TOTALITARISMO E FASCISMO

di J.Barrot

L’ANTIFASCISMO, IL PEGGIOR PRODOTTO DEL FASCISMO
ITALIA E GERMANIA
CILE
PORTOGALLO
SPAGNA: GUERRA O RIVOLUZIONE?
OTTOBRE 1917 E LUGLIO 1936
LA "COMUNE" DEL 1871
MESSICO
GUERRA IMPERIALISTA
IL CENTRISMO
IL POUM
L’ANARCHISMO E I SUOI DIFENSORI
"LA RÉVOLUTION PROLÉTARIENNE"
L’ANARCHISMO DI SINISTRA
ANTISTALINISMO
L’UNION COMMUNISTE
LA LIGUE DES COMMUNISTES INTERNATIONALISTES
LA SINISTRA TEDESCA
SINISTRA ITALIANA?
QUESTIONE NAZIONALE
RIVOLUZIONE POLITICA E SOCIALE
FORZA E DEBOLEZZA DEL COMUNISMO IN SPAGNA
RIFORMA E RIVOLUZIONE
NOTE

Gli orrori del fascismo non furono né i primi, né gli ultimi, né, checché se ne dica, i peggiori1. Non avevano niente da invidiare ai massacri "normali" delle guerre, delle carestie eccetera. Per i proletari erano la riedizione più sistematica di altri terrori vissuti nel 1832, 1848, 1871, 1919, ... Non dimeno, il fascismo occupa un posto di spicco, se non il primo, nello spettacolo degli orrori. Stavolta, infatti, furono colpiti molti borghesi e una buona parte della classe politica, cosi come la testa e anche il corpo delle organizzazioni operaie ufficiali. Per i borghesi e i piccoli borghesi, si tratta di un fenomeno anormale, inspiegabile, salvo che mediante il ricorso a cause psicologiche: una degradazione dei valori democratici. L’antifascismo liberale fa del fascismo una perversione della civiltà occidentale, raggiungendo cosi un effetto contrario: la fascinazione sadomasochista del fascismo resa oggi celebre dal ciarpame "retro". L’umanesimo occidentale non capirà mai che le croci uncinate inalberate dagli Hell’s Angels gli rimandano l’immagine capovolta del suo proprio fantasma del fascismo. La logica di questa inversione si riassume cosi: se il fascismo è il Male assoluto, allora scegliamo il male, invertiamo i valori: fenomeno tipico di un’epoca scombussolata.

L’analisi "marxista" abituale non si attarda, evidentemente, sulla psicologia. L’interpretazione del fascismo come strumento del "grande capitale" è divenuta classica dopo Daniel Guérin. Ma la sua serietà ne maschera l’errore centrale. La quasi totalità degli studi "marxisti" mantengono l’idea che, malgrado tutto, il fascismo fosse evitabile nel 1922 o nel 1933, e lo riducono a un’arma utilizzata dal capitalismo, che quest’ultimo avrebbe potuto rimpiazzare con un’altra, se il movimento operaio avesse esercitato una pressione sufficiente in questo senso, invece di dar prova soltanto del suo settarismo e delle sue divisioni. Sicuramente non vi sarebbe stata una "rivoluzione", ma almeno l’Europa avrebbe evitato il nazismo, i campi eccetera. Dietro a considerazioni giustissime sulle classi, sullo Stato, sul legame tra fascismo e grande industria, questa idea serve a non vedere che il fascismo s’inscrive in una doppia sconfitta: sconfitta dei rivoluzionari schiacciati dalla socialdemocrazia e dalla democrazia parlamentare; indi fallimento dei democratici e dei socialdemocratici nel gestire efficacemente il capitale. L’avvento al potere del fascismo, e ancor più la sua natura, restano incomprensibili al di fuori del periodo precedente, della lotta di classe anteriore e dei suoi limiti. Non si comprendono disgiuntamente. Non è un caso se Guérin s’inganna al tempo stesso sul Fronte Popolare, in cui vede una "rivoluzione mancata", e sul significato del fascismo.

Il paradosso e il segreto della mistificazione antifascista stanno nel fatto che che i democratici mascherano tanto meglio la natura del fascismo quanto più dispiegano una radicalità apparente, gridando al fascismo dappertutto da oltre cinquant’anni. Questa pratica non è nuova.

"Fascismo di qui, fascismo di là. L’Action Française è il fascismo. Il Blocco Nazionale è il fascismo [...]. Tutti i giorni, da sei mesi, "L’Humanité" ci riservava una sorpresa fascista. Un giorno un enorme titolo a sei colonne: Abbasso il senato fascista! Un’altra volta, causa il rifiuto da parte di una tipografia di stampare un giornale comunista: Colpo di forza fascista [...].

Non vi sono bolscevismo e fascismo in Francia più di quanto vi sia kerenskismo. La "Liberté" e "L’Humanité" hanno un bel affannarsi, il fascismo che esse inventano non è suscettibile di sviluppo: le condizioni oggettive della sua esistenza non si sono ancora realizzate [...].

Non si può lasciare il campo libero alla reazione: inutile battezzarla come fascista per combatterla."2

In un’epoca d’inflazione verbale, il solo fatto di evocare il "fascismo" è divenuto un segno di radicalità, mentre attesta una confusione e una concessione teorica allo Stato e al capitale. L’essenza dell’antifascismo consiste nel lottare contro il fascismo per promuovere la democrazia, cioè nel lottare non per distruggere il capitalismo ma per costringerlo a non farsi totalitario. Con l’identificazione del socialismo in una democrazia totale, e del capitalismo in una fascistizzazione sempre maggiore, l’antagonismo proletariato-capitale, comunismo-salariato, proletariato-Stato è rinviato in un altro mondo a profitto dell’antagonismo "democrazia"-"fascismo", presentato come la quintessenza della prospettiva rivoluzionaria. L’antifascismo non vi riesce che mescolando due fenomeni: il "fascismo" propriamente detto, e l’evoluzione del capitale e dello Stato verso il totalitarismo. Riconducendo sempre il secondo fenomeno al primo, si fa passare la parte per il tutto, si maschera la causa di entrambi, si rafforza quel che si crede di combattere.

Non si afferra l’evoluzione del capitale e delle sue forme totalitarie attuali a partire dalla denuncia di un "fascismo" latente: bensi il fascismo a partire dall’evoluzione del capitale verso il totalitarismo, di cui il fascismo fu un caso particolare, e in cui la democrazia ha giocato, e gioca, un ruolo altrettanto controrivoluzionario che il fascismo. é un abuso linguistico parlare oggi di un fascismo indolore, non violento, o che non distruggerebbe gli organismi tradizionali del movimento operaio. Il fascismo fu un movimento limitato nel tempo e nello spazio. La situazione dell’Europa dopo il 1918 gli dà i suoi tratti originali che non si ripeteranno più.

Cosa c’è al fondo del fascismo, se non l’unificazione economica e politica del capitale, tendenza divenuta generale dopo il 1914? Il fascismo fu una maniera particolare di realizzarla in Paesi (Italia e Germania (ove lo Stato si era rivelato incapace di fare regnare l’ordine (ivi compreso nella borghesia), benché la rivoluzione fosse stata soffocata. é nell’essenza del fascismo di essere nato nelle strade, di aver suscitato il disordine per l’ordine: movimento di vecchie classi medie che sboccò nella loro riduzione più o meno violenta, che rigenerò dall’esterno lo Stato tradizionale incapace di risolvere la crisi del capitale.

Crisi dello Stato all’epoca del passaggio al dominio totale del capitale sulla società: ben di questo si trattava. Occorsero le organizzazioni operaie per domare la rivoluzione, ci vollero poi i fascisti per metter fine al disordine seguitone. Una crisi mal superata a quell’epoca: lo Stato fascista era efficace solo in apparenza, perché poggiava sull’esclusione sistematica dei salariati dalla vita sociale. Ma una crisi relativamente superata dall’odierno Stato tentacolare. Lo Stato democratico si dà tutti i mezzi del fascismo, se non di più, giacché integra le organizzazioni operaie senza annientarle. L’unificazione sociale va al di là di quella realizzata dal fascismo, ma quest’ultimo in quanto movimento specifico è scomparso. Esso corrispondeva alla disciplina forzata della borghesia sotto la pressione dello Stato, in un contesto originale.

La borghesia prese a prestito perfino il nome dalle organizzazioni operaie, che spesso in Italia si chiamavano "fasci". é significativo che il fascismo si definisca in primo luogo come forma di organizzazione e non come programma. Suo solo programma è di riunire in fascio, di fare convergere gli elementi che compongono la società, di buon grado o di forza:

"Il fascismo ruba al proletariato il suo segreto: l’organizzazione [...]. Il liberalismo è tutto ideologia e niente organizzazione; il fascismo è tutto organizzazione e niente ideologia" (A. Bordiga).

La dittatura non è un’arma del capitale, come se esso potesse sostituirla con altre meno micidiali, ma una tendenza del capitale, che si realizza quando necessario. "Ritornare" alla democrazia parlamentare dopo la dittatura, come in Germania dopo il ‘45, significa solamente che la dittatura è inutile (fino alla prossima volta) in quanto integrazione delle masse nello Stato. Il problema non è dunque che la democrazia assicura uno sfruttamento più dolce che la dittatura: ognuno preferirebbe essere sfruttato alla svedese piuttosto che torturato alla brasiliana. Ma si ha scelta? Questa democrazia si trasformerà essa stessa in dittatura all’occorrenza. Lo Stato non può avere che una funzione, che esso adempie democraticamente o dittatorialmente. Si può preferire la prima maniera, ma non piegare lo Stato per costringerlo a impiegarla. Le forme politiche che il capitale si dà non dipendono dall’azione degli operai più che dalle intenzioni della borghesia. Weimar capitolò di fronte a Hitler, gli apri le braccia. E il Fronte Popolare di Léon Blum non "evitò il fascismo", perché la Francia del 1936 non aveva bisogno di unificare il capitale e di ridurre le classi medie. Non esiste scelta politica alla quale il proletariato potrebbe essere invitato o invitarsi di forza.

Si prende in giro Hitler per aver conservato della socialdemocrazia viennese solo i suoi metodi di propaganda. La "verità" del socialismo era più li che nel raffinato austromarxismo. Il problema comune alla socialdemocrazia e al nazismo era d’inquadrare le masse e di reprimere i loro bisogni. Furono dei socialisti e non dei nazisti ad annientare le insurrezioni (ciò non ha impedito all’attuale spd, nel 1979 al potere come nel 1919, di realizzare un francobollo ufficiale in onore di Rosa Luxemburg, che essa fece uccidere sessant’anni fa). La dittatura viene sempre dopo che i proletari sono stati battuti dalla democrazia, dai sindacati e dai partiti di sinistra. Viceversa, socialismo e nazismo contribuirono egualmente a un miglioramento (provvisorio) del livello di vita. Come la socialdemocrazia, Hitler si fece strumento di un movimento sociale il cui contenuto gli sfuggiva. Egli si batteva per il potere, come l’spd per la sua funzione di mediatrice tra gli operai e il capitale: ma entrambi servirono egualmente il capitalismo, che se ne sbarazzò una volta che ebbero svolto il loro rispettivo compito.

L’ANTIFASCISMO, IL PEGGIOR PRODOTTO DEL FASCISMO

Dopo il "fascismo" tra le due guerre, il termine fascismo ha conosciuto un trionfo. Quale gruppo politico non ha accusato gli avversari d’impiegare "metodi fascisti"? La sinistra non cessa di denunciare il fascismo rinascente, la destra non rinuncia a dare del "partito fascistizzante" al PCF. Significando di tutto, la parola ha perduto il suo senso da quando la buona coscienza internazionale qualifica tutti gli Stati forti come "fascisti". Si prendono cosi le illusioni dei fascisti degli anni Trenta per la realtà. Franco si richiamava al fascismo come Hitler e Mussolini, ma non esistette mai un’Internazionale Fascista.

Se oggi i colonnelli greci e i generali cileni sono chiamati fascisti dall’ideologia dominante, sono in realtà lo Stato capitalista stesso. Incollare rumorosamente l’etichetta fascista sullo Stato ha lo stesso effetto che denunciare i partiti al vertice dello Stato. In entrambi i casi si fa scomparire la critica dello Stato dietro la denuncia di coloro che lo dirigono. Il gauchismo crede di dar prova di estremismo gridando al fascismo, mentre evita cosi la critica dello Stato, e propone un’altra forma statale (democratica, popolare) al posto di quella esistente.

Il termine fascismo perde ancor più il suo senso nei Paesi avanzati, ove i partiti comunisti e socialisti avranno un ruolo centrale in un futuro Stato "fascista" levantesi contro un movimento rivoluzionario. In questo caso è ben più corretto parlare di Stato tout court e non di fascismo. Il fascismo ha trionfato perché i suoi principi si sono generalizzati: unificazione del capitale, Stato efficace. Ma nello stesso tempo il fascismo è scomparso in quanto tale, come movimento politico e come forma-Stato. Malgrado qualche similitudine, i partiti tacciati come fascisti (in Francia, per esempio, il Rassemblement du Peuple Français, il poujadismo, un po’ il Rassemblement pour la République oggigiorno) non partono affatto alla conquista, dall’esterno, di uno Stato impotente.

Insistere sempre sulla minaccia fascista impedisce di vedere che il fascismo reale era già esso stesso inadatto, e falli: invece di cementare il capitale nazionale tedesco, fini col dividerlo in due. Oggi regnano altre forme, lontane tanto dal fascismo che da quella democrazia di cui ci riempiono le orecchie, per instaurarla o per difenderla

Con la Seconda Guerra mondiale, la mitologia si arricchi di un elemento nuovo. Questo conflitto, soluzione necessaria dei problemi economici (crisi del ‘29) e sociali (proletari in agitazione, benché non rivoluzionari, e dunque da disciplinare), poté apparire come una guerra contro il totalitarismo incarnato dal fascismo. Questa interpretazione ha la vita dura, e il ricordo costante dei massacri nazisti da parte dei vincitori, serve a giustificare questa guerra, dandole un carattere umanitario. Tutto, anche la bomba atomica, sarebbe giustificato contro un nemico cosi barbaro. Questa giustificazione, tuttavia, non regge più di quanto reggesse la demagogia nazista, che affermava di lottare contro il capitalismo e la plutocrazia occidentale. Il campo "democratico" annoverava uno Stato altrettanto totalitario che la Germania hitleriana: la Russia di Stalin, il cui codice penale prevedeva la pena di morte a partire dai dodici anni. Tutti sanno anche che gli Alleati fecero ricorso agli stessi metodi di terrore e di sterminio dei civili ogni qualvolta ne ebbero bisogno (bombardamenti strategici eccetera). L’Occidente, in seguito, attese la Guerra Fredda per denunciare i campi russi. Ma ciascun Paese capitalista è posto di fronte a problemi specifici, a seconda delle epoche. La Gran Bretagna non ebbe una guerra d’Algeria da domare, ma la spartizione dell’India fece milioni di vittime. Gli usa non dovettero mai organizzare campi di concentramento3 per tenere tranquilli i proletari e sbarazzarsi dei piccoli borghesi in soprannumero, ma fecero la guerra del Vietnam. Quanto alla Russia, di cui tutti denunciano oggi il "Gulag", si accontentò di concentrare in qualche decennio gli orrori che i Paesi capitalisti più vecchi avevano sparso lungo diversi secoli, e che fecero anch’essi milioni di vittime, non foss’altro che con la tratta dei Neri. Lo sviluppo del capitale comporta tutte le sue conseguenze, tra cui le due principali: 1) obbedienza degli operai, dunque distruzione soffice o violenta del movimento rivoluzionario; 2) concorrenza con gli altri capitali nazionali, dunque guerra. Che il potere sia nelle mani di partiti "operai" cambia solo una cosa: la demagogia operaista sarà ancora più accentuata, ma non risparmierà agli operai la repressione più severa, se necessario. Il trionfo del capitale non è mai cosi totale che come quando i lavoratori si mobilitano per lui, credendo di "cambiare la vita".

Per proteggerci dagli eccessi del capitale, l’antifascismo non immagina, d’altronde naturalmente, se non un intervento statale. Paradosso apparente, esso giunge a farsi campione dello Stato forte, come dice il PCF:

"Quale Stato è necessario per la Francia? Lo Stato attuale è stabile e forte, come afferma il presidente della Repubblica? No, è debole, è impotente a far uscire il Paese dalla crisi sociale e politica in cui l’ha gettato. Esso genera il disordine"4.

Dittatura e democrazia si propongono entrambe di rafforzare lo Stato, la prima per principio, affinché esso sia forte, la seconda al fine di proteggerci, il che conduce allo stesso risultato. Sono le artefici, opposte ma comuni, del totalitarismo. Si tratta di fare partecipare gli uomini alla società, "dall’alto" secondo i dittatori, "dal basso" secondo i democratici.

Tra dittatura e democrazia, si può parlare di una lotta tra due frazioni del capitale differenziabili sociologicamente? Si tratta piuttosto di due maniere d’inquadrare il proletariato, sia integrandolo forzosamente, sia associandolo con l’intermediario delle "sue" organizzazioni. Il capitale opta per l’una o per l’altra soluzione a seconda delle sue necessità del momento. In Germania, dopo il 1918, la socialdemocrazia e i sindacati erano indispensabili per controllare gli operai e isolare i rivoluzionari. Per contro, dopo il 1929, la Germania doveva concentrarsi, eliminare una parte delle classi medie, disciplinare la borghesia. Lo stesso movimento operaio, difendendo il pluralismo politico e gli interessi operai immediati, bloccava la situazione. Solo in nazismo appariva come il fattore di unificazione sociale e politica. Le "organizzazioni operaie" sostengono ben il capitalismo, ma badano alla loro autonomia: in quanto organizzazioni, cercano innanzitutto di perpetuarsi. Questo fece loro svolgere un ruolo controrivoluzionario efficace nel 1918-’21, come dimostrato dal fallimento della rivoluzione tedesca, ove nel 1920 si assistette, tra l’altro, al primo esempio di antifascismo antirivoluzionario ante litteram 5. In seguito, il peso acquisito da queste organizzazioni nella società e anche nello Stato fece giocar loro un ruolo di conservazione sociale, di malthusianismo, che andava eliminato. Esse svolsero una funzione anticomunista nel 1918-’21 perché erano l’espressione della difesa del lavoro salariato in quanto lavoro salariato: ma questa stessa ragione le trascinò poi ad anteporre l’interesse dei salariati a tutto il resto, a detrimento della riorganizzazione dell’insieme del capitale.

Si comprende perché il nazismo avesse per obiettivo l’eliminazione violenta del movimento operaio, contrariamente al rpf, al rpr eccetera, il che fa tutta la differenza. La socialdemocrazia aveva svolto bene il suo lavoro di domesticazione degli operai, ma lo aveva svolto troppo bene. Aveva preso cosi un posto troppo grande nello Stato, senza potere per questo unificare tutta la Germania dietro di sé. Questo fu il compito del nazismo, che seppe fare appello a tutte le classi, dai disoccupati al grande capitale.

Allo stesso modo, l’Unidad Popular cilena (cfr. il "Cile") aveva contenuto la spinta operaia, ma senza raccogliere attorno a sé l’insieme della nazione; occorreva rovesciarla con la forza. Al contrario, non si è avuta (ancora?) repressione di massa in Portogallo dopo il novembre 1975, e se l’attuale regime rivendica la continuità con la "rivoluzione dei garofani" non è perché la forza delle organizzazioni operaie e democratiche impedisce un colpo di Stato di destra. Giammai i partiti e i sindacati hanno impedito alcunché, salvo quando il colpo di Stato era prematuro (putsch di Kapp nel 1920). Non c’è terrore bianco perché è inutile, giacché fino a oggi il Partito Socialista Portoghese ha unificato dietro di sé l’insieme della società.

Che si chiami o no cosi, l’antifascismo è divenuto la forma obbligata del riformismo operaio cosi come del riformismo capitalista, li fonde, pretendendo di realizzare il vero ideale della rivoluzione borghese tradito dal capitale. La democrazia è concepita come un elemento del socialismo, elemento già presente nel mondo attuale. Il socialismo sarebbe, infatti, la democrazia totale. La lotta per il socialismo consisterebbe nel guadagnare sempre più diritti democratici in seno al capitalismo. Grazie all’aiuto del capro espiatorio fascista, il gradualismo democratico si è rinnovato. Fascismo e antifascismo hanno la stessa origine e lo stesso programma; ma il primo credeva di superare il capitale e le classi, mentre il secondo crede di realizzare la "vera" democrazia borghese indefinitamente perfettibile con l’aggiunta di dosi sempre più forti di democrazia. In realtà, la democrazia borghese è una tappa della presa del potere da parte del capitale, il cui dominio è perfezionato dall’estensione della democrazia nel xx secolo, accentuando l’isolamento degli individui. Nata come soluzione illusoria alla separazione dell’attività umana e della società, la democrazia non potrà mai risolvere il problema della società più separata di tutta la storia6. L’antifascismo condurrà sempre ad accrescere il totalitarismo: la sua lotta per uno Stato "democratico" consolida lo Stato7.

Per queste diverse ragioni, le analisi rivoluzionarie del fascismo e dell’antifascismo, e in particolare della guerra di Spagna che ne è l’esempio più complesso, sono ignorate, incomprese o regolarmente deformate. Quando va bene, sono considerate un punto di vista idealista; quando va male, un appoggio indiretto al fascismo. Vedete (si dice (come il Partito Comunista d’Italia fece il gioco di Mussolini, rifiutando di prendere il fascismo sul serio e, soprattutto, di allearsi con le forze democratiche; o come il Partito Comunista Tedesco permise l’avvento di Hitler, trattando l’spd come il nemico principale. In Spagna, al contrario, ecco un esempio di lotta antifascista risoluta, che avrebbe potuto vincere, senza la defezione degli stalinisti-socialisti-anarchici (cancellare le menzioni inutili). Queste "evidenze" poggiano su di uno snaturamento dei fatti8.

ITALIA E GERMANIA

Al primo posto delle falsità, si trova una deformazione del caso in cui almeno una parte del proletariato lottò contro il fascismo con metodi e obiettivi propri: l’Italia del 1918-’22. La sua lotta non aveva niente di specificamente anti-fascista: lottare contro il capitale obbligava a combattere, tra l’altro, il fascismo, come la democrazia parlamentare. Questa esperienza è originale, poiché si tratta di un movimento importante diretto da comunisti e non da socialisti centristi aderenti all’Internazionale Comunista (come il PCF) o da stalinisti rivaleggianti in demagogia nazionalista con i nazisti (come il kpd, che parlava di "rivoluzione nazionale" all’inizio degli anni Trenta). Viceversa, questa caratteristica permette all’antifascismo di respingere tutto quel che ci fu di rivoluzionario nell’esperienza italiana di allora: il Partito Comunista d’Italia, diretto a quell’epoca da Bordiga e dalla sinistra, avrebbe dato prova solamente di settarismo, favorendo l’avvento di Mussolini al potere. Ora, senza romanzare questo episodio, è bene ricordarlo, ché chiarisce, senz’alcuna ambiguità, come il successivo disfattismo dei rivoluzionari di fronte alla guerra "democrazia"-"fascismo" (quella di Spagna cosi come quella del 39-45) non è un atteggiamento di puristi che non vogliono altro che "la rivoluzione" e attendono il Gran Giorno senza muoversi. Esso si fonda, più semplicemente, sulla scomparsa, nel corso degli anni Venti e Trenta, del proletariato come forza storica, battuto dopo essersi costituito (peraltro molto male) in partito nel primo dopoguerra.

La repressione fascista interviene solo dopo la disfatta proletaria. Non distrugge le forze rivoluzionarie, che solo il movimento operaio tradizionale può vincere con metodi sia diretti sia indiretti. I rivoluzionari sono battuti dalla democrazia che non esita a ricorrere a tutti i mezzi, ivi compresi quelli militari. Il fascismo distrugge solo i movimenti elementari, annienta lo stesso movimento operaio divenuto un intralcio. é falso presentare l’avvento al potere del fascismo come il prodotto di combattimenti di strada nei quali esso avrebbe vinto gli operai.

In Italia, come in diversi altri Paesi, il 1919 fu l’anno decisivo, nel quale la lotta proletaria venne battuta mediante l’azione diretta dello Stato e il suo sviamento indiretto con le elezioni9. Fino al 1922, lo Stato accordò le più ampie facilitazioni ai fascisti: indulgenza nei procedimenti giudiziari, disarmo unilaterale degli operai, perfino appoggio armato, senza contare la circolare Bonomi del 20 ottobre 1921 che inviava 60.000 ufficiali nei gruppi d’assalto fascisti per comandarli. Di fronte all’offensiva armata fascista, lo Stato chiamava... alle urne. Durante le occupazioni delle fabbriche nel 1920, lo Stato si guardò bene dall’attaccare frontalmente i proletari, lasciando che la loro lotta si esaurisse da sola, con l’appoggio della cgl, che pose fine agli scioperi. Quanto ai "democratici", non esitarono a costituire per le elezioni del maggio 1921 un "blocco nazionale" (i liberali + la destra) che includeva i fascisti. Nel giugno-luglio 1921, il psi concluse un inutile e mistificatorio "patto di pacificazione" con i fascisti.

A stento si può parlare di colpo di Stato nel 1922: fu un trasferimento di potere. La "marcia su Roma" di Mussolini (che si accontentò di prendere il treno) non fu una pressione sul governo legale, ma una messinscena. L’ultimatum lanciato al governo il 24 ottobre non fu la minaccia di una guerra civile: fu il segnale indirizzato allo Stato capitalista (e assai ben compreso da quest’ultimo) che ormai il Partito Nazionale Fascista era la miglior forza in grado di assicurarne l’unità. Lo Stato cedette molto velocemente. Lo stato d’assedio deciso dopo il fallimento di un tentativo di compromesso venne annullato dal re, che incaricò Mussolini di formare il nuovo governo (comprendente i liberali). Tutti i partiti, salvo i socialisti e i comunisti, si avvicinarono al Partito Nazionale Fascista e votarono a favore di Mussolini in parlamento. Il potere del dittatore fu ratificato dalla democrazia. Lo stesso scenario si riprodusse in Germania. Hitler venne nominato cancelliere dal presidente Hindenburg (eletto nel 1932 con l’appoggio dei socialisti che in lui avevano visto... un baluardo contro Hitler), e i nazisti erano minoritari nel primo ministero hitleriano. Dopo aver esitato, il capitale appoggiò Hitler allorché vide in lui la forza politica unificatrice dello Stato e dunque della società (che il capitale non avesse previsto certe forme ulteriori dello Stato nazista è una faccenda secondaria).

Nei due Paesi, il "movimento operaio" è lungi dall’essersi battuto contro il fascismo. Le sue organizzazioni, totalmente autonomizzate dal movimento sociale proletario, funzionavano solo per conservarsi in quanto istituzioni, pronte ad accettare qualsivoglia regime politico, di destra o di sinistra, che le tollerasse. Tra il 1923 e il 1930, il psoe e la sua centrale sindacale (ugt) collaborarono con la dittatura di Primo de Rivera. Nel 1932, i sindacati socialisti tedeschi, per bocca del loro presidente, si dichiararono indipendenti da tutti i partiti politici e indifferenti alla forma dello Stato, e cercarono di accordarsi con Schleicher (sfortunato predecessore di Hitler), indi con Hitler, il quale fece creder loro che il nazionalsocialismo li avrebbe lasciati sussistere. Si arrivò alla sfilata dei sindacalisti tedeschi dietro le svastiche, il 1. maggio 1933, trasformato in "Festa del lavoro tedesco". I nazisti inviarono poi gli stessi sindacalisti in prigione e nei campi, il che avrebbe poi dato ai sopravvissuti l’etichetta di "antifascisti" risoluti e della prima ora.

In Italia, i dirigenti sindacali avrebbero voluto concludere un tacito accordo di mutua tolleranza con il fascismo. Tra la fine del 1922 e il 1923, presero contatto con il pnf. Poco prima della presa del potere da parte di Mussolini, dichiararono:

"Nel momento in cui le passioni politiche si esacerbano e in cui due forze estranee ai sindacati [il Partito Comunista e il pnf] si disputano aspramente il potere, la cgl sente il dovere di mettere in guardia i lavoratori contro le speculazioni dei partiti e dei raggruppamenti politici che mirano a trascinare il proletariato in una lotta alla quale esso deve restare assolutamente estraneo, se non vuole compromettere la propria indipendenza"10.

Viceversa, nel febbraio 1934, si ebbe una certa resistenza armata in Austria11 da parte della sinistra del Partito Socialista contro le forze di uno Stato sempre più dittatoriale e che si avvicinava ai fascisti. Questa lotta non aveva nulla di rivoluzionario, ma scaturiva dal fatto che in Austria non vi erano stati quasi combattimenti di strada dopo il 1918. I proletari più decisi (benché non comunisti) non erano stati battuti, e d’altronde erano restati nella socialdemocrazia, che conservava cosi alcune velleità rivoluzionarie. Naturalmente, questa resistenza si scatenò in modo spontaneo, e non riusci a unificarsi.

La critica rivoluzionaria di questi eventi non si riassume in un "tutto o niente", come se voglia battersi solo per "la rivoluzione", e solamente a fianco di comunisti puri e duri. Bisogna lottare, ci viene detto, per le riforme, quando non si può fare la rivoluzione; una lotta ben condotta per le riforme prepara anche la rivoluzione; chi può di più può di meno, ma chi non può di meno non potrà mai di più; chi non sa difendersi, non saprà attaccare eccetera. Tutte queste genericità passano a lato del problema. La polemica tra marxisti, fin dalla Seconda Internazionale, non verte sulla necessità o sull’inutilità della partecipazione dei comunisti alle lotte riformiste, che sono, in ogni modo, una realtà. Si tratta di sapere se tale o talaltra lotta pone gli operai sotto il controllo (diretto o indiretto) del capitale e in particolare del suo Stato; e quali posizioni i rivoluzionari debbano adottare in questo caso12. Per un rivoluzionario, una "lotta" (parola con cui si gargarizzano la sinistra e l’estrema sinistra ufficiale) non ha alcun valore in sé: prima del 1914 le azioni più violente portarono alla costituzione dei partiti e dei sindacati rivelatisi poi i nemici del comunismo. Ogni lotta che, malgrado la sua spontaneità iniziale o la sua energia, ponga gli operai alle dipendenze dello Stato capitalista, può avere solo una funzione controrivoluzionaria. La lotta antifascista, che pretende di cercare un male minore (meglio la democrazia capitalista che il fascismo capitalista), somiglia all’atteggiamento di chi si getti nel fiume per evitare la pioggia. Inoltre, ponendosi sotto la direzione di uno Stato, deve poi accettarne tutte le conseguenze, ivi compresa la repressione che esso esercita all’occorrenza contro gli operai e i rivoluzionari che vadano oltre l’antifascismo.

Invece di attribuire a Bordiga e al Partito Comunista d’Italia del 1921-’22 la responsabilità del trionfo di Mussolini, si farebbe meglio a interrogarsi sul perpetuo fallimento dell’antifascismo, il cui bilancio è sconfortante: quando ha evitato, o anche solo rallentato, il totalitarismo? Si riteneva che la Seconda Guerra Mondiale avrebbe garantito almeno l’esistenza di Stati democratici: le democrazie parlamentari sono oggi l’eccezione. Nei Paesi cosiddetti socialisti il cedimento della borghesia tradizionale e le esigenze del capitalismo di Stato hanno condotto a dittature che non hanno in genere niente da invidiare ai Paesi dell’Asse. Certuni si fanno delle illusioni sulla Cina, ma poco a poco le informazioni completano le analisi marxiste già pubblicate13, e rivelano l’esistenza di campi di concentramento la cui realtà è ancora negata dai maoisti... come negli anni Trenta quella dei campi russi dagli stalinisti. L’Africa, l’Asia, l’America latina vivono sotto il sistema del partito unico o della dittatura militare. Ci si commuove delle torture brasiliane, ma il Messico democratico non esitò a far sparare sui manifestanti nel ‘68, uccidendo 300 persone. La sconfitta dell’Asse avrebbe portato almeno la pace... per gli europei, non per i milioni di morti delle guerre incessanti e delle carestie croniche. In breve, la guerra che avrebbe dovuto sbarazzarci della guerra e del totalitarismo è fallita.

La risposta degli antifascisti è prontissima: è colpa dell’imperialismo americano o di quello russo, o di entrambi, e, in ogni caso, dicono i più radicali, della sopravvivenza del capitalismo e dunque della sua sequela di misfatti. D’accordo. Ma il problema sta li. In che modo una guerra fatta dagli Stati capitalisti avrebbe potuto avere altro effetto se non un rafforzamento del capitale?

Gli antifascisti (soprattutto "rivoluzionari") ne traggono la conclusione esattamente contraria, chiamando a un nuovo slancio dell’antifascismo, sempre da radicalizzare affinché vada il più lontano possibile. Non cessano di denunciare le "sopravvivenze" o i "metodi" fascisti (per esempio nella Repubblica Federale Tedesca), ma mai per dedurne la necessità di estirpare la radice del male: il capitale. Ne concludono al contrario che bisogna ritornare al "vero" antifascismo, proletarizzarlo, ricominciare il lavoro di Sisifo consistente nel democratizzare il capitalismo. Ora, si può deplorarlo, si può anche predicare l’umanitarismo o aderire a un’organizzazione caritatevole, ma niente modificherà il punto cruciale: 1) gli Stati capitalisti, cioè tutti gli Stati, sono e saranno sempre più costretti a mostrarsi repressivi, totalitari; 2) tutti i tentativi di fare pressione su di essi per piegarli in un altro senso più favorevole agli operai o alle "libertà", conducono, quando va bene, a un effetto nullo, e, quando va male (quasi sempre), al rafforzamento delle illusioni fin troppo diffuse sullo Stato come arbitro della società e come forza più o meno neutrale in grado di porsi al di sopra delle classi. I gauchisti possono ripetere in continuazione l’analisi marxista classica sul ruolo dello Stato come strumento di dominio di classe, e chiamare poi a "utilizzare" lo stesso Stato; egualmente possono leggere le pagine di Marx sull’abolizione del salariato e dello scambio, e dipingere poi la rivoluzione come una grande democratizzazione del salariato.

Alcuni si spingono più lontano. Poiché, dicono, facendo propria una parte della tesi rivoluzionaria, attualmente il capitale non può essere che "fascista", battersi per la democrazia contro il fascismo significa obbligatoriamente battersi contro il capitale stesso. Ma su quale terreno si battono? Combattere sotto la direzione di uno o di più Stati capitalisti (giacché sono loro ad avere e a conservare la direzione della lotta (significa interdirsi in anticipo la lotta contro il capitale. La lotta per la democrazia non è la scorciatoia che permetterebbe agli operai di fare la rivoluzione senza rendersene conto. Il proletariato distruggerà il totalitarismo solo distruggendo contemporaneamente la democrazia e ogni forma politica. Fino ad allora, si avrà una successione nel tempo e nello spazio di forme "fasciste" e "democratiche", con la trasformazione spontanea o forzosa di regimi dittatoriali in regimi democratici e viceversa, con la coesistenza di dittature e democrazie, le une servendo alle altre da spauracchio e autogiustificazione.

é dunque assurdo dire che la democrazia fornirebbe all’attività rivoluzionaria un quadro più propizio che la dittatura, poiché la prima ricorre immediatamente a mezzi dittatoriali di fronte al pericolo rivoluzionario; e ciò tanto meglio dacché i "partiti operai" sono al potere. Se si volesse essere logici nell’antifascismo, bisognerebbe arrivare fino alla conclusione sostenuta da certi liberali di sinistra: è il movimento rivoluzionario a spingere il capitale verso la dittatura, rinunciamo dunque a ogni rivoluzione, e accontentiamoci di andare il più lontano possibile sulla strada delle riforme, senza mai impaurire il capitale. Ma tale prudenza è essa stessa utopistica, perché in fondo la "fascistizzazione" che vorrebbe evitare non deriva solamente dall’azione rivoluzionaria, ma dalla concentrazione capitalista. Si può discutere sull’opportunità e sui risultati della partecipazione dei rivoluzionari ai movimenti democratici fino all’inizio del xx secolo (cfr. "La Comune del 1871"): essa è in ogni caso esclusa da quando il capitale domina tutta la società, poiché non c’è più allora che una sola politica possibile: la democrazia diviene unicamente una mistificazione e un terreno d’impantanamento pratico. Tutte le volte che i proletari hanno creduto di utilizzarla ritorcendola contro il capitale, la democrazia li ha abbandonati oppure si è trasformata nel suo contrario. In questo senso i comunisti dei quali riproduciamo le analisi sulla guerra di Spagna erano sicuramente contro il fascismo. I rivoluzionari rifiutano l’antifascismo perché non ci si può battere esclusivamente contro una forma politica, senza contemporaneamente appoggiare le altre, ed è ciò che fa l’antifascismo. In senso stretto, l’antifascismo non è la lotta contro il fascismo, ma il privilegiamento di questa lotta, il che la rende inoperante. I rivoluzionari non rimproverano all’antifascismo di non "fare la rivoluzione", ma di essere impotente ad arrestare il totalitarismo, e di rafforzare, volontariamente o no, lo Stato e il capitale.

Non solo la democrazia si è sempre arresa al fascismo, quasi senza lotta; ma il fascismo, allorché non corrisponde più allo stato delle forze politico-sociali, rigenera esso stesso la democrazia. Poiché, nel 1943, l’Italia doveva passare nel campo dei futuri vincitori, abbandonare il fascismo e dunque il suo capo, il "dittatore" Mussolini si ritrovò in minoranza al Gran Consiglio del fascismo e s’inchinò di fronte al verdetto democratico di quest’organismo. Uno degli alti dignitari fascisti, il maresciallo Badoglio, fece appello all’opposizione democratica e formò un governo di coalizione. Mussolini venne arrestato. é ciò che in Italia viene chiamata la "rivoluzione del 25 luglio 1943". I democratici esitavano, ma la pressione dei russi e del Partito Comunista fece loro accettare un governo di larga unità nazionale, nell’aprile ‘44, diretto da Badoglio, del quale facevano parte Palmiro Togliatti e Benedetto Croce. Nel giugno ‘44, il socialista Ivanoe Bonomi formò un ministero che stavolta escludeva i fascisti. Si orientò verso la formula tripartitica (pci-psi-dc) che avrebbe dominato i primi anni del dopoguerra14. Assistiamo a una transizione voluta e in parte orchestrata dai fascisti. Cosi come nel 1922 la democrazia comprese che il miglior modo di salvaguardare lo Stato era di affidarlo alla dittatura del Partito Fascista, allo stesso modo nel 1943 il fascismo capi che l’unica maniera di proteggere l’integrità della nazione e la perennità dello Stato era di consegnare quest’ultimo ai partiti democratici. La democrazia si trasforma in fascismo e viceversa, a seconda delle circostanze: si tratta di forme successive, e sovente combinate, per assicurare la salvaguardia dello stesso Stato, garante del medesimo contenuto capitalista. Notiamo che il "ritorno" alla democrazia non comporta di per sé una ripresa della lotta di classe o anche solo rivendicativa, poiché i partiti operai ritornati al potere sono in questo caso i primi a battersi in nome del capitale nazionale. Cosi i sacrifici materiali e la rinuncia alla lotta di classe, giustificati dalla necessità di "vincere innanzitutto il fascismo", furono imposti dopo la disfatta dell’Asse, sempre in nome degli ideali della Resistenza. Le ideologie fascista e antifascista sono entrambe un ripostiglio dove si mette ciò che conviene agli interessi momentanei e fondamentali del capitale.

Da allora, ogni volta che si grida "Il fascismo non passerà!", non solo questo passa sempre, ma attraverso peripezie grottesche in cui la demarcazione tra fascismo e non fascismo segue una linea in continuo movimento. La sinistra francese denunciava il pericolo "fascista" dopo il 13 maggio 1958, ma il segretario della SFIO collaborò alla redazione della Costituzione della V Repubblica.

Portogallo e Grecia hanno offerto nuovi esempi di autotrasformazione di dittature in democrazie. Sotto l’urto di circostanze esterne (questione coloniale per il Portogallo15, conflitto di Cipro per la Grecia), una parte dei militari ha preferito affondare il regime per salvare lo Stato: è esattamente cosi che ragionano e agiscono i democratici quando i "fascisti" si avvicinano al potere. L’attuale Partito Comunista Spagnolo esprime molto esattamente questa esigenza (resta da sapere se è nella volontà e nella possibilità del capitale spagnolo):

"La società spagnola desidera che tutto sia trasformato affinché venga assicurato, senza traumi né convulsioni sociali, il funzionamento normale dello Stato. La continuità dello Stato esige la discontinuità del regime"16.

C’è un movimento di passaggio da una forma all’altra da cui il proletariato è escluso e che non può influenzare in nulla: se cerca di farlo, il proletariato s’integra nello Stato, e le sue lotte ulteriori ne risultano proporzionalmente più difficili, com’è dimostrato proprio dal caso portoghese.

CILE

Di recente, è probabilmente il Cile ad avere rivitalizzato di più la pseudo-opposizione democrazia/fascismo. Questo esempio illustra disgraziatamente bene il meccanismo di trionfo della dittatura e di tripla sconfitta del proletariato.

Il Fronte Popolare cileno degli anni Trenta si schierava dichiaratamente contro l’"oligarchia". La lotta contro il parlamentarismo oligarchico, presentato come una limitazione delle forze più conservatrici, facilitò l’evoluzione verso un sistema presidenziale, più centralizzato, con un potere statale rafforzato, capace di promuovere delle riforme, cioè lo sviluppo industriale. Questo Fronte Popolare (durato essenzialmente dal 1936 al 1940) corrispondeva alla congiunzione dell’aumento delle classi medie urbane (borghesia e impiegati) e della crescita lotte operaie. Queste ultime si organizzavano intorno alla centrale socialista, decimata dalla repressione, alla CGT d’ispirazione anarcosindacalista, influenzata dagli Industrial Workers of the World, abbastanza debole (da 20 a 30.000 membri nel 1932, su 200.000 iscritti ai sindacati), e soprattutto ai sindacati animati dal Partito Comunista. Negli anni Venti, i sindacati degli impiegati avevano condotto scioperi altrettanto duri di quelli degli operai (salvo che nei due bastioni del radicalismo operaio: il nitrato (rimpiazzato in seguito dal rame (e il carbone). Benché insistesse su di una riforma agraria, la coalizione stalino-radical-socialista non riusci a imporla all’oligarchia. Non fece grandi cose neppure per recuperare le ricchezze del Paese sfruttate dagli stranieri (a quel tempo, il nitrato), ma realizzò un balzo industriale mai conosciuto dal Cile, né prima né dopo. Grazie a istituzioni simili al New Deal, con la maggior parte degli investimenti forniti dallo Stato, venne impiantata una struttura capitalista statale, che sviluppò l’industria pesante e l’energia. La produzione industriale aumentò in quel periodo del 10%; da allora al 1960 del 4%; e negli anni Sessanta dall’1 al 2%. Una riunificazione sindacale tra i socialisti e gli stalinisti ebbe luogo nel 1936 e indeboli ancor più la CGT: il Fronte Popolare distrusse ciò che rimaneva del movimento sovversivo. In quanto coalizione, questo regime durò fino al 1940, allorché il Partito Socialista se ne ritirò. Ma continuò fino al 1947, con i radicali e il Partito Comunista, e il sostegno intermittente della Falange fascista (antenato destrorso della Democrazia Cristiana cilena, il cui capo, Eduardo Frei17, proviene d’altronde da li). Lo stesso Partito Comunista l’appoggiò fino al 1947, allorché venne posto fuori legge dai radicali.

Come dicono i gauchisti di ogni epoca, i Fronti Popolari sono pure dei prodotti della lotta operaia: ma di una lotta che resta dentro il quadro capitalista e lo spinge a modernizzarsi. Dopo il 1970, Unidad Popular si dette anch’essa per obiettivo il rilancio del capitale nazionale cileno (che la Democrazia Cristiana non aveva saputo difendere negli anni Sessanta), integrandovi gli operai. Alla fin fine, i proletari cileni furono battuti tre volte. In primo luogo, lasciando che le proprie lotte economiche si ponessero sotto le bandiere delle forze di sinistra, accettando il nuovo Stato, perché appoggiato dalle organizzazioni "operaie". Nel 1971, Allende rispondeva a questa domanda:

"Pensa che sia possibile evitare la dittatura del proletariato?

- Io credo di si: è per questo che noi lavoriamo"18.

In secondo luogo, facendosi reprimere dall’esercito dopo il colpo di Stato del 1973. Se i proletari non poterono opporsi al colpo di Stato, contrariamente a quanto sostenuto dalla stampa gauchista che parlava di "resistenza armata", fu perché erano stati disarmati materialmente e ideologicamente dal governo di Allende. Quest’ultimo aveva obbligato a più riprese gli operai a restituire le armi. Aveva avviato lui stesso la transizione verso un governo militare, nominando ministro degli Interni un generale. Soprattutto, ponendosi sotto la protezione dello Stato democratico, incapace per sua natura di evitare il totalitarismo (poiché lo Stato è prima di tutto per lo Stato (democratico o dittatoriale (prima di essere per la democrazia o per la dittatura), i proletari si condannarono sin dall’inizio a non potere resistere a un golpe di destra. Un accordo importante tra Unidad Popular e la Democrazia Cristiana affermava:

"Noi vogliamo che i Carabineros e le forze armate continuino a essere una garanzia del nostro ordine democratico, il che implica il rispetto delle strutture di organico e gerarchiche dell’esercito e della polizia"19.

Eppure, fu il terzo momento della disfatta il più ignobile. Bisogna conferire all’estrema sinistra internazionale la medaglia che si merita. Dopo aver appoggiato lo Stato capitalista con l’intento di spingerlo più in avanti, la sinistra e i gauchisti giocarono ai profeti: "Vi avevamo avvertiti, lo Stato è la forza repressiva del capitale". Gli stessi che sei mesi prima sottolineavano i progressi degli elementi radicali nell’esercito o la penetrazione dei rivoluzionari in tutta la vita politica e sociale, ripeterono in seguito che l’esercito era rimasto "l’esercito borghese", e che l’avevano ben detto...

Evidentemente, cercando innanzitutto di giustificare il loro inestricabile fallimento, essi utilizzarono l’emozione e lo shock causati dal golpe per affossare il tentativo di qualche proletario cileno (o di altri Paesi) di trarre la lezione degli avvenimenti. Invece di mostrare ciò che aveva fatto, e che non avrebbe potuto non fare, Unidad Popular, essi ripresero la medesima politica, piegandola solo "a sinistra". La foto di Allende che imbraccia un’arma automatica durante il colpo di Stato divenne il simbolo della democrazia di sinistra infine risoluta a battersi effettivamente contro il fascismo. La scheda elettorale va bene, ma non è sufficiente: occorrono pure i fucili: ecco la lezione gauchista del Cile. La stessa morte di Allende, prova fisica, se ve ne fosse bisogno, del fallimento della democrazia, viene travestita da prova della sua volontà di lotta.

"Se poi, all’atto pratico, i loro interessi si rivelano non interessanti e la loro forza un’impotenza, la colpa o è di questi sciagurati sofisti che dividono il popolo indivisibile in diversi campi nemici; o dell’esercito, troppo abbruttito e troppo accecato per comprendere che i puri scopi della democrazia sono il proprio bene [...]. Ad ogni modo, il democratico esce sempre senza macchia dalla più grave sconfitta, come senza colpa vi è entrato [...]."20

Quanto a interrogarsi sulla natura di Unidad Popular, sul contenuto di questa famosa lotta (per il voto ieri, per il voto + il fucile, parrebbe, oggi), in breve, su cosa sono capitalismo e comunismo, sullo Stato, questo è un altro affare, un lusso che non ci si può permettere quando "il fascismo attacca". Ci si potrebbe domandare pure perché i "cordoni" industriali tanto vantati non si siano quasi mossi. Ma è l’ora dell’adunata: la sconfitta salda gli antifascisti ancor più fermamente che la vittoria. Viceversa, di fronte alla situazione portoghese, si eluderà ogni critica, con il pretesto di non fare nulla che possa ostacolare il "movimento". E una delle prime dichiarazioni dei trotskysti portoghesi dopo il 25 aprile 1974, sarà per denunciare gli "ultrasinistri" non disposti a partecipare al gioco della democrazia.

In una parola, l’estrema sinistra internazionale si è unita per impedire di cogliere il significato degli eventi cileni, per strappare ancor più ai proletari la prospettiva comunista, facilitando cosi il ritorno della democrazia cilena il giorno in cui il capitale ne avrà nuovamente bisogno.

PORTOGALLO

Benché resti suscettibile di sviluppi futuri, il caso portoghese è un enigma insolubile solo per coloro (i più) che ignorano cos’è una rivoluzione. Anche dei rivoluzionari sinceri ma confusi restano perplessi di fronte al crollo di un movimento che era sembrato loro tanto forte qualche mese prima. Questa incomprensione è causata da una mancanza di chiarezza. Il Portogallo illustra ciò di cui è capace il proletariato, dimostrando una volta di più che il capitale è obbligato a tenerne conto. L’azione proletaria non è il motore della storia, ma costituisce sul piano politico e sociale la chiave di volta dell’evoluzione di tutti i Paesi capitalisti moderni. Tuttavia, questa irruzione sulla scena storica non coincide automaticamente con un progresso rivoluzionario. Confondere teoricamente le due cose, significa prendere la rivoluzione per il suo contrario. Parlare di rivoluzione portoghese, è far passare per rivoluzione una riorganizzazione del capitale. Fino a quando il proletariato rimane nei limiti economici e politici capitalisti, non solo i suoi movimenti elementari non fanno cambiare di base la società, ma anche le riforme acquisite (libertà politiche e rivendicazioni economiche) sono votate a un’esistenza effimera. Quel che il capitale concede a una spinta operaia, alla sua ricaduta lo può riprendere totalmente o in parte: ogni movimento si condanna se si limita a una pressione sul capitalismo. Finché i proletari agiscono cosi, non fanno che battere i pugni sul tavolo.

La dittatura portoghese aveva cessato di essere la forma adeguata allo sviluppo di un capitale nazionale, come dimostrato dalla sua incapacità di risolvere la questione coloniale. Lungi dall’arricchire la metropoli, le sue colonie la squilibravano. Fortunatamente, per abbattere il "fascismo", c’era... l’esercito. Unica forza organizzata del Paese, esso era il solo a poter varare questo cambiamento: quanto a effettuarlo con successo, era un’altra questione. Come d’abitudine, accecate dalla loro funzione e dalla loro pretesa al potere nel quadro del capitale, la sinistra e l’estrema sinistra diagnosticarono un profondo sconvolgimento nell’esercito. Dopo aver visto negli ufficiali solo dei torturatori colonialisti, i gauchisti scoprirono tutto d’un colpo un esercito popolare. Con l’aiuto della sociologia, vennero dimostrate le origini e le aspirazioni "popolari", dunque probabilmente socialistiche, dei militari. Sarebbe stato sufficiente coltivare le loro buone intenzioni richiedenti solo (pareva (la chiarificazione da parte dei "marxisti". Dal Partito Socialista ai gauchisti più estremi, tutti si unirono per mascherare questo semplice fatto: lo Stato capitalista non era scomparso e l’esercito restava il suo strumento essenziale.

Poiché gli ingranaggi statali si aprivano ai militanti operai, si credette che lo Stato cambiasse di funzione. Poiché usava un linguaggio populista, si pensò che l’esercito fosse dalla parte degli operai. Giacché regnava una relativa libertà di espressione, si ritenne che la "democrazia operaia" (fondamento del "socialismo", come ciascun sa) fosse sulla buona strada. Vi furono sicuramente una serie di dimostrazioni di forza in cui lo Stato si palesò tale qual era rimasto. La sinistra e il gauchismo ne trassero la conclusione che si dovesse esercitare una pressione ancora più forte sullo Stato ma soprattutto non attaccarlo, per paura di fare il gioco della "destra". Realizzavano esattamente il programma della destra, aggiungendovi ciò di cui la destra è generalmente incapace: l’adesione delle masse. L’apertura dello Stato a influenze "di sinistra" non significava il suo indebolimento, bensi il suo rafforzamento. Metteva un’ideologia popolare e l’entusiasmo operaio al servizio della costruzione di un capitalismo nazionale portoghese.

L’alleanza sinistra-esercito era precaria. La sinistra portava le masse, l’esercito la stabilità con la minaccia onnipresente delle armi. Sarebbe stato necessario un saldo controllo delle masse da parte dei partiti comunista e socialista. A tal fine, questi ultimi avrebbero dovuto fare concessioni economiche pericolose per la vitalità di un capitalismo debole. Donde la contraddizione e i rimaneggiamenti politici successivi. Le organizzazioni "operaie" sono in grado di dominare i lavoratori, non di restituire al capitale la redditività mancantegli. Occorreva dunque risolvere la contraddizione e ristabilire la disciplina. La pretesa rivoluzione sarebbe servita a fiaccare i più risoluti, a scoraggiare gli altri, e a isolare, o addirittura a reprimere, i rivoluzionari. Intervenendo poi brutalmente, lo Stato dimostrò di non essere mai scomparso. Coloro che avrebbero voluto (o avevano detto di volere (conquistarlo dall’interno, non fecero altro che sostenerlo in un momento critico. Un movimento rivoluzionario non è impossibile in Portogallo, ma dipende da un contesto più ampio, e, comunque, sarà possibile solo su basi diverse da quelle del movimento capitalista democratico dell’aprile 1974.

La lotta operaia, anche "rivendicativa", contribuisce a mettere in difficoltà il capitale, e costituisce l’esperienza necessaria in cui il proletariato si forma in vista della rivoluzione. Prepara l’avvenire: ma questa preparazione può giocare in ambo i sensi, non è automatica, può affossare tanto quanto rafforzare il movimento comunista. In tali condizioni, insistere sull’"autonomia" delle azioni operaie non è sufficiente21. L’autonomia non è un principio più rivoluzionario di quanto non lo sia il "dirigismo" da parte di una minoranza. La rivoluzione non rivendica la democrazia più che la dittatura.

é solamente prendendo certe misure che i proletari possono conservare il controllo della lotta. Se si limitano a un’azione riformista, questa deve alla fine sfuggir loro ed essere presa in consegna da un organismo specializzato, di tipo sindacale, sia che si chiami sindacato o "comitato di base". L’autonomia non è in sé una virtù rivoluzionaria. Non prova nulla di per sé. Ogni forma di organizzazione dipende dal contenuto di ciò per cui viene approntata. L’accento non può essere posto sull’autoattività degli operai, ma sulla prospettiva comunista, la cui realizzazione soltanto permette effettivamente all’azione operaia di non cadere sotto la direzione dei partiti e dei sindacati tradizionali. Il contenuto dell’azione è il criterio determinante: la rivoluzione non è questione di "maggioranza" (cfr. "La Ligue des Communistes Internationalistes" e "Rivoluzione politica e sociale"). Privilegiare l’autonomia operaia conduce a un’impasse.

L’operaismo è talvolta una reazione sana, ma si rivela catastrofico quando si fissa a questo stadio e si teorizza. Da quel momento gli sfuggono i compiti decisivi della rivoluzione. In nome della "democrazia operaia", i proletari vengono rinchiusi nell’impresa e nei problemi della produzione (senza vedere la rivoluzione come distruzione dell’impresa in quanto tale). Viene offuscata la questione dello Stato. Al più, si reinventa il "sindacalismo rivoluzionario".

SPAGNA: GUERRA O RIVOLUZIONE?

Dappertutto la democrazia capitola di fronte alla dittatura. O meglio, le apre le braccia. E la Spagna? Lungi dal costituire la felice eccezione, la Spagna rappresenta il caso estremo di scontro armato tra democrazia e fascismo senza che la lotta cambi di natura: essa vide sempre opposte due forme di sviluppo del capitale, due forme politiche dello Stato capitalista, due strutture statali che si disputavano la legittimità dello Stato capitalista legale e normale in un Paese. D’altronde, ci fu scontro violento solo perché gli operai si sollevarono contro il fascismo. La complessità della guerra di Spagna deriva da questo doppio aspetto, di una guerra civile (proletariato-capitale) che si trasforma in guerra capitalista (col sostegno delle strutture statali rivali da parte dei proletari in entrambi i campi).

Dopo aver dato ogni facilitazione ai "ribelli" per prepararsi, la Repubblica si avviava a negoziare con loro e/o a farsi da parte, quando i proletari si sollevarono contro il colpo di Stato fascista, impedendone il successo in metà del Paese. Non si sarebbe scatenata la guerra di Spagna senza questa autentica insurrezione proletaria (si trattò di ben più che una sommossa). Ma questo solo fatto non è sufficiente a caratterizzare tutta la guerra di Spagna e gli eventi successivi. Esso definisce solo il primo momento della lotta, che fu effettivamente una sollevazione proletaria. Dopo aver battuto i fascisti in un gran numero di città, gli operai avevano in mano il potere. Tale era la situazione immediatamente dopo la loro insurrezione. Ma cosa fecero poi di questo potere? Lo restituirono allo Stato repubblicano, o se ne servirono per andare più lontano in un senso comunista? Fecero affidamento sul governo legale, dunque sullo Stato esistente, lo Stato capitalista. Ogni loro azione successiva fu fatta sotto la direzione di questo Stato. Ecco il punto centrale. Da quel momento ogni movimento dei proletari spagnoli, nella lotta armata contro Franco e nelle trasformazioni economico-sociali, ponendosi nel quadro dello Stato capitalista, non poteva che essere di natura globalmente capitalista. é vero che tentativi di superamento ebbero luogo sul piano sociale (ne parleremo più avanti): ma restarono sempre ipotecati dal mantenimento dello Stato capitalista. La distruzione dello Stato è la condizione necessaria (ma non sufficiente) della rivoluzione comunista. In Spagna, il potere reale era esercitato dallo Stato e non dalle organizzazioni, dai sindacati, dalle collettività, dai comitati eccetera. Ne è prova il fatto che la potente cnt dovette cedere di fronte al Partito Comunista Spagnolo (molto debole prima del luglio ‘36). Se ne può dare conferma con il semplice fatto che lo Stato seppe fare brutalmente uso del suo potere quando gli servi (maggio ‘37). Niente rivoluzione, senza distruzione dello Stato. Questa "evidenza" marxista, dimenticata dal 99% dei marxisti e giustamente ricordata da "Bilan", si sprigiona una volta ancora dalla tragedia spagnola.

"Tra altre particolarità, le rivoluzioni hanno questa: nell’istante stesso in cui un popolo vuol fare un grande balzo in avanti e incominciare una nuova èra, si lascia sempre dominare dalle illusioni del passato e rimette tutta l’influenza e tutta la potenza, da lui pagate cosi care, nelle mani di uomini che passano, o sembrano passare, per i rappresentanti del movimento popolare dell’epoca precedente."22

Non si possono opporre le "colonne" operaie armate della seconda metà del 1936, alla loro militarizzazione successiva e alla loro riduzione al rango di organi dell’esercito borghese. Una differenza considerevole separa queste due fasi ma non nel senso che a una fase rivoluzionaria farebbe sèguito un’altra non rivoluzionaria. Ci fu dapprima una fase di soffocamento del soprassalto rivoluzionario, durante la quale gli operai conservavano una certa autonomia, un entusiasmo, e persino un comportamento comunista brillantemente descritti da Orwell. Poi, questa fase rivoluzionaria in superficie, ma che nel profondo costituiva la gestazione di una classica guerra antiproletaria, cedette naturalmente il posto a quel che aveva preparato.

Le colonne partirono da Barcellona per battere il fascismo nelle altre città, e in primo luogo a Saragozza. Supponendo che esse abbiano tentato di portare la rivoluzione all’esterno delle zone repubblicane, sarebbe stato necessario prima, o contemporaneamente, rivoluzionare le stesse zone repubblicane23. Durruti sapeva che lo Stato non era stato distrutto, ma non ne tenne conto. Lungo la strada, la sua colonna, formata per il 70% da anarchici, spingeva alla collettivizzazione. I miliziani aiutavano i contadini e facevano conoscer loro le idee rivoluzionarie. Ma "noi non abbiamo che un solo scopo: abbattere i fascisti". Durruti aveva un bel dire: "queste milizie non difenderanno mai la borghesia", esse non l’attaccavano, non più. Una quindicina di giorni prima della sua morte (21 novembre 1936), Durruti dichiarò:

"Un solo pensiero, un solo obiettivo [...]: annientare il fascismo [...]. Che nessuno oggi pensi più agli aumenti salariali e alle riduzioni dell’orario di lavoro [...] sacrificarsi, lavorare quanto è necessario [...] bisogna formare un blocco di granito. é venuto il momento d’invitare le organizzazioni sindacali e politiche a finirla una volta per tutte. Nelle retrovie, bisogna saper amministrare [...]. Non provochiamo, con la nostra incompetenza, dopo questa guerra, un’altra guerra civile tra di noi. Di fronte alla tirannia fascista, non dobbiamo opporre che una sola forza; non deve esistere che una sola organizzazione, con una disciplina unica"24.

Non solo la volontà di lotta non serve mai da surrogato a un programma rivoluzionario, ma l’attivismo s’integra facilmente nelle pieghe del capitalismo (il terrorismo ne offre un’altra prova25). Il fascino della "lotta armata" si ritorce velocemente contro i proletari, dacché essi dirigono i loro colpi esclusivamente contro una forma politica e non contro lo Stato.

In condizioni differenti, l’evoluzione militare del campo antifascista (insurrezione, poi milizie, infine esercito regolare) ricorda quella della guerriglia contro Napoleone descritta da Marx26:

"Se si paragonano i tre periodi della guerra di guerriglia con la storia politica della Spagna, si constata che corrispondono ai tre gradi cui il governo controrivoluzionario aveva poco a poco ricondotto lo spirito del popolo. All’inizio, tutta la popolazione si sollevò, poi bande guerrigliere fecero una guerra di franchi tiratori, le cui riserve erano costituite da intere province; infine vi furono formazioni senza coesione, sempre sul punto di trasformarsi in bande di fuorilegge o di cadere al livello di reggimenti regolari".

Le condizioni non sono confrontabili, ma nel 1936 come nel 1808, l’evoluzione militare non si spiega solamente, e neppure innanzitutto, mediante considerazioni "tecniche" proprie dell’arte militare: deriva dal rapporto delle forze politiche e sociali e dalla sua modificazione in un senso antirivoluzionario. Notiamo che le "colonne" del 1936 non giunsero nemmeno a una "guerra di franchi tiratori" e segnarono il passo davanti a Saragozza. I compromessi evocati da Durruti, la necessità dell’unità a tutti i costi, non potevano che dare la vittoria dapprima allo Stato repubblicano (sul proletariato), poi a Franco (sullo Stato repubblicano).

Ci fu un inizio di rivoluzione in Spagna, che si arenò nel momento in cui i proletari fecero affidamento sullo Stato esistente. Poco importa delle loro intenzioni. Quand’anche la maggioranza dei proletari che accettarono di lottare contro Franco sotto la direzione dello Stato, fossero convinti di conservare malgrado tutto il potere reale, e di accordarsi con lo Stato solo per comodità, il fattore determinante rimangono le loro azioni e non le loro convinzioni. Dopo essersi organizzati per battere il colpo di Stato, dandosi un inizio di struttura militare autonoma (le milizie), gli operai accettarono di porre queste milizie sotto la direzione di una coalizione di "organizzazioni operaie" (per la maggior parte, apertamente controrivoluzionarie), che accettava l’autorità dello Stato legale. é certo che almeno una parte di questi proletari credevano di conservare il potere reale (che avevano effettivamente conquistato, benché per poco tempo), lasciando allo Stato ufficiale solo un potere di facciata. Questo fu il loro errore, che pagarono molto caro.

Se si eccettuano le correnti d’ispirazione non rivoluzionaria, gli avversari delle tesi di "Bilan" sulla Spagna ammettevano quel che diciamo qui, ma ciò nondimeno affermavano che la situazione spagnola restava "aperta" e poteva evolversi. Bisognava dunque (almeno fino al maggio ‘37) sostenere il movimento autonomo dei proletari spagnoli, anche se si dava delle forme organizzative tutt’affatto inadeguate alla sua vera natura. Un movimento era in marcia, bisognava contribuire alla sua maturazione. Per contro, "Bilan" replicava che un movimento autonomo del proletariato non c’era, cioè non c’era più, da quando era rientrato nel quadro statale, quadro che non avrebbe tardato a trasformarsi in un peso soffocante ogni velleità radicale. Lo si vide alla metà del maggio ‘37: ma le "giornate sanguinose di Barcellona" non fecero che rivelare la realtà qual era fin dal luglio ‘36: il potere effettivo era passato dalle mani degli operai allo Stato capitalista. Aggiungiamo, per coloro che assimilano fascismo e dittatura borghese, che il governo repubblicano fece allora uso di... "metodi fascisti" contro gli operai. Certo, il numero delle vittime fu ben inferiore a quello della repressione franchista: ciò ha a che fare proprio con la differenza di funzione tra le due repressioni, democratica e fascista (cfr. "L’antifascismo, il peggior prodotto del fascismo"). Semplice divisione del lavoro: il bersaglio del governo repubblicano era ben più piccolo (elementi incontrollati, poum, sinistra cenetista).

OTTOBRE 1917 E LUGLIO 1936

é evidente che una rivoluzione non si svolge in un sol giorno. é sempre un movimento multiforme e confuso. Tutto il problema sta nella capacità del movimento rivoluzionario di agire in un senso sempre più chiaro e di andare verso l’irreversibile. Il paragone sovente mal posto tra la Russia e la Spagna lo illustra bene. Tra il febbraio e l’ottobre 1917, i soviet furono un potere parallelo a quello statale. A lungo appoggiarono lo Stato legale, e in questo senso non agivano da rivoluzionari. Si potrebbe dire che allora erano controrivoluzionari. Non si tratta d’incollare loro un’etichetta, ma di capire che furono il campo di una lotta lunga e aspra tra la corrente rivoluzionaria (rappresentata in particolare, ma non solamente, dai bolscevichi) e i vari conciliatori. Fu solamente al termine di questa lotta che i soviet si sollevarono contro lo Stato27. Nel febbraio 1917 sarebbe stato assurdo per un comunista dire: "questi soviet non agiscono da rivoluzionari, io li denuncio e li combatto". Perché allora i soviet non erano stabilizzati. Il conflitto che li animò per mesi non era una lotta di idee, ma il riflesso di un antagonismo di interessi reali.

"Saranno gli interessi (e non i principi (a mettere in moto la rivoluzione. é precisamente solo a partire dagli interessi che possono svilupparsi i principi: ciò significa che la rivoluzione non sarà solamente politica, ma sociale."28

Gli operai e i contadini russi volevano la pace, la terra e le riforme democratiche che il governo non accordava. Questo antagonismo spiega l’ostilità crescente, poi lo scontro che li vide contrapposti. Le lotte di classe precedenti avevano permesso lo sprigionamento di una minoranza rivoluzionaria che sapeva più o meno cosa voleva (cfr. le esitazioni della direzione bolscevica dopo febbraio), e che fini per organizzarsi in questo senso, riprendendo le rivendicazioni delle masse per sollevarle contro il governo. Nell’aprile 1917, Lenin disse che:

"Se noi parliamo di guerra civile prima che la gente ne abbia compreso la necessità, incliniamo verso il blanquismo [...]. I cannoni e i fucili sono nelle mani dei soldati, e non dei capitalisti: questi ultimi prevalgono ora non con la violenza ma con l’inganno, e non si può gridare alla violenza, sarebbe assurdo. Rinunciamo per il momento a questa parola d’ordine, ma solo per il momento"29. A partire dal ribaltamento della maggioranza nei soviet (in settembre), Lenin chiamò alla presa del potere con le armi (sull’evoluzione ulteriore della Russia, cfr. "La Ligue des Communistes Internationalistes" e "Rivoluzione politica e sociale").

Niente di simile in Spagna. Malgrado la loro frequenza e violenza, gli scontri succedutisi dopo la Prima Guerra Mondiale non permisero una delimitazione di classe tra i proletari. Costretti alla lotta violenta dalla repressione dei movimenti rivendicativi, i proletari non cessavano di battersi, ma non riuscirono a dirigere, a concentrare i loro colpi contro il nemico. In questo senso non c’era "partito" rivoluzionario in Spagna. Non perché una minoranza di "rivoluzionari" non era riuscita a organizzarsi (questo significherebbe prendere le cose dalla coda e rovesciare il problema Ð, ma perché le lotte, malgrado la loro violenza, non avevano fatto emergere nettamente un’opposizione di classe tra proletariato e capitale. Parlare di "partito" ha senso solo se lo si concepisce come organizzazione del movimento comunista. Questo movimento era a quel tempo troppo debole, troppo disperso (non geograficamente ma nella misura in cui disperdeva i suoi colpi); non attaccava l’avversario al cuore; non si emancipava dalla tutela della cnt, organizzazione globalmente riformista come ogni sindacato è condannato a divenire, malgrado la presenza di militanti radicali; in breve non si organizzava in modo comunista perché non agiva in modo comunista. Il caso spagnolo dimostra che l’intensità della lotta di classe (indiscutibile in Spagna (non suscita automaticamente un’azione comunista, e dunque il partito rivoluzionario che l’anima. I proletari spagnoli non esitarono mai a farsi ammazzare (persino in pura perdita), ma senza superare la soglia che li separava da un attacco contro il capitale (lo Stato, il sistema economico mercantile). Essi impugnarono le armi, presero iniziative immediate (comuni libertarie, prima del ‘36, collettivizzazioni, dopo) ma non andarono oltre. Molto presto, cedettero la direzione delle milizie al Comitato Centrale delle Milizie. Non si può paragonare quest’organismo, né alcun altro di quelli che sorsero in Spagna, ai soviet russi. L’"ambiguità del Comitato Centrale delle Milizie [...] a un tempo un’appendice importante della Generalitat [governo provinciale catalano] e una sorta di comitato coordinatore degli Stati Maggiori delle organizzazioni antifasciste"30, determinò la sua integrazione nello Stato, perché il Comitato Centrale era preda di organizzazioni che si disputavano il potere statale (capitalista).

In Russia, vi fu una lotta tra una minoranza radicale organizzata e in grado di formulare la prospettiva rivoluzionaria, e la maggioranza dei soviet. In Spagna, gli elementi radicali, checché potessero pensare, accettarono l’orientamento maggioritario (Durruti parti per lottare contro Franco, lasciando lo Stato intatto dietro di sé), allorché contestarono lo Stato, lo fecero senza cercare di distruggere le organizzazioni "operaie" che li avevano "traditi" (CNT e POUM inclusi). La differenza essenziale, per cui non si ebbe un "Ottobre spagnolo", fu l’assenza in Spagna di un’autentica contraddizione di interessi tra i proletari e lo Stato. "Obiettivamente", proletariato e capitale si oppongono, ma tale opposizione riguarda la sfera dei principi, che non coincidono con la realtà. Nel suo movimento sociale effettivo, il proletariato spagnolo non arrivò mai ad affrontare in blocco il capitale e lo Stato. In Spagna non vi erano rivendicazioni brucianti (cioè sentite come tali) che forzassero gli operai ad attaccare lo Stato per soddisfarle (come in Russia la pace, la terra eccetera). Questa situazione di non-antagonismo comportò l’assenza del "partito", che a sua volta gravò pesantemente sugli eventi, impedendo all’antagonismo di maturare per poi esplodere. Paragonata all’instabilità russa tra febbraio e ottobre, la Spagna si presentava come una situazione in via di normalizzazione dall’inizio dell’agosto ‘36. Se dopo il febbraio ‘17 l’esercito dello Stato russo si disgregò, dopo il luglio ‘36 quello dello Stato spagnolo si ricompose, benché sotto una forma nuova, "popolare".

LA "COMUNE" DEL 1871

Un paragone (tra gli altri) s’impone e implica una critica del punto di vista del marxismo tradizionale, che è in questo caso lo stesso di Marx. Dopo la Comune, Marx trasse la celebre lezione: "la classe operaia non può accontentarsi semplicemente di prendere nelle proprie mani la macchina statale bella e pronta e di farla funzionare per i propri fini"31. Marx fissò male la distinzione tra il movimento insurrezionale iniziato il 18 marzo 1871 e la sua trasformazione ulteriore, suggellata dall’elezione della "Comune", il 26 dello stesso mese. La formula "Comune di Parigi" copre l’uno e l’altra e maschera l’evoluzione della situazione. Il movimento iniziale fu certamente rivoluzionario, malgrado la sua confusione, e fu il prolungamento delle lotte sociali sotto il Secondo Impero. Poi, però, accettò di darsi un quadro politico e un contenuto sociale capitalisti. Infatti, la Comune eletta cambiò solo le forme esteriori della democrazia borghese. Se la burocrazia e l’esercito permanente erano divenuti dei tratti caratteristici dello Stato capitalista, non ne costituivano l’essenza. Marx osservò che:

"La Comune fece una realtà di questa parola d’ordine di tutte le rivoluzioni borghesi, il governo a buon mercato, distruggendo le due maggiori fonti di spese: l’esercito permanente, la burocrazia e il funzionarismo"32.

La Comune eletta fu largamente dominata, si sa, dai repubblicani borghesi. I comunisti, poco numerosi ed esitanti, che in precedenza erano obbligati a esprimersi sulla stampa repubblicana, tanto era debole la loro organizzazione, non pesarono molto nella vita della Comune eletta. Quanto al suo programma (si tratta del criterio decisivo (si sa che prefigurava unicamente quello della III Repubblica. Al di là di tutti i machiavellismi dei borghesi, la guerra di Parigi contro Versailles (condotta malissimo, e non è un caso) servi a evacuare il contenuto rivoluzionario latente, e a canalizzare il movimento iniziale in un’attività puramente militare. é curioso notare come Marx abbia definito la forma governativa della Comune prima di tutto per il suo funzionamento, e non per ciò che essa effettivamente fece. Era "la vera rappresentante di tutti gli elementi sani della società francese, e quindi il vero governo nazionale" capitalista, ma non era affatto "un governo operaio"33.

Non possiamo approfondire qui perché Marx abbia adottato una posizione cosi contraddittoria (almeno pubblicamente, per l’ait, giacché in privato si mostrava più critico34). In ogni caso, il meccanismo dell’affossamento del movimento rivoluzionario assomiglia al 1936. Come nel 1871, la Repubblica spagnola fece uccidere gli elementi radicali spagnoli e stranieri (naturalmente i più inclini a distruggere il fascismo), senza battersi essa stessa seriamente, non utilizzando tutti gli atout a sua disposizione. Senza un’analisi classista di questo potere (come di quello del 1871), questi fatti apparirebbero degli "errori", financo dei "tradimenti", epperò mai nella loro logica.

MESSICO

Un altro parallelo è possibile. Nella rivoluzione borghese messicana, a un certo momento la maggior parte del movimento operaio organizzato si legò allo Stato democratico e progressista per spingere in avanti la borghesia e assicurare il soddisfacimento dei propri interessi di salariati nel capitale. I "battaglioni rossi" del 1915-’16 rappresentavano l’alleanza militare tra il movimento sindacale e lo Stato allora diretto da Venustiano Carranza. Fondata nel 1912, la Casa del Obrero Mundial decise di "sospendere l’organizzazione professionale sindacalista" e di lottare contro "la borghesia e i suoi alleati immediati, il militarismo professionale e il clero", a fianco dello Stato repubblicano35. Una parte del movimento operaio rifiutò e affrontò violentemente la Casa del Obrero Mundial appoggiata dallo Stato. Quest’ultima "tentò di sindacalizzare tutti i settori operai delle zone costituzionaliste con il sostegno dell’esercito". I "battaglioni rossi" furono utilizati contro le altre forze politiche ("reazionarie") che aspiravano alla direzione dello Stato capitalista, e al contempo contro i contadini ribelli e gli operai radicali.

é curioso notare che questi battaglioni si organizzavano secondo le categorie professionali (tipografi, ferrovieri eccetera). Nella guerra di Spagna, alcune milizie portavano anch’esse il nome delle rispettive categorie professionali. Allo stesso modo, nel 1832, l’insurrezione di Lione radunò i lavoratori tessili in gruppi, secondo la gerarchia del lavoro: operai riuniti in reparto e comandati dal caporeparto. Tali eventi realizzano la sollevazione armata dei salariati in quanto tali, che difendono il sistema di lavoro esistente contro le "usurpazioni" (Marx) del capitale. Una differenza di natura separa la rivolta del 1832, diretta contro lo Stato, dagli esempi messicano e spagnolo, in cui gli operai organizzati sostennero lo Stato: sarebbe assurdo qualificare il 1832 come "controrivoluzione". Ma ciò che qui è in gioco, è la comprensione di una lotta operaia che persiste sulla base dell’organizzazione del lavoro, e in quanto tale. Una simile lotta è votata allo scacco, o integrandosi nello Stato, o sotto la sua repressione. Il movimento comunista può vincere solo se i proletari superano la semplice sollevazione (anche armata) che non colpisce il sistema del salariato. I salariati non possono condurre la lotta armata se non abolendosi in quanto salariati (cfr. il ¤ "Riforma e rivoluzione").

GUERRA IMPERIALISTA

Perché si dia rivoluzione, occorre che vi sia almeno un inizio di attacco contro le radici della società: lo Stato e l'organizzazione economica. é ciò che accadde in Russia a partire dal febbraio 1917, e si accelerò poco a poco (vedremo oltre perché questa rivoluzione abbia condotto poi a una sconfitta). Non si può parlare di un tale inizio in Spagna, ove i proletari si piegarono di fronte allo Stato. Da allora, tutto ciò che essi continuarono a fare (lotta militare contro Franco, trasformazioni sociali) fu sotto il segno del capitale. La miglior prova di ciò sta nella rapida trasformazione di queste attività, che gli antifascisti di sinistra sono incapaci di spiegare. La lotta militare ricorse molto presto ai metodi statali borghesi, accettati dall'estrema sinistra in nome dell'efficacia (e che si rivelarono quasi sempre inefficaci). Lo Stato democratico non può lottare con le armi contro il fascismo più di quanto possa impedirgli di giungere al potere pacificamente. Era perfettamente normale che uno Stato borghese repubblicano si opponesse all'impiego di metodi di lotta sociale per indebolire il nemico, e si affidasse a una guerra frontale tradizionale, nella quale non aveva alcuna chance contro un esercito moderno, meglio equipaggiato e addestrato per questo tipo di combattimento. Quanto alle socializzazioni e alle collettivizzazioni, anch'esse mancavano di forza comunista, in particolare perché la mancata distruzione dello Stato borghese impediva loro di organizzare un'economia anti-mercantile a livello dell'intera società, e le isolava in una serie di comunità precarie giustapposte senza azione d'insieme. Lo Stato s'incaricò ben presto di dimostrare loro chi era a comandare. Non vi furono, perciò, né rivoluzione né innesco rivoluzionario in Spagna a partire dall'agosto 1936. Al contrario, il movimento verso la rivoluzione era sempre più bloccato e la sua rinascita improbabile. é significativo che, nel maggio '37, i proletari avessero ancora la forza di levarsi in armi contro lo Stato (questa volta contro quello democratico), ma non di portare il combattimento fino al punto di rottura. Dopo aver ceduto di fronte allo Stato legale nel 1936, essi fecero fallire il suo colpo di forza nel maggio '37, ma cedettero di fronte alle organizzazioni "rappresentative" che li invitavano a cessare la resistenza armata. Affrontarono lo Stato, non lo distrussero. Accettarono i consigli di moderazione del POUM e della CNT: nemmeno il gruppo radicale Los Amigos de Durruti chiamò a distruggere queste organizzazioni controrivoluzionarie.

In Spagna, si può parlare di guerra, non di rivoluzione. Questa guerra aveva come prima finalità la soluzione di un problema capitalista: costituire in Spagna uno Stato legittimo che sviluppasse meglio il capitale nazionale nel mentre integrava il proletariato. Viste sotto questa angolazione, le analisi sulla composizione sociologica dei due eserciti hanno un valore molto relativo, come quelle che spiegano la natura "proletaria" di un partito con la percentuale di operai tra i suoi aderenti. Tali fatti sono reali, e hanno una certa importanza, ma sono secondari in rapporto alla funzione sociale di ciò che si tratta di comprendere. Un partito a composizione operaia che sostenga il capitale, è controrivoluzionario. L'esercito repubblicano spagnolo contava certo un gran numero di operai, ma battendosi per degli obiettivi capitalisti, era tanto poco rivoluzionario quanto quello franchista.

La formula di "guerra imperialista" a proposito di questo conflitto potrà shockare coloro che assimilano imperialismo e lotta per un dominio direttamente economico. La logica profonda delle guerre imperialiste, da quella del '14-'18 ai conflitti odierni, è di risolvere le contraddizioni economiche e sociali del capitale, di eliminare la tendenza potenziale verso il movimento comunista. Poco importa che in Spagna non si trattasse direttamente di mercati da spartire. La guerra serviva a polarizzare i proletari del mondo intero, dei Paesi fascisti come di quelli democratici, intorno all'opposizione fascismo-antifascismo, e preparava cosi l'Unione Sacra della Seconda Guerra Mondiale. I motivi strategici ed economici non erano d'altronde assenti: si trattava pure per gli schieramenti presenti, i cui contorni erano ancora mal disegnati, di guadagnarsi degli alleati o delle neutralità benevole, e di sondare la solidità delle alleanze. é del tutto normale che la Spagna non abbia poi partecipato al conflitto mondiale. Non ne aveva più bisogno, avendo risolto il proprio problema sociale mediante il doppio annientamento (democratico e fascista) dei proletari nella guerra spagnola; e il suo problema economico mediante la vittoria delle forze capitaliste conservatrici, che limitarono lo sviluppo delle forze produttive al fine di evitare l'esplosione sociale. A partire dagli anni Sessanta, contro ogni ideologia, il fascismo anticapitalista e "feudale" svilupperà, malgrado tutto, l'economia spagnola. La guerra del 36-39 svolse per la Spagna la stessa funzione di quella del 39-45 per il resto del mondo, ma in altro modo, con questa importante differenza (che non modifica né la natura né la funzione del conflitto): essa ebbe come punto di partenza una pressione rivoluzionaria sufficiente a far indietreggiare il fascismo e a obbligare la democrazia a impugnare le armi contro di esso, ma insufficiente a distruggere entrambi. Non abbattere l'uno insieme all'altra, significava correre incontro alla sconfitta, giacché tutti e due erano potenzialmente lo Stato capitalista legittimo. Quale che fosse il vincitore, non poteva che subissare i proletari dei colpi sempre riservati loro dallo Stato capitalista. Le misure antifasciste servono in seguito contro i radicali (p. es., nel '68, i gruppi gauchisti furono disciolti con un decreto dell'epoca del Fronte Popolare).

IL CENTRISMO

Nel dibattito sulla Spagna, "Bilan" si trovava di fronte a due tipi di avversari. Gli uni erano all’interno nel movimento rivoluzionario, malgrado vari difetti, e su certi punti vedevano più giusto di "Bilan". Gli altri appartenevano a quel che si può chiamare il centrismo. Questo termine va precisato. Negli anni Trenta, la Sinistra italiana, cosi come Trotsky, designava con il termine "centrismo" i partiti comunisti, secondo l’idea che Stalin rappresentasse una linea conciliatrice tra la sinistra (Trotsky) e la destra (Bucharin) sia in politica interna sia in politica estera. Questa idea partecipava del rifiuto trotskysta (a lungo condiviso da Bordiga36) di pronunciarsi sulla natura capitalista della Russia, cosi come sul suo orientamento: la linea staliniana sarebbe stata un compromesso tra la borghesia e il proletariato in Russia, e tra il capitale mondiale e la difesa delle "conquiste dell’Ottobre" sul piano internazionale. Ne discendeva un’incapacità a comprendere la funzione dei partiti comunisti, giudicati soprattutto "opportunisti".

Infatti, il termine "centrismo" era di uso frequente tra i rivoluzionari dopo il 1914, per designare il centro zimmerwaldiano (che, come ad esempio lo Spartakusbund, voleva lottare contro la guerra ma respingeva il disfattismo rivoluzionario), e in seguito coloro che si separavano dalla Seconda Internazionale senza arrivare fino al comunismo. Per la Sinistra tedesca, centrista era la maggioranza dell’Internazionale Comunista, poiché raccomandava il parlamentarismo, il sindacalismo, i partiti "di massa" eccetera. Il Partito Comunista d’Italia, indi la Sinistra italiana, che restarono assai più a lungo nell’Internazionale Comunista, avevano una posizione diversa, almeno fino alla vittoria di Stalin nel Partito Comunista Russo (1926).

A partire dalla fine degli anni Venti, una serie di scissioni scossero i partiti socialisti e quelli stalinisti Esse vennero operate da un punto di vista tattico (in primo luogo l’incapacità dei partiti socialisti e comunisti di resistere al fascismo), senza visione globale, come se la linea fosse sbagliata, mentre era l’organizzazione stessa a essere antirivoluzionaria. Anche quando quest’ultima seguiva una politica suicida (come in Germania), non si trattava di un’aberrazione. I gruppi o i partiti sorti da queste scissioni partecipavano dell’orizzonte teorico e politico dell’epoca. Attualmente, il "centrismo" sarebbe rappresentato da tutte le forme di gauchismo, cioè di fissazione di rivolte e di movimenti confusi su punti parziali, inoffensivi per il capitale. Spesso i gruppi centristi s’incaricano delle rivendicazioni riformiste trascurate o combattute dalle organizzazioni sindacali e politiche ufficiali.

Il centrismo è ciò che fuoriesce dal "movimento operaio" integrato senza evolvere verso posizioni rivoluzionarie, restando a mezza strada, contribuendo a bloccare i proletari su strade senza uscita, cercando di far pressione sul movimento operaio considerato, malgrado tutto, come la vera organizzazione della "classe". Trattare i partiti comunisti come centristi e traditori, alla maniera di "Bilan", significa condividere una tale illusione. In senso stretto, il "centrismo" spagnolo, era costituito dal poum e dalla sinistra della cnt.

IL POUM

Per l’immensa maggioranza dei gruppi di sinistra e di estrema sinistra di allora, la rivoluzione borghese restava da fare in Spagna37. Tutti i sostenitori di questa tesi erano d’accordo sulla debolezza della borghesia spagnola. Secondo loro, la rivoluzione borghese sarebbe andata dunque incontro alla sconfitta, a meno di mostrare più audacia, di essere più "popolare" che nei Paesi capitalisti moderni. Ma essi si dividevano poi sulla portata più o meno radicale di questo superamento. Un solo rimedio, comunque, per giungervi: l’"unità". In un articolo su "Masses", A. Patri citava come esempio la Catalogna, ove il Blocco Operaio e Contadino e il Partito Socialista si erano alleati: "Prima che un generale sguaini di nuovo il suo spadone, occorre che il movimento operaio si sia costituito in Spagna. é la sola possibilità di salvezza"38.

Trotsky credeva nella necessità di una fase democratica, la cui realizzazione da parte della classe operaia avrebbe forzato quest’ultima ad andare oltre, fino alla rivoluzione socialista. A questo schema di "rivoluzione permanente", che prevede un legame indissolubile tra le due fasi, il POUM opponeva la tesi di una tappa democratica borghese distinta da quella successiva, in cui il proletariato avrebbe fatto "pressione" sulla rivoluzione borghese senza assumersene i compiti. Nel 1931, il POUM definiva la prossima rivoluzione spagnola come un nuovo 1789: "Il mercato interno si allargherà in proporzioni favolose e l’industria uscirà dal suo rachitismo tradizionale"39. C’era incertezza all’interno del POUM: Maurin era per una struttura governativa di tipo borghese, Nin per delle nuove strutture di potere ("giunte rivoluzionarie"). Questa questione si legava ad altre divergenze nel POUM. Maurin era vicino al separatismo di diverse province, mentre Nin raccomandava una soluzione che legasse unità nazionale e autonomia regionale. L’ex BOC, che era diretto da Maurin e dava al POUM il grosso dei militanti, era più radicato nella situazione reale, e ne subiva ancor di più le pressioni democratico-riformiste, che non il piccolo gruppo riunito attorno a Nin, proveniente dal trotskysmo. Peraltro, la divisione Maurin-Nin non ebbe grand’effetto pratico durante la guerra. Maurin era prigioniero dei nazionalisti, e creduto morto. Nin dette al POUM una fraseologia di sinistra, applicando un indirizzo di destra.

Alla metà del 1936, lo spettro politico della sinistra spagnola differiva da quello degli altri Paesi. Il movimento operaio tradizionale era costituito innanzitutto dalla cnt e, in minor misura, dal Partito Operaio Spagnolo e dalla sua centrale sindacale ugt. Il Partito Comunista era molto debole in rapporto al "centrismo" rappresentato dal POUM (ma come si è visto, era il Partito Comunista a essere qualificato "centrista" da "Bilan"). Il PCEsi sarebbe sviluppato solo una volta giunto al potere, grazie al controllo dello Stato e all’appoggio russo. Fino al 1934-’35, il POUM era per il "fronte unito", mentre il PCE difendeva la linea "settaria" detta "classe contro classe". Generalizzando l’esperienza delle Asturie e dell’Alleanza Operaia del ‘34, il POUM rifiutò all’inizio il Fronte Popolare, proponendo l’Alleanza Operaia. Respingeva sul piano elettorale ciò che in fondo accettava, incapace di vedere che il problema era prima di tutto nella natura delle organizzazioni "operaie", sia che si riunissero in un fronte di "lotta" o in una coalizione parlamentare.

Dopo il luglio ‘36, di fronte al Partito Comunista che diceva: "soprattutto niente socialismo, difendiamo solamente la democrazia", il POUM sosteneva: "noi lottiamo per la democrazia e per il socialismo". Non cercò mai di darsene i mezzi, né indicò che la condizione di una lotta per il socialismo sarebbe stata una rottura definitiva con il capitale. I partiti comunista e socialista irreggimentavano le masse, il POUM serviva a giustificare la guerra da un punto di vista "rivoluzionario". Alla fine del ‘36 voleva "un governo di operai e contadini [...] che non versi sangue per una repubblica democratica, ma per una società liberata da ogni sfruttamento capitalista"40. Fu dunque condotto a scontrarsi con lo Stato spagnolo come con l’urss, senza mai attaccarli frontalmente: una politica suicida. La repressione subita non ne fa per ciò stesso un gruppo rivoluzionario.

Le riforme appoggiate dal POUM (come quella della Giustizia, col ministero Nin) dovettero essere abbandonate, adempiuto il loro ruolo, che consisteva nel tenere occupate le masse per distoglierle dalla lotta contro lo Stato. Le collettivizzazioni agricole e industriali esprimevano un’immensa spinta rivoluzionaria. Ma quando tali spinte non superano i limiti politici (lo Stato) e sociali (l’economia mercantile) capitalisti, si condannano. Al fine di contribuire all’evoluzione di tali forme al di là di questi limiti, la critica rivoluzionaria si fa più incisiva, mostrando fin dove il capitale può spingersi per riformarsi, cedendo su tutto pur di salvaguardare l’essenziale. Il POUM fece il contrario. Dovette riconoscere che lo Stato sussisteva come in precedenza, comprese le sue funzioni chiave: "Il POUM non riesce assolutamente a influire sulla polizia"41. Ciò non gli impedi di spingere verso trasformazioni economico-sociali, private allora di ogni fondamento.

Il POUM fu incapace di vedere nel maggio ‘37 una vittoria dello Stato, che attaccò e fece cedere (dopo una vivace resistenza) gli operai che credevano ancora in lui, anche quando si opponeva loro con le armi. Il POUM e la cnt cosi come avevano appoggiato lo Stato alla fine del luglio ‘36, egualmente ricercarono il compromesso con lui nel maggio ‘37, e chiamarono (con successo) gli operai a deporre le armi42. Il POUM e la cnt accettarono l’arrivo a Barcellona di 5.000 gendarmi da Valencia. Il carattere centrista del POUM è dimostrato dal fatto che esso mirava prima di tutto a convincere un’organizzazione "operaia" ma di fatto non rivoluzionaria (la cnt) ad agire in maniera rivoluzionaria, piuttosto che a condurre esso stesso un’attività rivoluzionaria. La sua contraddizione era di volere la conquista del potere nel mentre appoggiava il potere statale esistente. Lo Stato si accorse di avere le mani libere, e la liquidazione cominciò.

"Il 19 luglio [1936] fu una vittoria militare, ma una sconfitta politica. Nonostante quanto si fece poi, questo errore era irreparabile. A partire da settembre, le forze "dell’ordine", che si erano riprese, contrattaccarono. In realtà le giornate di maggio [1937] non furono un’offensiva rivoluzionaria, ma una battaglia difensiva condannata alla sconfitta."43

La repressione successiva non apri gli occhi ai capi del POUM: con le spalle al muro, di fronte alle calunnie, alle torture e ai processi, essi denunciarono sempre i partiti (socialista e staliniano), mai lo Stato. Solo una minoranza si levò amaramente contro la direzione. Per esempio, una cellula di Barcellona concluse, prove alla mano, che la linea ufficiale del partito equivaleva a un sostegno allo Stato vigente44. Cosi, il 21 luglio 1937, il POUM domandò la "formazione di un governo con la partecipazione di tutte le componenti del Fronte Popolare". Questa cellula commentò: "un governo di quegli stessi che noi accusiamo di essere responsabili dell’insurrezione militare". Più oltre:

"L’unico punto [delle tesi del partito] che, in modo indiretto, concerne il problema del potere è il n. 8: "revisione della Costituzione della Catalogna in un senso progressivo". Senza dubbio è grazie a questa revisione che i lavoratori giungeranno poi alla dittatura del proletariato di cui ci parlerà il compagno Nin".

Ma questa minoranza non giunse mai (a nostra conoscenza) a definire un’altra prospettiva e neppure a provocare una scissione positiva.

L’ANARCHISMO E I SUOI DIFENSORI

La guerra di Spagna non dimostra il fallimento dell’"anarchismo" più di quanto il 4 agosto 1914 dimostri quello del "marxismo" (d’altronde nel 1914 anarchici notor", tra cui Kropotkin, aderirono all’Unione Sacra45). Quel che è rimarchevole, non è l’integrazione della CNT nello Stato. Questo fatto conferma l’analisi dei sindacati fatta dalla Sinistra tedesca dopo il 1914. Quale che sia la sua ideologia originaria, ogni organo permanente di difesa dei salariati si trasforma in organo di conciliazione e d’integrazione46. Anche se represso, e animato da numerosi militanti radicali, è condannato a sottrarsi loro, per divenire, in quanto istituzione, strumento del capitale. La partecipazione al governo del 1936 non fu una novità più di quanto lo fosse stata la capitolazione dei partiti socialisti nel 1914. Nel 1934, Maurin osservava già che gli anarchici non facevano politica direttamente, ma "per interposta persona"47.

Ciò che è interessante, è il meccanismo pratico e ideologico causa il quale un gran numero di anarchici, benché rivoluzionari sinceri, ma proprio perché anarchici, accettarono di capitolare di fronte al potere statale, e andarono poi in guerra contro Franco sotto la direzione di uno Stato capitalista. Fin dai primi giorni, la CNT e la FAI parlavano di lotta militare contro i fascisti, non di rivoluzione sociale in corso, o da fare. Ma ciò che sembra paradossale è totalmente logico. Quel che si deve criticare nell’anarchismo non è la sua ostinata ostilità verso lo Stato, ma la sua negligenza di fronte al problema del potere statale. Benché dia l’impressione di essere il nemico per eccellenza dello Stato, l’anarchismo si caratterizza, infatti, per l’incapacità di definire un atteggiamento rivoluzionario contro lo Stato. Sia che lo sopravvaluti, vedendo nell’"autorità" l’avversario n. 1 della rivoluzione, sia che lo trascuri, credendo che si possa fare la rivoluzione senza la distruzione dello Stato, o che questa distruzione avvenga tutta da sola. Marx disse nel 1871 che la rivoluzione deve distruggere lo Stato, e l’anarchismo crede di spingersi più lontano dicendo che bisogna distruggerlo immediatamente. é cosi che viene riassunta, perlopiù, la distinzione marxismo-anarchismo: come disse Lenin, essi sarebbero d’accordo sull’obiettivo ma in disaccordo sui mezzi.

L’autentica demarcazione risiede nella comprensione del rapporto tra Stato e società. Per il fatto di essere incapace di porre tale rapporto, l’anarchismo è più confuso che falso, oscillando tra la sopravvalutazione del pericolo statale e la sua sottovalutazione (come nel caso della guerra di Spagna. La confusione anarchica è dimostrata dal fatto che una corrente tanto ostile allo Stato abbia accettato di tollerarlo, poi persino di sostenerlo. Non parliamo qui, certamente, dei dirigenti, ma degli elementi radicali. Si è vista la posizione di Durruti, e si vedrà poi quella di Berneri. Nessun anarchico giunse a comprendere cosa era accaduto in Spagna e a trarne le lezioni: ecco l’autentico fallimento. Da un lato, l’anarchismo attribuisce troppa importanza allo Stato, dall’altro non ne vede il ruolo effettivo, quello di garante (ma non di creatore) del rapporto capitalista. La lotta contro lo Stato non è lo scopo e neanche l’aspetto principale della rivoluzione, bensi una delle sue condizioni, necessaria ma non sufficiente. Lo Stato, infatti, non è né il motore né l’ingranaggio essenziale del capitale, ma lo strumento della sua forza sociale unificata. Il vero problema non sta dunque nel comportamento (normale) della CNT, ma nel fallimento pratico di una corrente rivoluzionaria.

Prima del 1936, la CNT oscillava tra l’insurrezione prematura, di cui Abel Paz fornisce una descrizione lirica nel suo libro su Durruti, e il riformismo sindacale abituale. Di fronte agli atti rivoluzionari spesso disperati dei suoi membri, essa applicava il principio: "io sono il loro capo, occorre dunque che li segua". Ma non esitava, nondimeno ad abbandonarli all’occasione. Nel 1936, non potendo né volendo "fare la rivoluzione", ma desiderosa di giocare un ruolo nel sistema delle forze politiche (borghese), la CNT sostenne una gauchizzazione dello Stato (capitalista). Gli organi creati sotto la sua ala (Comitato Centrale delle Milizie) miravano a spingere lo Stato a sinistra o, forse, a sostituirglisi, ma senza distruggerlo, insediandosi come potere parallelo. L’essenza dello Stato non risiede nelle forme istituzionali specifiche, ma nella sua funzione unificatrice: esso è l’unità del separato. Anche quando sembra debole, se rimane come quadro in grado di riunire i pezzi della società capitalista, vive ancora, in certo qual modo s’iberna. Poi, all’occorrenza, cioè a partire dall’indebolimento del sedicente potere parallelo, lo Stato si rafforza, si riempie nuovamente delle forme specifiche provvisoriamente abbandonate. Il Portogallo ne dà un nuovo esempio.

L’antifascismo consiste nel sostenere lo Stato esistente nella sua forma democratica per evitare che esso assuma quella dittatoriale: ci si allineerà dunque sempre al più moderato. La Repubblica spagnola moltiplicò le concessioni per blandire le classi medie, ma più andò in questa direzione (arrivando fino a rivaleggiare in fervore nazionalista con gli stessi nazionalisti), e più s’indeboli. Allo stesso modo i democratici italiani e tedeschi non potevano combattere le basi sociali del fascismo, perché questa base non era altro che il capitale. La CNT accettò tutto pur di salvare l’unità antifascista, e gli anarchici onesti non mancarono di rimproverarglielo, da Berneri a Vernon Richards: ma il suo crollo e la sua capitolazione di fronte ai processi truccati, alla repressione eccetera discendevano dalla sua originaria accettazione di un’azione possibile sotto il comando dello Stato. La FAI (che svolge il ruolo di "partito" rispetto alla CNT, "organizzazione di massa" sotto il suo controllo) si definisce con precisione:

"Non potevamo lottare contro il governo che andava a costituirsi [dopo il luglio ‘36] poiché ogni lotta e ogni opposizione rappresentavano un indebolimento. Restarne fuori, significava mettersi in una condizione d’inferiorità"48.

Dopo aver sostenuto il governo senza parteciparvi, la CNT vi entrò (a settembre in Catalogna, a novembre a livello di Stato centrale). Caratteristico che si sia giustificata poi esattamente come i partiti comunisti spiegano il loro passaggio al potere dopo il 1945. "Quando noi eravamo ministri... vedete tutto quel che abbiamo fatto!" Ed ecco l’enumerazione delle loro realizzazioni (che furono il prodotto di iniziative popolari e non della loro azione, consistita nel frenarle). Ma la loro giustificazione suprema si riassume nell’idea che il governo legale non aveva il potere: il movimento operaio avrebbe conservato "nei fatti, se non di diritto, il potere politico rivoluzionario"49. Segno della confusione summenzionata, l’ideologia anarchica permette di partecipare al potere capitalista... giacché esso non ha il potere reale. Delle due, l’una: o ce l’ha e la CNT si mette al servizio dello Stato borghese; o non ce l’ha e allora perché rispettarlo? Per salvare le apparenze di fronte all’estero, replica la CNT. Il "realismo politico" della CNT la rese garante di tutti i compromessi, anche dopo che lo Stato e il suo alleato russo avevano mostrato il loro vero volto accanendosi contro i rivoluzionari. Nel momento cruciale, cosi come il POUM, la CNT disarmò ideologicamente i proletari mascherando l’antagonismo che li opponeva allo Stato. Li consegnò alla repressione invitandoli a cessare la lotta contro un nemico deciso ad andare fino in fondo. Pronta a tutto pur di sopravvivere, si alleò con l’UGT. Per questo non difese il POUM: "i libertari avevano prima di tutto da difendere se stessi"50. Non c’era altra alternativa, a partire dal momento in cui era stata accettata la parola d’ordine "Innanzitutto sconfiggere Franco".

"Dal momento che la CNT non poteva far cadere Negrin [primo ministro socialista alleato del Partito Comunista] e i comunisti, e poiché peraltro essa era d’accordo con loro nel continuare la guerra fino alla vittoria, non le restava altro che partecipare al governo, a ogni costo."51

La CNT avrebbe continuato a partecipare anche ai governi-fantasma repubblicani del dopoguerra: non si sarebbe stati più, prima di tutto, antifascisti, bensi "antifranchisti"52.

All’estero, il miraggio spagnolo funziona benissimo, e gli elogi alla CNT non mancano. Una brochure belga assimila, per esempio, il 1931 a una rivoluzione politica e si stupisce che non sia andata più lontano, e abbia anche attaccato gli operai, mentre i sindacati volevano "allargare la [sua] portata economica". Quanto alla situazione dopo il luglio ‘36: "Sotto la direzione della CNT, della FAI e dell’UGT, gli operai sono i padroni assoluti. Non c’è traccia di governo regolare"53. Questo travestimento dei fatti colpisce tanto di più in un testo peraltro onesto.

La posizione di Prudhommeaux apparirebbe quasi come un lavoro eseguito su ordinazione. Venuto dalla Sinistra comunista, egli aveva animato "L’Ouvrier Communiste", poi "Spartacus" (da non confondere con i "Cahiers Spartacus" di René Lefeuvre, successivi), evolvendo dalla Sinistra tedesca all’anarchismo. Il suo panegirico della CNT-FAI è, forse, il suo testo peggiore: la sua ingenuità ricorda troppo le descrizioni della Russia stalinista di coloro che Trotsky chiamava "gli amici dell’urss". Prudhommeaux riduce subito la rivoluzione all’aspetto militare: "L’armamento del popolo è il primo problema di ogni lotta sociale"54. Notevolissimo è il suo formalismo operaio, identico a quello del POUM, dei trotskysti eccetera: è come se lo Stato e il Comitato Centrale delle Milizie fossero sotto la direzione degli operai attraverso l’intermediario delle organizzazioni "operaie". L’apologia della democrazia diretta può andare di pari passo con una concezione perfettamente politica della rappresentazione delle masse da parte delle "loro" organizzazioni55.

"LA RÉVOLUTION PROLÉTARIENNE"

Più complessa, la posizione de "La Révolution Prolétarienne" derivava dal suo postulato sindacalista cosi riassunto da Jean Barrué nel 1935: "Noi non sacrifichiamo a cuor leggero un sindacalismo anche imperfetto la cui unità, presto realizzata [in Francia nel 1936], ci è costata tanti sforzi"56. Documentati, gli articoli di Nicolas Lazarévitch sulla Spagna forniscono i materiali per una critica dell’anarchismo, del sindacalismo e della guerra che Lazarévitch stesso non poteva effettuare. Altri, è vero, cercavano tutte le scuse possibili per la CNT, senza rendersi conto dell’enormità delle loro posizioni, come Louzon che scriveva nell’agosto ‘36: "Lo Stato, attualmente, è la CNT"57. "La Révolution Prolétarienne" si stupi sempre degli atti poco rivoluzionari della CNT: eppure non c’era nulla di sorprendente nel fatto che essa non facesse un uso rivoluzionario di un apparato costruito per la lotta riformista (violenta, all’occorrenza).

Lazarévitch voleva assicurare le riforme nelle retrovie repubblicane affinché il fronte tenesse: "a prima vista, potrebbe parere ozioso esaminare i problemi della nuova organizzazione sociale fintantoché sussisterà il pericolo di vedere schiacciati dallo stivale fascista tutti i tentativi diretti verso la nuova società. Tuttavia, siccome il fattore morale ha un’importanza fondamentale nella guerra civile, è importante sapere in quale misura, nelle retrovie, esistono le conquiste del proletariato [...]"58. La prima frase rispondeva all’argomento "Prima di tutto la guerra". La seconda spiegava che si trattava di dare agli operai delle buone ragioni per sostenere lo Stato legale. Lazarévitch sapeva che "Il proletariato spagnolo si batte su due fronti"59, ma senza trarne la lezione che s’imponeva sulla natura del conflitto e la sola via di uscita per il proletariato. Descriveva lo svolgimento di una situazione senza chiarirne il meccanismo. Pertanto le sue informazioni (esatte) servivano a uno scopo preciso: indirizzare il biasimo sugli stalinisti, e più in generale sui "partiti politici", financo un po’ sulla CNT, ma giammmai sulla politica antifascista.

Pacifista per principio, "La Révolution Prolétarienne" rifiutava ogni guerra contro Hitler, che sarebbe stata "la più tipicamente imperialista da centocinquant’anni"60, ma voleva che si aiutasse (con armi eccetera) la Repubblica spagnola. Denunciava la doppiezza dello Stato francese, non la natura dello Stato spagnolo. Apri anche le sue colonne all’ambasciatore repubblicano a Parigi61. Per una frangia radicalizzata del proletariato, di cui gruppi come "La Révolution Prolétarienne" erano espressione, la Spagna servi come inizio di giustificazione per la guerra (futura) contro il fascismo. Dopo aver rifiutato fino ad allora l’Unione Sacra, anche contro la Germania nazista, i proletari che resistevano ancora finirono con l’accettarla, come "minor male" rispetto alla vittoria fascista. L’antifascismo diretto verso la Spagna rafforzò il sostegno al Fronte Popolare di numerosi gruppi di estrema sinistra in Francia. Meglio Blum che Franco. Per esempio, A. Ferrat voleva "cambiare da cima a fondo la politica del governo" Blum, affinché aiutasse la Spagna repubblicana. Chiamando sempre all’impossibile, essi non finivano mai di denunciare la "fiacchezza" degli antifascisti democratici62.

La grande funzione ideologica della guerra di Spagna fu quella di polarizzare coloro che esitavano (in tutti i Paesi ove la resistenza proletaria era ancora viva, ma anche negli altri: dalla Russia alla Germania e all’Italia, passando per le democrazie) attorno all’alternativa democrazia/fascismo presentata in ciascun campo come la sola risposta al totalitarismo "plutocratico" o "fascista". Coloro che, dopo l’inizio degli anni Trenta, e ancor più dopo il riavvicinamento tra l’URSS e le democrazie occidentali, avevano sostenuto una forte (benché confusa e spesso nefasta) campagna contro la guerra, a poco a poco caddero nel campo democratico. I più inconsistenti teoricamente, cedettero più in fretta, malgrado il loro radicalismo superficiale. Cosi gli anarchici:

"Noi sappiamo bene che la Spagna di Negrin non è quella da noi auspicata, non è neanche quella che desiderano gli operai spagnoli. Abbiamo combattuto i suoi errori, le sue stesse esazioni. Ma oggi non si tratta di una questione di governo, è l’avvenire del movimento operaio [...]".

"Il tuo avvenire, popolo di Francia, si gioca in diversi punti del globo. é tuttavia in Spagna che tu devi portare la tua attenzione, essa attende il tuo soccorso, non esitare più, gettati nella mischia, ne va della sorte del proletariato spagnolo, della tua libertà, e del mantenimento della pace!"63

Fu l’adesione dell’estrema sinistra alla mobilitazione per la guerra preparata dal Fronte Popolare. Come nel 1914, bisognava rinunciare a ogni pretesa rivoluzionaria per salvare la civiltà dalla barbarie. Per i comunisti, invece, non c’era novità di fondo, quanto alla natura del conflitto, tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.

L’ANARCHISMO DI SINISTRA

Malgrado le numerose reazioni tra gli anarchici contro l’orientamento della CNT-FAI, nessuno si liberò dalla confusione fondamentale sulla questione del potere. In "Guerra di classe", il cui primo numero datava novembre 1936, Camillo Berneri tentò di resistere in seno alla corrente anarchica di sinistra. Berneri partiva dall’idea di una rivoluzione che sarebbe stata in corso e che si sarebbe dovuto appoggiare. Sostenere la Spagna rivoluzionaria: ciò poteva significare solo sostenere lo Stato, o agire al suo margine senza combatterlo. Egli finiva dunque per domandare alle masse di fare pressione sullo Stato esistente. Nello stesso tempo (ed era la sua contraddizione), mostrava come il governo agisse contro la rivoluzione: ma additava cosi solo il "governo", non lo Stato. Egli arrivava a una conciliazione impossibile tra la partecipazione allo Stato e l’esigenza rivoluzionaria:

"La partecipazione di elementi della FAI e della CNT a organismi di polizia, non è sufficientemente compensata da un’autonomia che permetta celerità e discretezza dei servizi nelle missioni"64.

La sua polemica con Federica Montseny è rimasta celebre65. Egli dialogava con lei, perché anarchica, benché ministro. Egli faceva come se ella avesse scelta, imitando i trotskysti che mettono i dirigenti "operai" "con le spalle al muro". Berneri era vittima dell’ideologia rivoluzionaria (uno dei suoi articoli s’intitola Madrid, la sublime). Guerra e rivoluzione illustra bene il suo slittamento teorico66. Dall’affermazione: occorre la rivoluzione, si passa a: c’è una rivoluzione, che bisogna dunque preservare, donde la lotta fondamentale contro Franco eccetera. Certo, egli metteva in guardia contro la "controrivoluzione". Ma se era vero che il proletariato era attaccato su due fronti (da Franco e dalla Repubblica), se ne sarebbe dovuto concludere che non c’era rivoluzione fintantoché i proletari avessero appoggiato una di queste due forme di controrivoluzione contro l’altra. Berneri parlava di controrivoluzione come di una minaccia mentre era una realtà: da ciò i suoi ripetuti moniti. Si protestava contro i maneggi non rivoluzionari dello Stato: ma questo avrebbe potuto agire diversamente?

Il gruppo Los Amigos de Durruti, prolungamento di una tendenza dura della CNT, è altrettanto significativo, innanzitutto per il nome scelto. Voleva strappare il simbolo di Durruti alle organizzazioni anarchiche ufficiali che se ne facevano una bandiera (come gli stalinisti con la Luxemburg e Liebknecht fino all’inizio degli anni Trenta), invece di criticare il simbolo stesso (cfr. "Spagna: guerra o rivoluzione?"). Questo solo fatto dimostra che essi intendevano continuare il "vero" anarchismo contro gli anarchici ufficiali. Nel luglio ‘37, "Los Amigos de Durruti" affermavano che la spinta rivoluzionaria si era mantenuta nel maggio ‘37, malgrado "l’assenza di programma concreto e di realizzazioni immediate". Nel ‘36 cosi come nel ‘37, l’"errore capitale" della CNT-FAI era stato la paura di agire risolutamente e la libertà lasciata alla preponderanza piccolo-borghese. Per contro, "Los Amigos de Durruti" raccomandavano la "necessità di una giunta rivoluzionaria, del predominio economico dei sindacati e di una struttura liberà di municipalità". Occorrevano "un programma e dei fucili"67. Nell’agosto ‘37, la CNT e la FAI avevano fallito per mancanza "di quella precisione teorica che il nostro gruppo proponeva"68. Questo gruppo diagnosticava dunque un’insufficienza della "direzione", come i trotskysti di fronte ai partiti socialisti e comunisti. Come loro esso si concepiva quale parte integrante dell’organizzazione "operaia" difettosa, che esso avrebbe voluto risanare insufflandovi la volontà di lotta e la teoria proprie. L’animatore di questo gruppo scriveva lui stesso sul quotidiano della CNT di Barcellona. Ci si fa un’idea della debolezza proletaria quando si sappia che "Los Amigos de Durruti" furono, insieme ai rari trotskysti (riuniti intorno a Grandizio Munis) e a un’assai piccola minoranza del POUM e della CNT, i soli elementi organizzati risoluti nel maggio ‘37. Il programma di questo Manifesto d’Unione Comunista (inizio giugno ‘37) sarebbe restato lettera morta:

"Per battere Franco occorrerebbe prima di tutto battere Companys e Caballero. Per vincere il fascismo, occorrerebbe prima annientare la borghesia e i suoi alleati stalinisti e socialisti. Bisognerebbe distruggere da cima a fondo lo Stato capitalista e instaurare un potere operaio sorto dai comitati di base dei lavoratori. L’apoliticità anarchica è fallita [...]. Per vincere il blocco della borghesia e dei suoi alleati: stalinisti, socialisti e dirigenti della CNT, gli operai debbono rompere immediatamente con i traditori di ogni sponda".

Questo Manifesto riconosceva che "L’unità antifascista non è stata altro che la sottomissione alla borghesia". Esso era, peraltro, molto favorevole al POUM69.

ANTISTALINISMO

Cosi come i massacri fascisti contribuiscono a offuscare la natura del fascismo, egualmente la repressione stalino-socialista aiuta spesso a passare sotto silenzio l’essenziale. M. Ollivier denunciava La Guépéou en Espagne, ma anch’egli poneva solamente il problema dei partiti, non quello dello Stato70. La liquidazione del POUM fu l’occasione per far passare questo partito come il più radicale. Sarebbe stato solo troppo debole per giocare un grande ruolo.

Se il governo repubblicano "resuscita la lotta di classe"71, ciò opponeva dunque il proletariato alla borghesia repubblicana cosi come a quella che sosteva Franco. Ollivier non invocava per nulla la distruzione dello Stato repubblicano. Al contrario: ci si sarebbe dovuti battere per "le realizzazioni socialiste"... attaccate l’estate dopo in Aragona dallo Stato repubblicano.

Il Comitato per la Rivoluzione Spagnola72 denunciava la repressione contro il POUM perché indeboliva la guerra dei repubblicani contro Franco: agendo cosi, la Repubblica si sarebbe privata di un appoggio necessario nel popolo. Questo Comitato non faceva parola del comportamento conciliatore e criminale della CNT e del POUM nel maggio 1937. Cosi la calunnia e l’ignominia social-staliniste non ricevettero confutazioni pubbliche (esclusa qualche pubblicazione della Sinistra comunista) se non da parte di gente che difendeva in realtà la stessa linea politica, e che si opponeva solo sui metodi, senza comprendere che una tale linea implicava obbligatoriamente cotali metodi. L’antifascismo vorrebbe la "vera" democrazia rovinata dal capitalismo; essi il "vero" antifascismo rovinato dallo stalinismo.

Nella sua prefazione a Le Stalinisme bourreau de la révolution espagnole, 1937-1938, Alfred Rosmer scriveva: "Bisogna innanzitutto battere Franco. Ma dopo la vittoria, vi saranno dei regolamenti di conti e la Rivoluzione riprenderà la sua marcia in avanti"73. Questa repressione riuscita dimostrava pure che non c’era rivoluzione spagnola. La denuncia unilaterale dei crimini stalinisti (che erano d’altronde altrettanto dei crimini socialisti) copriva il resto con un velo. La "lotta contro la repressione", che prende la forma dell’antistalinismo cosi come prima prendeva quella dell’antifascismo, non costituisce mai di per sé un programma rivoluzionario. Isolata in quanto tale, come nell’antifascismo, conduce necessariamente a praticare la politica del male minore, ad appoggiare il più tollerante contro il più repressivo (i socialisti "sono meglio" rispetto al Partito Comunista, gli Stati Uniti rispetto all’urss, o viceversa eccetera). Come se i socialisti (soprattutto in Spagna) non fossero stati complici degli stalinisti, evitando di menzionare i processi di Mosca, e invitando Jouhaux ad arbitrare i conflitti nell’UGT a favore del Partito Comunista74!

Durante la Guerra Fredda, si sarebbe visto risorgere l’antifascismo in certe correnti intermedie tra i partiti ufficiali e i rivoluzionari, ma questa volta sotto forma di un sostegno al "mondo libero" contro i Paesi dell’Est giudicati ancor più repressivi e mostruosi. Il totalitarismo rimpiazza il fascismo come nemico principale. Per altri, come Sartre, il "male minore" sarebbe stato rappresentato al contrario dai partiti comunisti e dall’Unione Sovietica. L’antistalinismo è il peggior prodotto dello stalinismo. Ciò vale per tutti coloro che si specializzano nel denunciare i crimini e le repressioni staliniane o leniniste75.

L’UNION COMMUNISTE

Le discussioni in seno alla Sinistra comunista e le critiche a "Bilan" da parte di certi gruppi rivoluzionari offrono tutt’altro interesse, tanto che tavolta le obiezioni di questi gruppi alle tesi della Sinistra "italiana" hanno un valore certo, benché per l’essenziale quest’ultima avesse capito meglio gli eventi spagnoli. La Spagna frenò o interruppe la chiarificazione di varie correnti. Fino ad allora ostili all’antifascismo e alla preparazione della futura guerra da parte dell’Unione Sacra nei blocchi che univano i proletari alla borghesia (Fronte Popolare eccetera), essi però accettarono l’antifascismo per la Spagna ove credettero di vedere, se non una rivoluzione in marcia, almeno una situazione pre-rivoluzionaria. Ma i più solidi ammettevano a partire dal maggio ‘37 che il movimento rivoluzionario era vinto, che la guerra di Spagna era ormai imperialista, e apriva la strada alla Seconda Guerra mondiale imperialista.

L’Union Communiste, il cui organo era "L’Internationale", si situava a metà strada tra la Sinistra comunista e il trotskysmo, benché svolgesse un approfondimento considerevole dopo il 1936. Prima di questa data, raccomandava il fronte unico (contro la linea "classe contro classe") a livello politico e sindacale76. Come si sa, la fedeltà ai "primi quattro congressi dell’Internazionale Comunista" (dal 1919 al 1922) è uno dei temi trotskysti favoriti, e il "fronte unico" una delle loro parole d’ordine più apprezzate. Per contro, l’Union Communiste rifiutava ogni difesa dell’URSS e non diffondeva alcuna illusione circa il carattere della prossima guerra. Questa era la sua contraddizione: dimostrare che il Fronte Popolare (per esempio francese) equivaleva a un’Unione Sacra, ma chiamare a un fronte unico di queste stesse organizzazioni cosiddette operaie. Essa condivideva su questo punto l’incapacità "centrista" di comprendere la funzione globale delle organizzazioni "operaie". Questo atteggiamento poggiava anche su di una sopravvalutazione del periodo che lasciava credere a delle possibili evoluzioni. L’Union Communiste giudicava dunque quella di "Bilan" una posizione di principio lontana dal movimento reale. Nel 1934, citando "Bilan", "L’Internationale" scriveva:

"Non si tratta [...] per i rivoluzionari di lasciare le masse operaie a loro stesse e di accontentarsi di "diffondere delle posizioni politiche senza che le masse abbiano la possibilità di applicarle" ["Bilan", n. 12]"77.

Durante il referendum nella Saar che doveva decidere sulla riunificazione di questa regione alla Germania (nazista) o alla Francia, e che si pronunciò infine in favore della Germania, "L’Internationale" defini il proprio antifascismo, che avrebbe voluto differente dalla versione riformista abituale, ma che le somigliava parecchio:

"La lotta antifascista ha per obiettivo di conservare al proletariato le sue organizzazioni e delle libertà che costituiscono le condizioni più favorevoli alla propaganda rivoluzionaria e al raggruppamento delle masse [...]. L’attaccamento degli operai a certe libertà democratiche costituisce per loro, in un periodo di riflusso, una base importante per radunare le masse e spingerle all’azione"78.

Alla vigilia del luglio ‘36, l’Union Communiste evolvette, ma s’illuse gravemente sul POUM e sulla sua posizione rispetto all’antifascismo democratico, il che dimostra bene che essa stessa non aveva una posizione netta al riguardo79. Dopo il luglio ‘36, l’Union Communiste non ritennne che l’adesione delle milizie allo Stato annullasse il loro carattere rivoluzionario, e sottolineò l’esistenza di un potente movimento rivoluzionario sotterraneo, che nessuna organizzazione esprimeva né raggruppava (neanche il POUM), e che si sarebbe dovuto appoggiare. Per "Bilan", al contrario, la condizione necessaria per facilitare un’evoluzione rivoluzionaria possibile era di comprendere e affermare in ogni maniera che non vi era ancora rivoluzione. Nondimeno "L’Internationale" insistette fin dall’inizio sulla fragilità del movimento. Nel febbraio 1937, "Lo strangolamento del movimento rivoluzionario spagnolo è entrato nella sua ultima fase": "Le forze controrivoluzionarie vogliono prevenire una reazione organizzata delle masse" contro questo strangolamento80. L’influenza staliniana progredisce con l’appoggio russo, e la Repubblica preparerebbe un compromesso con Franco. L’alternativa sta in una battaglia decisiva: "o la distruzione dello Stato borghese", "o un’eroica sconfitta". Ancora illusioni sul POUM, con l’intermediario della sua organizzazione giovanile. La Gioventù Comunista Iberica sarebbe a favore di un "governo operaio rivoluzionario" eletto dall’"Assemblea dei delegati dei Comitati d’impresa, dei contadini e dei miliziani": ma cosa significa "Tutto il potere ai soviet!", quando i partiti riformisti esercitano un dominio schiacciante su questi organismi di base? Ritroviamo qui tutto l’orientamento del POUM.

L’Union Communiste mostrava la progressione controrivoluzionaria, ma non la realtà (ossia la debolezza) del movimento proletario. Spiegava tale progressione prima di tutto mediante l’intervento russo, il che dispensava dall’interrogarsi sulla situazione interna alla Spagna, e sull’azione effettiva degli operai. L’Union Communiste ragionava come se esistesse un movimento sociale rivoluzionario, ma imbrigliato dai partiti e dai sindacati.

Essa insisteva sull’"indipendenza di azione" rispetto al governo, non su cos’era questo governo81. Esaltava un "potere operaio" (opposto al potere borghese attuale) come scopo, ma non vedeva che un tale potere era la condizione di ogni lotta di classe contro Franco e la Repubblica. Ricercava la rivoluzione dove non c’era, e i rivoluzionari laddove non c’era altro che fraseologia rivoluzionaria, domandando senza posa al POUM di accordare i suoi atti con le sue parole. Insomma trasferiva adesso il "fronte unico", precedentemente auspicato, sul POUM e sulla CNT-FAI. Faceva appello alla base del POUM come i trotskysti a quella dei partiti comunisti e socialisti, ignorando la funzione di questi partiti. Analizzava meno quel che succedeva di quel che essa avrebbe voluto succedesse (tratto comune a tutti i rivoluzionari criticati da "Bilan". Per una lotta rivoluzionaria che non esisteva (in ogni caso non come essi ne parlavano), essi erano pronti a partecipare a una lotta, quest’ultima ben reale, diretta dallo Stato. Dall’idea che gli avvenimenti dovessero evolvere, se ne deduceva che lo potessero, e dunque che si dovesse sostenerli. Nonostante ciò riconosciamo all’Union Communiste un relativo pessimismo quanto all’epilogo (il che confuta, d’altronde, la sua tesi di un "movimento rivoluzionario attivo" in Spagna.

L’Union Communiste cominciò col partecipare al Comitato per la Rivoluzione Spagnola, che raggruppava l’essenziale del confusionismo centrista, compresa la Gauche révolutionnaire, opposizione di sinistra all’interno della SFIO, il cui capo Pivert era responsabile dell’informazione nel governo Blum, la qual cosa indica la portata della sua opposizione82. L’Union Communiste lasciò poi questo Comitato alla metà del ‘37, tra le altre ragioni a causa della presenza della Gauche révolutionnaire.

Dopo il maggio ‘37, "L’Internationale" descrisse lungamente il trionfo controrivoluzionario, ma individuò meglio l’effetto che la causa: "dopo le giornate di maggio, la guerra contro Franco ha perduto il carattere di guerra civile che aveva dopo il 19 luglio [1936] [...] nella misura in cui il movimento rivoluzionario [...] indietreggia di fronte alla controrivoluzione "democratica", il carattere imperialista della guerra militare si precisa e cresce la minaccia della guerra mondiale"83. Riteneva che ci s’incamminasse verso un compromesso Franco-Repubblica.

"L’Internationale" si rallegrava dell’evoluzione positiva de "Los Amigos de Durruti", che, se non avevano adottato la posizione marxista sullo Stato, ciò nonostante avevano visto, secondo l’Union Communiste, che "la conquista del potere politico è la condizione del successo della rivoluzione. I testi de "Los Amigos de Durruti" riprodotti sulle sue pagine, e che sono stati da noi analizzati nel "L’anarchismo di sinistra", dimostrano che questo apprezzamento era largamente esagerato. Per contro, veniva stigmatizzato l’atteggiamento "esitante" del POUM e il suo opportunismo che lo allineava alla CNT: malgrado i colpi che gli si abbattevano sopra, il POUM si limitava a confutare le menzogne e predicava un governo UGT-CNT.

"é ben poco probabile che una nuova grande battaglia possa ingaggiarsi. Le giornate di maggio sono state decisive a questo riguardo. Sole, delle lotte parziali, localizzate, si produrranno e saranno seguite da repressioni di massa."

LA LIGUE DES COMMUNISTES INTERNATIONALISTES

L’evoluzione della Ligue des Communistes Internationalistes del Belgio è paragonabile a quella dell’Union Communiste sulla Spagna, benché la prima avesse posizioni ben più nette sull’antifascismo. Sorta anch’essa da una rottura con il trotskysmo, collaborò tra il ‘31 e il ‘36 con la Sinistra "italiana". Mentre l’Union Communiste pubblicò per diversi anni "L’Internationale" come un giornale che voleva toccare la base delle organizzazioni "operaie", prima di divenire una rivista ciclostilata, il "Bulletin" della Ligue des Communistes Internationalistes si presentava più come un organo teorico. L’Union Communiste appare come una reazione sana ma che non andava troppo in profondità, almeno fin verso il ‘36. La Ligue des Communistes Internationalistes traduceva un reale sforzo di chiarificazione teorica, e non è per caso se collaborò per diversi anni con "Bilan", prima di separarsene a proposito della Spagna.

Dopo la vittoria elettorale del Fronte Popolare, il "Bulletin"84 vi vide "un fronte delle sinistre borghesi con le sue tendenze moderate ed estreme che si univa di fronte alle destre, ove si manifestava lo stesso fenomeno". Per esempio, il partito del radical-socialista Maura si era scisso in due secondo la "politica dell’altalena tra destra e sinistra" ben conosciuta. Nell’insieme, l’analisi del fascismo era identica a quella di "Bilan". Offrendo il Belgio un esempio di Paese industrializzato e di movimento operaio molto integrato nello Stato, la Ligue des Communistes Internationalistes sottolineava regolarmente che la democrazia vi realizzava lo stesso programma del fascismo di unione forzata delle classi. Ma la Ligue conobbe anche importanti divergenze prima del luglio ‘36, cristallizzate dalla questione elettorale, in cui si disegnò già la separazione ulteriore a proposito della questione spagnola. Nella primavera del ‘36, Hennaut (dirigente della Ligue) raccomandò l’appoggio elettorale al Partito Operaio Belga. Jehan (che avrebbe animato la scissione della minoranza vicina a "Bilan") era a favore dell’astensione85.

Queste divergenze sarebbero tornate alla ribalta dopo il luglio ‘36, esigendo una scissione: nessuna collaborazione era possibile tra coloro che sostenevano la lotta armata antifascista e coloro che chiamavano alla diserzione in entrambi i campi. Gli articoli di Hennaut e di Jehan, scritti pressoché contemporaneamente, rivelano due approcci differenti. Hennaut era cosciente del carattere antirivoluzionario dell’antifascismo, ma, contrariamente a Jehan, non faceva un criterio decisivo della mancata distruzione dello Stato nel luglio ‘36. Laddove Jehan considerava il momento della rottura (che non si era prodotta), Hennaut si soffermava sul movimento. Secondo Hennaut, Jehan inchiodava l’evoluzione sociale su di una fase siccome riduceva il proletariato al partito, cioè agli elementi già acquisiti all’azione e alle posizioni comuniste, trascurando cosi la possibilità d’influire su altri strati ancora in movimento. Per "Bilan", secondo Hennaut, non sarebbe esistita rivoluzione in Spagna perché non c’era il partito. Questo rimprovero fondamentale veniva approfondito in una critica più generale riguardante la rivoluzione russa, la natura del socialismo, della rivoluzione e, dunque, del proletariato. Obnubilata, al seguito dei bolscevichi, dalla questione del partito, la Sinistra italiana avrebbe interpretato tutto alla luce della formazione o della carenza di questo famoso partito. Questa critica sarebbe stata ripresa poi, sovente per fini di mediocre polemica. In un articolo di "Socialisme ou Barbarie" su La crise du bordiguisme italien, scritto nel 1952, Albert Vega [Alberto Masó] attaccava la negazione del "ruolo attivo" del proletariato e l’idea di una lotta di classe "a eclissi"86:

"[...] per esempio, invece di vedere nello sconvolgimento rivoluzionario del luglio ‘36 in Spagna il risultato di un lungo periodo di lotta di classe, non si è fatto che registrare un’"esplosione operaia" [?] di qualche giorno, seguita da una "guerra imperialista". La classe operaia era apparsa per ventiquattro o quarantott’ore, e poi sparita. Ciò nonostante, i combattimenti continuavano. C’era dunque guerra. Siamo nel periodo delle guerre imperialiste, è dunque una guerra imperialista! E grazie al "leninismo", abbiamo visto la Sinistra italiana dichiarare (al prezzo di una scissione, è vero) che la parola d’ordine per la Spagna era la fraternizzazione: fraternizzazione degli operai in armi con la Guardia civile, i legionari e i falangisti al fronte. Questa interpretazione rende completamente inspiegabile l’insurrezione degli operai di Barcellona nel maggio ‘37. Cosi quest’ultima è stata presentata come un massacro di proletari, ridotti al rango di vittime passive del governo repubblicano".

Per Albert Vega: "I lavoratori spagnoli [...] dal 1930 al 1936 hanno costantemente messo in causa le basi del regime capitalista, [...] nel ‘36, hanno distrutto le sue istituzioni fondamentali, preso in mano la gestione della fabbriche e dei trasporti [...]".

Ciascuno valuterà a modo suo questo riassunto e l’esposizione dei fatti. Recentemente, un vecchio membro dell’Union Communiste ricordava egualmente "la posizione delirante dei comunisti belgi e di Vercesi (niente partito bordighista in Spagna, dunque niente rivoluzione) circa il movimento rivoluzionario nella penisola [...]. I bordighisti del Belgio, un pugno di uomini, avevano una posizione aberrante [...] e, per esempio, non compresero nulla delle giornate del maggio ‘37, la Kronstadt spagnola (fatte salve tutte le proporzioni) [...]"87.

Il rimprovero rivolto alla Sinistra italiana di ridurre la classe al partito è fondato e mal posto al tempo stesso. Se si legge seriamente "Bilan", si capisce che questa rivista non parlava di assenza del "partito" in Spagna se non nel senso che i movimenti proletari prima e durante il ‘36 non avevano raggiunto la soglia sufficiente a esigere un’organizzazione comunista corrispondente. Nell’insieme, l’analisi rimaneva materialista: non c’era partito perché la classe non l’aveva fatto nascere. L’esperienza proletaria precedente non aveva avuto la forza di suscitare un’azione e dunque un’organizzazione che rompesse col capitale abbastanza da giocare un ruolo decisivo nel periodo critico in cui la società avrebbe potuto volgersi in un senso o in un altro. Parlare di assenza del partito, significava valutare la forza e le capacità dei proletari spagnoli. E non deplorare la mancata creazione da parte dei "rivoluzionari" di un centro dirigente.

Per contro, è vero che "Bilan" celava una tendenza all’idealizzazione del partito, rimasta allora limitata, e che non rovinava l’essenziale dell’analisi, ma che faceva parte dell’eredità della Sinistra italiana. Era meno un tratto "leninista" (venuto solamente dopo) che non un aspetto socialdemocratico radicale acquisito dalla Sinistra italiana prima dell’incontro con i bolscevichi e con il Che fare?. Questa idealizzazione dell’organizzazione e dei principi era, prima del 1914, una delle soluzioni (illusorie) degli elementi rivoluzionari della Seconda Internazionale per sfuggire al riformismo imperante. Bordiga la concepi separatamente da Lenin, e in una maniera più profonda, nella misura in cui egli non era segnato dalla tesi kautskiana della "coscienza" da apportare al proletariato, il che dava al partito da lui descritto un aspetto assai più materialista di quello del partito di Lenin. Solamente in seguito, il contatto tra gli italiani e l’Internazionale Comunista avrebbe rafforzato l’idealismo del partito, ma Bordiga avrebbe conservato sempre il suo approccio originale. Dopo il 1945, egli sviluppò la sopravvalutazione del partito nelle forme più brillanti e anche più contraddittorie, benché avesse detto che il partito era al tempo stesso fattore e risultato della rivoluzione88. I suoi eredi hanno elevato a caricatura le sue contraddizioni. Complice l’attivismo, il partito diventa l’anima che attende il suo corpo.

Una differenza profonda separa tuttavia queste teorizzazioni da "Bilan". La distinzione ammessa negli anni Trenta tra "frazione" (gruppo che conserva e sviluppa la teoria, con una pratica molto limitata, in periodo di arretramento) e "partito" (organizzazione comunista del movimento del proletariato) fu dimenticata dalla Sinistra italiana dopo il 1945, poiché essa si costitui in "partito", dapprima in Italia (1943-’45), poi a livello mondiale (Partito Comunista Internazionalista).

Su di un piano più vasto, è esatto dire che "Bilan" riproduceva i limiti della Sinistra italiana nella sua visione della rivoluzione, e in particolare nella sua esagerazione dell’esperienza russa. Questa rivista si era tuttavia aperta ad altre concezioni, e soprattutto alla riflessione sul contenuto del comunismo come distruzione della legge del valore, con un lungo riassunto dei Principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista, testo fondamentale al riguardo89. Come lo stesso Hennaut sottolineò, questo era per lui il punto di avvio di una diversa riflessione sul socialismo, mentre "Bilan" lo considerava solo come un punto da precisare. Inoltre, la critica storica della rivoluzione russa e della sua degenerazione non fu mai fatta dalla Sinistra italiana, né all’epoca di "Bilan" né dopo, malgrado i numerosi testi di Bordiga a questo proposito. Tuttavia, in genere gli avversari della Sinistra italiana non avrebbero superato i limiti di questa critica vietata se non per cadere in parte o totalmente in una forma o in un’altra di consiliarismo, sostituendo una visione limitata con un’altra. Un nuovo rimedio magico (la democrazia e la gestione operaie) avrebbe rimpiazzato quello vecchio (il partito). Le polemiche sulla Spagna fecero maturare queste divergenze ed esagerazioni rispettive (segno dell’incapacità a cogliere la totalità.

La Sinistra italiana afferma giustamente che i rivoluzionari non sono ossessionati dalla paura di divenire un nuovo potere o di imporsi alla "maggioranza". Ogni rivoluzione è fatta da una minoranza, anche significativa, il che non impedisce alla rivoluzione comunista di essere l’opera della maggioranza, dell’insieme degli uomini tendenti a prendere progressivamente in mano la loro esistenza. Ma è la minoranza a giocare il ruolo più attivo. L’essenziale è che delle misure decisive siano prese, cioè non "decretate", ma effettuate realmente, all’inizio anche da parte di una minoranza (niente a che vedere con le "minoranze agenti" care al sindacalismo rivoluzionario, ove un piccolo numero è incaricato di dare il buon esempio e di dirigere le cose). Le basi materiali di un nuovo "potere" non stanno per nulla in questo atto minoritario e spesso dittatoriale, bensi nell’eventuale mantenimento dei fondamenti del capitale. Il fattore essenziale non sono i rapporti di dominio, ma i rapporti di produzione della vita (materiale, affettiva, simbolica eccetera).

Nondimeno, resta il fatto che la rivoluzione comunista può trionfare solo a condizione di trascinare in tempi più o meno brevi delle larghe masse, nutrendosi del loro intervento a tutti i livelli della vita sociale (cfr. "Rivoluzione politica e sociale"). Al contrario, una "rivoluzione" che si contrapponga sistematicamente agli operai, che debba domare degli scioperi, che non cambi nulla o quasi quanto al contenuto della società (sta li l’essenziale), si negherebbe come rivoluzione proletaria. Questo è quanto accadde in Russia, ma non capovolgiamo la spiegazione. é perché la società non era stata messa sottosopra che il partito bolscevico fini per imporre la dittatura di uno Stato non proletario, non comunista, che poteva sopravvivere solo sviluppando il salariato: dunque uno Stato capitalista. Gli insorti di Kronstadt non erano certamente comunisti, ma coloro che li massacrarono agivano autenticamente da anticomunisti, reprimendo un movimento elementare in nome di una dittatura del proletariato che esisteva giusto di nome (poco importano le intenzioni e il moralismo, a noi alieno). Né Kronstadt né lo Stato bolscevico rappresentavano la rivoluzione comunista: semplicemente la lotta di classe proseguiva nelle sue forme elementari, talora con le armi. La Sinistra italiana negava la realtà delle lotte operaie con il pretesto che il potere sarebbe restato "proletario". Un potere è rivoluzionario solo se favorisce la rivoluzione all’interno e all’estero: non era questo il caso (cfr. il corso di destra impresso all’Internazionale Comunista (che se lo lasciava imporre (dai bolscevichi). Contrariamente a quanto affermato da Bordiga90 dopo il 1945, la rivoluzione russa crollò nella violenza contro i proletari (repressione, lotta antisciopero, campi, processi staliniani eccetera). Gli operai avevano preso il potere nel ‘17 e l’avevano perduto abbastanza velocemente, definitivamente nel ‘21, ma per l’essenziale già prima.

L’aspetto borghese fu quasi sempre presente nel bolscevismo e in Lenin, che erano profondamente contraddittori91. Tali aspetti avrebbero potuto cancellarsi in caso di rivoluzione mondiale: al contrario, la sconfitta li accentuò. Ma questa non fu la causa decisiva dell’involuzione (Bordiga) della rivoluzione russa: per quale ragione i proletari l’accettarono? Fare dell’antileninismo sistematico, significa falsare la prospettiva e impedirsi la vera critica: quella della natura del movimento sociale di quell’epoca, della sua parzialità. Hennaut era ancor meno capace di questa critica di quanto non lo fosse Bordiga, il quale l’aveva solo intuita.

La grande differenza tra la Ligue des Communistes Internationalistes e l’Union Communiste a proposito della Spagna, è che la Ligue attribuiva la massima importanza all’evoluzione interna del Paese e non alla pressione internazionale (soprattutto russa), come fattore di rafforzamento della controrivoluzione nella penisola iberica. Nel novembre ‘36, dopo aver mostrato gli effetti del non-intervento, Hennaut si domandava "Où va la Révolution espagnole?"92:

"La modificazione essenziale si è prodotta sul fronte interno della rivoluzione spagnola. Il governo madrileno, che resta il governo capitalista spagnolo è riuscito, grazie all’appoggio dei socialisti e dei comunisti, a riprendere saldamente in mano le redini del potere che per un attimo erano sembrate sfuggirgli. Le milizie operaie operano docilmente agli ordini dei quadri militari governativi [...]. La partita non è ancora completamente perduta, ma le posizioni degli operai spagnoli sono state fortemente compromesse. Cosi sono state realizzate le condizioni per il riassorbimento della rivoluzione nella mischia generale degli imperialismi che è in preparazione".

Anche quando ritennero, dopo il maggio ‘37, che la guerra di Spagna avesse acquisito un carattere imperialista, gruppi come l’Union Communiste o la Ligue esitarono a lanciare la parola d’ordine del "disfattismo rivoluzionario". Un tale appello non poteva avere che un valore di principio (cfr. il ¤ "Questione nazionale"). La Sinistra italiana aveva la tendenza a vivere una ripetizione generale del 1914-’18, e a ragionare nei termini della sinistra di Zimmerwald. Questa illusione andava molto al di là di un semplice errore di valutazione del periodo. Certo, questa corrente poté credere a una possibile ripresa del movimento, dopo, o durante lo scatenamento della futura Seconda Guerra mondiale. Il cambiamento della testata di "Bilan" in "Octobre" nel ‘38 era tutto un programma. Sulla copertina di "Bilan", si poteva leggere, ripetuto numerose volte: "Lenin 1917 (Noske 1919 (Hitler 1933". Era la rivista di resistenza in un contesto "storicamente sfavorevole". "Octobre" traduceva sicuramente l’idea (o piuttosto, la speranza) del passaggio a un’altra fase.

Ma c’è di più. La Sinistra comunista, comunque, non poteva giocare nuovamente il ruolo della sinistra socialista dopo il 1914. Il disfattismo rivoluzionario corrispondeva nel 1914 all’atteggiamento di almeno una frangia del proletariato, e si esprimeva attraverso canali limitati ma reali. Interi partiti (il partito bolscevico e quello serbo), numericamente deboli ma ben radicati, rifiutavano l’Unione Sacra. La situazione era tutt’altra alla fine degli anni Trenta. La differenza non era quantitativa bensi qualitativa. La Sinistra comunista era separata dal "movimento operaio", non aveva li le sue radici, non vi disponeva né di alcun contatto serio né di appoggio. A differenza dell’estrema sinistra socialdemocratica dopo il ‘14, la Sinistra comunista si confrontava con delle organizzazioni operaie integrate nel capitale, e nelle quali non rimaneva alcuna minoranza proletaria. Tutta l’attività della Sinistra italiana è attraversata fino a oggi dal mito (mutuato dall’Internazionale Comunista) della ri-formazione di un "vero" movimento operaio. Vi è l’idea di ricostruire le stesse organizzazioni operaie (economiche e politiche con la divisione sindacato-partito), su nuovi principi (di lotta di classe) stavolta, senza comprendere che la rinascita proletaria si farà diversamente (il che non implica un cambiamento totale, o altrimenti bisognerebbe dimostrare che capitale e proletariato hanno cambiato di natura, la qual cosa non è).

LA SINISTRA TEDESCA

Come la Sinistra "italiana", la Sinistra "tedesca"93, allora attiva soprattutto nel Paesi Bassi e negli Stati Uniti, indicava nel fascismo una tendenza del capitale, accelerata da tutti coloro che si ponevano nella sua logica, a cominciare dai democratici. "International Council Correspondance", rivista animata da Paul Mattick, dedicò numerosi articoli alla dimostrazione che il fascismo esisteva nei Paesi democratici, tra gli altri negli usa. "International Council Correspondance" scriveva nel settembre 1935: "Il vecchio movimento operaio si appresta a sbarazzarsi del fascismo, incorporandoselo", e denunciava "i concorrenti del fascismo". Poi in dicembre: "Di tutti i controrivoluzionari effettivi e potenziali, i più spregevoli sono senza alcun dubbio i socialisti"94. La rivista commentò cosi le elezioni del 1936 in Francia95:

"Vi sono sconfitte che sono vittorie e vittorie dietro cui si nasconde la sconfitta [...]. In realtà, gli operai francesi hanno subito la loro prima sconfitta decisiva nella lotta contro il capitale [...]. Chiunque vuole lottare contro il fascismo deve oggi lottare contro Blum e il Fronte Popolare. Si deve affermare questa verità, che la "vittoria" francese è in realtà l’inizio di una serie di sconfitte. Gli operai sono sulla cattiva strada; con Blum e Thorez, marciano dritti verso il fascismo".

Ma l’analisi degli avvenimenti spagnoli successivi al luglio ‘36 trascurava ciò che era accaduto nel luglio propriamente detto. Secondo il numero dell’ottobre di quell’anno96, il problema non era che le milizie fossero integrate o no nell’esercito regolare ma piuttosto cosa restasse (e in quale proporzione) delle milizie la cui attività non s’integrava nella difesa dello Stato come avrebbe fatto un esercito regolare. Se avessero vinto i nazionalisti, gli operai sarebbero stati annientati: "Ma anche la loro sconfitta non può modificare la situazione, che è obiettivamente matura per la rivoluzione". Il numero seguente (novembre 1936) riproduceva un appello della FAI che chiedeva armi.

Per scrupolo di democrazia operaia, la Sinistra tedesca arrivava a tralasciare le nozioni elementari sulla natura della rivoluzione. Si preoccupava maggiormente del margine di autonomia che poteva ancora restare ai proletari, malgrado l’adesione delle milizie allo Stato, che non dell’adesione stessa. Il suo antiboscevismo sistematico e il suo formalismo antipartito la accecarono al punto di farle vedere nell’anarchismo spagnolo una forma di organizzazione che, malgrado i suoi difetti, serviva da quadro a un’attività proletaria autentica. Paragonando per di più il poum ai bolscevichi (!), "International Council Correspondence" vide anche nella CNT catalana "una forza rivoluzionaria": falsità flagrante tanto più grave dal momento che questa valutazione fu fatta nell’aprile 1939, allorché ogni informazione disponibile provava il contrario. Il pregiudizio antipartito condusse la Sinistra tedesca a rinunciare a uno dei suoi contributi decisivi: la critica dei sindacati. Perché cos’era la CNT se non una centrale sindacale? A questo riguardo "International Council Correspondance" era indietro rispetto all’Union Communiste e alla Ligue belga. Ma, come questi gruppi, la prima vide velocemente risalire la potenza della controrivoluzione, e nel marzo 1937 scriveva:

"Ciò che si è svolto fino a oggi ha più il carattere di una necessità imposta dalla guerra, di un controllo della produzione per assicurare la guerra, che di un’autentica socializzazione. [...] Il socialismo non è ancora stato instaurato in Spagna, e non vi si sviluppa maggiormente. Per farlo, bisognerebbe approfondire la rivoluzione; attualmente non ci si sforza che di assottigliarla".

"International Council Correspondance" pubblicò una critica severa dell’anarchismo, ma l’autore dell’articolo vedeva lo scacco anarchico nella concezione economica del socialismo, non nella questione del potere politico97. H. Wagner se la prendeva con la "falsa" gestione operaia e con la "cattiva" soppressione della legge del valore da parte della collettivizzazione anarchica: solo l’organizzazione in Consigli, dice Wagner riprendendo le tesi dei Principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista, avrebbe permesso il calcolo del tempo di lavoro sociale necessario alla produzione dei beni. Come abbiamo già esposto, questa concezione ebbe l’enorme merito di porre nuovamente l’esigenza della distruzione dell’economia mercantile e del valore, in un’epoca nella quale, per esempio, la Sinistra italiana ignorava la questione. Ma la considerava sulla base delle nozioni da criticare98. Paradossalmente un tale sistema rimette in vigore ciò che vuole annientare: il tempo di lavoro sociale medio non è altro che la sostanza del valore e la base del capitale. La sua produzione è il regolatore della società capitalista. La Sinistra tedesca vorrebbe sostituire alla sua azione spontanea e anarchica, un calcolo cosciente infine possibile grazie ai Consigli operai, i soli in grado di conoscere (esattamente e senza la deviazione della moneta) la quantità di lavoro sociale medio materializzato in ogni prodotto.

Soprattutto, questa tesi rivela una concezione molto economicista della rivoluzione, nella quale si tratterebbe prima di tutto di fondare le basi di un’economia razionale, pianificata. A quell’epoca, nessuna corrente della Sinistra comunista arrivò a porre il problema.

La Sinistra tedesca negava la questione politica (che "Bilan" metteva al centro della sua analisi e finiva per privilegiare (cfr. il ¤ "Rivoluzione politica e sociale"). La critica degli anarchici da parte di Wagner non si accompagnava ad alcuna analisi del luglio ‘36. La questione dello Stato era elusa. Se le trasformazioni sociali erano colte bene da "International Council Correspondence" nella loro diversità, il potere politico non veniva visto nella sua unità (e innanzitutto nella sua esistenza concentrata sotto forma di Stato. Wagner raggiungeva la posizione anarchica. Assimilava la rivoluzione a un’emancipazione generale privata di centro di gravità (il solo fattore di unificazione essendo a livello economico): "per organizzare il potere contro la borghesia", gli operai avrebbero dovuto "per prima cosa liberare le loro organizzazioni di fabbrica dall’influenza dei partiti e dei sindacati ufficiali". La questione del potere era compresa nella sua estensione a tutta la società, non come totalità.

Karl Korsch analizzò la guerra di Spagna su questa rivista (divenuta "Living Marxism") nel 1938 e l’anno dopo99. Non solo non procedette ad alcuna critica di fondo della CNT-FAI, ma non trasse le conseguenze di ciò che mostrava pure lui stesso: la borghesia non aveva mai perduto il potere statale, che aveva subito piuttosto "un’eclisse momentanea". Il suo errore era di trasporre nel periodo rivoluzionario della sua vita la stessa concezione della rivoluzione come socializzazione progressiva, da lui sostenuta nel suo periodo riformista. Le misure non erano più le stesse, ma il meccanismo permaneva: i lavoratori avrebbero preso in mano i mezzi di produzione, questa sarebbe stata la rivoluzione; la questione del potere non aveva alcuna specificità e si effettuava un po’ dovunque in tutti gli organi della vita sociale. Il capitale veniva concepito più come modo di gestione che come modo di produzione, il comunismo più come organizzazione della produzione che come attività. La rivoluzione può manifestarsi come processo solo a condizione di essere anche rottura, compreso a livello politico. La Sinistra italiana ipertrofizza la politica, la Sinistra tedesca la dissolve nell’economia.

SINISTRA ITALIANA?

"Bilan" fu una delle migliori espressioni della Sinistra italiana100. Ma parlare di "Sinistra italiana" è una semplificazione che equivale, presso la maggior parte dei commentatori, a una deformazione, egualmente la "Sinistra tedesca" ricopre realtà complesse, anche all’epoca in cui questo termine designava un movimento sociale vivo, che riuniva concezioni e attività tanto diverse quanto quelle di Gorter, Rühle, Pannekoek. La "Sinistra italiana" viene spesso schiacciata dietro la persona di Bordiga, tanto da essere conosciuta, soprattutto in Francia, attraverso il suo rappresentante "ufficiale", il Partito Comunista Internazionale, che è esso stesso prima di tutto "bordighista": si richiama alla Sinistra italiana, ma dissimula ciò che non è nella linea di Bordiga, cosi come una buona parte dello stesso Bordiga. "Le Réveil Communiste" osservava già nel febbraio 1929: "Finisce che i bordighisti cadono in contraddizione con Bordiga...".

Bordiga non è che un aspetto, il più ricco, ma anche il più contraddittorio e perfino il più erroneo, della Sinistra italiana. I due elementi più profondi di Bordiga sono da una parte il suo anti-educazionismo e il suo materialismo, che percorrono tutta la sua opera malgrado forti tendenze contrarie (culminanti nell’idealizzazione del partito); e dall’altra la sua prospettiva del comunismo esposta a partire dagli anni Cinquanta101. Il movimento rivoluzionario rinascente da qualche anno attinge largamente a questa parte della sua opera. Ma questa "ripresa" teorica è anche una critica degli errori di Bordiga, che passa tra l’altro attraverso la conoscenza delle altre correnti della Sinistra italiana.

L’aggettivo "italiano" è impiegato in senso lato: l’emigrazione diede alla Sinistra italiana un carattere belga e francese. Alcuni elementi percepirono molto presto le insufficienze della Sinistra italiana senza poterne fare la critica (per esempio "Le Réveil Communiste"). Altri andarono più lontano. Si leggerà nel "Preambolo" un testo della Sinistra che riassume la sua storia (per come essa stessa la comprendeva) fino al 1930. La sua evoluzione ulteriore fu più complessa102. In ogni caso, la prima condizione per comprendere questa corrente è riconoscere la sua eterogeneità. Allo stesso modo in cui i consiliaristi degli anni Cinquanta e Sessanta ignoravano e/o nascondevano il proprio passato e il movimento reale di cui erano una lontana immagine spesso scialba, gli odierni rappresentanti ufficiali della Sinistra italiana, incapaci di conoscere la loro origine cosi come la loro realtà settaria, mascherano più o meno coscientemente il loro passato, e in particolare la rivista "Bilan". Una delle ragioni essenziali di questo atteggiamento tocca da vicino la questione spagnola. L’analisi della guerra di Spagna da parte di "Bilan" rimetteva in causa le tesi leniniste sull’imperialismo e sulla questione nazionale sviluppate da Bordiga.

QUESTIONE NAZIONALE

Per Bordiga, la fase di costituzione degli Stati nazionali era chiusa per l'Europa occidentale dopo il 1871. Ma la nascita di Stati nazionali nelle altre "aree" era progressiva, cioè favorevole alla lotta del proletariato, perché faceva vacillare l'imperialismo e sviluppava le forze produttive, dunque a termine la lotta di classe. A proposito della Spagna, "Bilan" partiva dalla nozione di un nuovo periodo aperto dal 1914-'18, quello della decadenza del capitalismo. Quest'ultimo non giocava più alcun ruolo progressivo, ormai non sviluppava le forze produttive se non provocando crisi e guerre; la formazione di nuovi Stati mirava solo a frammentare il proletariato in blocchi nazionali uniti alla propria borghesia. Certo, "Bilan" pubblicò sul n. 7 un testo di Bordiga sulla questione nazionale, e non procedette a un attacco in piena regola contro Lenin nello stile di Rosa Luxemburg. Ma considerava superata la tesi leninista adottata dall'Internazionale Comunista, e aveva delle riserve anche su Marx. Citiamo solo un estratto del Problème des minorités nationales, apparso sul n. 14 (dicembre-gennaio 1934):

"Il periodo di sviluppo del capitalismo, alla fine del XIX secolo, mette [...] in evidenza l'impossibilità di risolvere tutti i contrasti nazionali e più particolarmente il diritto dei popoli all'autodeterminazione, se non con la rivoluzione proletaria o con la guerra imperialista; ed è perciò che fino alla Prima Guerra mondiale si assiste (anche nei Paesi oppressi) a un'espansione della lotta di classe tra possidenti e non possidenti, e il problema nazionale appare unicamente come un'arma della borghesia oppressa per frenare la lotta del proletariato che le si solleva contro, cosi come per migliorare la propria situazione particolare di fronte al capitalismo oppressore.

Nel periodo dell'imperialismo (che si considera posteriore allo sviluppo mondiale e ingloba dunque anche i Paesi arretrati, che non possono essere avulsi da questo ambiente storico), il dilemma generale di tutte le situazioni è, come si sa, guerra o rivoluzione proletaria. Donde è inteso che non esiste altro epilogo a tutte le situazioni storiche che possono presentarsi: l'acutezza della lotta di classe da una parte, lo sviluppo delle forze produttive dall'altra, sopprimono ogni prospettiva di "soluzione intermedia". Il problema nazionale, posto in queste condizioni, limitato da questo periodo d'insieme, non poteva evidentemente più valersi di argomenti che potevano avere una certa importanza nel 1848".

"Bilan" non faceva molta differenza tra le aree euro-nord-americane e le altre, in particolare quelle che Bordiga avrebbe chiamato "i popoli colorati"103.

Uno dei punti sollevati da "Bilan" era l'integrazione forzata dei movimenti nazionali nell'orbita dei grandi conflitti imperialisti (Etiopia, Cina eccetera). Bordiga sarebbe ritornato su questo argomento. Secondo lui, si potevano appoggiare i movimenti di liberazione nazionale, anche se cadevano in un campo o in un altro. Dopo tutto, il disfattismo rivoluzionario del 1914 implicava un rischio di questo tipo: lavorando alla sconfitta del proprio Paese, ogni rivoluzionario rafforzava lo Stato nemico. Il disfattismo rivoluzionario era più che una posizione (il che obbligava anche a ripensare il fatto di lanciare una tale parola d'ordine in Spagna nel '36 (cfr. "La Ligue des Communistes Internationalistes")104. La sinistra di Zimmerwald concepiva il disfattismo rivoluzionario come un mezzo per accelerare il passaggio dalla guerra imperialista alla guerra civile. Effettivamente la condotta e le condizioni belliche determinavano nel 1916-'17 una rinascita della lotta di classe. Per Lenin, se una minoranza anche infima affermava questa posizione, non era "per principio", per "salvare l'onore", ma come compito che preparava l'avvenire, affinché nella ripresa radicale questo atteggiamento servisse a chiarificare e a polarizzare le posizioni. Ciò non poteva prodursi, a meno di un movimento nel resto del mondo, nell'Etiopia del 1936 o nel Vietnam del 1975. Il contesto internazionale era diverso. Le metropoli che si facevan guerra nel 14-18 influivano sul mondo. In Vietnam, il Nord e il Sud non facevano la loro guerra, ma quella di un blocco imperialista contro l'altro, benché la struttura sociale interna del Paese coinvolto servisse sempre da detonatore. Il proletariato vi era troppo debole, mentre quello del '14 era stato soffocato, non annientato. I proletari etiopici del '36 e vietnamiti del '75 non si scontravano solamente con la loro borghesia, ma con il capitale mondiale. Impossibile dunque il paragone con il '14.

"Bilan" insistette lungamente sul ruolo controrivoluzionario dei conflitti nazionali nei quali l'odierno Partito Comunista Internazionalista, più o meno bordighista, vede piuttosto delle "polveriere" pronte a esplodere in faccia alle metropoli capitaliste. "Bilan" pubblicò inoltre degli articoli economici tentando di scernere tra le teorie di Lenin e quelle della Luxemburg. Al riguardo, questa rivista andava verso posizioni vicine alla "Sinistra tedesca" che, come la Luxemburg, vedeva nei movimenti di autodeterminazione nazionale degli ostacoli alla lotta del proletariato. Sarebbe assurdo incollare l'etichetta "Sinistra tedesca" sull'attività di questa corrente della Sinistra italiana di allora. Ma essa cercava di superare i limiti leninisti entro cui il Partito Comunista d'Italia, indi la "Sinistra italiana" si erano bloccati. Riconoscendo le divergenze con la Sinistra tedesca, non la respingeva nella "palude" anarcosindacalista, e accolse sulla sua rivista alcuni dei suoi testi, tra cui il riassunto dei Principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista, già citato, e uno su Gorter. Si comprende come l'attuale Partito Comunista Internazionale abbia bisogno di far passare "Bilan" per una "piccola pubblicazione di emigrati italiani"105.

Aggiungiamo però che l'analisi della guerra di Spagna andava indirettamente a falsare le prospettive del gruppo che pubblicava "Bilan". Constatando a qual punto il capitale utilizzasse le lotte operaie a suo favore facendone dei conflitti capitalisti, ne dedusse che le guerre imperialiste future sarebbero nate come quella di Spagna dallo stornamento di offensive proletarie parziali, sottovalutando le contraddizioni propriamente economiche, anch'esse all'origine dei conflitti imperialisti. Questa tesi soggiacente e talvolta esposta in "Bilan" e "Octobre", in seguito venne sviluppata fin quasi al punto di divenire l'essenziale. Dopo il 1938, sovra-interpretando la Spagna, questo gruppo (che giocava allora con la sua azione un ruolo chiave sul piano teorico e organizzativo nel piccolo movimento della Sinistra italiana) concepi ben presto una teoria dell'"economia di guerra" ove le rivalità tra Paesi capitalisti tendevano a essere appianate, e arrivò ad aspettarsi una guerra solo da nuovi eventi paragonabili a quelli spagnoli. Come accade spesso, una grande lucidità di fronte alle possibilità di azione del capitale conduce, se si perde di vista la totalità, a dimenticare o a negare certe contraddizioni essenziali (cfr. "Riforma o rivoluzione").

Questa posizione non metteva i suoi protagonisti in una buona posizione per preparare la Sinistra italiana ad affrontare lo shock della guerra (nella quale, comunque, non avrebbe potuto avere, e non ebbe, se non un ruolo di chiarificazione teorica infimo, quasi a uso interno.

RIVOLUZIONE POLITICA E SOCIALE

"Bilan" aveva ragione d’insistere sulla necessità per la rivoluzione di distruggere l’apparato statale borghese, e di dedurne che non c’è rivoluzione fintantoché il proletariato non agisce in questa direzione. é vero anche che le misure di trasformazione economico-sociale restano vane senza distruzione dello Stato. Ma questa corrente concepiva ancora la rivoluzione comunista in maniera politica. Non arrivava a comprenderla come movimento sociale in cui la distruzione dello Stato e la costruzione di una nuova struttura di decisione vanno di pari passo con la comunizzazione della vita economica e sociale106. Concepiva questi due aspetti come dei momenti successivi: le sfuggiva la loro interazione. Capovolgeva la posizione riformista, centrista o anarchica, senza mutare problematica. Contro l’ottica che metteva in primo piano la socializzazione dell’economia, privilegiava la questione del potere: la rivoluzione sarebbe stata politica, prima, economica, poi.

La rivoluzione comunista deve anche affermare un potere, capace d’imporsi per combattere la borghesia e contemporaneamente unificare il movimento rivoluzionario. Per esempio, non fu l’aver praticato una guerra frontale che condusse al crollo del movimento rivoluzionario spagnolo. é perché era già battuto che si lasciò bloccare in una guerra di questo tipo, e vi mori. Ma il "potere rivoluzionario" sarebbe solo una forma vuota se non trasformasse al contempo la natura della società. Non può esistere se non come strumento di questa trasformazione. Se la rivoluzione dev’essere politica, dapprima, sociale, poi, creerebbe un potere senz’altra funzione che la lotta contro la borghesia, funzione negativa, di repressione dunque. Si pensa che una rivoluzione comunista (mondiale), dovendo estendersi per anni, lungo una generazione, continui a versare salari e a pagare merci durante tutto questo tempo?

Predicare la presa del potere come un preliminare, significa feticizzare il potere, dimenticare che lo Stato è anche la risultante della società, e teorizzare l’instaurazione di un sistema di organizzazione e di controllo che non poggia su altro contenuto se non la sua pretesa comunista, la sua "volontà" di realizzare il comunismo, quando sarà abbastanza forte per farlo. Al contrario, se la rivoluzione è contemporaneamente processo economico e politico, come secondo il KAPD, la comunizzazione dei rapporti sociali impedisce a ogni gruppo particolare di erigersi come nuovo potere sulla società. Il mantenimento, anche provvisorio, dell’economia mercantile e capitalista, favorirebbe la nascita di uno strato di specialisti del potere, che utilizzano l’ideologia rivoluzionaria per fabbricarsi una legittimità. La loro sola ragion d’essere sarebbe la loro professione di fede comunista. La caratteristica della politica è di non potere (e dunque volere) cambiare nulla circa la natura della società; la politica riunisce ciò che è separato senza andare oltre. Il potere è li, gestisce, controlla, rassicura, reprime, ecco tutto107.

Il dominio politico (nel quale la tradizione teorica anarchica di ieri e di oggi vede il problema essenziale) poggia sull’incapacità dei proletari a prendere in mano e organizzare la loro vita, la loro attività. Esso regge solo a causa dello spossessamento radicale che caratterizza il proletario. Quando ciascuno parteciperà alla produzione della propria esistenza, i mezzi di pressione e di oppressione di cui dispone lo Stato diverranno inoperanti. é perché il salariato ci priva dei mezzi per vivere, produrre, comunicare, arrivando fino a rivelarci esso stesso le nostre emozioni (mass media eccetera), che il suo Stato è onnipotente. Concepire la distruzione dello Stato come una lotta armata contro la polizia e le forze militari, è prendere la parte per il tutto. Il comunismo è prima di tutto un’attività. Un sistema in cui gli uomini producano la loro propria esistenza sociale paralizza ogni potere separato. In una futura rivoluzione comunista, la reazione si ritroverà, come d’abitudine su parole d’ordine di "organizzazione" e di "potere democratico" per meglio paralizzare il movimento. Per contro, i rivoluzionari affermeranno la necessità (tra le altre) di misure comuniste concrete.

La comunizzazione è necessaria al trionfo della rivoluzione. Lo Stato capitalista non potrebbe essere distrutto mediante un’azione esercitata solo contro le sue strutture statali: quest’azione molto probabilmente fallirebbe. Il proletariato riuscirà solo se attiverà la propria funzione sociale contro il capitale, utilizzando anch’esso l’economia come arma, dissolvendo i rapporti economici capitalisti, scalzando le basi sociali del nemico. L’estensione geografica del movimento sarà un processo tanto sociale ed economico quanto militare. Compiti positivi e negativi si condizioneranno reciprocamente.

"Non si dica che il movimento sociale esclude il movimento politico. Non vi è mai movimento politico che non sia sociale nello stesso tempo."108

La Spagna frenò la chiarificazione all’interno di gruppi come l’Union Communiste e la Ligue belga. Ma la fissazione sulla questione politica, messa in rilievo con la guerra di Spagna, bloccò egualmente lo sviluppo teorico della Sinistra italiana, che avrebbe mantenuto essenzialmente una concezione "a fasi successive" della rivoluzione (politica, poi economica).

Per questa ragione, la comprensione dell’involuzione russa sfuggi alla Sinistra italiana e anche a coloro che ne uscirono su delle basi rivoluzionarie, come "Internationalisme" dopo il 1945 (cfr. "La Ligue des Communistes Internationalistes"). Dopo l’ottobre ‘17, la Russia offriva, infatti, un eccellente esempio di degenerazione del potere nell’assenza di rivoluzione sociale. Non possiamo approfondire qui perché la comunizzazione della Russia fosse impossibile. In ogni caso, l’isolamento internazionale e l’arretratezza economica non spiegano tutto (a meno di dimenticare la prospettiva tracciata da Marx (e, forse, applicabile dopo il ‘17, in un altro contesto) di rinascita in una nuova forma delle strutture agricole comunitarie non ancora assorbite dal capitale109. Comunque sia, il potere bolscevico è la migliore illustrazione di quel che accade a un potere che è solo potere.

In perfetta buona fede e molto logicamente, lo Stato bolscevico dovette mantenersi, a tutti i costi (nella prospettiva della rivoluzione mondiale dapprima, per se stesso in seguito, e solamente in seguito), e non ebbe altra soluzione se non la coercizione. Beninteso, gli aspetti borghesi della teoria e della pratica bolsceviche ebbero il loro ruolo, ma quest’ultimo non fu determinante, se paragonato alla situazione oggettiva di questo Stato obbligato a "tenere" senza cambiare granché delle condizioni di vita reali. Rapidamente il problema numero uno divenne la necessità di restare al potere, di preservare bene o male l’unità di una società che andava in pezzi. Donde, da una parte, le concessioni alla piccola proprietà contadina (che allontanavano ancor più dal comunismo), seguite dalle requisizioni; dall’altra, la repressione antioperaia e contro l’opposizione politica dentro e fuori il partito.

Hennaut, mostrando i limiti dell’esperienza russa, e "Bilan", rivendicando senza posa l’esempio "riuscito" dell’ottobre ‘17 (opposto al fallimento del luglio ‘36), avevano torto e ragione entrambi. Da un punto di vista puramente negativo, "Bilan" vide correttamente ciò che non era avvenuto in Spagna. Da un punto di vista positivo, sui caratteri di una rivoluzione comunista futura, "Bilan" s’ingannò alla stessa stregua di Hennaut, perché contrapponeva il fine al movimento. Non uscirono dal dilemma leninismo-antileninismo. Oggigiorno si arriva al fatto che gruppi come "Révolution internationale" sanno pressappoco ciò che la rivoluzione deve distruggere, ma non cosa deve fare per potere distruggerlo. La vera critica è quella che considera il movimento proletario in funzione del comunismo, non concepito come "programma", bensi contemporaneamente come rottura e processo.

Non c’è da stupirsi che i redattori di "Bilan" siano passati a fianco di questo punto centrale. I movimenti dopo il ‘17 non raggiunsero quasi mai lo stadio pratico che avrebbe obbligato i comunisti a integrare questo aspetto nella loro visione teorica. Le discussioni di allora per la maggior parte giravano intorno a polemiche di organizzazione, senza cogliere il contenuto comunista della rivoluzione. Anche quando la Sinistra tedesca considerò il comunismo, fu per immaginare un’altra organizzazione della produzione.

La capacità proletaria di autorganizzazione e di cambiamento anche immediato è indispensabile alla rivoluzione. Marx scrisse a proposito della Spagna che ogni rivoluzione implica un certo grado di "anarchia" (iniziative in tutti i campi). Ma fallisce senza la sua dimensione mediata (il problema del potere).

FORZA E DEBOLEZZA DEL COMUNISMO IN SPAGNA

Ossessionata dalla questione dello Stato, che peraltro un articolo di "Octobre" considerava in modo abbastanza differente, in particolare a proposito della Russia e di Kronstadt110, la Sinistra italiana non cercò di spiegare l’ampiezza delle "socializzazioni" industriali e agricole, nelle quali "Bilan" tendeva a vedere solo un soffocamento dei proletari (il che era vero), e non l’apparizione di un movimento sociale suscettibile, in altre condizioni, di avere un effetto rivoluzionario. é altrettanto importante indicare le condizioni (specifiche per ciascun tipo di sviluppo capitalista) delle trasformazioni sociali da operare attraverso la rivoluzione comunista, che stigmatizzare le false soluzioni. Denunciare la controrivoluzione senza enunciare anche le misure positive e il loro radicamento in ogni situazione, significa agire in modo puramente negativo. Il partito (o la "frazione") non è una cesoia.

Marx notò la tradizione spagnola di autonomia popolare e lo scarto tra il popolo e lo Stato, che esplosero nella guerra contro Napoleone e nelle rivoluzioni del XIX secolo. La monarchia assoluta non aveva mescolato gli strati sociali per generare uno Stato moderno, in compenso vi era una vitalità nata dalle forze vive del Paese. Napoleone aveva potuto vedere "nella Spagna un cadavere senza vita": "Ma se lo Stato spagnolo era ben morto, la società spagnola era piena di vita"111. La crisi della società spagnola negli anni Trenta (forma esplosiva della crisi del capitale in un Paese ove esso era economicamente debole (prese l’aspetto di una crisi dello Stato (si sa che il fascismo trionfò in Paesi la cui struttura nazionale era fragile, l’unificazione recente e le tendenze autonomiste vivaci). Marx osserva che in Spagna,

"ciò che chiamiamo Stato nel senso moderno della parola si materializza veramente solo nell’esercito, a causa della vita esclusivamente "provinciale" del popolo"112.

Nel xx secolo, questa crisi dello Stato fece insorgere un movimento sociale ai margini del potere politico, le cui realizzazioni potenzialmente comuniste furono riassorbite dallo Stato, perché lo lasciarono sussistere. I primi mesi dopo il luglio ‘36 danno l’impressione di un’esplosione della società spagnola, in cui ogni regione, comune, impresa, collettività, municipalità sfuggiva allo Stato senza attaccarlo e incominciava a vivere diversamente. L’anarchismo (e anche il POUM regionalista (esprimeva all’interno del movimento operaio questa originalità spagnola, che viene ignorata se vi si vede solo il fatto negativo del "ritardo" dello sviluppo industriale. La guerra di Spagna dimostrò al contempo il vigore rivoluzionario delle relazioni e delle forme comunitarie non ancora sottomesse al capitale, e il loro fallimento totale nel garantire da sole una rivoluzione. In assenza di un assalto contro lo Stato e dell’instaurazione di rapporti differenti a livello della società tutta, erano condannate a un’autogestione parcellare che conservava il contenuto e persino le forme del capitalismo (per esempio, la divisione tra le imprese).

Delle misure comuniste avrebbero potuto scalzare le basi dei due Stati (repubblicano e nazionalista), non foss’altro che cominciando a risolvere la questione agraria: negli anni Trenta, "più della metà della popolazione era [...] costantemente denutrita"113. Una forza sovversiva zampillò, spingendo avanti gli strati sociali più oppressi e più lontani dalla "vita politica" (come le donne), ma non poté andare fino in fondo, prendere le cose alla radice.

Il movimento operaio dei grandi Paesi industriali corrispondeva allora a delle vaste zone socializzate dal dominio reale del capitale sulla società, ove il comunismo era al tempo stesso più vicino grazie allo sviluppo economico, e più lontano a causa della dissoluzione mercantile di tutte le relazioni. Le aspirazioni comuniste apparsevi (Germania 1918-’21) tentarono di unificare delle "regioni industriali"114, benché non raggiunsero mai lo stadio in cui avrebbero potuto darsi questo obiettivo come compito possibile. Il movimento operaio di un Paese come la Spagna rimase tributario di una penetrazione più quantitativa che qualitativa del capitale nella società, e ne trasse la propria forza e la propria debolezza. L’autonomismo anarchico rispondeva a una situazione di repressione e di miseria materiale, essendo spesso gli operai troppo poveri per pagare delle quote regolari. La CNT non ebbe mai un apparato come le altre centrali: nel 1936 solo un segretario veniva remunerato115, il che non impediva il burocratismo. Più nel profondo, l’anarchismo spagnolo rinnovava un ideale morale e religioso (realizzare il paradiso sulla terra), cercando di "ricreare le vecchie condizioni agrarie"116.

"Nel corso degli ultimi cento anni, non c’è stata in Andalusia una sola sollevazione che non abbia portato alla creazione di comuni, alla divisione della terra, all’abolizione della moneta e a una dichiarazione d’indipendenza [...] l’anarchismo degli operai non è molto differente. Anch’essi domandano prima di tutto la possibilità di gestire essi stessi la loro comunità industriale o il loro sindacato, poi la riduzione dell’orario di lavoro e una diminuzione dello sforzo di ciascuno"117.

L’anarchismo è da una parte l’espressione falsata (perché teorizza un momento, prendendolo per il tutto) di un movimento rivoluzionario esso stesso parziale, dall’altra è una risposta allo sviluppo politico necessario del capitale spagnolo. Risposta impossibile perché la mancanza di dinamismo faceva del federalismo un’arma separatista per le regioni periferiche più moderne, e perché la combattività proletaria escludeva ogni "partecipazione" assennata degli operai al loro sfruttamento. Lo Stato spagnolo non riusciva né a sviluppare l’industria, né a estrarre dall’agricoltura i profitti necessari, né a domare i proletari, né a unire le regioni. Il giudizio di Marx secondo cui un governo "dispotico" coesisteva con una mancanza di unità, che giungeva fino a monete e a regioni fiscali differenti (nel 1854)118, rimaneva in parte valido negli anni Trenta.

Prima di essere lo strumento dello sviluppo delle forze produttive capitaliste, lo Stato è innanzitutto il garante dell’unità sociale capitalista, anche a costo di una relativa stagnazione economica. Non è spinto da una fatalità capitalista che lo condannerebbe in ogni momento all’industrializzazione. L’equilibrio tra le classi domina la sua azione. La forza dell’analisi di "Bilan" è, tra l’altro, di dare la giusta importanza al rapporto reale tra le classi, e non al principio astratto dello "sviluppo del capitale" concepito come cieca necessità.

Il movimento operaio spagnolo riformista (CNT compresa), nella linea dei movimenti precedenti, proponeva un’associazione capitale-lavoro. Più vicina alle realtà collettive, la CNT la concepiva in modo decentralizzato. Uno storico preoccupato di risolvere la crisi dello Stato spagnolo interpreta il luglio ‘36 (di cui ignora la portata rivoluzionaria) come "un nuovo slancio dell’impulso rinnovatore delle masse"119. Una modificazione sociale (in particolare economica) avrebbe fatto sèguito al cambiamento politico del 1931. Brenan, che privilegia il punto di vista del movimento sociale, dà questo giudizio:

"Si può dire che questa fu la fase sovietica della rivoluzione spagnola. E, tuttavia, penso che si avrebbe torto a considerarla come un fenomeno puramente rivoluzionario, nel senso in cui generalmente questa parola è intesa. Già a più riprese nel corso della sua storia, il popolo spagnolo aveva scavalcato governi deboli e timorosi, per prendere in mano la direzione degli affari del Paese. Era dunque naturale vedere rinascere le giunte del 1808, sotto forma di Comitati di lavoratori, dal luglio all’ottobre 1936"120.

La potenza delle aspirazioni rivoluzionarie impediva questo programma di "rinnovamento" del capitale, ma la loro confusione non lasciava spazio se non al "fascismo", che operò un "rinnovamento" autoritario, dall’alto, verticale. Uno dei segni di debolezza delle socializzazioni, fu il loro atteggiamento di fronte alla moneta121. La "scomparsa della moneta" ha senso solo se è più che la sostituzione di uno strumento cattivo con uno migliore (per esempio, i buoni di lavoro). Secondo un progetto di operai e ingegneri cenetisti del settore tessile della fine del ‘36: "Il sistema monetario è un sistema di misura e di comparazione del valore delle cose, esattamente come il sistema metrico è un sistema di misura e di comparazione delle cose"122. "Socialisme ou Barbarie" avrebbe ridotto pure la relazione mercantile a uno strumento di contabilità, e l’analisi marxista del valore a un semplice concetto operativo, dimenticando che essa è l’astrazione di un rapporto reale. Si fa cosi del socialismo un’altra gestione123. Una rivoluzione comunista farà scomparire la moneta solo abolendo lo scambio stesso come rapporto sociale.

Il fallimento dei tentativi anti-mercantili non fu dovuto al dominio dell’UGT (ostile alle collettivizzazioni) sulle banche: come se l’abolizione del denaro fosse prima di tutto una misura del potere centrale. La chiusura delle banche private e della banca centrale sarebbe rivoluzionaria solo in un movimento d’insieme in cui si organizzino una produzione e una vita non mercantili, che ben presto conquistino tutti i rapporti sociali. Di fatto, solo delle collettività agricole fecero a meno del denaro, ma spesso utilizzando monete locali124. Anche i buoni servivano da "moneta interna"125. Il comunismo è la fine di ogni remunerazione126, il che non significa fine di ogni calcolo127.

Apparvero delle tesi comuniste, come il riequilibrio città-campagna: "ridurre la Barcellona infetta e le altre grandi città a proporzioni più accessibili, senza congestione né pletora"128. Anche il capitale può prendere tali misure, come in Cambogia nel 1975. Su di un piano generale, l’esperienza spagnola fa parte di un insieme nel quale l’attività autonoma dei lavoratori è ripresa dal capitale, dal momento che non va al di là di quest’ultimo.

RIFORMA E RIVOLUZIONE

Altra stigmata del periodo successivo al ‘17 in "Bilan": la Sinistra italiana attribuisce una grande importanza al sindacato come luogo di lotta e di raduno degli operai. Ora, si tratta meno dei sindacati per se stessi che della natura delle lotte condotte dagli operai. Secondo la Sinistra italiana, poiché le rivendicazioni, anche elementari, implicano un’opposizione tra borghesia e proletariato, è solo su questo terreno che la lotta di classe potrà rinascere e sviluppare, con l’aiuto delle minoranze comuniste, gli organi di lotta del proletariato in quanto tale. La posizione di "Bilan" e di "Octobre" insisteva sulle lotte immediate affinché l’opposizione proletariato-borghesia vi fosse stagliata quanto più possibile, giacché provvisoriamente ogni azione di ampiezza propriamente politica era esclusa. Le azioni di massa erano inevitabilmente sviate nel senso del Fronte Popolare. Al contrario, "le battaglie rivendicative" facevano sorgere un "contrasto organico",

"perché allora diviene impossibile sopprimere l’antagonismo tra l’agente del nemico e le rivendicazioni di classe degli operai ancorate nell’antagonismo superiore che oppone sul fronte economico il proletariato e la borghesia"129.

Questa concezione suscita due tipi di obiezioni. La prima è la più semplice perché concerne il sindacato. La Sinistra italiana non poté effettuare la critica teorica e pratica fattane dalla Sinistra tedesca, e ignorò la natura controrivoluzionaria del sindacato. Ma questa questione ne introduce un’altra, più profonda.

L’argomento comprovante il carattere "operaio" (e potenzialmente rivoluzionario) del sindacato parte dall’idea che l’organizzazione sindacale, quale che possa essere la sua integrazione nel capitale e nello Stato, nondimeno affonda le proprie radici nei movimenti elementari dei proletari. A differenza dei partiti politici (socialisti, stalinisti eccetera). Secondo questa concezione, il terreno economico resta quello sul quale il compromesso capitale-operai sarà sempre precario, e può essere rimesso in discussione, perché si tratta degli interessi vitali dei lavoratori. Vi è nella Sinistra italiana e in Bordiga un formalismo operaio, persino un economicismo, cui viene a sovrapporsi l’idealizzazione del partito. La caratteristica di questa visione (ereditata dalla Seconda Internazionale e ripresa dalla Terza (è di non poter superare l’antinomia economico/politico.

A un a priori economico delle lotte rivendicative che non possono che spingere i proletari ad attaccare finalmente la società capitalista, viene ad aggiungersi un partito formato grazie al mantenimento dei "principi", che permette al movimento operaio elementare di passare a un livello superiore (politico) prendendo la direzione dei suoi organi economici e orientandoli nel senso rivoluzionario. Teorizzata all’estremo in certi testi di Bordiga e dell’attuale Partito Comunista Internazionale, questa posizione era presente, ma in modo meno esagerato, in "Bilan". La Sinistra italiana di allora intravide i limiti delle lotte economiche:

"Una cosa importa! Le vostre lotte rivendicative possono essere estratte dall’atmosfera sociale che le circonda. Detto altrimenti, per acquistare una funzione di classe, devono congiungersi alle lotte contro la guerra [...] tanto quanto contro le macchine belliche che il capitale vi invita a perfezionare per meglio stritolarvi domani. Se voi non lo fate, sarete assorbiti dalla "Nazione unificata" per la guerra e cesserete di essere la classe proletaria"130.

Non basta dimostrare che, nella fase di dominio totale del capitale, ogni organizzazione permanente di difesa del salario è condannata a divenire uno strumento di difesa del salariato. Il problema non è tanto a livello delle organizzazioni riformiste: è l’attività riformista degli stessi salariati a incatenarli al capitale.

Eppure l’esperienza immediata è sempre la condizione necessaria ma non sufficiente della rottura e della lotta contro il capitale e non più solo contro i suoi effetti. Le organizzazioni politiche che teorizzano le reazioni immediate vedendovi lo scopo o il contenuto del movimento comunista contribuiscono a fissare ancor più i proletari a questo livello. Ciò non toglie che l’esperienza proletaria si radichi sempre nei conflitti immediati. il primo atto potenzialmente rivoluzionario (cioè che prepara la rivoluzione) consiste nel sollevarsi contro ciò che si ha davanti. Determinante per una rivoluzione comunista futura (oggi come negli anni Trenta), è la capacità dei proletari di battersi contro le loro condizioni di vita e di lavoro, e al tempo stesso di non inchiodarsi a questo stadio. La difficoltà di un tale processo è evidente, ma si tratta di una contraddizione reale, storica, se cosi si può dire, imposta dalle situazioni rispettive del capitale e del proletariato dopo il 1914. Questa contraddizione genera una vera e propria crisi del proletariato, riflessa tra l’altro dalla crisi di tutti i gruppi rivoluzionari. Solo una rivoluzione potrebbe superare praticamente questa contraddizione (a meno che non ne resti prigioniera, fallendo.

La Sinistra tedesca, in particolare Gorter130 fin dal 1923, aveva visto che il movimento comunista era stato vinto dall’azione degli operai riformisti. In ciò, la Sinistra tedesca era paradossalmente meno "operaista" della Sinistra italiana. La maggior parte dei gruppi radicali si nascondono oggi questa realtà, spiegandola mediante l’"inquadramento" e la "mistificazione" degli operai da parte dei sindacati e dei partiti: ma questi partiti e questi sindacati donde traggono la loro forza e solidità? Per contro, degli elementi provenienti dalla Sinistra italiana da qualche anno sono stati talmente fascinati da questa realtà da dimenticare tutto il resto. Taluni rinunciano completamente ai concetti marxisti, facendo affidamento per una rivoluzione solo su di un’improvvisa apparizione della vita, fuori da ogni coerenza e da ogni quadro131. Altri conservano le nozioni essenziali di Marx, ma ritengono che gli operai in quanto operai si comportino come capitale variabile e dunque come parte integrante del capitale. La lotta di classe sarebbe il motore del capitale, la classe operaia la classe più capitalista di tutte, giacché gli operai costituiscono il corpo del capitale. Forse una grande crisi economica permetterà di uscire dall’impasse132. Queste analisi, gravate di tutto il peso delle nozioni ereditate dalla Sinistra comunista, traducono in "marxista" ciò che viene detto da lungo tempo in termini più semplici: gli operai sono integrati nel capitalismo.

Eppure il problema esiste. Non si può negarlo con l’aiuto di discorsi generici sull’intrecciarsi necessario della lotta rivendicativa e di quella rivoluzionaria, essendo la prima il mezzo per passare alla seconda. Cosa si direbbe di un rivoluzionario che nel 14-18 avesse rifiutato di pronunciarsi sulla funzione dei sindacati, con il pretesto che il problema non aveva niente di nuovo, che la realtà era più complessa di tutti gli schemi, e che i sindacati evolvevano (argomenti tipo quelli di Lenin e dell’Internazionale Comunista contro la Sinistra tedesca)? Si direbbe giustamente che tali considerazioni eludevano la questione.

In un periodo nel quale non si può più spiegare tutto con "il peso della controrivoluzione" (vecchia o nuova), non si può che interrogarsi sull’inesistenza o sulla scomparsa di ogni organismo operaio radicale di base dopo la lotta, cosi come sull’incapacità dei rivoluzionari a superare lo stadio di tutti i piccoli gruppi che somigliano più a delle case editrici e di diffusione che a un organo, anche modesto, di lotte effettive in un ambiente sociale qualsiasi. Non si può né vedervi il segno positivo dell’esistenza di un movimento comunista ancora sotterraneo ma pronto a sorgere in tutta la sua forza, né chiamare i lavoratori a "sviluppare la lotta" senza porsi la questione del terreno sul quale essi potrebbero ritrovarsi e agire in un senso rivoluzionario, né innalzare tra "rivendicazioni" e "rivoluzione" una barriera che porrebbe di nuovo la necessità di un salto, di un passaggio che non si sa come farebbe a maturare. La difficoltà (irrisolta (del movimento rivoluzionario dopo il 1914 fu di liberarsi dal quadro delle organizzazioni esistenti (sindacati e partiti) per agire in modo abbastanza ampio e coerente. Oggigiorno la difficoltà consiste nel rompere una disorganizzazione (in gran parte, ma non totalmente, inevitabile) per agire, venuto il momento. Come dopo il 1914, non abbiamo né ricette miracolose né garanzie di successo. La sola linea direttrice risiede, oggi come allora, nell’enunciazione, la più chiara possibile, del contenuto comunista e dei compiti positivi e negativi della rivoluzione.

Questa situazione non dipende dai "rivoluzionari", ma dalle condizioni generali in cui si trova il proletariato dopo le sconfitte seguite alla Prima Guerra mondiale. Essa determina un’immensa difficoltà per i proletari a organizzarsi senza entrare in un quadro (formale o no) di difesa dei salariati in quanto salariati; e per i rivoluzionari a organizzarsi in vista di un’attività collettiva al di là del tran-tran abituale. La teoria tende a non essere più la teoria di qualcosa, di un movimento sociale di cui la teoria fa parte nel senso che agisce con esso. Il suo linguaggio tende ad autonomizzarsi. Essa si limita a rinviare a questo movimento ciò che dice di esprimere, ma con cui intrattiene assai pochi legami, cosi come questo stesso movimento ne mantiene assai pochi tra le sue diverse componenti. In assenza di un’attività proletaria effettiva di cui le minoranze rivoluzionarie sarebbero parte integrante, taluni si compiacciono di "rappresentare" la classe e l’esortano invano alla lotta. Altri si rifiutano di sostenere questo ruolo, ma essi stessi si negano come prodotto ed elemento del proletariato, e si compiacciono nell’enunciazione della loro teoria, reinterpretando tutto sulla base del loro problema, cioè da un punto di vista particolare, incapace di comprenderlo come parte ed effetto della totalità133. L’atomizzazione dei proletari va di pari passo con la scissione della teoria del proletariato.

La guerra di Spagna (come negli stessi anni, ma in un contesto diverso, i duri scioperi negli Stati Uniti e la nascita del CIO) segnò la fine di un’epoca. Gli avvenimenti del 1917-’21 non furono che il momento più elevato (il cui interesse è per noi capitale) nella lunga serie delle lotte radicali iniziate prima del 1914, e che si sarebbe prolungata poi con i movimenti in Inghilterra (1926), in Cina (1926-’27), in Francia, in Spagna, negli usa e in molti altri Paesi, compresi dei Paesi "sottosviluppati". Sarebbe assurdo sostenere che la guerra di Spagna sprigionò gli ultimi bagliori di una classe operaia ancora radicale ma destinata a comportarsi d’ora in avanti come frazione del capitale. Ma chiuse l’epoca delle grandi lotte in cui esistevano ancora organizzazioni operaie non totalmente integrate nel capitale (CNT, POUM). Ogni passo mirante a "dare un’organizzazione" alla classe (o a che se ne dia una essa stessa) diviene caduco. Non ci si può più limitare a difendere delle "frontiere di classe", alla maniera di "Bilan", assumendo la nozione di classe in un senso ancora sociologico. Se gli operai (almeno una gran parte) giocano un ruolo chiave nella rivoluzione, non è ciò a caratterizzarla: la rivoluzione comunista non è l’egemonia operaia sulla società, ma la riappropriazione delle condizioni della vita, e la produzione di nuovi rapporti.

"Possiamo affermare che ereditiamo solamente le battaglie rivoluzionarie degli operai, mentre ciò che essi [i sindacati e i partiti] edificarono sul loro risultato non ci riguarda? Un simile metodo sarebbe empirismo [...]. Noi abbiamo ancora come primo compito quello di sottoporre a una seria analisi mezzo secolo di lotta di classe e non si può farlo dicendo: "accettiamo questo e respingiamo quello". [...] Se dunque, prima di tutto, si tratta di comprendere gli eventi passati e non di accettare parzialmente o in blocco la fase compiutasi della lotta operaia, non possiamo che ereditare esperienze, insegnamenti che acquisteranno tutto il loro valore nella sola misura in cui saremo capaci di tradurli nel linguaggio del nostro tempo [...]"134.

Gli ululati di Hitler e i piagnucolii di Blum appartengono al passato. Dittatura e antifascismo non ricopriranno mai più le forme desuete del periodo tra le due guerre, ma continueranno a prosperare come i fratelli nemici del capitale. Lotte sociali acute, ma che non giungano fino all’assalto decisivo contro il capitale, vedranno senza dubbio uno schieramento di forze entro due campi egualmente capitalisti, di cui l’uno potrà raggruppare la borghesia tradizionale, l’altro il capitale progressista e la sinistra spalleggiata dal gauchismo (come al meeting di Charléty in Francia, nel ‘68). In una situazione tesa, il conflitto potrà crescere fino alla violenza armata, senza pertanto mutare di natura.

L’antifascismo spagnolo brucia dalla voglia di rieditare oggi il Fronte Popolare del ‘36. Il PCE ne annuncia il colore: libertà politica per i partiti della democrazia borghese, repressione contro i proletari radicali. Esso chiede:

"il diritto per tutti i partiti, di sinistra e di destra, dico proprio di sinistra e di destra, di potersi esprimere normalmente". Ma "se dei gruppi proclamano la loro volontà di distruggere la democrazia, sarà compito della giustizia metterli fuori legge".

Realista, il PCE prevede per questo di fornire all’esercito "una tecnica e dei mezzi che gli permettano di svolgere il ruolo che la Nazione deve affidargli nel suo proprio interesse"135.

La posizione rivoluzionaria contro le forze politiche non può consistere in una ripetizione migliorata delle analisi della Sinistra comunista d’anteguerra. La loro insufficienza non deriva dal fatto che la situazione sarebbe cambiata di natura, bensi dal fatto che questa Sinistra era essa stessa già incapace di comprendere l’insieme del problema, di ricomporre la prospettiva comunista in tutta la sua ampiezza. é per questo che la sua risposta fu prima di tutto negativa. Essa indica i nemici della rivoluzione: il testo di Gorter del 1923 (cfr. la nota 130) era già costruito su questo piano, enumerando gli avversari del comunismo. Una semplice denuncia (integrata da un’esaltazione delle "lotte operaie") è oggi anacronistica. Riguarda alla fin fine solo coloro che denuncia e a cui s’indirizza (la sinistra e il gauchismo, quest’odierno "centrismo").

Il comunismo teorico può esistere solo come affermazione positiva della rivoluzione136.

NOTE

AVVERTENZA: Dei testi citati da Barrot, quando esistente, è stata indicata l’edizione italiana più recente. Capita cosi che le date di pubblicazione possano essere posteriori a quella di "Bilan". Contre-révolution en Espagne. 1936-1939.

1 Cfr. Auschwitz ovvero il Grande Alibi, gruppo della sinistra comunista, Torino, 1970 (da "Programme communiste", n. 11, 1960). L’opinione pubblica non rimprovera tanto al nazismo il suo orrore, giacché poi gli altri Stati e semplicemente l’organizzazione capitalista dell’economia mondiale hanno fatto morire di fame o nelle guerre altrettanti uomini quanti ne aveva uCCIsi o messi nei campi il primo. Gli rimprovera soprattutto di averlo fatto apposta, di essere stato coscientemente malvagio, di aver "deciso" di sterminare gli ebrei. Nessuno è "responsabile" delle carestie che decimano delle popolazioni, ma i nazisti, loro si, vollero sterminare. Per estirpare questo moralismo e quest’assurdità, è importante avere una concezione materialista dei campi di concentramento, dimostrando che non si trattava di un mondo aberrante o demenziale, e che al contrario obbediva alla logica capitalista "normale", applicata solamente a delle circostanze speciali. Nella loro origine cosi come nel loro funzionamento, i campi facevano parte dell’universo mercantile capitalista.

2 Boris Souvarine, in Bulletin Communiste, 27 novembre 1925.

3 Durante la guerra, centomila giapponesi furono internati nei campi negli Stati Uniti, ma non ci fu nessun bisogno di liquidarli.

4 Cfr. L’Humanité, 6 marzo 1972, cit. in Le Prolétaire, n. 124.

5 Cfr. il cap. "Il colpo di Stato di Kapp e l’insurrezione nella Ruhr", in Denis Authier (Jean Barrot, La Sinistra comunista in Germania, La Salamandra, Milano, 1981.

6 "De la politique", in Le Mouvement communiste, n. 5, ottobre 1973.

7 Sul caso particolare della Francia, cfr. l’opera collettiva Ph. Riviale (J. Barrot (A. Borczuk, La légende de la gauche au pouvoir. Le Front Populaire, La Tête de Feuilles, Paris, 1973. Questa raccolta contiene testi della Sinistra comunista degli anni Trenta, tra cui uno di "Bilan" sulla giornata del 6 febbraio 1934, e uno sulla Spagna della minoranza della Ligue des Communistes Internationalistes de Belgique (pp. 119-22).

8 Il n. 2 dei Cahiers du Futur, dedicato alla "dittatura" da J. Baynac, G. Guénan e P. Sorin, supera l’opposizione tradizionale fascismo-democrazia, ma a modo suo.

Invece di analizzare le condizioni nelle quali si formò la democrazia borghese, e i suoi rapporti ambigui con il movimento proletario, questa rivista celebra la lucidità di coloro (i controrivoluzionari del xix secolo, per esempio) che l’hanno sempre combattuta. Invece di spiegare la ripresa dei temi rivoluzionari da parte della controrivoluzione, si compiace nella descrizione di ciò che sulle sue pagine diventa un groviglio insensato. Il lettore ne esce con un sentimento di disgusto: ma verso cosa? verso la controrivoluzione? o verso la rivoluzione? l’una o l’altra o forse entrambe. Tutto è riassunto in questa frase della presentazione: "Comprenda chi può". Infatti.

Descrivere l’orrore senza cercare né indicare i mezzi per uscirne, non è l’ultimo rifugio dell’estetismo per la piccola élite che ha compreso che l’arte è morta? Il cinismo fa qui le veci della filosofia. La visione che emana da questo numero della rivista è quella, ahimè troppo conosciuta, di un mondo diviso in lupi e agnelli. I redattori amano confondere le tracce, ma essi dove sono? al di sopra della mischia, o da quale parte? Non serve a niente farsi forti della "rivoluzione" (naturalmente totale) quando non se ne indica per nulla il come. Al meglio, è un’esigenza morale. Al peggio, si accetterà ogni finimondo che sappia presentarsi come grande afflato, spinta brutale di forze oscure tanto più seducenti perché incomprese. Niente vieterebbe di accogliere un "fascismo" (cioè semplicemente il capitalismo!) per poco che appaia come un’avventura. L’essenza dell’elitismo non risiede in idee particolari, si circonda altrettanto bene di idee reazionarie quanto di tesi ultra radicali. Ciò che lo definisce, è prima di tutto una certa maniera di posare di fronte al mondo, di distinguersi dalla massa (nella quale, al contrario, i gauchisti vorrebbero tuffarsi). Poco importa qui che questo sotto-nietzschianismo corrisponda a un reale cinismo oppure mal celi uno smarrimento profondo.

Le illustrazioni tradiscono, con il pretesto di esorcizzarla, una fascinazione della violenza e della morte. Il minimo esigibile da ogni individuo o gruppo con pretesa rivoluzionaria è di rifiutare il ricatto della "barbarie nazista", della "repressione", del "martirio degli ebrei", o dei campi di concentramento russi, di cui la democrazia occIdentale c’inonda per persuaderci dei suoi benefici e farci dimenticare il suo versante totalitario. I "Cahiers du Futur" si limitano a capovolgere questa demagogia, ostentando l’atroce per... Per che cosa esattamente? Derisione di tutto, dunque anche della rivoluzione, questa rivista privilegia solo una cosa: il punto di vista lucido dei suoi redattori, che, loro si, hanno "compreso". Paradosso: il pensiero più di punta reinventa l’ossessione della filosofia occIdentale, e privilegia il "soggetto" che pensa e osserva il mondo, incapace di comprendersi come parte di questo mondo e certamente di trasformarlo in un senso rivoluzionario. Atteggiamento tipico della decadenza.

9 "Le Parti Communiste d’Italie face à l’offensive fasciste (1921-1924)", in Programme communiste, nn. 45-46-47-48/49-50, 1969-’71. Questa rivista del Partito Comunista Internazionale (cfr. la nota 102) si ostina a non fare la critica dei sindacati. Il Partito Comunista d’Italia (allora diretto dalla sinistra e da Bordiga) rifiutava il "fronte unico" politico ma tentava d’imporlo a livello sindacale. Su quest’epoca, cfr. Robert Paris, Histoire du fascisme, Maspéro, 1965, tomo I; e la "Revue Théorique du Courant Communiste Internationale", n. 2.

10 Citato in Programme communiste, n. 50, ottobre ‘70-marzo ‘71, p. 8.

11 "L’effondrement du parti social-démocrate autrichien", in Les Temps modernes, dicembre 1954.

12 Cfr. Communisme, n. 5, 15 agosto 1937, in Ph. Riviale (J. Barrot (A. Borczuk, La légende de la gauche au pouvoir. Le Front Populaire, La Tête de Feuilles, Paris, 1973, p. 122.

13 Cfr. gli articoli di Brune [Pierre Souyri] in "Socialisme ou Barbarie", nn. 24 e 29; Simon Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, Antistato, Milano, 1977; Charles Reeve, La tigre di carta, La Fiaccola, Ragusa, 1974; Révo. Cul. dans la Chine Pop., uge 10/18, Paris, 1974.

14 M. Vaussard, L’Italie contemporaine, Hachette, Paris, 1950, pp. 298-300.

15 Sul Portogallo vedi Les luttes de classes au Portugal, in La Guerre Sociale, n. 2, 1978. Le analisi di Le Prolétaire (bimensile in lingua francese del Partito Comunista Internazionale) esagerano l’influenza dei movimenti nazionali nelle colonie portoghesi sulla madrepatria, cosi come s’illudono sulla portata "rivoluzionaria" dei movimenti nazionali nei Paesi del Terzo mondo in generale.

Per un esempio di confusione, cfr. Spartacus, n. 1, che parla di "Octobre au Portugal": vedine la critica in Révolution Internationale, n. s., n. 20.

16 Le Prolétaire, n. 206.

17 Questo sostegno dell’estrema destra alla sinistra non sorprenderà. Per contro, non è raro che Partiti Comunisti dell’America Latina abbiano appoggiato dei regimi militari o dittatoriali perché "progressisti", nel senso dell’appoggio agli Alleati nella Seconda Guerra mondiale, della creazione di un capitalismo nazionale, o di concessioni agli operai. Cfr. Alba, Histoire du mouvement ouvrier en Amérique Latine, Ed. Ouvrières, Paris. Maoisti e trotskysti agiscono spesso allo stesso modo, per esempio in Bolivia.

18 Le Monde, 7-8 febbraio 1971, cit. in Le Prolétaire, n. 99.

19 Le Prolétaire, n. 158.

20 Karl Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Einaudi, Torino, 1976, pp. 218-19.

21 Cfr. la raccolta Portugal, l’autre combat, Spartacus, Paris, 1975, e il giornale "Combate".

22 Karl Marx, "Espartero", in New York Daily Tribune, 19 agosto 1854, in OEuvres politiques, Costes, Paris, 1931, t. VIII.

23 Abel Paz, Durruti. Le peuple en armes, La Tête de Feuilles, Paris, 1972, pp. 333, 365, 367.

24 La Révolution Prolétarienne, n. 236, 10 dicembre 1936.

25 Sul terrorismo, cfr. Jean Barrot, Violence et solidarité révolutionnaires, Ed. de l’Oubli, Paris, 1974 (in particolare a proposito del gruppo spagnolo detto "MIL", di cui faceva parte Puig Antich).

26 Karl Marx, OEuvres politiques, cit., p. 163.

27 Oskar Anweiler, Storia dei soviet. 1905-1921, Laterza, Bari, 19??.

28 Karl Marx, Ecrits militaires, L’Herne, Paris, 1970.

29 Vladimir Ilic Lenin, Opere complete, Ed. Riuniti, Roma, 1972, vol. XXIV, p. ??.

30 Carlos Semprun-Maura, Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, Antistato, Milano, 1976, p. 52.

31 Friedrich Engels (Karl Marx, 1871. La Comune di Parigi. La guerra civile in Francia, Ed. International (La Vecchia Talpa, Savona-Napoli, 1975, p. 130.

32 Ibidem, p. 136.

33 Ibidem, p. 141.

34 Allorché ripresero la posizione marxista sulla distruzione dello Stato, Trotsky e Pannekoek non si rifecero alla Comune di Parigi, contrariamente a Lenin, più tardi, in Stato e rivoluzione. Cfr. Oskar Anweiler, Storia dei soviet. 1905-1921, cit., p. 109, e Denis Authier (Jean Barrot, La Sinistra comunista in Germania, cit., cap. "La Sinistra tedesca prima del 1914".

Sul 1871, cfr. Philippe Riviale, La ballade du temps passé. Guerre et insurrection de Babeuf à la Commune, Anthropos, Paris, 1977.

35 A. Nunès, Les révolutions du Mexique, Flammarion, Paris, 1975, pp. 101-2.

36 Cfr. la sua lettera a Korsch del 28 ottobre 1926, in La crisi del 1926 nel Partito e nell’Internazionale, "Quaderni del Programma Comunista", n. 4, aprile 1980.

37 Secondo Alfonso Leonetti, vecchio trotskysta rientrato nel PCI, l’organo di stampa comunista avrebbe scritto nel 1931 che l’avvento della Repubblica spagnola non avrebbe cambiato granché: residuo di sinistra o influenza del "terzo periodo" settario dell’Intenazionale Comunista? Bordiga avrebbe commentato questa posizione dicendo "Il partito ritorna a me". Cfr. Alfonso Leonetti, Note su Gramsci, Argalia, Urbino, 19??, pp. 199 sgg.

38 Masses, n. 11, 25 novembre 1933.

39 Alba, Histoire du POUM, Champ Libre, Paris, 1975, pp. 40 e 69-70.

40 C. Rama, La crise espagnole au XXe siècle, Fischbacher, 1962, p. 219.

41 Alba, Histoire du POUM, cit., p. 206.

42 Alba, Histoire du POUM, cit., pp. 272, 276, 284-85.

43 Alba, Histoire du POUM, cit., p. 279.

44 In L’Internationale, n. 30, 10 agosto 1937.

45 Sull’anarchismo prima del 1914, cfr. la prefazione di J.-Y. Bériou a D. Nieuwenhuis, Le socialisme en danger, Payot, Paris, 1974.

46 Cfr. Denis Authier (a cura di), La Gauche allemande (Textes), La Vecchia Talpa (Invariance), Napoli, 1973, in particolare l’intervento di Bergmann al III congresso dell’Internazionale Comunista.

47 Alba, Histoire du POUM, cit., p. 61.

48 César M. Lorenzo, Los anarquistas y el poder, Ruedo Iberico, 1972. Cfr. anche pp. 102 sgg.

49 Ibidem, p. 126.

50 Ibidem, p. 303.

51 Ibidem, p. 316.

52 Ibidem, pp. 355 e 386.

53 J. de Boe, La révolution en Espagne, Bruxelles, s.d., pp. 10, 19.

54 André et Dori Prudhommeaux, Catalogne libertaire (1936-1937), Ed. Le Combat Syndacaliste, 1970 (riproduzione di una brochure apparsa all’epoca presso Spartacus), p. 5. Dopo il 1945, questi due autori pubblicarono un buono studio storico sulla nascita del Partito Comunista Tedesco e l’insurrezione mancata del gennaio 1919: Spartacus et la Commune de Berlin, Spartacus, Paris, 1949.

55 André et Dori Prudhommeaux, Catalogne libertaire (1936-1937), cit., pp. 7, 59.

56 "La Révolution Prolétarienne", n. 206, 10 settembre 1935. Gli stessi deplorarono in seguito il dominio "comunista" (cioè del PCF) sulla CGT riunificata nel 1936: cfr. per esempio il n. 263, 25 gennaio 1938.

57 La Révolution Prolétarienne, n. del 10 agosto 1936, cit. in Alba, Histoire du POUM, cit., p. 113.

58 La Révolution Prolétarienne, n. 235, 25 novembre 1936. Gli articoli di Lazarévitch sono stati riprodotti nel volume Les révolutions en Espagne, Belfond, Paris.

59 La Révolution Prolétarienne, n. 243, 25 marzo 1937.

60 La Révolution Prolétarienne, n. 288, 10 febbraio 1939.

61 La Révolution Prolétarienne, nn. 287 e 288.

62 Le Drapeau Rouge, 25 dicembre 1936.

63 Le Libertaire, cit. in L’Internationale, n. 36, 20 aprile 1938.

64 Camillo Berneri, Guerra di classe in Spagna. 1936-’37, Ed. rl, Genova Bavari, 1979, p. 14.

65 Ibidem, pp. 32-7.

66 Ibidem, pp. 38-41.

67 "Une théorie révolutionnaire!", in L’Ami du Peuple, n. 5, cit. in L’Internationale, n. 33, 18 dicembre 1937.

68 "Nécessité d’une junte révolutionnaire" in L’Ami du Peuple, n. 6, cit. in L’Internationale, n. 33, 18 dicembre 1937.

69 César M. Lorenzo, Los anarquistas y el poder, cit., p. 270.

70 M. Ollivier, Le Guépéou en Espagne. Les journées sanglantes de Barcelone (du 3 au 9 mai 1937), Spartacus, 1937, pp. 2-3.

71 Ibidem, pp. 28-9.

72 Ibidem, pp. 30-1.

73 Brochure di Katia Landau, moglie di Kurt Landau "vecchio segretario dell’Opposizione di sinistra internazionale [trotsysta], solidale col POUM, contro Trotsky" (Pierre Broué (Emile Témine, La rivoluzione e la guerra di Spagna, Mondadori, Milano, 1980, p. 278), uccIso dagli stalinisti. Il reprint dell’edizione originale (Spartacus) nel 1971 è accompagnato da una "critica ultrasinistra" che fa ancora della rivoluzione un problema di forma, di organizzazione democratica: i gruppi rivoluzionari dovrebbero essere "autonomi" e "fondersi nell’organizzazione spontanea che il proletariato si dà" (p. 49).

74 Alba, Histoire du POUM, cit., p. 340.

75 Per esempio, dopo il 1945, Masses, i "Cahiers Spartacus", La Révolution Prolétarienne, Pierre Monatte in Tre scissioni sindacali, Victor Serge ne Le nouvel impérialisme russe eccetera. Dopo la guerra, il POUM in esilio sarebbe stato a favore della più larga alleanza contro il fascismo, monarchici inclusi, ma senza il Partito Comunista, per antitotalitarismo. Cfr. Sur les "cas particuliers", in "Internationalisme", n. 35, giugno 1948, riprodotto nel Bulletin d’étude et de discussion di "Révolution Internationale", n. 6.

76 L’Internationale, n. 3, 13 febbraio 1934. Uno dei suoi militanti, Henri Chazé (alias Gaston Davoust) riassume la storia di questo gruppo in una lettera del 5 maggio 1975 a La Jeune Taupe, n. 6, luglio 1975. Egli vi afferma che l’Union Communiste era "nettamente contro il frontismo", e che le sue posizioni sulla Spagna sono state deformate nella raccolta La légende de la gauche au pouvoir (cfr. la nota 7). Si confrontino queste due affermazioni con i testi dell’Union Communiste pubblicati nella presente opera.

77 L’Internationale, n. 10, 12 dicembre 1934.

78 Ibidem.

79 L’Internationale, n. 21, 23 maggio 1936.

80 L’Internationale, n. 26, 12 febbraio 1937.

81 L’Internationale, n. 27, 10 aprile 1937.

82 Cfr. Daniel Guérin, Fronte Popolare, rivoluzione mancata, Jaca Book, Milano, 1976 e J. Rabaut, Tout est possible!, Denoël, 1974. Come René Lefeuvre, animatore delle edizioni Spartacus e di Masses, questi due autori fecero parte del Parti Socialiste Ouvrier et Paysan, fondato nel 1938 dopo l’esclusione della Gauche Révolutionnaire dalla SFIO. Pivert sarebbe rientrato nella sfio dopo il ‘45. Sulla sinistra del Fronte Popolare, cfr. la raccolta di Rioux (a cura di), Révolutionnaires du Front Populaire, uge 10/18, Paris. Sui rivoluzionari contro il Fronte Popolare, cfr. La légende de la gauche au pouvoir.

83 L’Internationale, n. 29, 10 luglio 1937.

84 Bulletin, a. V, n. 3, marzo 1936.

85 Cfr. i numeri di aprile e maggio 1936. Il numero di giugno riportava la conferenza. Tre punti avevano sollevato divergenze: la natura dei movimenti di massa di quel periodo, le correnti di sinistra uscite dalla socialdemocrazia, e la formazione del partito. La tendenza vicina a "Bilan" difendeva grossomodo le posizioni radicali contro la tentazione centrista, ma s’illudeva sull’esperienza dell’Internazionale Comunista. Non ci si poteva proporre la formazione del partito né mediante apporti vari e confusi, né a partire dal nucleo nato dall’Internazionale Comunista.

Rispetto alla questione elettorale, Hennaut proponeva di votare per una delle tre liste "operaie" (socialista, socialista dissidente o comunista). La conferenza si pronunciò a favore (quindici voti per i sostenitori della partecipazione contro nove per quelli dell’astensione). La nuova direzione comprendeva quattro rappresentanti della maggioranza e uno della minoranza.

Per comprendere come dei rivoluzionari potessero interrogarsi cosi sulle elezioni, bisogna rammentarsi che anche la Sinistra tedesca non aveva intorno al 1920 una posizione chiara. I più ritenevano che le elezioni sviassero i proletari dalla rivoluzione in periodo di lotta di classe acuta. Solo Rühle comprese che l’epoca in cui i rivoluzionari partecipavano alla vita elettorale era irrimediabilmente terminata, perché tutto ciò che le stava intorno era scomparso: grandi partiti socialisti con minoranza radicale, ruolo relativamente progressivo della democrazia in certi casi eccetera. La questione astensionista non si poneva neanche più perché il vecchio movimento operaio aveva cessato di esistere. Bordiga vi vide sempre un punto tattico: il partito fondato dalla Sinistra nel 1943-’45 (cfr. la nota 102) partecipò dopo il ‘45 alle campagne elettorali. Ancora al giorno d’oggi, il Partito Comunista Internazionale chiama a votare in certi casi (per esempio nel referendum sul divorzio in Italia).

86 Socialisme ou Barbarie, n. 11, novembre-dicembre 1952.

87 Henri Chazé, lettera del 5 maggio 1975 a La Jeune Taupe, n. 6, luglio 1975.

88 Cfr. Il rovesciamento della prassi (1951), in Partito e classe, Ed. "Il Programma Comunista", Milano, 1972.

89 Il riassunto dei Principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista, apparso sui nn. 19, 20 e 21 di "Bilan", è stato pubblicato sul n. 11 dei "Cahiers du Communisme de Conseil".

90 Invariance, i serie, n. 9, p. 71.

91 Cfr. Anton Pannekoek, Lenin Filosofo, Feltrinelli, Milano, 1972; Jean Barrot, Il ‘renegato’ Kautsky e il suo discepolo Lenin (trad. it. in "Anarchismo", n. ??, 1976), P. Guillaume, "Idéologie et lutte de classes", in K. Kautsky, Les trois sources du marxisme, Spartacus, Paris, 1969; Denis Authier, Prefazione del traduttore, in L. Trotsky, Rapporto della delegazione siberiana, Ed. della Vecchia Talpa, Napoli, 1970.

92 "Bulletin de la LCI", novembre 1936.

93 Appendice 1. La fase gruppuscolare e "Appendice 2. Bibliografia dei temi trattati dalla Sinistra tedesca negli anni Trenta", in Denis Authier (Jean Barrot, La Sinistra comunista in Germania, cit.

94 Portrait de la contre-révolution. L’insieme delle tre riviste International Council Correspondence, Living Marxism e New Essays (1934-1943), è stato pubblicato anastaticamente da Greenwood Corp., Westport, Connecticut, usa, 1970. Una selezione (troppo orientata sul versante antiburocratico e antileninista) è stata riunita in Korsch-Mattick-Pannekoek-Rühle- Wagner, La contre-révolution bureaucratique, UGE 10/18, Paris, 1974, che cita in appendice i titoli dei principali articoli. Cfr. anche "Da Marx a Hitler" (su Kautsky), in Paul Mattick, Ribelli e rinnegati, Musolini, Torino, 1974.

95 "La défaite en France" in International Council Correspondence.

96 "La guerre civile en Espagne!", in International Council Correspondence.

97 "L’anarchisme et la révolutione espagnole", in International Council Correspondence, giugno 1937, in Korsch-Mattick-Pannekoek-Rühle- Wagner, La contre-révolution bureaucratique, cit.

98 Jean Barrot, Contributo alla critica dell’ideologia ultra-sinistra, La Vecchia Talpa, Napoli, 1969.

99 Living Marxism, maggio 1938, in Karl Korsch, Marxisme et contre-révolution, Seuil, Paris, 1974. Secondo il curatore, Serge Bricianer, Korsch rifiuterebbe "di cadere nelle comodità del fatalismo storico e della negazione settaria" (p. 242). La lettura di "Bilan" permetterà di giudicare dell’esattezza di quest’allusione alla Sinistra italiana.

100 "Bilan" fu dapprima l’organo della Frazione di sinistra all’interno del Partito Comunista d’Italia (fondata nel 1927 a Pantin), poi della Frazione Italiana della Sinistra Comunista, a partire dal 1935.

101 Cfr. i testi sulla questione agraria pubblicati in Amadeo Bordiga, Mai la merce sfamerà l’uomo, Iskra, Milano, 1979, e Amadeo Bordiga, Testi sul comunismo, CRIMI (La Vecchia Talpa, Firenze-Napoli, 1974.

102 La riassumiamo qui schematicamente.

Il gruppo che aveva pubblicato "Bilan", animato da Ottorino Perrone (pseudonimo: Vercesi) dopo il 1943 voleva fare solo un lavoro teorico, e criticò l’attivismo del Partito Comunista Internazionalista d’Italia fondato nel 1943-’45. Ritenendo l’orizzonte teorico chiuso, Vercesi partecipò a un comitato antifascista in Belgio, il che gli valse severe critiche, soprattutto da parte d’"Internazionalisme". Ruppe poi con il Partito Comunista Internazionalista, in particolare sulla questione coloniale e nazionale negando il carattere "rivoluzionario" dei movimenti nazionali, il che era nella linea di "Bilan". Perrone mori nel 1957: cfr. la sua biografia in "Programme Communiste", n. 1, ottobre-dicembre 1957 (ciclostilato).

Il Partito Comunista Internazionalista d’Italia (divenuto in seguito Partito Comunista Internazionale), che arrivò a contare fino a parecchie migliaia di militanti verso il 1945, riuniva di fatto fin dalla sua fondazione delle correnti diverse. Quando il Partito Comunista Italiano ufficiale ritornò all’opposizione dopo il 1947, i ranghi del Partito Comunista Internazionalista d’Italia si sciolsero rapidamente. L’eterogeneità doveva esplodere al congresso di Firenze nel 1948. Damen e coloro che erano stati all’origine della costituzione del partito erano a favore di un intervento quanto più largo possibile (ivi compreso elettorale). All’inizio degli anni Cinquanta, Damen ruppe con il Partito Comunista Internazionalista sulla questione nazionale (rimettendo anch’egli in discussione l’analisi leninista), ma soprattutto perché rifiutava di concentrarsi sul lavoro teorico. La sua posizione sulla Russia, a proposito della quale insisteva sul capitalismo di Stato e burocratico, lo avvicinò per qualche tempo a "Socialisme ou Barbarie" (cfr. nota 86), il cui n. 12 pubblicò un testo che riassumeva le sue posizioni. Damen fondò un altro Partito Comunista Internazionalista che esiste tuttora e il cui organo è "Battaglia Comunista".

Ambiguo l’atteggiamento di Bordiga. Negli anni Trenta non aveva più partecipato al lavoro della Sinistra: arrestato, poi liberato e sorvegliato, probabilmente addolorato a causa della rottura con l’Internazionale Comunista e il Partito Comunista ufficiale (che lo aveva escluso come "trotskysta"), visse in Italia, e preparò la sua attività teorica del dopoguerra. Dopo il 1943, senza farsi troppe illusioni sulla "ricostituzione in partito", e dando come Perrone la priorità al lavoro teorico (ma sempre concepito come restaurazione dotrinale), partecipò da lontano alle atività del Partito Comunista Internazionalista, utilizzandolo per pubblicare i propri testi, accettando compromessi con gli elementi più leninizzanti, persino con quelli più prossimi al trotskysmo, credendo nella virtù di una continuità di organizzazione. Jacques Camatte ha parlato rispetto a Bordiga di un "entrismo luxemburghista" ("Invariance", i serie, n. 9, pp. 138-53). Dal 1948, non fu neppure più iscritto al partito. Avrebbe conservato questo suo atteggiamento ai margini fino alla sua morte (1970), lasciando che il partito ne utilizzasse il prestigio e la capacità teorica in cambio della possibilità di pubblicarvi i propri testi. L’immagine di un Bordiga settario diffusa nell’ambiente "marxista" non corrisponde ai fatti. Bisogna leggere numerosi dei suoi testi come quelli del 1965-’66 sul partito (cfr. In difesa della continuità del programma comunista, Ed. "Il Programma Comunista", Milano, 1989) come dei compromessi: 1) tra lui e gli altri capi del partito; 2) tra il suo superamento teorico e la sua fissazione sull’epoca della Seconda e Terza Internazionale.

In Francia, la rivista "Internationalisme" era pubblicata a partire da 1945 dalla Gauche Communiste de France, che si voleva l’organizzazione in francia della "Sinistra Comunista". Ma ruppe con il Partito Comunista Internazionalista al quale rimproverava di essersi costituito in partito, di essere opportunista (elezioni eccetera), e di accettare degli elementi dal passato reputato dubbio (cfr. la partecipazione di Perrone al comitato antifascista). Questo gruppo sviluppò "Bilan" sulla questione nazionale e si portò sulle tesi di Rosa Luxemburg; giunse anche a rimettere in discussione la posizione leninista sui sindacati. La sua rivista (quaranta numeri dal 1945 al 1950) era di alto livello, mentre coloro che divennero allora i rappresentanti ufficiali della Sinistra italiana in Francia (Fraction Française de la Gauche Communiste) facevano soprattutto dell’agitazione e vivevano sull’acquisito senza apportare granché. Al contrario, "Internationalisme" operò una sorta di sintesi tra la Sinistra italiana e quella tedesca, pubblicando l’Histoire du mouvement des conseils en Allemagne di Canne Meijer e Lenin philosophe di Pannekoek. Ma rifiutò di assimilare la rivoluzione russa a una rivoluzione borghese. Questo gruppo rivive oggi con la Corrente Comunista Internazionale, rappresentata in Francia da "Révolution internationale", che mescola Sinistra italiana e consiliarismo. Essa afferma di trarre il meglio di "Bilan", accusando il Partito Comunista Internazionale di regressione rispetto alla Sinistra comunista di un tempo, il che è vero: ma è altrettanto vero che la Corrente Comunista Internazionale è lungi dall’eguagliare "Internationalisme". Non tiene alcun conto dell’antieducazionismo di Bordiga, né del suo apporto dopo il 1950 (visione del comunismo come movimento sociale e non come programma; concezione del proletariato che supera la nozione sociologica degli "operai"; comprensione della dimensione al contempo classista e comunitaria o umana della rivoluzione). La Corrente Comunista Internazionale critica giustamente la relazione da "anima" a "corpo" tra il partito e la classe fissata da Bordiga e dal Partito Comunista Internazionale, ma ricade nell’esagerazione della coscienza (gli operai sarebbero "mistificati" eccetera).

La Corrente Comunista Internazionale si serve delle erranze tipo "Invariance" per non porsi la questione della rivoluzione comunista. Di fronte a coloro che la pongono, fa lo gnorri, ricorre allo snaturamento, all’ingiuria, all’amalgama più caricaturale. Buon esempio di setta.

Una parte della Fraction Française de la Gauche Communiste, che era dunque dopo la rottura d’"Internationalisme" la "sezione" francese della Sinistra italiana, raggiunse "Socialisme ou Barbarie" nella stessa epoca in cui Damen rompeva con Bordiga. Albert Vega (cfr. nota 86) è uno di loro. Quando "Socialisme ou Barbarie" respinse apertamente il marxismo, e una parte se ne distaccò per formare "Pouvoir Ouvrier", Vega fu l’animatore di questo gruppo. Ma questo ex "bordighista" non aveva trattenuto né apportato nulla di bordighista a "Socialisme ou Barbarie", che d’altronde non voleva essere in debito di nulla né verso la Sinistra tedesca, né verso quella italiana, né verso alcun altro. Un gran numero di coloro che, come Albert Vega, passarono per la Sinistra italiana, vi videro solo un leninismo duro.

Malgrado una scissione leninista che nel 1964 diede luogo a un terzo Partito Comunista Internazionale (Rivoluzione Comunista), tuttora esistente, il Partito Comunista Internazionale avrebbe accentuato il suo corso attivista, soprattutto con un tentativo di "lavoro sindacale". La sua rivista francese "Programme Communiste", il suo bimensile "Le Prolétaire" denunciano l’"opportunismo" del PCF e la "capitolazione" dell’urss di fronte agli Stati Uniti, esaltano le "rivoluzioni" coloniali, e chiamano le truppe proletarie a raggiungere il loro Stato maggiore. In gran parte per reazione a ciò, Jacques Camatte e Roger Dangeville abbandonarono il Partito Comunista Internazionale nel 1966.

Avevano scritto insieme ciò che sarebbe diventato il n. 1 d’Invariance: "Origine et fonction de la forme parti" (vedine la trad. it. in Invarianza, n. u., luglio 1969). Essi volevano proseguire l’opera di Bordiga "tradita" dal Partito Comunista Internazionale. Presto i due si separarono. Dangeville pubblicò Le Fil du Temps in una tradizione bordighista ortodossa, cioè senza gli aspetti visionari di Bordiga, ma anche senza la vana agitazione del Partito Comunista Internazionale. "Invariance" compi una sintesi tra la Sinistra tedesca e quella italiana intorno ai numeri 6, 7, 8 e 9 della prima serie, ma il suo originario modo di procedere idealista prevalse, in una fuga in avanti che sarebbe esplosa nella seconda e nella terza serie.

Su tali questioni, oltre alle riviste sopraCCItate e di cui l’Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis (Cruquiusweg, Amsterdam) possiede le serie quasi complete, cfr. la biografia di Bordiga in Jacques Camatte (a cura di), Bordiga et la passion du communisme, Spartacus, Paris, 1974; Invariance, i serie, n. 6, pp. 18, 30-5, e n. 9, pp. 138-53; Bulletin d’étude et de discussion di "Révolution internationale", nn. 6 e 7; il numero d’Internationalisme sullo sciopero Renault del 1947 è stato riprodotto anastaticamente da "La Vieille Taupe", Paris, 1972. Cfr. anche la nota 132 sula scissione scandinava del 1971. Si tratta sempre certo di piccoli gruppi. Lasciamo la facile ironia sui "gruppuscoli" a coloro che ricercano un potere e un racket, o a quelli che credono che il mondo cominci nel ‘68.

Numerosi testi di "Bilan" sono già apparsi. "Vers l’Internationale 2 et 3/4?" (critica di Trotsky comparsa sul n. 1, 1933) è in "Rivista Internazionale" della CCI, n. 3. Gli articoli riassumenti I principi fondamentali di produzione e distribuzione comunista (nn. 19, 20, 21) sono in "Cahiers du Communisme de Conseil", n. 11. "La Chine soviétique" (n. 7) è in Ch. Reeve, Le tigre de papier, Spartacus, Paris, 1972 (questo documento non è compreso nell’edizione italiana del libro di Reeve, cit.). Il manifesto lanciato dalla Gauche Communiste dopo il maggio ‘37, è in "Invariance", i serie, n. 7. Alcuni estratti sulla giornata del 6 febbraio 1934 sono riprodotti ne La légende de la gauche au pouvoir, cit. Diversi articoli sulla guerra di Spagna (nn. 2, 12, 14, 28, 33, 34, 36, 37, 41, 42) sono apparsi sulla Rivista Internazionale della CCI, n. 1. "XVI anniversario della Rivoluzione Russa" (n. 1) è contenuto in B. Bongiovanni (a cura di), L’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’urss, Feltrinelli, Milano, 1975. "Il problema delle minoranze nazionali" (n. 14, 1935) è in Rivoluzione Internazionale, nn. 29 e 30. Articoli di Ottorino Perrone (Vercesi) apparsi su "Bilan" sono nel numero speciale di Prometeo del 1957 dedicato alla sua morte. Invariance, série iv, août 1993, contiene le OEuvres de Ottorino Perrone e due testi di Hennaut. Alberto Giasanti (a cura di), Rivoluzione e reazione. Lo Stato tardo-capitalistico nell’analisi della Sinistra comunista, Giuffrè, Milano, 1983 contiene un’antologia di testi di "Bilan" con un’introduzione di Dino Erba e Arturo Peregalli. Sul fascismo, cfr. anche Communisme et fascisme, Ed. "Programme Communiste", raccolta di testi dell’inizio degli anni Venti. Natura e funzione tattica del Partito Comunista (1945) è nel volume In difesa della continuità del programma comunista, cit.

Questi testi possono essere letti in parallelo con l’opera di un non rivoluzionario, buon osservatore della funzione dello Stato nella società moderna: Bertrand de Jouvenel, Il potere, SugarCo, Milano 1991.

103 Cfr. il testo sulla riunione di Firenze, gennaio 1958, pubblicato da La Vecchia talpa, Napoli, 1973.

104 Cfr. le osservazioni di Korsch sulla Seconda Guerra mondiale, in Karl Korsch, Marxisme et contre-révolution, cit.

105 "Presentation" al Principe démocratique di Bordiga, riprodotto in reprint, Ed. "Programme communiste", 1971, p. 4.

106 Jean Barrot, Le Mouvement communiste, Champ Libre, Paris, 1972, 2a parte; "La question de l’Etat", in La Guerre sociale, n. 2, 1978.

107 "De la politique", in Le Mouvement communiste, cit.

108 Karl Marx, Miseria della filosofia, in Marx-Engels, Opere complete, vol. vi, Ed. Riuniti, Roma, 1973, p. 225.

109 Invariance, ii serie, n. 4.

110 Octobre, n. 2.

111 Karl Marx, OEuvres politiques, cit., pp.125-26.

112 Cit. da M. Laffranque, "Marx et l’Espagne" in Cahiers de l’ISEA, Serie S, n. 15, pp. 2405-420.

113 Gerald Brenan, Storia della Spagna. 1874-1936, Einaudi, Torino, 1976, cap. XIII. Brenan, a pp. 69-70, conferma l’insistenza di "Bilan" sul ruolo dell’irrigazione, rilevando la coincidenza tra zone di piccola proprietà e irrigue (nord e centro), e zone di grande proprietà e secco-aride (sud).

114 Denis Authier (Jean Barrot, La Sinistra comunista in Germania, cit., cap. "Dal primo al secondo congresso dell’Internazionale Comunista".

115 Gerald Brenan, Storia della Spagna. 1874-1936, cit., p. 107.

116 Ibidem, p. 136. Brenan paragona questo movimento a certe eresie che volevano applicare alla lettera e sulla terra i passi del Vangelo favorevoli ai poveri e all’amore universale.

117 Ibidem, p. 141.

118 Karl Marx, Miseria della filosofia, cit., p. ???.

119 C. Rama, La crise espagnole au XXe siècle, cit., p. 210.

120 Gerald Brenan, Storia della Spagna. 1874-1936, cit., p. 122.

121 Mintz, L’autogestion dans l’Espagne révolutionnaire, Bélibaste, 1970, pp. 76 sgg.

122 Pierre Chaulieu, Sur la dynamique du capitalisme, in Socialisme ou Barbarie, n. 12, agosto-settembre 1953.

123 Mintz, L’autogestion dans l’Espagne révolutionnaire, cit., pp. 139-40.

124 Carlos Semprun-Maura, Rivoluzione e controrivoluzione in Catalogna, cit., pp. 127-43.

125 Jean Barrot, Le mouvement communiste, cit., 2. parte.

126 Les amis de 4 millions de jeunes travailleurs, Un monde sans argent: le communisme, 1975-’76, 3 voll., testo essenziale; "Communisme et mesure par le temps de travail" in La Guerre Sociale, n. 1, 1977.

127 Mintz, L’autogestion dans l’Espagne révolutionnaire, cit., p. 139.

128 Octobre, n. 4.

129 Octobre, n. 3.

130 Herman Gorter, L’Internazionale Comunista Operaia (KAI, 1923), gdc, Caserta, 1973.

131 Invariance, ii e iii serie.

132 Cfr. il gruppo scandinavo riunito attorno a "Kommunismen" che lasciò il Partito Comunista Internazionale a proposito della questione sindacale, poi evoluto in questo senso. Cfr. La Sinistra tedesca e la questione sindacale nella Terza Internazionale, Bagsvaerd, Danemark (ciclostilato); Testi di lavoro apparsi in occasione della scissione, Bagsvaerd, Danmark, 1972 (ciclostilato).

133 Cfr. Négation; Une Tendence Communiste, gruppo uscito da "Révolution Internationale" e autore di La révolution sera communiste ou ne sera pas, 1974; questo gruppo si è in seguito dissolto. Cfr. anche Maturation Communiste, n. 1, 1975; e le riviste Théorie Communiste e "La crise du communisme".

134 Bulletin de la LCI, aprile 1936.

135 In Le Prolétaire, n. 206.

136 Certi temi di questo paragrafo sono sviluppati in Jean Barrot, Crise du proletariat?.