla minoranza di sopravvivere.

Rassinier sottolinea il fatto che il campo non ha una sola faccia. Assurdamente l'inferno lì coesiste con aiuole fiorite, una piscina, un teatro, della musica, una biblioteca e anche una casa di tolleranza, riservati a coloro che ne hanno il tempo e i mezzi e che non sono sfiniti. Ecco quello che i nazisti mostravano ai visitatori, ma era qualcosa di più di un semplice scenario: era un aspetto reale del campo.

Un detenuto responsabile della polizia del campo coopera alle impiccagioni rovesciando lo sgabello su cui è posto il condannato. Quando si impiccavano dieci o venti persone per volta, la sorveglianza era assicurata da una o due SS. Dei detenuti giustiziavano altri detenuti. Quando, prima dell'arrivo degli Alleati, le SS vogliono evacuare il campo, tutti i tedeschi facenti parte della H.-Führung, detenuti politici o comuni, inquadrano il resto dei detenuti imbracciando il fucile.

David Rousset giustifica la condotta dei detenuti responsabili dei campi con il bisogno di preservare l'élite rivoluzionaria. Rassinier ritorce che, se Rousset accorda un privilegio ai politici, ciò accade perché egli giudica che

i detenuti politici erano di un'essenza superiore rispetto agli uomini comuni e che gli imperativi ai quali essi [i politici] obbedivano erano più nobili delle leggi della lotta individuale per la vita (La menzogna di Ulisse).

Il cemento dei clan della H.-Führung era la politica: ci si serviva della propria qualità di «comunista» o di «socialista» per mantenere un rapporto d'interesse con gli altri. Come nel proprio partito nei tempi normali; ma, in tempi normali, si tratta di una sicurezza psicologica, di qualche vantaggio materiale, di conservare o di trovare un impiego, di ottenere una diminuzione di ore di lavoro per attività sindacale, ecc. Qui si tratta di sopravvivere.

Gli ex-membri della H.-Führung, che si sono accaparrati la letteratura concentrazionaria e hanno imposto la loro versione dei fatti, si sono giustificati anche con il bisogno di salvare «il campo», di tenerlo pronto per l'arrivo degli Alleati, di sopravvivere ad ogni costo per poter testimoniare. Il campo, diventando come l'impresa o la nazione in tempi normali una cosa in sé, dovevano conservarlo perché così salvavano se stessi.

Buchenwald era un campo vecchio e relativamente privilegiato, ma anche i campi dell'Est all'inizio erano un mezzo per tenere in disparte tutta una serie di persone inutili o nocive per lo Stato, ma non per massacrarle: piuttosto, per utilizzare coloro che erano inutili facendo far loro qualcosa che almeno servisse allo Stato.

Il lavoro dei campi, poco produttivo secondo le norme capitalistiche correnti, ma utile malgrado tutto, era dunque uno scopo secondario della deportazione, ma questo scopo passò poi, con la guerra, in primo piano. Nel '43 Himmler deplorava la morte di più centinaia di migliaia di prigionieri russi che avrebbero potuto lavorare. La Germania ha costruito i campi mentre la Francia si limitava a requisire i neri perché lavorassero per lei. Esclusi perché socialmente inutili allo sviluppo del capitale, i deportati erano costretti a lavorare: quale società si acconcia volentieri a mantenere a far nulla coloro che essa esclude? Svolgendosi in condizioni impossibili, la loro attività suscitava una burocrazia e una mortalità alla quale sfuggivano solo i burocrati e i loro protetti.

I campi nazisti, sovrappopolati soprattutto dopo il '42, erano quelli di uno Stato progressivamente sconfitto, sottoposto a un blocco alimentare spietato e ad una guerra all'ultimo sangue decisa dagli Alleati nell'ottobre '43. Evidentemente le dichiarazioni di questi ultimi secondo cui avrebbero processato i dirigenti tedeschi dopo la loro disfatta contribuivano ad una guerra ad oltranza. In queste condizioni, i deportati passavano dietro ai soldati e alla popolazione tedesca e le loro razioni alimentari si sono immiserite. I prigionieri sono inevitabilmente i primi ad essere sacrificati.

Lo sviluppo del capitalismo, l'invasione di tutta la vita sociale ad opera della merce e dello Stato, crea un mondo sempre più soffocante e totalitario. Lo stalinismo e il nazismo sono state forme mostruose di questa ascesa del totalitarismo del capitale. Come reazione a questa tendenza si sviluppa un'ideologia antitotalitaria che la denuncia ma che ne nasconde le vere cause. L'antitotalitarismo riduce il totalitarismo ad una accentuazione del dispotismo che pesa sul popolo in generale e sui detenuti del gulag in particolare. L'universo concentrazionario sarebbe il risultato e l'espressione compiuta del totalitarismo: un potere burocratico e assoluto sulla società avrebbe il vantaggio di potersi permettere di relegare i suoi oppositori in campi e di esercitare su essi nei campi un dominio ancora più compiuto.

L'antitotalitarismo non parte dall'attività che si svolge nei campi, caricatura del salariato, bensì dall'autorità dispotica che pesa sui detenuti. Il gulag sarebbe la chiave che permetterebbe di comprendere tutta la società russa ed eventualmente l'avvenire che il capitalismo ci riserva, e che del pari ci riserverebbe la rivoluzione, la quale inevitabilmente potrebbe solo rovesciarsi nel proprio contrario. Il rinnovarsi delle polemiche sul gulag esprime altresì lo smarrimento di fronte al fatto che le rivoluzioni, il pensiero radicale, i movimenti di massa avrebbero avuto il solo risultato di rafforzare lo Stato e l'opposizione tra dominante e dominato: confusione che più controrivoluzionaria non potrebbe essere tra la rivoluzione e la controrivoluzione che l'ha vinta.

Se si parte dalla sua realtà, e non dalla sua mitologia, il fenomeno concentrazionario non è la conferma, ma è piuttosto la smentita dell'ideologia antitotalitaria. Il potere è costretto ad internare nei campi perché è insicuro e non onnipotente. Il funzionamento dei campi riproduce e accentua le aberrazioni e le difficoltà di controllo della vita sociale corrente.

 

La questione ebraica

 

L'eliminazione della classe media ebraica ad opera dei nazisti faceva dimenticare agli elementi non ebrei delle classi medie la propria eliminazione. Più globalmente, per forgiare una comunità nazionale in condizioni difficili il nazismo aveva bisogno di un nemico che fosse interno ed esterno al tempo stesso: la comunità ebraica tedesca e internazionale. L'hitlerismo vittorioso estese a tutta l'Europa la sua politica di eliminazione degli ebrei. L'antisemitismo forniva un capro espiatorio in un momento in cui se ne aveva bisogno.

La distruzione delle classi medie tradizionali è uno degli aspetti della crisi del capitale dopo il '14. Per queste classi una delle vie di uscita è la loro riconversione nell'apparato statale. Proprio come nella Francia contemporanea: ci si ingolfa nella via degli studi fino al momento in cui la cosa salta, perché l'università non può assicurare lavoro per tutti. Lo scatto del Maggio '68 e il gauchisme sono anch'essi un'espressione delle difficoltà di questa riconversione. Non vi è più altro ruolo sociale fuorché un ruolo "rivoluzionario". Il gonfiamento degli effettivi dell'Educazione nazionale e dell'università, particolarmente pronunciato in Francia, non è il risultato della lotta operaia per la democratizzazione dell'insegnamento, bensì quello della pressione demografica e dell'eccedenza di piccoli borghesi che la Francia aveva conservato.

Nella Germania e nell'Italia tra le due guerre, questa riconversione si è operata attraverso l'integrazione nello Stato degli ex-commercianti, artigiani, redditieri, spesso vecchi combattenti della Prima Guerra, integrazione attuata per la scorciatoia dell'apparato politico del fascismo. La classe media tedesca poteva riconvertirsi, salvo la sua numerosa frazione ebraica. Gli ebrei avevano qualcosa da perdere: la loro comunità, il loro legame con una realtà transnazionale, anche se gli ebrei tedeschi erano i più assimilati di tutta l'Europa centrale. Meno bene essi potevano riconvertirsi, dato che possedevano un'identità comune e una "vita spirituale" che si frapponeva alla loro entrata in uno Stato razzial-nazionale. La classe media era troppo numerosa perché la sua riconversione fosse agevole. L'imbuto era troppo piccolo per tutti ma era stato creato da una situazione e da una crisi internazionale, e non dai soli tedeschi.

La piccola borghesia ha "inventato" l'antisemitismo. Non tanto, come dicono i metafisici, per spiegare le disgrazie che la colpivano, quanto, invece, per sottrarvisi col concentrarle su uno dei suoi gruppi. All'orribile pressione economica, alla minaccia di distruzione diffusa che rendevano incerta l'esistenza di ciascuno dei suoi membri, la piccola borghesia ha reagito sacrificando una delle proprie parti e sperando così di salvare e assicurare l'esistenza delle altre. L'antisemitismo non proviene da un "piano machiavellico" più di quanto provenga da "idee perverse": esso risulta in maniera diretta dalla costrizione economica. L'odio nei confronti degli ebrei, lungi dall'essere la ragione a priori della loro distruzione, non è altro che l'espressione di questo desiderio di delimitare e concentrare su di loro la distruzione (Auschwitz ovvero il Grande Alibi, «Programma comunista», 1960, n o 11).

Il problema ebraico non si confonde con quello dei campi e, d'altra parte, è solo tardivamente che gli ebrei sono stati messi nei campi. Un gran numero tra quelli che sono stati internati a Buchenwald dopo i pogrom della «Notte dei cristalli» del novembre '38 saranno rilasciati in seguito. In terra tedesca i nazisti non volevano internare degli ebrei, per lo meno non in quanto ebrei. Le misure antiebraiche successive al '33, tipo professioni vietate, numerus clausus per altre, boicottaggio, miravano a farli emigrare.

Nel '38, alla conferenza di Evian, la Germania propone di espellere tutti i suoi ebrei e di versare per loro una somma globale di tre miliardi di marchi che un organismo internazionale dovrebbe ripartire fra tutti gli emigrati. Esige anche, a titolo di compenso, che i paesi di accoglienza degli ebrei acquistino prodotti tedeschi. L'Inghilterra propone mille sterline a testa senza compensazione - il che equivaleva, commenta Rassinier (Le Véritable Procès Eichmann), a 15-18 miliardi di marchi, ossia al bilancio annuale tedesco. Nonostante la mediazione americana, non si raggiunge alcun compromesso. Vi sono dei contatti tra gli ebrei di Palestina e la Gestapo in ordine alle possibilità di immigrazione in Palestina. I nazisti nutrivano una certa considerazione per i sionisti perché costoro ragionavano in termini nazionali. Per i nazionalisti ebrei i nemici principali non erano ancora i nazisti, che spingevano gli ebrei ad emigrare, ma le autorità coloniali inglesi, che sbarravano loro la strada della Palestina. Questo permetterà a Nathan Yalin-Mor, del gruppo sionista Stern, di scrivere molto giustamente in Israël, Israël:

Agli occhi del mondo l'Inghilterra si batteva per difendere la Libertà e la Democrazia. La Libertà! Per chi? La Democrazia! Dove? La sola preoccupazione dell'Inghilterra era quella di difendere la propria libertà minacciata (e il suo impero coloniale).

Dopo le vittorie del 1939-40 la Germania perseguì il suo progetto. L'idea di mandare in blocco tutti gli ebrei nel Madagascar, che cade nel '40 di fronte al rifiuto francese, non è più assurda di quella dei primi sionisti i quali, nel XIX secolo, prima di fissare la loro scelta sulla Palestina, avevano deciso di scegliere una regione africana non ancora colonizzata. Hitler non voleva uccidere gli ebrei, voleva espellerli dallo spazio tedesco, che si è esteso a gran parte dell'Europa. Prima della guerra, dunque prima che questi paesi passassero sotto controllo tedesco, il governo polacco nel '37 aveva studiato la possibilità di stabilire oltremare uno Stato ebraico e il ministro degli esteri francese nel '38 aveva considerato l'eventualità di spedire in una colonia gli ebrei stranieri residenti in Francia.

La politica tedesca di deportazione degli ebrei, lungi dall'essere un comportamento in sé, poggiava sull'antisemitismo delle popolazioni e delle autorità locali ed era il prolungamento di esso. L'odio verso gli ebrei, di stampo medioevale, era particolarmente virulento in Polonia e in Europa centrale. In Francia esso si concentrava soprattutto contro i cattivi ebrei, gli ebrei stranieri. L'Italia fascista stava per diventare moderatamente antisemita. In Olanda le persecuzioni contro gli ebrei provocarono la resistenza della popolazione e movimenti di sciopero. In Danimarca le operazioni naziste in pratica fallirono a causa della resistenza delle autorità e della popolazione; anche l'esercito d'occupazione tedesco si tirò indietro e sabotò gli ordini.

Il razzismo nei confronti degli ebrei restava selettivo. Era presa di mira la massa, ma vi erano quelli che possedevano denaro, quelli che erano vecchi combattenti, quelli che avevano relazioni politiche, ecc. Costoro sfuggivano alla deportazione oppure venivano internati in condizioni migliori (There-sienstadt).

Non disponendo di un territorio in cui mettere i suoi ebrei indesiderabili, non avendo sottomano nessuna Siberia, non potendo creare di sana pianta nessun Birobigian come quello in cui i russi progettavano prima del '39 di fondare una repubblica ebraica nel quadro dell'urss, vicino alla Manciuria, la Germania fu dunque condotta ad organizzare "riserve" di ebrei, concentrandoli in ghetti e in campi. Perché tanti di loro vi sono morti? Perché perirono di fame, di cattivi trattamenti, e anche perché li si uccise. Ma le prove di un massacro deliberato sono più che dubbie.

Vengono regolarmente rievocate le dichiarazioni di Hitler, specie quella del 30 gennaio '39:

Oggi farò di nuovo il profeta: se la finanza ebraica internazionale in Europa e fuori riuscisse ancora a sprofondare le nazioni in una nuova guerra mondiale, non ne conseguirebbe la bolscevizzazione della terra e dunque la vittoria degli ebrei, ma l'annichilazione della razza ebraica in Europa.

Hitler era uno specialista dell'amalgama, un esaltato e un razzista. Ma questa dichiarazione rientrava nella propaganda di guerra. Vi è una distanza tra questo genere di propaganda e la politica effettivamente condotta. I nazisti potevano tentare essi stessi di giustificare il loro atteggiamento rispetto agli ebrei allegando dichiarazioni che emanavano da ebrei. All'apertura delle ostilità nel settembre del '39, il Congresso mondiale ebraico aveva proclamato che «gli ebrei del mondo intero avevano dichiarato la guerra economica e finanziaria alla Germania ed erano pronti a condurre fino in fondo questa guerra di distruzione». Hitler poteva far suo pro di questa dichiarazione per chiudere gli ebrei nei campi. Il libro dell'ebreo americano Theodor N. Kaufman, Germany must perish! (La Germania deve perire!), apparso nel '41, spiega che dopo la guerra una serie di atti anodini ripetuti poteva far sparire il pericolo tedesco: si trattava della sterilizzazione dell'insieme della popolazione germanica. Evidentemente estratti di questo libro sono serviti ad alimentare la propaganda antisemita dei nazisti.

Anche durante la guerra i nazisti non si sono mai rassegnati del tutto all'immenso guazzabuglio rappresentato dall'internamento e dalla decimazione degli ebrei. Nell'autunno del '42 Himmler tentò di vendere dei visti d'uscita agli ebrei slovacchi in quanto aveva bisogno di valuta straniera. Un'affare di ben altra importanza si stava innescando nell'aprile del '44 tra i dirigenti SS e un dirigente di un'organizzazione di ebrei ungheresi, Joel Brand. Si trattava di prender contatto con gli anglo-americani per negoziare lo scambio di un milione di ebrei. Le SS volevano diecimila camion, ma erano pronte a discutere altre proposte. Centomila ebrei sarebbero stati consegnati fin dal momento in cui vi fosse stato accordo e prima del ricevimento in cambio della merce. Gli Alleati, che giustificarono la loro guerra specialmente con la barbarie nazista nei confronti degli ebrei, fecero tutto per soffocare l'affare. Essi non erano neppur pronti a ricevere i primi centomila ebrei, poi, in prosieguo, non erano disposti a denunciare l'accordo, come Brand proponeva loro. Secondo il libro di Alexis Weissberg, La storia di Joel Brand (Feltrinelli), lord Moyne, rappresentante britannico, rispose a Brand: «Come potete immaginare una cosa simile, Mister Brand? Cosa farei di questo milione di ebrei? Dove li metterò? Chi li accoglierà?».

Non è un disgraziato concorso di circostanze, bensì una logica implacabile a portare dalla crisi del '29 alla Seconda Guerra mondiale e dall'antisemitismo alla morte di una parte della popolazione ebraica europea. Ma ritenere che ciò derivi da una volontà cosciente, da una premeditazione e anche da una programmazione è rovesciare la realtà. Un ragionamento del genere farebbe ritenere che i nazisti, provocando la guerra con Francia, Gran Bretagna e usa, attaccando l'urss e non fermandosi in tempo, avrebbero preparato consapevolmente la propria disfatta. Forse che essi non erano, a quel che si dice, governati dall'istinto di morte e forse che questo istinto non si è concretato nel suicidio dei principali dirigenti del Terzo Reich?

Da principio i nazisti hanno cercato di far emigrare i loro ebrei e in parte vi sono riusciti mettendo a carico degli Stati vicini un buon numero di ebrei resi apolidi che andavano ad esacerbarvi il problema ebraico. Ma, nonostante il discorso incendiario di Hitler del gennaio '39, si assiste ad una pausa relativa. Nel '42 il movimento di deportazione degli ebrei verso i campi polacchi assume grande importanza. Nell'estate del '44 Hitler ferma la deportazione di ebrei. Così, non la sola enfasi di criteri razziali, ma anche la politica nei riguardi degli ebrei appare come irrazionale. Da questa irrazionalità si è argomentato per pretendere che si trattasse soltanto di ingannare la pubblica opinione a proposito di una realtà prevista da lunga data: una realtà che, ricoperta della vaga formula della «soluzione finale del problema ebraico», sarebbe stata lo sterminio. Poiché il progetto di emigrazione degli ebrei verso il Madagascar si rivelava piuttosto irrealizzabile, non era dunque altro che uno specchietto per allodole. È quel che pensa Hannah Arendt. Eichmann stesso, che si prendeva a cuore questo progetto, sarebbe dunque stato giocato in questa storia. Secondo H. Arendt la soluzione definitiva assimilata allo sterminio

era, agli occhi di Hitler uno dei principali obiettivi della guerra. Di questa cospirazione se mai ce ne fu una egli era l'unico e solitario cospiratore. Mai complotto ha richiesto un così piccolo numero di complottatori e un così gran numero di esecutori. L'attuazione della soluzione definitiva aveva la priorità su tutte le considerazioni di ordine economico o militare.

Così, dunque, da una parte, non è certo che vi sia stata cospirazione, ma, dall'altra, tutto vi sarebbe stato subordinato. Secondo Michael Musmanno, giudice a Norimberga e autore di Ten days to die (Dieci giorni alla morte): «Eichmann parlava per la bocca di Himmler e di Heydrich».

«Ribbentrop gli aveva detto che Hitler sarebbe stato corretto se non fosse caduto sotto l'influenza di Eichmann», riporta la Arendt, la quale, per suo conto, rovescia completamente questo punto di vista per fare di Eichmann una «creatura subordinata, se mai ve ne fu una.» Per taluni, Hitler non era al corrente di nulla; per altri, al corrente di tutto c'era solo lui.

Coloro che ci ripetono, con un trattato di genetica in mano, che il razzismo è un'assurdità specialmente per ciò che concerne gli ebrei possono spiegare soltanto con la «follia» l'«irrazionalità assassina» del nazismo e il fenomeno sociale del razzismo, che essi riconducono ad una perversione dello spirito. Ma anche il razzismo ha la propria causa nell'essere sociale del gruppo che ne è la vittima, ed esiste una corrispondenza diretta tra identità etnica e funzione sociale.

Nell'Occidente gli ebrei hanno svolto un ruolo simile a quello dei cinesi d'oltremare nel Sud-Est asiatico, a quello degli arabi nell'Africa Nera, che talora procura loro anche pogrom popolari e cacciata ad opera degli Stati. Minoranza legata allo scambio e comunità transnazionale, gli ebrei finiscono per incarnare la concorrenza e lo straniero nei rapporti mercantili, o, anche, incarnano l'estraneità di questi rapporti mercantili.

La sorte degli ebrei è stato uno degli episodi terribili di un'epoca particolarmente terribile della storia umana: la Seconda Guerra mondiale. Richiamare il contesto non vuol dire eludere la questione, bensì permettere di capire ciò che è avvenuto. Respingere il problema come secondario sarebbe tanto serio quanto dire: «gli uomini sono sfruttati e soffrono, poco importa come; l'essenziale è che bisogna sopprimere questo sfruttamento e questa sofferenza». Un movimento rivoluzionario non può esimersi dallo spiegare dei fatti che sono anche importanti in se stessi e che, nel contempo, lo sono per il posto che vengono ad occupare nell'ideologia.

Vi sono degli aggressori e degli aggrediti, dei carnefici e delle vittime. Non si possono mettere sullo stesso piano i nazisti e gli ebrei, i coloni americani e gli indiani d'America, lo Stato stalinista vietnamita e i rifugiati cino-vietnamiti che sono le sue vittime. Ma la comprensione non si può arrestare alla distinzione tra aggressore e aggredito.

Se non vi sono più dei colpevoli a fronte degli innocenti, questo non equivale a discolpare qualunque oppressione o razzismo nell'attesa che un bel giorno il sistema, minato dalle sue contraddizioni interne, si decida a crollare. Questo implica semplicemente che non si deve inorpellare la lotta con una morale e chiuderla in una morale.

Quale è il primo effetto della spettacolarizzazione degli orrori nazisti? Quello di ogni propaganda di guerra: persuadere tutti quelli che partecipano a dei concreti meccanismi di oppressione che ciò a cui partecipano è trascurabile a confronto di ciò che il nemico ha già fatto; nel caso specifico il nemico mitico: i nazisti. Che ciò a cui partecipano è trascurabile e differente. Il nemico ed è questa la cosa che lo trasforma in un mostro e in un criminale ha fatto quel che ha fatto scientemente e volutamente, laddove chiunque, dal dirigente della multinazionale all'ultimo dei capetti, non sa quel che fa e, ad ogni modo, non ci tiene a saperlo, poiché non ha scelta.

Eichmann dichiarava a Gerusalemme a mo' di scusa:

Chi è cittadino di un buon governo ha fortuna, chi è cittadino di un cattivo governo non ne ha. Io non ho avuto fortuna.

Povero cittadino Eichmann e, ancor più, poveri coloro che dipendevano dalla sua amministrazione!

Quel che importa non è la presa d'atto che compirono dei tenenti-colonnelli o dei funzionari del genere di Eichmann, come ve ne sono molti per il mondo, non è la presa d'atto della «banalità del male»; quello che importa è, invece, la critica dello Stato, di tutti gli Stati, dittatoriali o democratici. Ten-tando di promuovere la generalizzazione dei loro principi giudiziari, i tribunali di Norimberga e Gerusalemme altro non hanno fatto se non mettere in contraddizione questi principi con se stessi. Bisogna fare il proprio dovere di cittadino, di funzionario, oppure seguendo la propria coscienza bisogna rifiutarsi di prender parte a crimini contro l'umanità? La sfera del diritto non è un'emanazione della coscienza, ma la proiezione del potere statale sulla vita sociale. A prevalere non è la coscienza universale, bensì sono gli Stati più forti che giustificano la loro repressione umanizzata invocando i crimini degli Stati più deboli. Sono gli Stati vincitori che giudicano gli Stati vinti. Il progresso della civiltà e il generale impiego delle grandi frasi sulla dignità della persona umana, sul rispetto della vita e sullo statuto di "essere umano" si accompagnano ad un progresso nell'orrore e al massacro delle popolazioni civili.

Questo doppio fenomeno può in prima istanza apparire incomprensibile, e ciò nondimeno a produrre questi due tipi di progresso sono le medesime ragioni: l'atomizzazione degli uomini e lo sviluppo dei poteri statali.

 

Le «camere a gas»

 

Da principio Rassinier è conosciuto o piuttosto attaccato per aver osato negare che delle «camere a gas» siano state lo strumento di un assassinio di massa. Non è questione, qui, di riprendere l'insieme dei suoi argomenti e di voler risolvere definitivamente la questione. Al pari di chiunque altro, noi un tempo consideravamo come un fatto pacifico l'utilizzo di «camere a gas» ai fini di un massacro di proporzioni industriali. Per contestatori e diffidenti che potessimo essere, l'idea che si sia potuto organizzare un bluff su una scala del genere e su un tema così macabro non ci era venuta spontaneamente. Tutta-via, leggendo Rassinier, siamo rimasti fortemente scossi. E siamo stati ancora più scossi dal dibattito che ha avuto luogo di recente nella stampa, o, piuttosto, dalla maniera in cui si impedisce che un dibattito abbia luogo.

Sia ben chiaro che non ci consideriamo degli specialisti e che non intendiamo far loro concorrenza. Non abbiamo condotto né ricerche demografiche, né studi di archivio, né analisi tecniche dei procedimenti di gassazione.

Deliberatamente ci limitiamo ad una critica di secondo grado, la critica della letteratura concentrazionaria, e quel che ci sta a cuore non è dimostrare l'inesistenza delle «camere a gas», ma vedere come si è stabilita una verità ufficiale e come viene difesa.

Rassinier e gli altri autori «revisionisti», taluni dei quali sono di estrema destra, mirerebbero solo ci si dice a far dichiarare innocenti i nazisti e mancherebbero di ogni serietà. Quello che è vero è che si ostacola la partecipazione dei «revisionisti» al "dibattito" e che coloro che occupano i mass media non fanno altro che ripetere a sazietà gli stessi argomenti senza rispondere veramente ai primi. L'argomento decisivo degli anti-«revisionisti» è che i nazisti hanno fatto tutto per nascondere il loro misfatto.

Gli ordini sarebbero stati dati da bocca a orecchio e il loro linguaggio sarebbe stato in codice. Ciò posto, si può affermare che l'espressione «soluzione finale» non ha mai potuto voler dire altra cosa fuor che «sterminio totale», che il termine Vergasungskeller, che compare in una sola lettera tra l'amministrazione di Auschwitz e la ditta Topf che costruì i forni crematori, poteva solamente designare al posto del termine, più normale, Gaskammer una «camera a gas», e non il dispositivo che, posto nel sottosuolo, alimentava di miscela gassosa il forno crematorio.

Questo argomento assume, d'altronde, una piega terroristica:

Hanno truccato il linguaggio e assassinato i bambini perché la realtà dello sterminio non venisse né saputa né vendicata: non hanno fallito del tutto. Himmler aveva costituito un commando specificamente incaricato di cancellare ogni traccia del genocidio. I nostri attuali falsificatori sono, senza saperlo o anche sapendolo, gli eredi diretti di questi storiografi perversi del commando 1005 (E. de Fontenay in «Le Nouvel Observateur», 12 febbraio 1979).

Si fa leva sul rispetto dovuto ai morti e alle sofferenze dei superstiti e sulla paura di tutti di ritrovarsi dalla parte dei carnefici. Per non coprire dei crimini taluni sarebbero anche pronti ad uccidere. Il buon senso, che per bocca di Lenin ci dice che non si può ingannare molta gente per molto tempo, è disposto a riconoscere che, in questo affare delle «camere a gas», forse si è ingannato? Esso dice a se stesso che sarebbe davvero "troppo grossa", e si riaddormenta tra le braccia della buona o della cattiva coscienza

Ma non ci sono le testimonianze dei deportati e le confessioni dei carnefici? Molte persone hanno effettivamente "visto" delle «camere a gas», anche là dove è riconosciuto che non ce n'erano. In realtà, esse ne avevano soprattutto sentito parlare. Le confessioni non sono sufficienti di per sé. Le SS erano vinte, le loro illusioni e la loro causa erano crollate. Su di loro pesava una minaccia di esecuzione ed esse cercavano di discolparsi invocando ordini introvabili e un progetto che sarebbe passato totalmente sulla loro testa. La compiacenza verso coloro che le interrogavano si è rivelata pagante in parecchi casi. Non c'è bisogno di evocare la tortura, anche se in certi casi il suo uso appare pacifico. Del resto, forse la tortura non è sufficiente per avere ragione di uomini che credono ancora nella loro causa. Quando la loro causa si è inabissata, pressioni fisiche e morali minime bastano ad annientare coloro per i quali rimangono solo l'identificazione nei vincitori e l'istinto di conservazione. Quello che si ammette per Bucharin può valere anche per Höss, comandante di Auschwitz, ristretto in un carcere polacco e che è stato giustiziato nel '47.

Rassinier si è impegnato per mostrare che i documenti su cui poggia la fede nell'esistenza delle «camere a gas» e nella loro funzione sterminatrice erano sospetti a causa della loro origine e anche delle loro contraddizioni. Le contraddizioni più gravi appaiono tra le loro descrizioni della «gassazione» e le reali modalità tecniche di un'operazione siffatta.

Non è necessario, del resto, leggere Rassinier per nutrire dei dubbi su tale questione. La lettura di una pagina di «Le Mon-de» è sufficiente a turbare proprio mentre il suo scopo è quello di eliminare ad ogni costo i dubbi. Questa pagina del 21 febbraio 1979, benché non citi il nome di Robert Faurisson e ciò per togliergli ogni possibilità di risposta , è una reazione a una sua lettera a «Le Monde» del 16 gennaio 1979 nella quale egli affermava di non aver trovato le prove dell'esistenza delle «camere a gas», ma di aver trovato «il silenzio, la molestia, l'ostilità e, per terminare, le calunnie, gli insulti, i colpi», e che, se affermava «che le "camere a gas" non erano esistite, ciò accadeva perché il difficile dovere di essere veritiero lo obbligava a dirlo». La pagina di risposta di «Le Monde» comprendeva un articolo di Georges Wellers, una dichiarazione di storici (Philippe Ariès, Alain Besançon, Robert Bonnaud, Fernand Braudel, Pierre Chaunu, Monique Clavel-Levêque, Marc Fer-ro, François Furet, Yvon Garlan, Jacques Julliard, Ernest La-brousse, Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurie, Pierre Levêque, Nicole Loraux, Robert Mandrou, Claude Mossé, Ro-land Mousnier, Jacques Néré, Claude Nicolet, Valentin Niki-prowetzky, Evelyne Patlagean, Michelle Perrot, Léon Polia-kov, Madeleine Rebérioux, Maxime Rodinson, Jean Rougé, Lilly Scherr, Pierre Sorlin, Lucette Valensi, Jean-Pierre Ver-nant, Paul Veyne, Pierre Vidal-Naquet, Edouard Will) e una premessa di Jean Planchais.

Quest'ultimo dichiarava in via di preambolo:

Resta da sapere se un'ostinazione maniacale abbia un rapporto con la storia. A questo riguardo è esemplare l'affare delle camere a gas. Il termine era diventato sinonimo di massacro collettivo e organizzato. Che non vi siano state camere a gas in tutti i campi di concentramento, neanche in taluni di quelli in cui si pretende di mostrarle ai pellegrini o ai turisti, è un fatto che gli specialisti e i testimoni diretti riconoscono. Da ciò concludere che niente è accaduto, che tutto quelle cose dette, scritte, mostrate sulle camere a gas erano solo menzogne, ha a che fare per lo meno con l'aberrazione.

Signor Planchais, non è prima di tutto aberrante che si siano potute costruire delle «camere a gas» là dove si è poi riconosciuto che non ve n'erano state? Non è aberrante che, sapendolo, si continui a farle visitare ai turisti e non le si distrugga? E questo non meriterebbe una solenne dichiarazione dei nostri eminenti professori? Jean Planchais confonde un'argomentazione storica e un'argomentazione morale per dirci che la logica della linea "revisionistica" porta alla riabilitazione del nazismo, poi si preoccupa:

[...] ci sono degli uomini giovani o no che, in completa buona fede, si interrogano: non sarà che sono stati vittime di un enorme inganno?

Questi «uomini giovani o no che», se sono dei lettori appena un po' attenti, rischiano forte di rimanere paralizzati dall'appello degli storici e dal concetto della loro professione che questi rivelano, dato che la conclusione di costoro è:

Non bisogna domandarsi come, tecnicamente, un tale assassinio di massa sia stato possibile. È stato possibile tecnicamente perché ha avuto luogo. Questo è il punto di partenza obbligato di ogni ricerca storica sull'argomento. Questa verità era compito nostro semplicemente richiamarla: non c'è, non può esserci dibattito sull'esistenza delle camere a gas.

Questi storici presentano poi

una ristretta bibliografia che permette ad ogni lettore onesto di farsi un'idea giusta di ciò che sono stati lo sterminio nazista e la società concentrazionaria che si è costituita sui suoi margini.

La nostra disonestà e la nostra maniacalità non giungeranno fino al punto di stupirsi dell'assenza delle opere di Rassinier in questa bibliografia, dato che i nostri difensori della democrazia almeno su un punto sono stati chiari: non vi è dibattito possibile.

Molti si sono vilmente piegati dinanzi al nazismo. I nostri intellettuali saranno dunque pronti a dar prova del più deciso coraggio davanti al nazismo divenuto pericolo immaginario. In feroce opposizione al totalitarismo, eccoli pronti ad affermare un principio che si direbbe uscito da 1984 di Orwell o da Il migliore dei mondi di Huxley. La verità è che non c'è da cercare la verità. Il dovere è conservare il ricordo storico ufficiale. E i firmatari, nella loro buona coscienza, mentre si appoggiano sui poteri statali del mondo intero, debbono lo si immagina identificarsi con il Voltaire del caso Calas o con il Zola del caso Dreyfus!

Notiamo l'assenza da questa lista degli specialisti e delle autorità in fatto di storia della Seconda Guerra mondiale, assenza che lascia così, a sostenere Poliakov e Wellers, gli specialisti della civiltà greca, del medioevo o del mondo arabo. Un'assenza altrettanto degna di nota si riscontra all'interno stesso della sterminata letteratura concentrazionaria che evoca senza posa «gassazione» e «camere a gas», che fa di questi «mattatoi umani» la pietra angolare del sistema concentrazionario nazista, e che tuttavia non si preoccupa di spiegare la loro fabbricazione e il loro funzionamento. Un'eccezione: quella di Olga Wormser-Migot, che vi consacra tre pagine della sua voluminosa tesi su Le Système concentrationnaire nazi per rimettere in discussione l'esistenza delle «camere a gas» a Ravensbrück e a Mauthausen. E se il nome della Wormser-Migot compare nella bibliografia degli storici, la sua tesi, invece, viene passata sotto silenzio.

Forse il coraggio dei firmatari sarà consistito nel citare nel loro manifesto un documento che è il rapporto attribuito alla SS Gerstein e che permette al «lettore onesto» di imparare che:

Nelle camere la SS pressa gli uomini. "Riempire bene", ha ordinato lo hauptmann Wirth. Gli uomini nudi stanno dritti gli uni sui piedi degli altri; da sette a ottocento in venticinque metri quadrati, in quarantacinque metri cubici; le porte si chiudono.

Tanta gente in così poco spazio è effettivamente un riempire bene, ed è altresì l'impossibile. Nondimeno questo documento ci viene presentato come indiscutibile nell'essenziale. Alcuni lettori di «Le Monde» si sono meravigliati. Poliakov e Vidal-Naquet rispondono loro nel numero in data 8 marzo 1979:

Infatti è chiaro che, in una stanza di venticinque metri quadrati, non si possono assolutamente stipare, tenendo conto del numero dei bambini, più di trecento persone. Questo significa semplicemente che Gerstein si è sbagliato sia sulle dimensioni della stanza sia sul numero delle vittime. Questo errore si spiega facilmente: la precisione in materia di cifre non era in Gerstein la qualità predominante ed egli aveva vissuto drammaticamente la sua visita a Belzec.

I due storici debbono essere, anche loro, sotto l'effetto dell'emozione se ritengono che sia possibile stipare trecento persone in venticinque metri quadrati, ossia se si preferisce dodici persone per metro quadrato. E senza dubbio per farne entrare la metà sarebbe stato necessario fucilarne molte davanti alla «camera a gas». La SS Gerstein era pur sempre, pare, un ingegnere, e il suo racconto sarebbe stato scritto vari anni dopo la sua visita a Belzec. Ardente cristiano, egli sarebbe entrato nella SS per sabotare dall'interno l'opera di sterminio. Fatto prigioniero dai francesi, l'ardente cristiano si sarebbe alla fine suicidato in una prigione militare di Parigi. Dunque, non solo è contraddittorio il contenuto del rapporto Gerstein, ma resta misteriosa la sua origine. Ecco il documento storico su cui ci siamo fermati, poiché è esso che gli storici hanno scelto per puntellare la loro dichiarazione. Si aggiunga che il documento Gerstein, che proverebbe lo sterminio mediante «camere a gas» per diversi campi polacchi, non è stato utilizzato al processo di Norimberga. *

Questo ci riporta a Rassinier e a «Le Monde». Alcuni anni addietro Rassinier, avendo scritto a «Le Monde» sul non-riconoscimento a Norimberga del documento Gerstein, riferisce:

Il 30 dicembre '63 Jacques Fauvet mi rispose che in effetti la dichiarazione di Gerstein non era stata presa in considerazione, ma che lui «esitava a prolungare la controversia». Insomma, avevo ragione ma i lettori di «Le Monde» non lo dovevano sapere (Le Drame des Juifs européens).

Sempre a proposito di questo documento Rassinier accusa Poliakov di produrne tre versioni differenti nessuna delle quali, peraltro,

menziona una valutazione che figura nell'originale e secondo la quale il numero delle vittime ebree europee «ammonta a 25 milioni» (ibid.).

Già nel '62, nel Véritable Procès Eichmann, Rassinier scriveva:

Più sollecito della verosimiglianza, Poliakov ha corretto il documento (come si ha l'onore di dirvi!): 93 metri quadrati di superficie, questa è la sua valutazione (Bréviaire de la Haine, p. 223, seconda edizione non ho letto la prima!), senza altre indicazioni, ed era cosa più prudente.

Qui bisogna decidere: o è Rassinier ad essere un falsario o è Poliakov. Perché dunque «Le Droit de vivre» del dicembre 1978, che titola Denunciare i falsari e che riproduce delle deposizioni, non quelle favorevoli a Rassinier, e il testo della sentenza del '64, non fa parola, a proposito di Poliakov, di questa menzogna? Si darebbe forse il caso che sarebbe Poliakov il vero falsario? E, allora, che credito accordargli? E che credito accordare alle persone che si appoggiano su di lui (ad esempio, «Le Droit de vivre» e l'avvocato di Eichmann)? Il documento Gerstein è certamente uno dei più dubbi, forse sorpassato da Medico ad Auschwitz del dottor Nyiszli Miklos. Quanto agli altri documenti che si producono, e specialmente Comandante ad Auschwitz, le memorie di Höss (Einaudi), sono anch'essi contraddittori e di origine sospetta. Quando gli specialisti si riferiscono a documenti che non sono confessioni, allora bisogna tradurli "in chiaro" per farli parlare nel senso voluto.

L'articolo di Wellers che sostiene la dichiarazione degli storici e che tenta di rispondere in modo più preciso all'«emulo di Rassinier», ossia Faurisson, si riferisce a Höss e a Kremer, medico SS ad Auschwitz, del quale interpreta il diario personale scoperto nell'agosto del '45 dagli inglesi. Kremer, di cui bisogna sapere decifrare il linguaggio intenzionalmente anodino, sarebbe confermato dagli archivi del campo. Il 18 ottobre '42, quando secondo Kremer c'è stata «l'undicesima azione speciale», un convoglio di 1.710 persone è partito dall'Olanda e di queste persone solo 116 sono state introdotte nel campo di Auschwitz. La soluzione non è inevitabilmente che altre 1.594 persone siano passate per le «camere a gas», ma forse che sono state destinate ad altri campi di lavoro o di concentramento. Perché mai Kremer in un diario personale avente poche probabilità di essere conosciuto avrebbe truccato la verità, mentre, per parte sua, l'amministrazione nazista avrebbe lasciato sussistere delle prove così enormi? Non sarà che Faurisson, se gli si fosse lasciato il diritto di risposta, avrebbe potuto dare indicazioni su questo convoglio? Allora sarebbe Wellers che passerebbe per un romanziere fantasioso.

Wellers ci vuole mostrare che si poteva uccidere con dello Zyklon B, gas tossico impiegato molto prima della guerra dall'esercito tedesco come insetticida, e finanche argomenta sul piano tecnico:

È mille volte più facile fabbricare una camera a gas piuttosto che un coltello o una cattiva pistola. Infatti tutti i candidati al suicidio mediante gas domestico chiudono le finestre e le porte del loro appartamento, aprono il rubinetto del gas e muoiono in una "camera a gas" improvvisata in un minuto.

Quale evidenza! Senonché asfissiarsi da soli è forse cosa diversa che asfissiare un gran numero di persone in infornate regolari e in un tempo limitato, con la «camera a gas» formante lo strumento razionale e industriale di un assassinio di massa. La questione non è se si possa o no gassare, ma se i documenti che parlano di gassazioni ne parlino in maniera credibile. È vero che si può uccidere in quel dato tempo con ossido di carbonio? È vero che si può rientrare e lavorare così poco tempo dopo senza maschera a gas e mangiando in un locale cianurato? Gli intervalli possono essere dei quarti d'ora o delle mezz'ore? Con la storia della «camera a gas» che si può fabbricare e utilizzare in un minuto Wellers cerca solo di stupire con una falsa evidenza e di operare un diversivo.

Georges Wellers è, d'altro canto, l'autore di un lungo articolo critico dell'opera di Rassinier, La "soluzione finale" e la mitomania neonazista, apparso in «Le Monde juif» dell'aprile-giugno 1977. Più consistente di quello di «Le Monde», questo articolo ha nondimeno lo scopo di screditare Rassinier piuttosto che quello di rispondere seriamente alle sue obiezioni di fondo, specialmente alla questione tecnica, che Wellers evita. Questo articolo non ci ha convinti, ma ad esso rinviamo il lettore che volesse legittimamente conoscere il punto di vista anti-Rassinier.

«Le Monde» dedica di nuovo un'intera pagina alla questione in data 8 marzo 1979 con un articolo di François Delpech: La verità sulla soluzione finale. È un rapido e buon riassunto delle posizioni anti-«revisioniste» tendente a stabilire che:

1.     I grandi capi nazisti hanno ordinato e organizzato l'Olocausto nel '42.

2.     Circa sei milioni di ebrei sono morti nella catastrofe.

3.     L'esistenza e l'utilizzazione massiccia delle camere a gas non possono assolutamente essere negate.

Ma ciò non scalza le posizioni dei «revisionisti». Delpech rimprovera loro di utilizzare «un vecchio metodo polemico la cui efficacia non è più da dimostrare: l'ipercritica», ed evoca «un collega che dalle differenze tra le fonti francesi, inglesi e tedesche traeva argomento per negare l'esistenza di Giovanna d'Arco o di Napoleone». Delpech esclama: «Si crede davvero che i nazisti fossero incapaci di uccidere?».

Chi pretende, signor Delpech, che i nazisti fossero incapaci di uccidere? Noi non pretendiamo neppure che essi non siano stati capaci di massacrare con delle camere a gas. E certo molti altri ne sarebbero capaci. Si tratta solo di sapere se i nazisti l'hanno fatto effettivamente. E, se l'hanno fatto, in che misura.

Vi è una complicità della viltà e non vale la pena di dilungarsi su quel che si può pensare e sulla fiducia che si può concedere a questi distinti intellettuali che sono pronti a mettere in discussione degli avversari e a sostenere delle opinioni accettando che agli avversari e ai diversamente opinanti non sia concesso di rispondere loro. Ma sarebbe arbitrario dedurre che noi si abbia a che fare con una menzogna storica costruita consapevolmente, con uno di quei complotti che avrebbero richiesto soltanto un piccolo numero di complottatori e un gran numero di esecutori. Le contraddizioni e le inverosimiglianze che si trovano nella maggior parte dei documenti di base e le divergenze di metodo e di posizione tra gli specialisti sono sufficienti a mostrarlo.

La voce delle «camere a gas» si sviluppa all'interno dei campi di concentramento. Essa si spiega, specialmente con la mortalità straordinariamente elevata che vi regna, con i frequenti trasferimenti da campo a campo, con la pratica delle Selektion aventi per scopo la separazione degli inabili al lavoro dalla massa dei detenuti e con la confusione tra crematori e «camere a gas». Testimonianze di detenuti mostrano che, mentre essi credevano di venir gassati perché era stata mutata l'ubicazione delle docce o perché li si costringeva ad andare in infermeria, alla fine non succedeva niente di simile. Al che si contrappone diametralmente l'argomento shock secondo il quale coloro che sarebbero effettivamente stati gassati non sono più qui per raccontarlo. Questa voce è stata sistematizzata dopo la guerra soprattutto perché permetteva ai membri della H.-Führung di discolparsi e di nascondere il ruolo da essa svolto.

Ma la funzione ideologica delle «camere a gas» va di gran lunga al di là dei particolari interessi di taluni. Ed è qui che non è inutile lasciare il meschino terreno della ricerca storica per elevarsi con Jean Daniel al piano della filosofia politica.

Stando al direttore del «Nouvel Observateur» nel suo editoriale del 6 novembre 1978, L'oblio vietato,

La campagna ha avuto inizio negli anni Cinquanta, con il libro minuzioso di Paul Rassinier, un parlamentare francese, di formazione socialista, e che ha fatto lui stesso ma sì! un breve soggiorno in un campo.

La scrittura di Jean Daniel non ha preoccupazioni di minuziosità. Piuttosto, è lirica. E Jean Daniel non si preoccupa di confutare Rassinier. Gli basta denunciare i «crociati del razzismo» che utilizzano le argomentazioni di Rassinier. D'altronde Rassinier è difficilmente confutabile, posto che i nazisti, ed è in ciò che risiede tutto l'orrore della cosa, sarebbero riusciti a commettere un delitto perfetto:

Sogno demoniaco se mai ve ne fu uno, concepito da un tecnocratico Lucifero nella più altamente scientista delle isterie. Il raggruppamento dei dannati, il loro avviamento, l'organizzazione dei campi, la selezione per lo sterminio: niente è lasciato all'improvvisazione. Niente lascerà traccia; è l'infernale processo del delitto perfetto. Sua specificità è la sua perfezione; sua essenza la sua radicalità; suo orrore magico la sua attitudine ad evocare il nulla e l'infinito. I razzisti hanno tutte le ragioni di temere di esserne accusati. È un atto senza precedenti, nato da niente e che non va da nessuna parte.

Ma, a prestare fede a Jean Daniel, abbiamo avuto fortuna, perché la Francia si è ripresa per la propria salvezza:

C'è stato nel misterioso inconscio collettivo come l'oscuro sentimento che sarebbe bastato che crollasse la credenza nel genocidio perché subito ricomparisse, liberato e torrenziale, non soltanto l'antisemitismo, ma quel razzismo latente di cui possono essere vittime tutte le minoranze, quel razzismo che immerge lo spirito nelle tenebre con l'infrenabile movimento della marea nera sull'oceano.

Il poeta, o, meglio, l'albatros, le ali ancora piene di catrame, con un audace rovesciamento trasforma un inquinamento alla superficie dei mass media in un soprassalto venuto dalla profondità dell'essere sociale.

Un giornalista in fregola di audience e di celebrità è andato ad intervistare, nascondendo il microfono e la macchina fotografica, una vecchia sozzura che era riuscita più o meno a farsi dimenticare. Tutta la stampa s'impadronisce del caso col pretesto di discutere dell'utilità o nocività pedagogica del far pubblicità al razzismo di Darquier de Pellepoix, preferendo evidentemente alimentarsi dei discorsi di Darquier piuttosto che dover discutere seriamente le posizioni di un Rassinier. Ma, comunque sia, in tutta questa banalità non si vede molto bene dove possa trovarsi il misterioso inconscio collettivo.

L'inversione di Jean Daniel ne sostiene un'altra che egli riprende da un volatile della sua specie, Louis Martin-Chauffier, citato dall'arcivescovo di Marsiglia nella sua omelia di Ognissanti forse per far dimenticare i silenzi del Vaticano nei confronti del nazismo. Martin-Chauffier, ci dice l'arcivescovo, è

l'autore di una delle più belle meditazioni sulla deportazione: "Non si deve rispondere alla violenza con l'odio. Ma l'oblio sarebbe rinuncia. L'oblio è vietato. Non si potrebbe dimenticare tutto ciò che è stato commesso, pena il veder ricominciare tutto ciò che sarà stato dimenticato".

Alla comprensione delle condizioni economiche e sociali che generano così ampia distruzione di esseri umani viene opposto il mito di un piano cosciente e demoniaco. Alla lotta contro queste condizioni economiche e sociali viene opposta la necessità di ricordare. Basterebbe che si dimenticasse perché tutto ricominciasse. L'inconscio collettivo, alias i mass media, si faranno dunque guardiani di questo incubo. Ecco legittimato uno spettacolo dell'orrore che, lungi dal premunire contro una qualsiasi cosa, non fa che banalizzare l'atrocità e dare al pubblico il sentimento dell'impossibilità di intervenire. È cosa del passato o è troppo lontana, ad ogni modo questo si svolge dietro lo schermo televisivo. Ma non è semplicemente passività e distanza, ci sono anche un compiacimento ed una fascinazione per l'orrore che non mancano di trovare a se stessi delle buone ragioni.

Il fatto è che l'orrore non esiste solo alla periferia del nostro mondo e dietro i fili spinati dove lo si concentra, esso trasuda dal nostro modo di vita sotto le immagini della tranquillità felice per levarsi talvolta sotto la forma del crimine, dell'accidente mostruoso o di comportamenti patologici. E questo orrore confusamente avvertito, bisogna evidenziarlo, dargli un senso, farne uno spettacolo per tentare di padroneggiarlo. Rinviare ad una pulsione di morte, espressione fondamentale dell'inconscio collettivo o individuale, non fa altro che nascondere il fatto che questo preciso modo di produzione fa realmente pesare sugli uomini una permanente minaccia di distruzione. E non parliamo neanche dell'armamento nucleare o di ogni altra minaccia più limitata e reale di morte, ma del sentimento diffuso che pervade gli uomini separati dalla comunità umana e ridotti ad un'inserzione sociale precaria (la coppia, l'azienda): il sentimento del rischio di essere e, nei fatti, di essere sempre, più o meno di troppo. La crisi accentua l'insicurezza economica e affettiva. Si cerca di sbarazzarsi di coloro di cui si intende prendere il posto e di concentrare la ripulsa della distruzione su dei capri espiatori.

Se disgraziatamente una situazione simile a quella della Germania, che si ritrovò al parossismo della crisi con sette milioni di disoccupati, si producesse di nuovo senza che ci fosse possibilità di abbattere i rapporti di produzione capitalistici, vi sarebbero tutte le probabilità della rinascita di un forte razzismo e anche di un razzismo di Stato. Vi sarebbero altresì tutte le probabilità che in gran parte gli intellettuali antinazisti di oggi fossero pronti a cercargli e a trovargli delle giustificazioni.

L'antisemitismo hitleriano è e deve essere presentato come un fatto unico nella storia, poi deve servire a far dimenticare e soprattutto a mistificare tutti gli orrori che il nostro mondo produce. Si evocano le particolari condizioni che hanno presieduto all'avvento del nazismo, ma lo si fa per trarsene meglio d'impaccio ed elevarsi all'universale. Raymond Aron dice («France-Soir», giornale dell'ex-antisemita Hersant, 15 febbraio 1979):

Se si vuole evitare la banalizzazione bisogna insistere su ciò che il nazismo ha rappresentato di unico. È stato il solo a concepire, in base alla decisione di poche persone, lo sterminio di tutt'intera una popolazione. Forse Stalin ha sacrificato ancora più vite. Ma è a partire dagli stermini hitleriani che abbiamo paura degli uomini. Noi tutti siamo ancora terrificati che ciò sia stato possibile. È per questo che, piuttosto che parlare di banalizzazione, bisogna dire che, in una certa misura, abbiamo tutti preso parte a ciò.

Con Jean Daniel abbiamo imparato che questo sterminio aveva qualcosa di satanico. Raymond Aron ci dice che, da quando questo è accaduto, abbiamo paura degli uomini e che ciascuno di noi vi ha preso parte. Satana è dentro ciascuno di noi: è il ritorno al peccato originale.

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La storia è essa stessa storicamente prodotta. L'immagine che ci si fa del passato è il risultato della selezione e dell'interpretazione dei fatti, secondo la natura delle forze che si sono affrontate e secondo i rapporti di forza che via via si sono instaurati. Così, in Francia, la storia scolastica mette in scena, da Vercingetorige a de Gaulle, l'affermazione del fatto nazionale cancellando la lotta di classe. Il conformismo generale ritiene che oggi la scienza storica abbia rotto in modo decisivo con ogni leggenda delle origini per costituire un concatenamento cronologico di fatti assodati. Ma, se la ricostituzione del passato prende un taglio scientifico, essa più che mai si opera anche sotto l'egida dello Stato.

La visione che viene proiettata della Seconda Guerra mondiale, con tutta la forza che le assicurano i mass media, è là per legittimare il presente, così come questo presente del capitale tende anche a legittimarsi immediatamente attraverso la rappresentazione che esso impone di continuo di sé medesimo attraverso i meccanismi di produzione dell'attualità. Questa visione, d'altra parte, è suscettibile di evolvere. Il capitale cede alla verità quando non ha più bisogno di quella particolare menzogna. Una rivelazione che oggi attira gravi inconvenienti ai suoi "autori" sarà approvata in altri, o a titolo postumo quando i tempi saranno maturi. Ma per la teoria rivoluzionaria il problema non è solo di denunciare questa o quella particolare menzogna, ma di smontare i meccanismi che assicurano la produzione e la riproduzione dell'ideologia e dei suoi deliri.

 

NOTE

* Alcuni anni dopo la pubblicazione del presente articolo, il rapporto Gerstein, fino allora pietra angolare della vulgata olocaustica, ha formato oggetto di un'attentissima disamina da parte di Henri Roques, che vi dedicò la propria tesi di laurea, discussa a Nantes il 15 giugno 1985; la si può leggere, corredata di appendici, in André Chelain, La Thèse de Nantes et l'affaire Roques, Polémiques, Paris 1988. La discussione di questa tesi ha dato luogo tanto per cambiare ad un nuovo episodio, particolarmente ricco di aspetti grotteschi, dell'accanita repressione antirevisionistica attuata in Francia (ma non solo in Francia!) dal pubblico potere per ispirazione degli ambienti resistenzialisti e sionisti e sotto la loro alta sorveglianza (Tradd.).