Luci e ombre a Bologna
potenzialità e limiti della classe
La classe lavoratrice a Bologna, in questi ultimi anni sta vivendo un cambiamento su più livelli. Sta subendo una modificazione produttiva importante. Questa area è un polmone dell’economia italiana, legata al lavoro industriale, innestatosi in un fertile e sviluppatissimo terziario. Vi è una presenza di un bacino di ditte altamente qualificate, con all’interno una organizzazione del lavoro che tende sempre più a rendere automatizzato il lavoro, procedendo a una dequalificazione massiccia della forza lavoro. I tassi di disoccupazione sono attestati sul 4,5%, che si può definire il tempo fisiologico per chi passa da un occupazione a un altra. Vi è un massiccio uso della flessibilità produttiva e della contrattualistica precaria, anche grazie ai nuovi ampliamenti legislativi (vedi la scheda su questo numero sul lavoro interinale). Questa estrema mobilità, anche se riassorbita dall’occupazione, porta comunque ad uno stato di estrema inquietudine. Si assiste all'immissione di nuove fasce di lavoratori immigrati che si vanno a unire a quelli provenienti dal sud-italia. La provincia di Bologna non ha avuto in passato un’ immigrazione nazionale paragonabile alle altre regioni del nord Italia, questa inizia a essere significativa negli anni 90. Bologna era una meta per molti studenti universitari che finiti gli studi si fermavano a lavorare, ora tale fenomeno investe anche i giovani non laureati. La polarizzazione sociale che investe queste fasce di lavoratori immigrati tuttavia viene sentita anche da settori costituiti da giovani lavoratori bolognesi.
Esistono delle diffrenze per quanto riguarda i settori coinvolti. Le maggiori differenze tra le condizioni di lavoro si possono trovare nell’edilizia, nelle cooperative di facchinaggio, per arrivare a una relativa livelazione nel settore industriale. Anche se è quasi impossibile per un immigrato extracomunitario accedere ai settori impiegatizi.
La classe lavoratrice autoctona, o di vecchia immigrazione giocava un forte ruolo politico in questa regione, rappresentava una classe operaia qualificata, che a differenza di altre regioni era la porzione maggioritaria della forza lavoro. Ora con il processo di dequalificazione operato dalle aziede viene raggiunta da una nuova figura di lavoratore non qualificato, che in linea di tendenza rappresenta sempre di più la grande fascia di lavoratori nell’industria e nei servizi. I servizi ora si sono ampliati nella grande distribuzione, dai call center, alla logistica, dalle cooperative di fachinaggio, fino all’ampliarsi del settore delle pulizie. In questi settori è sempre più presente una figura di lavoratore non qualificato.
La forza politica più rappresentativa in questa regione era il PCI che era un partito operaio e contadino nel senso stretto del termine, e accoglieva al suo interno la figura del lavoratore specializzato, fortemente presente in questa regione. Inoltre era riuscito a diventare forza egemone durante la guerra di “liberazione” (ma non dai padroni...), cosa che gli permetteva di controllare sia l’aspetto democratico sia quello sociale complessivo della regione. E’ in questa regione che nei palazzi popolari veniva appesa in ogni scala l’UNITA’ ed esiteva una rete di feste popolari che finanziavano e mettevano in circolo questa società. La società “rossa” era basata su Comuni gestiti da sindaci di sinistra, Arci, Case del popolo, sezioni di partito, cellule di fabbrica, sezioni sindacali, ecc...
Questo infinito bacino di proletari e lavoratori che davano vita alla cosidetta “Emilia rossa” non aveva, tuttavia, prodotto molto come elaborazione collettiva indipendente. L’estrema spoliticizzazione operata dallo stesso PCI non va ricondotta alla svolta storica della Bolognina, ma a quel fenomeno di desertificazione della memoria e distruzione di spazi di pensiero e azione collettiva che venne imposta con la “russificazione” del partito. “Tutti quei militanti che hanno frequenti contatti con i compagni dei partiti di sinistra sono d’accordo nel constatare la loro insufficiente preparazione politica. Gli anni del ristagno togliattiano hanno portato questi compagni a dimenticare l’abc del comunismo. Essi la sanno più lunga sul gansterismo in America, sulle opinioni dei radicali contro i monopoli, sulla diplomazia dopo il Settanta, che non sulla storia delle lotte di classe e sulla storia delle organizzazioni della classe...Anche in questo caso la spoliticizzazione condotta dall’apparato è servita all’offensiva della classe dirigente nazionale, la quale ha cercato di costruire l’architettura dei nuovi valori mistificanti sul deserto dell’aridità burocratica. All’impostazione patriottica, nazionalistica, produttivistica, aziendalistica che fa da binario a quest’offensiva, l’accomodante togliattismo ha reagito cercando solo di estremizzare il contenuto di questi presunti valori, dando loro un colore più rosa per importarli tra gli operai” (1). Non esisteva all’interno del movimento operaio autoctono una corrente strutturata di estrema sinistra, le minoranze anarchiche o comuniste internazionaliste in questa provincia, subirono un riflusso velocissimo negli anni 40-50, a causa sia di limiti oggettivi, una corrente rivoluzionaria era stritolata dalla contrapposizione USA-URSS, e sia dalla scientifica campagna denigratoria e militare condotta dal PCI contro i militanti rivoluzionari (2).
Il PCI era riuscito a distruggere ogni tentativo di espressione proletaria indipendente, rendendo arido lo slancio di molti giovani lavoratori della FGCI nel 68 a Bologna.
Gli alti tassi di sindacalizzazione erano il deterrente negli anni 70 per smorzare le lotte, non è un caso che le opposizioni di fabbrica vivessero anche a Bologna un rapporto estremamente conflittuale con il sindacato(3). La forza sovversiva dei partiti e sindacati di sinistra era stata neutralizzata sia da condizioni privilegiate del movimento operaio a Bologna sia da una capillare stratificazione burocratica che queste formazioni si erano date. Tuttavia questo controllo sulla classe operaia permetteva una risposta massiccia agli scioperi sindacali e una forza da utilizzare nelle contrattazioni aziendali. La scollatura provocata alla fine degli anni 70, pur introducendo momenti alti di scontro sociale, non promuoveva lo sviluppo di un’esperienza proletaria che rompesse con la tradizione democratica della sinistra bolognese.
Ora le nuove porzioni sociali che entrano nella produzione vanno ad aumentare le figure non qualificate nell’organizzazione del lavoro e non hanno questo rapporto con il sindacato nè con le formazioni politiche di sinistra, ma al tempo stesso, non riescono a tramutare questo rifiuto in una comunità d’intenti attiva, tanto da leggitiamare l’analisi che osservava nella sindacalizzazione massiccia di Bologna un esempio di forza operaia che distrutta dopo l’inversione di tendenza, ha visto il calo delle ore di sciopero. La mancanza di conflitti sociali di un certo rilievo legittima ancor di più la posizione nostalgica, rispetto alla vecchia classe operaia sindacalizzata bolognese.
La vita politica in fabbrica è annullata, sporadici sono i volantinaggi, oltre agli strillonaggi di Lotta Comunista(4), e i volantini o fogli aziendali che abbiamo distribuito come Rete Operaia, sono rarissimi i volantinaggi di altri gruppi o partiti. Ci sono pochissimi fogli sindacali per i lavoratori, al tempo stesso i sindacalisti attuano un attento lavoro di demoralizzazione, incitando alla passività e all’ubbidienza nei confronti delle politiche aziendali.
Tutto questo favorisce l’estremo disinteresse dei lavoratori per la propria condizione che, oltre alla memoria di scioperi, significa anche esperienza proletaria nel suo complesso. Spesso si tralasciano quelle che sono state le rispettive esperienze politiche (i tentativi, i limiti e le differenze fra queste), oltre alla percezione dei lavoratori dello sfruttamento, che nell’azienda si manifesta, al ruolo degli operai di fronte alle macchine, al coporeparto, ai dirigenti, all’estrema polarizzazione che in questo contesto assume la società.
Questo è il panorama che si trova davanti un operaio oggi.
Perchè si fugge dalla realtà
Quando pubblicammo su Senza Freni n.2, foglio operaio della Ducati-Motor, l’articolo “Una vita di merda”, poi ripubblicato sul n.5 di PN, ci domandammo se il prendere in esame gli aspetti più quotidiani della vita di fabbrica fosse corretto e non presuntuoso, visto che anche noi ne subiamo i “sublimi” influssi, tuttavia l’articolo ottenne un grande sucesso. Noi lavoratori tra lavoratori, subiamo gli stessi condizionamenti e la -merda- che si subiscono i nostri compagni, le cose che scriviamo non sono per tanto un atto d’accusa, ma un’ autocritica collettiva che rendiamo pubblica perchè pensiamo interessi tutti. Nell’articolo riportavamo alcune banalità rispetto ai luoghi comuni del dibattito sui luoghi di lavoro (sport, scomesse, ecc...) e della paura dei lavoratori di rendersi conto della miseria sociale in cui l’attuale società li relega e il relativo bisogno di anestetizzare tutto questo con una montagna di menzogne e informazioni inutili.
L’ossessiva attenzione alla pornografia nasconde una mancanza di socialità, la rincorsa alle scommesse una voglia di evasione impossibile, l’estrema attenzione alla cronaca nera e rosa alla mancanza di ogni ben che minima informazione sul ruolo che si riveste nella società. Si va dietro agli organi di informazione che danno più rilievo al furto in un appartamento di lusso che alla morte di un proletario sul lavoro, ci si scandalizza perchè esiste lo spaccio ma passa inosservato il lavoro in nero. Questi e altri esempi sono il risultato di una vita schiacciata negli spazi e nei tempi dai padroni, produci consuma crepa (5). Tutto questo rende visibile l'estrema impotenza della classe nell’affrontare lo scontro contro i padroni e la produzione.
C’è una rincorsa per uscire da quel cumulo di ferro, monitor, rumori e fatica che da evasione si tramuta in un rassegnato ergastolo a vita. E’ cosi che ci fingiamo piloti con una playstation, maschi quando mettiamo ben in evidenza che noi non siamo -froci -, oppure sappiamo tutto del seno di una valletta della TV.
Il processo di allontanamento dalla propria condizione tocca poi livelli insuperabili quando assistiamo a dibattiti tra esperti velisti, un tornitore e un montatore, sulla Luna Rossa di Prada (proprietario di stabilimenti tessili in Toscana). Chissa perchè non c’è la stessa attenzione alle condizioni di lavoro per i lavoratori del tessile, dove hanno uno dei contratti più sfigati, la cosa ridicola è che i nostri due ipotetici esperti hanno al massimo guidato un monopattino a Riccione. Poniamo questa domanda da un milione di dollari: è molto più innocuo per un padrone avere due fanatici di vela, o due operai incazzati per le condizioni di lavoro?. La risposta è facile...
Mangiare il più debole, è la linea che si segue per tirare avanti, un operaio di Bologna si lamenta del meridionale che a sua volta se la prende con l’extracomunitario, che a sua volte se la prende con l’extracomunitario di immigrazione più recente, per arrivare fino agli Zingari. Tutto questo valorizzando la voglia di lavorare, l’onesta, il rispetto della proprietà privata, tutti principi che compaiono sulle bandiere dei padroni.. Non è mai capitato di alzarvi e di non averne proprio voglia di entrare in quel merdossissimo posto di lavoro, ma di aver paura dei vostri stessi colleghi di lavoro, dei loro sguardi, della loro efficenza nella produzione...beh, interrempiamo qua altrimenti diventiamo troppo cattivi.
La cosa assume poi aspetti tragici se si osservano i -maragli- in azienda che sono tanto bravi a prendersela con un loro collega quanto a essere lecchini con il caporeparto. Non crediamo che ci sia da vantarsi di quante scazzottate si fanno in un bar o allo stadio, se sul posto di lavoro si assume un comportamento da boy scout, o da grande famiglia. Anche in questo caso immaginatevi se una tale “violenza” fosse indirizzata nei rapporti di forza contro i padroni, ma si sa loro sono molto più forti e per quanto i nostri -maragli- si sforzino di essere -liberi e forti- sono -macchine- e -pecore- ubbidienti.
C’è stato un largo dispiego di energie del capitale per rendere -belli-, -piacevoli-, i materiali scadenti. Forse sarà pure una cazzata ma viviamo in un mondo di mobili IKEA, dimenticando che esiste anche il legno massello...
La cosa più -interessante- è l’estremo autoconvincimento di tutto questo, il bisogno continuo di autorità invocato dai lavoratori è la conferma della loro non-autorità, e la paura di vedere come è diretta dai padroni la loro vita.
Detto questo non è una risposta l’autocelebrarsi, il vantarsi della comunità di lavoro contrapposta ai -parassiti padroni-, in quanto la forza di questo sistema di produzione è il suo impersonalismo. La comunità proletaria nel suo affermarsi come comunità di lotta (in uno sciopero, in un pichetto, in una assemblea) deve effettivamante negare il suo ruolo di sudditanza sociale, ma qui in modo collettivo. La dimensione della celebrazione della fatica così come la più estrema passività nello scontro di classe equivale alla celebrazione della propria sudditanza.
Questa ultima problematica si innesta nella storia stessa del movimento operaio. La sua passività, se come abbiamo visto, è in gran parte figlia di una propria attitudine all’autoconservazione, ha certo trovato un aiuto nelle forze della sinistra ufficiale.
La burocratizzazione del vecchio movimento operaio ne ha sviluppato la passività “Il vecchio movimento operaio è costruito secondo il principio politico borghese del -capo e masse- ossia dall’alto verso il basso. Esso ha contribuito a migliorare le possibilità di esistenza di una parte del porletariato nell’epoca dell’ascesa del capitalismo. Ha sviluppato organizzazioni che sono diventate esse stesse membri della società capitalista. Queste organizzazioni a loro volta hanno allevato una divergenza, un apparato di funzionari, che nell’interesse della propria esistenza di casta si è contrapposta al proletariato esattamente come il capitale stesso”(6). Se una tale presenza era legata a sistemi di interrelazione tra capitalsimo privato e garanzie sociali, l’entrata in scena dello stato sociale ne è divenuto il vettore principale (guarda in proposito il n.5 di PN: Stato sociale contro la crisi, crisi dello stato sociale).
Non va dimenticato la lotta intestina fatta dalle formazioni riformiste e socialdemocratiche nel negare ogni capacità creativa in senso rivoluzionario della classe lavoratrice. La sconfitta storica della pratica consilare-autonoma ne è l’esempio vivente. Lo sviluppo di forme di lotta autonoma da parte dei lavoratori contro il capitalismo, si è impersonificato fin dall’inizio del secolo passato con i soviet in Russia nel 1905 fino ai soviet nella rivoluzione del 1917, per poi toccare la Germania, l’Ungheria e l’Italia negli anni 20, o più recentemente le assemblee autonome e i comitati di lotta negli anni 70, in Europa e negli Usa. In tali manifestazioni i lavoratori, partendo dall’organizzazione del lavoro, si rimodellavono in senso anticapitalista, fino a concepire un superamento del sistema di produzione capitalista. Queste forme spontanee della lotta di classe, erano fomentate e appoggiate da tutta una serie di correnti rivoluzionarie che spingevono per la piena indipendenza della classe lavoratrice, insistendo sulle capacità creative di questa. Tali forme sono state utilizzate, svuotate e distrutte dalla sinistra ufficiale, che si concepiva come depositaria della verità al di sopra della classe lavoratrice. La sinistra ufficiale represse tutte quelle correnti che mantenevano in vita l’idea di una classe operaia autonoma, favorirono una piena burocratizzazione e statalizzazione del movimento operaio e una netta divisione tra il piano politico e economico. La così detta divisione dei compiti e degli aspetti (economia-politica) ha favorito la presenza massiccia di notabili e borghesi dentro il movimento operaio, che attraverso la scusa del -portare la coscienza- giustificava il proprio ruolo burocratico all’interno della società e della comunità proletaria.
La scomessa ora è data da questo scollamento tra la classe lavoratrice e le sue presunte organizzazioni, e in questa divaricazione possono sperimentarsi nuove forme d’azione e nuovi movimenti.
L’altra faccia della medaglia
Se rimane valida l’affermazione che il proletariato non fa quello che vuole, ma quello che le condizioni oggettive lo spingono a fare, questo può spiegare in maniera più esaustiva la passività operaia, che la sola mancanza di “volontà di osare nella lotta di classe”. Molte volte, noi siamo i primi a non accorgerci che sono i nostri stessi compagni di lavoro ad aver più chiaro di noi quali sono i reali rapporti di forza tra le classi in questo momento. Noi possiamo anche incitare allo sciopero, ad aumentare il conflitto, tuttavia i lavoratori coinvolti possono benissimo sapere che il padrone può decidere di introdurre la cassaintegrazione o dismettere per un dato momento la produzione. Cosa se ne fa un lavoratore di una vittoria ideale se poi perde il posto!. Se poi si analizza l’attuale composizione di classe, questo non fa che accentuare quanto detto prima. Un lavoratore precario è si meno legato al lavoro, meno condizionato dal***********la mitologia aziendale e dall’aziendalismo sindacale, tuttavia il ricatto a cui è esposto tramite la disoccupazione rimane per lui un deterrente ad una possibile propensione per la lotta.
Noi non dimantichiamo che bisogna sognare, tuttavia non accergersi delle debolezze oggettive della classe lavoratrice rende sterile ogni nostra analisi critica.
Lo stesso sviluppo della burocrazia nel movimento operaio può trovare altre interpretazioni. Se il movimento sindacale incarna il potere materiale dei dirigenti sulla base operaia, dove questi burocrati dispongono degli strumenti di potere, dei mezzi finanziari, dei mas-media, dove vi è una identificazione tra burocrazia e organizzazione, ormai loro proprietà privata, nella quale i lavoratori non hanno più nessun peso decisionale e addirittura risultono estranei ad essa, bisogna comunque ammettere che la classe lavoratrice ha permesso questo e ne ha ricavato dei vantaggi. Con lo sviluppo del welfarestate i lavoratori hanno potuto godere di alcuni benefici, e in alcuni casi l’estrema burocratizzazione del sistema contributivo ha reso evidente la necessità di simili carrozzoni.
E’ ovvio che se si osserva su un piano generale (l’intera classe lavoratrice) questi miglioramenti erano in realtà briciole che poteva concedere il capitale, o rincorse per fermare un movimento in ascesa rivoluzionaria, tuttavia dal piano generale a quello particolare( che possiamo definire individuale per un singolo e una particolare parte di lavoratori) continano ad esistere delle differenze. E’ come affermare che le qualifiche danneggiano tutti i lavoratori, vi sono alcuni che con un tale sistema hanno potuto garantirsi un maggiore benessere a scapito di una stragrande maggioranza che era assunta con le basse. Il nostro obiettivo è quello di lottare contro i padroni e non contro dei lavoratori, e anche in questo caso tale suddivisione se su un piano particolare questo era un attacco di lavoratori contro altri lavoratori, su quello generale era una stratificazione che imponeva il padrone per dividere la classe lavoratrice.
Riprendendo gli esempi storici di prima, questo può spiegare il perchè alcune organizzazioni e correnti più funzionali all’espansione del sistema di produzione capitalista ma anche al movimento operaio si siano affermate invece di altre. Il movimento operaio ha una duplice natura, da una parte in quanto forza lavoro riproduce capitale, dall’altra per la sua stessa natura lo nega nella lotta di classe. La permanenza all’interno del movimento operaio di una tensione rivoluzionaria, rappresenta la negazione del capitalismo da parte del movimento proletario tramite la sua dissoluzione in quanto classe. Tale tensione non è di per se l’unica, anzi ha altresi piena leggittimità anche la parte propositiva in senso capitalista del movimento proletario che ne rappresentava una spinta all’integrazione nello sviluppo del capitalismo, con l’illusione che tale sistema potesse essere eterno e in continua espensione economica.
Si spiega in questo modo l’estremo radicamento di una formazione come il PCI qua in Emilia, un territorio economicamente ricco, che vedeva nell’URSS un passaggio in avanti dell’economia mercantile(7).
Questo modello è saltato nel momento in cui non vi è stata la capacità del capitale di offrire dei benefici sociali, e ciò può essere visto sul piano locale (Bologna) come su quello internazionale (URSS).
Eppure mai come ora...
Mai come ora la classe lavoratrice ha delle possibilità per utilizzare la sua forza. Vi è un incremento nella concentrazione di capitali, che rende più visibile la polarizzazione sociale, al tempo stesso la rete finanziaria e produttiva delle multinazionali-aziende si è estesa ramificandosi (8), lo stesso spostamento di industrie pesanti nel sud del mondo porta ad una aumentata produzione di beni nel primo mondo. L’industrializzazione dei nuovi paesi, ben lungi da rappresentare un principio della fine della produzione nel primo mondo, significa piuttosto un accresimento delle possibilità di esportazione. Infatti il paese che si trova ad assumere un nuovo ruolo per alcuni prodotti nella produzione iniziando ovviamente con i beni di consumo più semplici, provoca una reazione a catena, in quanto questa presenza di materiale prodotto suscita il bisogno di nuove merci, che la novella produzione non può soddisfare. Se un paese passa dalla produzione di biciclette a quella di automobili che fino quel momento aveva importato dal primo mondo, ciò provocherà una diminuzione rispetto al singolo prodotto nell’esportazione del primo mondo rispetto al secondo, ma crescerà l’esportazione di una serie di accessori per questa nuovo prodotto (materieli per infrastrutture dove poter circolare, sistemi di maggiore protezione dei veicoli, nuove lavorazioni in plastica e gomma, ecc...), oltre all’esportazione di numerosi altri articoli di cui prima non c’era fabbisogno il quale si sviluppa soltanto con l’aumento del potere di acquisto dei nuovi paesi. Per questi fabbisogni il paese in via di sviluppo dipende dall’indistria altamente sviluppata del primo mondo. Attraverso la maggiore industrializzazione del sud del mondo si modificherà quindi soltanto il carattere dell’esportazione verso quei paesi; l’esportazione stessa non cesserà, tenderà al contrario a crescere. Ci scusiamo per la lungaggine, ma crediamo sia opportuno ribadire che il modello a cui la classe lavoratrice si troverà davanti, non sarà un primo mondo desertificato dominato dall’immaterilaità della finanza e un sud del mondo che produce tutto, ma da una interrelazione maggiore tra primo e secondo. Questo alla classe lavoratrice può giovare nei termini di maggiori relazioni produttive e quindi tra lavoratori. In piccolo, sul bolognese per far compredenre sul lato empirico questo ragionamento, analizziamo per un momento lo schema produttivo di una fabbrica.
La Malaguti produttrice di motorini e scouter, ha un bacino produttivo che si concentra in due stabilimenti, a Castel San Pietro(BO) e a San Lazzaro(BO). E’ correlata da una miriade di sotto ditte che compongono l’indotto, tuttavia avviando un sistema di zero stock e di massima selezione delle ditte fornitrici, si arriva al punto che il blocco di una ditta dell’indotto può bloccare l’intera produzione della Malaguti. Lo stesso si può vedere nello stabilimento portoghese che produce componenti per i motorini per la Malaguti. I lavoratori precari della Malaguti (Interinali, stagionali) possono avere il polso della centralità del loro ruolo, rispetto all’ampiamento della produzione, così come gli operai dell’indotto, possono sviluppare una conoscenza del processo lavorativo complessivo, al momento dell’aquisizione di una dimensione a rete. Gli operai di una piccola ditta, rappresentano un reparto, di una grande ditta di 20 anni fa, la loro capacità di bloccare la produzione rimane immutata, anzi i margini di ricattabilità comlessiva contro il processo di lavoro sono addirittura aumentati, con la mancanza della ditta madre di grossi magazzini. Si innestano in questo modello dei primordiali processi di concentrazione, ne è un esempio l’aquisto dell’azieda di alcuni macchinari per la stampa delle scocche, dove viene chiesto agli artigiani di entrare in fabbrica, recidendo quel principio di autonomia che prima tanto era sbandierato nel modello emiliano (su questo piano confrntare lo schema di produzione della SMART nello stabilimento francese riportato su questo numero di PN).
Su un piano internazionale questo può assumere aspetti ancor più evidenti quando la rete produttiva si trova non ristretta ad un area territoriale limitata come può essere una regione o provincia, ma quando supera i confini nazionali. L’ottimizzazione della produzione e la ricerca di un maggior plusvalore ha fatto sì che si innestasse una mastodontica catena di montaggio, ma dove questa se interrotta in un punto non ha possibilità di sostituzione immediata.
I lavoratori possono sfruttare questa debolezza del capitale per sferrare attacchi precisi, per poter riportare dei risultati. In una fase di polarizzazione sociale, e dove è ormai chiaro che il traguardo per lo sviluppo del capitalismo è la rincorsa all’impoverimento della classe lavoratrice, perchè base del sistema di produzione capitalista, il piano sindacale viene a saltare o in molti casi è lui stesso che abdica, vedi il rifiuto del sindacato ad organizzare i precari per miglirare le loro condizioni. Lo stesso discorso vale per le organizzazioni politiche di sinistra che hanno perso la loro base sociale essendo impossibilitate a difenderle realmente utilizzando lo stato sociale ormai in crisi. Non è solo per bieco opportunismo che la fine del PCI o del PSI pur con notevoli varianti all’italiana (fine del mito sovietico per i primi e ladri patentati per i secondi) abbia coinciso con la fine di un avanzamento delle politiche sociali, nella relativa impossibilita di una politica keniesiana, relativa all’estremo indebitamento pubblico. Cosa che rende velleitario lo scimmiottamneto di Rif Com nei confronti della politica del PCI.
E’ ovvio che le novità del capitalismo e le potenziali risposte della classe lavoratrice rappresentano solo una possibilità, il -nuovo capitalismo- può offrire un ritorno della vecchia lotta di classe...ed è dentro questa ipotesi che la rete operaia si colloca.
Note:
(1) Danilo Montaldi, da Azione Comunista, Milano, n.33, 15 maggio 1958. Non è nostra intenzione fare tuttavia l’apologia del vero partito rivoluzionario del PCd’I nel 1921 contrapposto al PCI degli anni 30, o del dopo Lione...perchè tale formazione fin da l’inizio subi l’omogenizzazione russa. Il gioco di specchi che si è creato tra il movimento operaio e la tradione democratica-staliniana, ha di fatto strozzato fisicamente e culturalmente le altre ipotesi che si erano date nel movimento proletario.
(2) Vedi Fausto Atti comunista internazionalista, trucidato dai partigiani demo-stalinisti il 27 marzo 1945 a Trebbo, BO. Per una maggiore conoscenza della presenza delle minoranze rivoluzionarie e del loro ruolo e valutazione sulla resistenza: A.Peregalli, L’altra resistenza, il PCI e le opposizioni di sinistra 1943-1945, Graphos, Genova 1991. Pietro Bianconi, Gli anarchici italiani nella lotta contro il fascismo, Edizioni archivio famiglia Berneri, Pistoia ,1988
(3) Per chi è interessato possiamo fornire materiale della metà degli anni 70 a Bologna: Proposta di piattaforma per la conferenza operaia del Comitato di lotta della Ducati meccanica (l’attuale Ducati Motor), i fogli del Gruppo di Autodifesa Operaia della medesima fabbrica e il materiale della rivista bolognese CONTROPOTERE, periodico comunista.
(4) Lotta Comunista è un partito leninista, che rifiuta il parlamentarismo e sul terreno sindacale è interno alla CGIL. Tutta la sua attività si rivolge alla propaganda e alla formazione di militanti per il partito. Nega ogni indipendenza e autonomia della classe lavoratrice nella lotta di classe. E’ stato fondato all’inizio degli anni 60 e raccoglie in diverse città decine di lavoratori e studenti. Lotta comunista, Via Iglesias 37, 20128 Milano.
(5) Dall’album, Socialismo e Barbarie del gruppo punk CCCP.
(6) P.Mattick, La crisi mortale del capitalismo, Programma degli IWW, Chicago, 1933
(7) Il comunismo, ossia l’abolizione del sistema di produzione capitalista non è mai esitito in Russia, cosi come sono falsanti le valutazioni che vedono nella morte di Lenin la fine del socialismo in Russia o la sua degenerazione. Il potere d’azione della classe lavoratrice in Russia è stato solo momentaneo e neppure generalizzato, si può leggere in proposito il libro di Maurice Brinton, 1917-21 i bolscevichi e il controllo operaio, Jaca Book, Milano, 1976. Per una interpretazione del sistema di produzione in Russia dato dalle sinistre rivoluzionarie: L’antistalinismo di sinistra e la natura sociale dell’URSS, Feltrinelli, Milano, 1975. I testi possono essere richiesti a PRECARI NATI.
(8) Pino Tagliazucchi, Piccolo è stupido, il processo di centralizzazione del capitale: fusioni e acquisizioni, La città del sole, Napoli, 1999