Economia e politica nella Spagna rivoluzionaria*
*Economics and Politics in Revolutionary Spain, «Living Marxism», 1938, vol. 4, n. 3, pp. 76-82.
di Karl Korsch
Per un approccio realistico al lavoro costruttivo del proletariato in Catalogna e in altre parti della Spagna, non dobbiamo metter a confronto i suoi risultati con un qualche astratto ideale né con risultati raggiunti in condizioni storiche completamente diverse. Non c’è dubbio che i risultati effettivi della «collettivizzazione», anche in quelle industrie di Barcellona e delle città più piccole e dei villaggi della Catalogna ove può essere studiata nella sua forma migliore, è molto indietro rispetto alle costruzioni ideali delle teorie socialiste e comuniste ortodosse, e ancora più indietro rispetto ai sogni grandiosi di generazioni di sindacalisti rivoluzionari e operai anarchici in Spagna sin dai tempi di Bakunin.
Quanto alle analogie storiche, quello che ha compiuto la rivoluzione spagnola nel periodo che è iniziato con il rapido contrattacco degli operai rivoluzionari contro l’invasione di Franco e dei suoi sostenitori fascisti, nazionalsocialisti e democratici borghesi, e che ora sta rapidamente avvicinandosi alla fine, non dovrebbe essere paragonato a nulla di ciò che avvenne in Russia dopo l’ottobre 1917 e neppure con il periodo del cosiddetto «comunismo di guerra» (1918-1920), né con la fase seguente della nep. In tutto il processo rivoluzionario iniziato con il rovesciamento della monarchia nel 1931 non c’è stato un solo momento in cui i lavoratori o un qualsiasi partito od organizzazione, che parlasse in nome dell’avanguardia rivoluzionaria dei lavoratori, abbia detenuto il potere politico. Ciò è vero non solo a livello nazionale ma anche regionale; vale persino per le condizioni prevalenti nella roccaforte sindacalista della Catalogna nei mesi seguìti al luglio 1936, quando il potere del governo era diventato temporaneamente invisibile e la nuova e ancora indefinita autorità esercitata dai sindacati non assunse un preciso carattere politico. Tuttavia la situazione creata da queste condizioni non viene adeguatamente descritta come «dualismo di poteri». Segnò piuttosto una eclissi temporanea di ogni potere statale a causa della scissione tra la sua sostanza (economica) che era passata ai lavoratori e il suo involucro (politico), a causa dei vari conflitti interni tra le forze di Franco e quelle dei «lealisti», Madrid e Barcellona, e infine a causa del fatto decisivo che la funzione principale dell’apparato burocratico e militare di qualsiasi Stato capitalista – la repressione dei lavoratori – non poteva espletarsi in nessun modo contro i lavoratori in armi.
Non serve argomentare (come molti hanno fatto) che nelle molte fasi dello sviluppo rivoluzionario degli ultimi sette anni più di una volta – nell’ottobre 1934, nel luglio 1936 e nel maggio 1937 – si è creata una «situazione oggettiva» in cui i lavoratori rivoluzionari uniti avrebbero potuto prendere il potere dello Stato, ma non lo fecero per scrupoli teorici o a cagione di una debolezza interna del loro atteggiamento rivoluzionario. Ciò può essere vero per le giornate del luglio 1936, quando gli operai anarchici e sindacalisti e le milizie di Barcellona invasero i depositi di armi del governo e oltre a ciò si rifornirono delle armi prese alla rivolta fascista sconfitta – così come può essere vero per le giornate di luglio del 1917, quando i lavoratori e soldati rivoluzionari di Pietrogrado scesero in piazza con le parole d’ordine bolsceviche «tutto il potere ai soviet» e «abbasso i ministri capitalisti» e nella notte tra il 17 e il 18 un riluttante Comitato centrale del Partito bolscevico fu costretto a ribaltare il suo precedente rifiuto di partecipare a un tentativo rivoluzionario «prematuro» e a fare appello unanimemente ai soldati e al popolo perché prendessero le armi e si unissero a quella che veniva ancora presentata come una «dimostrazione pacifica».
Contro coloro che oggi a vent’anni di distanza da quei fatti esaltano la saldezza rivoluzionaria della leadership bolscevica del 1917 a discredito della «caotica irresolutezza» manifestata nei dissensi e ondeggiamenti dei sindacalisti e anarchici spagnoli del 1936-’38, è assai opportuno ricordare che in quei giorni neri del luglio 1917, tre mesi prima della vittoria dell’Ottobre rosso nella Russia sovietica, anche Lenin e il suo Partito bolscevico non furono capaci di trasformare in vittoria una situazione che S.B. Krassin (allora dirigente di uno stabilimento industriale, ma che in seguito sarebbe diventato bolscevico e avrebbe ricoperto un’alta carica nel governo sovietico) caratterizzò nel modo seguente: «Le cosiddette “masse”, principalmente soldati e un certo numero di teppisti, si spostavano senza mèta per le strade per due giorni, sparandosi vicendevolmente, spesso per semplice paura, fuggendo al minimo allarme o voci, senza la più pallida idea di che cosa fosse in gioco»1.
Ancora parecchio tempo dopo, quando il processo di glorificazione del bolscevismo vittorioso si era già affermato, ma era ancora possibile una moderata «autocritica» nei ranghi più alti del partito al governo, il commissario del popolo bolscevico Lunaãarskij ricordò la situazione del luglio 1917 con le seguenti parole: «Siamo costretti ad ammettere che il partito non conosceva vie d’uscita dalla situazione difficile. Fu costretto a chiedere con una dimostrazione ai menscevichi e socialisti rivoluzionari qualcosa su cui essi non erano organicamente in grado di decidere e una volta messo a confronto con un rifiuto, che si aspettava, il partito non seppe come andare avanti; lasciò i dimostranti attorno al palazzo di Tauride senza un piano e diede tempo all’opposizione di organizzare le sue forze, mentre le nostre si stavano sfaldando, e di conseguenza andò incontro a una sconfitta temporanea con gli occhi ben aperti».
Le conseguenze immediate di quello che, analogamente all’accusa di mancanza di leadership rivoluzionaria rivolta ai sindacalisti spagnoli, può essere ritenuto «un fallimento» da parte del Partito rivoluzionario bolscevico dinanzi alla presa del potere in una situazione obiettivamente rivoluzionaria, furono negative per i bolscevichi russi del 1917, quanto lo furono per gli anarchici e sindacalisti spagnoli nel 1934 e 1936 e 1937. Il 18 luglio 1917 fu sollevata contro Lenin la malevola accusa che tutte le sue azioni dal suo arrivo in Russia, e particolarmente le dimostrazioni armate dei due giorni precedenti, fossero state segretamente guidate dal Quartier generale tedesco. Le sedi bolsceviche furono invase, furono chiusi i loro giornali. Kamenev e Trockij e numerosi altri bolscevichi furono arrestati. Lenin e Zinov’ev si nascosero, e Lenin si trovava ancora nella clandestinità quando due mesi dopo mise in guardia i suoi compagni dal pregiudicare la loro indipendenza rivoluzionaria con un appoggio senza condizioni al governo di fronte popolare di Kerenskij contro la ribellione controrivoluzionaria del comandante in capo delle armate russe, generale Kornilov.
Così non si può onestamente affermare che gli operai spagnoli e la loro leadership rivoluzionaria sindacalista e anarchica abbiano mancato di prendere il potere politico a livello nazionale o anche regionale in Catalogna in condizioni in cui l’avrebbe fatto un partito veramente rivoluzionario come quello bolscevico russo. Non ha senso accettare la tattica dei bolscevichi russi nel luglio del 1917 come «una politica cauta e realista» e denunciare la medesima politica come «una mancanza di preveggenza e decisione rivoluzionaria» quando viene ripetuta in condizioni esattamente analoghe dai sindacalisti in Spagna. Tanto varrebbe sottoscrivere la paradossale affermazione di Pascal di duecento anni fa: «Ciò che è vero da questa parte dei Pirenei è una menzogna dall’altra parte».
Questo non vuol dire che le azioni rivoluzionarie degli operai catalani non siano state inceppate dal loro tradizionale atteggiamento di disinteresse per tutte le questioni politiche e non strettamente economiche e sociali. Anche le loro azioni più radicali nel settore della ricostruzione economica, intraprese in un periodo in cui essi apparivano e si ritenevano padroni assoluti della situazione, soffrivano della mancanza di quella coerenza e univocità di propositi con cui le misure economiche e politiche della dittatura bolscevica in Russia generarono furore e spavento a un tempo nei loro nemici in casa e in ogni nazione borghese del mondo. Nei resoconti borghesi delle condizioni della Spagna rivoluzionaria c’è molto poco di quel disagio con cui gli osservatori stranieri guardavano le presunte «atrocità» della rivoluzione bolscevica in Russia al tempo del «cordone sanitario» (persino il marxista rivoluzionario di un tempo, Karl Kautsky, ripeteva in quei giorni con convinzione, credo, le notizie che la dittatura bolscevica in Russia aveva coronato le misure di esproprio con «una socializzazione delle donne borghesi»). A confronto con quelle esagerazioni, nella storia della «collettivizzazione» spagnola fatta da un corrispondente speciale del «Times» di Londra all’arrivo del governo Negrín a Barcellona c’è persino un tocco di humour e una certa gioviale confidenza verso quello che il cronista chiama il persistente «individualismo» della gente spagnola. L’arrivo del nuovo governo centrale, egli scrive, «ha portato nuova vita a Barcellona. La grande città stava incominciando a declinare sotto il peso della collettivizzazione. La felicità non può essere collettivizzata in Spagna, dove l’individuo continua a rimanere padrone di se stesso. Un proprietario di hôtel che non poteva sopportare di essere cameriere nel proprio albergo, fa il cameriere altrove. Di un noto attore catalano si dice che, stanco di avere la parte principale sulla scena e una più umile nella busta-paga, abbia proposto di fare il cambio con un macchinista di scena dicendo: “Guadagnamo lo stesso: lasciami stare qui a tirare su il sipario mentre tu vai a tirare su il pubblico”. È diventato un divertimento, anche se piuttosto meschino, tra il pubblico alle rappresentazioni nei cinema indicare professori del Conservatorio che suonano nella seconda fila della banda».
Persino il resoconto più complesso e molto più ostile fornito un mese più tardi dal corrispondente di Barcellona del «New York Times» era integrato da alcune fotografie piuttosto belle, illustranti la vita e il lavoro nelle «officine collettivizzate di Spagna», rese ancora più attraenti per i lettori adoratori dello Stato e speculatori di obbligazioni con l’allegra annotazione: «Poiché i lealisti preferiscono il controllo dello Stato al controllo dei lavoratori e desiderano proteggere gli interessi stranieri in Spagna, la collettivizzazione – come nella fabbrica di vestiti qui fotografata – viene limitata». Con lo stesso spirito «l’uomo forte di Spagna» (il ministro della Difesa del governo lealista Indalecio Prieto, ora silurato) era fotografato e presentato ai lettori piccolo-borghesi dell’«Evening Standard» del 7 marzo 1938 come un «proprietario di giornali, confortevolmente pingue, con un mento o due di riserva» e con una «passione per le anguille come unico lusso gastronomico», tra l’altro un uomo il cui «valore» è «riconosciuto persino dal generale Franco» e che è personalmente in ottimi rapporti personali con il «finanziatore del movimento di Franco», l’illustre Juan March.
Il fatto stesso che la cnt e la fai siano state alla fine costrette a rovesciare la loro tradizionale prassi di non-intervento in politica sotto la pressione di crescenti amare esperienze, ha dimostrato a tutti, salvo che a qualche gruppo di anarchici stranieri (che anche ora rifiutano di sporcare la loro purezza antipolitica con un sostegno pieno e cordiale della lotta disperata dei loro compagni spagnoli!) la connessione vitale tra l’azione economica e quella politica in ogni fase e soprattutto nella fase immediatamente rivoluzionaria della lotta di classe proletaria.
Questa è pertanto la prima e più importante lezione di quella fase conclusiva di tutta la storia rivoluzionaria del dopoguerra europeo che è la rivoluzione spagnola. Essa diventa ancor più importante e particolarmente impressionante se consideriamo la grande differenza tra il carattere del movimento della classe operaia spagnola e tutti gli altri tipi di lotte di classe proletaria in Europa e negli usa, così come si sono costituiti da ormai quasi tre quarti di secolo.
La validità di questa lezione non è sminuita dai contenuti relativamente moderati delle richieste politiche avanzate dalla cnt nella congiuntura attuale. Non c’è dubbio che la proposta di un «nuovo periodo costituzionale che sia sensibile alle aspirazioni popolari nella repubblica socialista e che sia democratico e federale» non chiede nulla che il governo di Fronte Popolare non possa, in linea di principio, decidere senza aver bisogno di rivoluzionare la politica borghese fin qui professata. Né la proposta di creare un «Consiglio economico nazionale su base politica e sindacale, con una rappresentanza eguale per la ugt socialdemocratica e la cnt sindacalista» sarebbe in grado di trasformare l’attuale orientamento riformistico borghese del governo in uno rivoluzionario proletario. Ma qui di nuovo appare una stretta analogia tra la tattica seguita dai sindacalisti nella Spagna d’oggi e la prassi osservata dal Partito bolscevico russo fino al fallimento della ribellione di Kornilov e anche dopo. Se questa analogia è vera, se possiamo mostrare che un partito rivoluzionario tanto politicizzato e ricco di esperienza politica, qual era il partito che realizzò l’Ottobre russo, non raggiunge la perfezione prima dell’avvento di una situazione storica completamente diversa, come possiamo aspettarci una tale capacità sovrumana e sovrastorica da un gruppo di rivoluzionari proletari con una mentalità non-politica e quasi del tutto privi di esperienza politica nelle condizioni arretrate della Spagna d’oggi, dove la ribellione controrivoluzionaria del Kornilov iberico non è fallita ma si è diffusa vittoriosa in tutto il Paese e ora sta attaccando il cuore stesso della Spagna industriale, ultima roccaforte delle forze antifasciste e anticapitaliste, la provincia proletaria di Barcellona?
Dal punto di vista di una ricerca storica imparziale si può dimostrare ampiamente che la leadership bolscevica del 1917 non era affatto esente da quelle incertezze e imprevidenze che sono umanamente presenti in qualsiasi azione rivoluzionaria. Anche dopo la conclusione vittoriosa di quel capolavoro di strategia politica che i bolscevichi, condotti e guidati da Lenin, realizzarono nei giorni dell’affare Kornilov nei mesi di agosto e settembre 1917, quando seguendo la più sagace delle istruzioni di Lenin essi si sforzarono «di combattere contro Kornilov, proprio come fanno le truppe di Kerenskij», senza appoggiare quest’ultimo, ma mettendo invece in luce «la sua debolezza», Lenin agiva ancora in base all’ipotesi che il governo provvisorio fosse divenuto manifestamente così debole, dopo la sconfitta di Kornilov, da offrire l’opportunità di uno sviluppo pacifico della rivoluzione con la sostituzione di Kerenskij da parte di un governo di socialisti rivoluzionari e menscevichi, responsabili di fronte ai soviet. I bolscevichi non avrebbero partecipato a un tale governo, ma si sarebbero «astenuti dall’avanzare immediatamente la richiesta del passaggio del potere al proletariato e ai contadini poveri, come anche dall’usare metodi rivoluzionari di lotta per la realizzazione di questa richiesta». Naturalmente suggerendo questa linea di azione nel suo famoso articolo del settembre 1917 Sui compromessi, Lenin non esibiva una integrità rivoluzionaria senza macchia, come fa ad esempio Stalin nella Russia d’oggi o quegli anarchici negatori dello Stato nell’Olanda ultracapitalista d’oggi. Questo brano di storia reale mostra quanto poco gli epigoni di Lenin siano autorizzati a criticare le manchevolezze delle azioni sindacaliste nella Catalogna rivoluzionaria, per non parlare della ben nota ambiguità dell’«aiuto» dato ai lavoratori spagnoli nella prima e nelle altre fasi della loro lotta da parte dei comunisti e dallo Stato russo, sia in Spagna sia nel Comitato di non-intervento2.
C’è dunque un’ombra pesante sul lavoro costruttivo operato dagli sforzi eroici e dai sacrifici degli operai rivoluzionari in tutte le regioni di Spagna dove la parola d’ordine sindacalista e anarchica della «collettivizzazione» è prevalsa su quelle socialdemocratiche e comuniste della «nazionalizzazione» e dell’«intervento statale». Tutto questo lavoro costruttivo è stato fatto solo in via preliminare. Il suo ulteriore progresso e la sua stessa esistenza dipendevano dal progresso del movimento rivoluzionario e, prima di tutto, da una sconfitta decisiva dell’attacco controrivoluzionario di Franco e dei suoi potenti alleati fascisti e parafascisti. Anche in questi ultimi tempi, quando la sconfitta del molto pubblicizzato nuovo esercito lealista ha già esposto l’intrinseca debolezza del governo Negrín con tale evidenza che il principale rappresentante delle forze fasciste e capitaliste nel governo di Fronte Popolare, Indalecio Prieto, ha dovuto essere sbattuto fuori ingloriosamente e si è resa inevitabile una «ricostruzione» del governo orientata verso «sinistra», una vittoria all’ultima ora delle forze proletarie rivoluzionarie raccolte in Barcellona – con o senza una ripetizione della insurrezione dei comunardi nella Parigi assediata del 1871 – in questo stesso momento aumenterebbe immensamente l’importanza storica e pratica immediata del grande esperimento di una collettivizzazione proletaria autentica dell’industria, iniziata e portata avanti dai lavoratori e dai loro sindacati negli ultimi due anni.
In mancanza di una tale favorevole svolta, la storia della collettivizzazione catalana qual è raccontata nel modo più imparziale ed efficace in un libretto pubblicato dalla cnt-fai non può pretendere a un merito maggiore di quanto ci hanno descritto Marx, Engels, Lissagaray e altri scrittori sugli esperimenti economici della Comune rivoluzionaria degli operai parigini del 1871. Questi sono parte del passato storico, così come lo sono i tentativi degli operai rivoluzionari italiani del 1920, annullati più tardi dalle orde di Mussolini sovvenzionate dai proprietari fondiari e dai capitalisti italiani in preda al panico, e i tentativi egualmente frustrati compiuti diverse volte tra il 1918 e il 1923 dalle avanguardie degli operai tedeschi e ungheresi. Analogamente i risultati temporanei più vasti e certo molto più famosi ottenuti dagli operai rivoluzionari russi nella fase di una reale sperimentazione comunista nel 1918-’20 non ebbero alcuna importanza pratica per il successivo sviluppo della cosiddetta «costruzione socialista» nella Russia sovietica. Essi furono ben presto denunciati dai bolscevichi stessi come una mera «forma negativa» di comunismo, imposta a una riluttante leadership bolscevica dalle necessità della guerra e della guerra civile. Così il grande esperimento storico del cosiddetto «comunismo di guerra», che di fatto rappresentò un passo in avanti verso una società comunista molto più positivo delle misure di qualsiasi nep o neo-nep o altre varianti delle politiche non più socialiste e proletarie, che furono più tardi inaugurate dalle varie combinazioni della burocrazia post-leninista e stalinista, divenne un episodio negletto e dimenticato della storia passata proprio in quel Paese che anche oggi pretende di marciare alla testa del proletariato internazionale in virtù della cosiddetta «costruzione del socialismo in un solo Paese».
Anche prima di questa nuova svolta nella politica economica bolscevica, Lenin il 4 dicembre 1919, due anni dopo la completa conquista del potere statale, in un discorso pronunciato al i Congresso delle comuni agricole fece la seguente descrizione dei risultati ottenuti fino a quel momento dalla lotta dei bolscevichi per il comunismo: «Il comunismo è lo stadio più alto dello sviluppo del socialismo, quando la gente lavora perché si rende conto della necessità di lavorare per il bene comune. Sappiamo di non poter ora creare un sistema socialista – Dio voglia che possa essere in vigore nel tempo dei nostri figli o forse dei nostri nipoti».
«Servire la storia della rivoluzione» è il programma scritto in modo invisibile sulla prima pagina del rapporto fedele e completo sopra menzionato circa i risultati positivi ottenuti in campo economico dagli operai rivoluzionari di Barcellona e dai lavoratori industriali e rurali in molte cittadine catalane o nei remoti e dimenticati villaggi. «Servire la storia» significa per chi ha scritto tale rapporto, come per noi, lavoratori rivoluzionari di un brutto mondo travagliato dalla crisi e dal decadimento di tutte le forme dei «vecchi» movimenti operai socialisti, comunisti e anarchici, imparare dalle azioni e dagli errori della storia passata la lezione per il futuro, le vie e i modi per la realizzazione dei fini della classe operaia rivoluzionaria.
Note
1 Questa e le citazioni seguenti sono tratte dalla storia documentaria di J. Bunyan e H.H. Fisher, The Bolshevik Revolution 1917-’18, Stanford University Press, 1934.
2 A beneficio di quei comunisti veneratori di Stalin, che recentemente hanno incominciato ad apprendere la lezione delle grandi «purghe» in Russia, citiamo qui una frase della «Pravda» che attesta ciò che gli «amici» stalinisti facevano e intendevano fare in una Spagna completamente «bolscevizzata»: «La purga della Catalogna da tutti gli elementi trockisti e anarco-sindacalisti è già iniziata; questo compito è portato avanti con la stessa energia con la quale è stato compiuto in urss» («Pravda», 17 dicembre 1936).
Collettivizzazione in Spagna*
*Collectivization in Spain, «Living Marxism», 1939 vol. 4, n. 6, pp. 178-82.
In un numero precedente di questa rivista1 abbiamo cercato di confutare uno degli errori principali che celano alla classe operaia internazionale l’importanza particolare di quella nuova fase della rivoluzione spagnola iniziata con gli avvenimenti del 19 luglio 1936. Malgrado l’aumento costante della letteratura sulla Spagna contemporanea, non abbiamo a tutt’oggi un resoconto completo di ciò che dal nostro punto di vista chiameremmo il contenuto reale delle attuali lotte nella Spagna rivoluzionaria. Naturalmente non ci si deve aspettare un siffatto lavoro di informazione da quei progressisti che continuano ancor oggi a interpretare l’intensificarsi delle lotte di classe, delle guerre e guerre civili della storia contemporanea come espressioni di una battaglia ideologica tra un principio «fascista» e uno «democratico». Il contenuto effettivo della battaglia cosiddetta spirituale non è però meglio spiegato da quegli storici apparentemente obiettivi e realistici che trascurano gli aspetti di guerra civile degli attuali avvenimenti spagnoli (per tacere dei conflitti meno noti tra i vari gruppi del Fronte Popolare lealista) come di una fase assolutamente subordinata alla lotta tra i vari gruppi imperialisti che secondo loro costituisce l’essenza di tutti gli sviluppi politici contemporanei su scala mondiale. Contro la superficialità sia «idealistica» che «realistica» degli storici borghesi, ancora una volta il lettore proletario è rimandato all’esauriente resoconto dei primi sette mesi di cosiddetta collettivizzazione nella Spagna rivoluzionaria pubblicato dai lavoratori spagnoli stessi con l’esplicito proposito di rompere una congiura di silenzio e di distorsione per cui di tutti gli aspetti dei recenti avvenimenti spagnoli proprio quest’ultimo veramente rivoluzionario è stato quasi completamente eliminato2.
Per la prima volta da che il periodo rivoluzionario postbellico ha dato vita a vari esperimenti di socializzazione nella Russia sovietica, in Ungheria e in Germania, la lotta degli operai spagnoli contro il capitalismo ci mostra un nuovo tipo di transizione dai metodi capitalistici a quelli comunali di produzione raggiunta, anche se in modo incompleto, in una notevole quantità di forme. Il significato di questa esperienza rivoluzionaria non è attenuato neppure dal fatto che questi tentativi di economia libera, nuova, comunale sono stati nel frattempo annullati e distrutti. Gli obiettivi rivoluzionari dei lavoratori sono stati frustrati dall’esterno, dalla controrivoluzione avanzante, o dall’interno dai pretesi alleati del fronte antifascista. I lavoratori sono stati costretti ad abbandonare i frutti della loro lotta sia mediante la repressione esplicita sia, più spesso, con il pretesto della «superiore necessità» di una disciplinata conduzione della guerra. In larga misura le conquiste rivoluzionarie furono sacrificate volontariamente dai loro stessi iniziatori nel vano tentativo di favorire in questo modo il fine principale della lotta comune contro il fascismo.
Ma anche così gli sforzi dei lavoratori sul fronte sociale ed economico non sono stati del tutto vani. La liquidazione violenta della Comune parigina del 1871 e più tardi delle rivoluzioni consiliari ungheresi e bavaresi, così come la più lenta e meno esplicita autoliquidazione del primo contenuto rivoluzionario del socialismo sovietico russo, non hanno annullato il significato di nessuno di quei grandi tentativi del passato di instaurare e provare un nuovo tipo di Stato per la transizione al socialismo. Analogamente la distruzione finale delle iniziative di socializzazione, descritte sopra, da parte di amici e nemici della Spagna odierna non toglie nulla all’importanza storica del nuovo, libero tipo di produzione comunale tentata qui per la prima volta su larga scala. Lo studio di questo movimento, delle sue concezioni e dei suoi metodi, dei suoi successi e fallimenti e il conseguente riconoscimento della sua forza e della sua debolezza è quindi d’importanza costante per quella parte del proletariato internazionale rivoluzionario e con coscienza di classe, cui questo libro si rivolge espressamente e al quale offre una esposizione dettagliata di questo sforzo di emancipazione iniziato dalla classe operaia spagnola. Inoltre, questo rapporto fedele dei metodi e dei risultati della collettivizzazione nella provincia spagnola industrialmente più avanzata e autorizzato dalle principali organizzazioni operaie (la cnt sindacalista e la fai anarchica) è d’importanza teorica generale quale fonte storica di prim’ordine. I curatori cercano per quanto è possibile di lasciare che «i rivoluzionari spagnoli parlino da sé». Oltre a un certo numero di commenti necessari a completare il quadro, la raccolta contiene documenti originali, decreti di espropriazione, rapporti di sindacati, statuti, risoluzioni ecc. e ancora resoconti, interviste, rapporti dei funzionari del movimento rivoluzionario sulle varie industrie e località. Questo carattere di fonte storica si accompagna coerentemente sia allo stile espositivo sia alla materia così da farne risultare un lavoro intensamente umano e nello stesso tempo rispondente ai criteri più rigorosi della obiettività scientifica. Queste semplici testimonianze e storie della gente comune di città e campagna, mai noiose o aride, nel loro pathos non attenuato da pretenziosi ritocchi, riproducono la voce della rivoluzione spagnola, l’azione del proletariato così com’è, e unitamente al materiale documentario dànno autenticità e veridicità al lavoro. È quasi superfluo che alla fine del libro gli autori dichiarino: «Non si troverà né lode né calunnia, né esagerazioni né proteste […] Abbiamo semplicemente dato modo al lavoratore spagnolo di dire al mondo intero ciò che ha fatto per mantenere e difendere la libertà e il benessere proprî».
Delle quattro parti del libro, la prima tratta del carattere generale della «nuova economia collettiva» e attraverso un breve excursus sull’«economia catalana» illustra la posizione dominante di Barcellona nel complesso dell’economia spagnola e il relativo ruolo decisivo degli operai industriali della Catalogna nelle lotte sociali della classe operaia spagnola. Nella seconda parte sono presentati i metodi e i risultati del lavoro collettivo nelle diverse branche dell’industria. La terza e quarta parte offrono una descrizione per distretti geografici, città e villaggi, della crescita e del funzionamento di un’economia comunale più o meno completa.
A differenza dei vari «decreti di socializzazione» della storia europea recente, il decreto di socializzazione del Consiglio economico catalano del 10 ottobre 1936 non è che la legalizzazione di cambiamenti nell’industria e nei trasporti quali erano già avvenuti di fatto. «Non contiene alcuna indicazione speciale che vada al di là dei limiti già posti dal movimento spontaneo dei lavoratori.» Non ci furono lunghi studi sui «compiti e i limiti della collettivizzazione», non ci fu alcun gruppo di esperti studiosi, arbitrariamente scelti, privi di ogni autorità reale come la famosa Commissione speciale permanente della Rivoluzione di Febbraio del 1848 o la sua copia fedele della Commissione per la socializzazione in Germania nel 1918-’19. Il movimento operaio spagnolo sindacalista e anarchico, ben preparato a questo compito da molti anni di continue discussioni tenute negli angoli più remoti del Paese, possedeva maggiori nozioni e una concezione realistica dei passi necessari per raggiungere il fine economico di quanto non avesse mostrato di possedere il movimento operaio sedicente «marxista» in situazioni analoghe in altre parti d’Europa.
È vero che in questa prima fase eroica il movimento spagnolo in certa misura trascurò di salvaguardare le nuove condizioni economiche e sociali che aveva conquistato. Anche questo errore iniziale, che poté essere rimediato solo parzialmente più tardi, era difficilmente evitabile in quelle situazioni. A eccezione dei Comitati delle milizie antifasciste, formati da rappresentanti stessi del movimento operaio libertario, non c’era allora né un’autorità esecutiva né un parlamento. Neppure vi erano grandi proprietari capitalisti da espropriare. Una parte considerevole delle maggiori imprese erano di proprietà del capitale straniero. I rappresentanti di quest’ultimo, come i grandi capitalisti locali, erano stati sostenitori più o meno espliciti dei generali ribelli. I due gruppi erano fuggiti non appena la ribellione di Franco a Barcellona fallì, quando addirittura non avessero già previsto in anticipo questa eventualità e avessero abbandonato il Paese ormai avviato alla guerra civile, come Juan March e François Cambo. L’offensiva contro il capitale, iniziata dai lavoratori catalani immediatamente dopo la repressione della rivolta di Franco, era molto simile ad una guerra contro un nemico invisibile. I dirigenti delle grandi ferrovie, delle Compagnie dei trasporti urbani, delle Compagnie di navigazione del porto di Barcellona, i proprietari delle industrie tessili di Tarrasa e Sabadell erano spariti e, un fatto eccezionale, nell’impossessarsi dell’azienda tranviaria di Barcellona i lavoratori trovarono negli uffici della grande compagnia monopolistica un solo individuo tremante al quale in un impulso di magnanimità vennero risparmiate la vita e la libertà.
Così il proletariato catalano si installò come volle nelle fabbriche e negli uffici capitalistici che erano stati abbandonati dai loro padroni. Dopo la presa di possesso dei lavoratori le imprese collettivizzate funzionavano come «Società per azioni dell’economia capitalista». Le assemblee generali dei lavoratori procedevano alla elezione dei Consigli in cui erano rappresentate tutte le varie fasi della produzione – produzione in senso stretto, amministrazione, servizi tecnici ecc. Il collegamento permanente con il resto dell’industria era mantenuto dai rappresentanti dei corpi centrali dei sindacati, che partecipavano anche alle sedute dei consigli. La direzione stessa degli affari era lasciata a un direttore scelto dai lavoratori di ciascuna fabbrica; nelle imprese più importanti tale scelta era subordinata al consenso del consiglio generale della rispettiva industria; non c’era motivo per cui non dovesse essere eletto chi in precedenza era stato proprietario, manager o direttore dell’impresa socializzata.
Questa analogia esteriore non significa affatto che la collettivizzazione non avesse cambiato il sistema di produzione delle imprese industriali e commerciali. Essa dimostra semplicemente la relativa facilità con cui in circostanze fortunate, quali qui si presentarono, si possono ottenere profondi mutamenti nella direzione della produzione e nel pagamento dei salari senza grandi trasformazioni strutturali e organizzative. Una volta completamente eliminata la resistenza dei vecchi padroni dell’economia e della politica, i lavoratori in armi poterono procedere direttamente dai loro compiti militari a quelli costruttivi della trasformazione della produzione in ciò per cui si erano preparati – cosa che a molti osservatori era sembrata solo una smisurata illusione e un’«utopia».
Anche per il problema, complicatissimo per il socialismo, della collettivizzazione dell’agricoltura, quei lavoratori avevano preparato un programma assolutamente realistico, senza esagerazioni, fretta o errori psicologici. La risoluzione sulla collettivizzazione della terra che era stata approvata dal congresso della cnt a Madrid nel giugno 1931 e che da allora, attraverso tutte le vicissitudini di un movimento rivoluzionario ora all’attacco ora in ritirata, era stata diffusa e accuratamente illustrata in tutto il paese da propagandisti anarchici e sindacalisti, fornì una guida pratica all’azione del luglio e dell’agosto 1936 dei lavoratori agricoli e piccoli affittuari lasciati completamente alla propria iniziativa senza impedimenti provenienti da nessuna autorità o tutela esterne. La forma concreta con cui questo compito venne risolto dai produttori agricoli stessi è illustrata da una risoluzione dell’assemblea plenaria dei lavoratori agricoli della Catalogna e dalle regolamentazioni e dai piani organizzativi adottati in seguito da essa in vari distretti e comuni nell’annata agricola 1936-’37.
In questa sede possono essere discussi solo i punti principali dell’accurata e dettagliata presentazione della collettivizzazione nelle industrie più importanti – trasporti, tessili, alimentari ecc. – che costituisce la seconda parte del libro. Questi capitoli mostrano non solo la nuova organizzazione sociale delle industrie ma mettono in rilievo con chiarezza i grandi successi iniziali della iniziativa economica e sociale del movimento operaio libertario per i lavoratori stessi e ancor più per il mantenimento e l’espansione della produzione. Leggiamo dell’abolizione di condizioni di lavoro disumane, di aumenti salariali e riduzioni dell’orario di lavoro, di varie nuove forme di egualitarismo dei salari tra vari tipi di lavoratori, qualificati e non qualificati, maschi e femmine, adulti e ragazzi, di «salario unico» e «salario familiare». Vediamo come il problema dell’incremento del miglioramento della produzione in ogni industria assuma importanza crescente di settimana in settimana. Leggiamo di industrie completamente nuove – come quella ottica – create dalla rivoluzione stessa; di procedimenti usati in alcune branche industriali prive di materie prime impossibili da ottenere o non necessarie ai bisogni immediati, per convertirle rapidamente alla produzione dei materiali bellici più urgenti. Ci viene raccontata la commovente storia di quegli strati più poveri della classe lavoratrice che sacrificarono volontariamente le loro condizioni finalmente migliorate per sostenere la produzione bellica e aiutare le vittime della guerra e i profughi dalle zone occupate da Franco.
Ma non sono queste virtù negative di sacrificio e rinuncia dietro le quali in questi ultimi due anni osservatori stranieri più o meno partecipi hanno troppo spesso obliterato le grandi conquiste dei lavoratori rivoluzionari, ad attrarre il nostro interesse principale. In questo periodo iniziale della collettivizzazione spagnola il nostro interesse principale va al ruolo importante assunto dal tipo particolare di sindacato, rappresentato nel modo più caratteristico dai lavoratori della Catalogna e di Valencia, che fino all’epoca presente era disprezzato e criticato dai ricchi sindacati inglesi e dalle potenti organizzazioni marxiste dell’Europa centrale e meridionale come una forma utopica destinata al fallimento in qualsiasi situazione critica. Queste formazioni sindacaliste, anticentralistiche e antipartitiche erano interamente basate sulla libera azione delle masse lavoratrici. Le loro attività di routine come di emergenza erano guidate sin dall’inizio non da una burocrazia professionale ma dall’élite dei lavoratori nelle rispettive industrie. Quella stessa élite cosciente, rappresentata dai comitati d’azione rivoluzionari creati dai lavoratori in lotta all’interno e fuori dei sindacati per affrontare i vari problemi a mano a mano che sorgevano, fornì l’iniziativa, la consistenza, l’esempio e l’azione per le conquiste fondamentali del nuovo periodo rivoluzionario. Questa lezione storica della collettivizzazione è d’importanza permanente per lo sviluppo organizzativo e tattico del movimento rivoluzionario.
Il vigore dell’atteggiamento anti-Stato del proletariato rivoluzionario spagnolo, libero da impedimenti organizzativi o ideologici autoimposti, spiega tutti i suoi sorprendenti successi di fronte a difficoltà schiaccianti. Spiega il fatto senza precedenti nell’esperienza europea che la collettivizzazione rivoluzionaria fu estesa sin dal principio e come cosa naturale allo Stato e alle imprese municipali così come alle aziende capitalistiche. A questo proposito interessantissimo è il resoconto della collettivizzazione del monopolio statale del petrolio e dei servizi pubblici (luce, acqua, energia). Anche la descrizione, per altri versi alquanto eccessiva, della rapida «collettivizzazione al cento per cento dei negozi di barbiere» e della egualmente riuscita «regolazione sociale del commercio ambulante» a Barcellona testimonia eloquentemente la capacità creativa peculiare di quella rivoluzione anche in un settore la cui stessa esistenza è in contraddizione con essa, sebbene contribuisca molto poco alla soluzione reale di problemi marginali per la rivoluzione proletaria, come sono quelli dell’artigianato e del commercio. I contributi reali della rivoluzione spagnola a questi problemi sono toccati solo indirettamente in rapporto al problema già menzionato della produzione agricola e nella discussione delle varie forme in cui è stata ottenuta la collettivizzazione su scala locale con misure che toccavano in grado maggiore o minore l’intera produzione e modo di vita delle città più piccole e delle regioni rurali.
Il carattere non più teorico, ma meramente descrittivo di queste ultime parti non permette che in questa breve recensione si riporti anche una piccola parte del suo ricco contenuto. Ognuna di queste quattordici brevi narrazioni, in apparenza simili a bozzetti, ma che in realtà toccano tutti i problemi essenziali della società, riproduce le caratteristiche più o meno tipiche eppure peculiari della nuova vita nelle mutevoli condizioni locali basate sullo sviluppo generale del Paese. La descrizione ha inizio con la situazione industrialmente avanzata del centro tessile di Tarrasa, vicino alla capitale, con i suoi 40.000 abitanti di cui 14.000 operai, 11.000 dei quali organizzati nella sindacalista cnt, mentre il resto faceva parte della socialdemocratica ugt. Da qui attraverso vari stadi intermedi scende verso i villaggi più poveri, primitivi, piccoli e piccolissimi di Catalogna, Aragona, della Mancha, lontani da ogni cultura urbana e industriale e purtuttavia profondamente toccati dalla nuova vita. A questo punto i curatori osservano: «Notiamo continuamente che è stato compiuto un grande progresso veramente rivoluzionario nelle città e nei villaggi piccoli e con pochi abitanti, un progresso indubbiamente più importante che nelle città con maggiore popolazione». Questo elogio della semplicità e della povertà è in singolare contrasto con le idee materialistiche del movimento marxista, ma è stata a lungo una caratteristica di questa forma del movimento operaio che nelle trincee della guerra civile spagnola e nella pazienza egualmente eroica delle popolazioni sofferenti di Madrid, Barcellona e Valencia ha portato avanti la lotta della classe lavoratrice temporaneamente sconfitta nel resto d’Europa. Questo stesso sentimento tocca il suo apice nella descrizione conclusiva di una piccola città di campagna situata in una provincia scarsamente popolata della Mancha. Qui i lavoratori erano sempre stati privati di attrezzature moderne e di opportunità culturali. Tuttavia erano organizzati nei loro sindacati sin dal 1920 e furono tra i primi ad adottare in modo integrale la nuova vita del comunismo libertario. Rifacendosi a questa esperienza il libro termina con una commovente affermazione: «Membrilla è forse la città più povera della Spagna, ma è la più giusta».
Note
1 Si tratta del saggio precedente.
2 Cfr. Collectivisations. L’œuvre constructive de la révolution espagnole. Recueil de documents, Éditions cnt-fai, 1937, p. 244.