Tecniche di
controllo alla giapponese a Bologna: il Kaizen alla Ducati-Motor di Borgo
Panigale
“Di
tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva è la classe
rivoluzionaria stessa” Karl Marx
Molto
si è scritto sulle nuove forme di organizzazione del lavoro, che si possono
trovare nelle fabbriche e nelle aziende. Tuttavia poco spazio si è lasciato al
giudizio dei lavoratori. Le loro forme di difesa, la percezione operaia dei
nuovi modelli di controllo che presuppongono le nuove organizzazioni del lavoro,
è lascita nel dimenticatoio. Nulla si è fatto per mettere in rilievo la nuova
classe operaia di fronte a queste nuove forme di sfruttamento e inquadramento al
lavoro. Una nuova classe operaia che sta radicalmente cambiando il volto delle
aziende. Operai con contratti precari, Cfl, stagionali, interinali,
dequalificati e altro dato da tener in considerazione, una forte presenza di
operai extracomunitari.
E’
importante ripartire dall’esperienza diretta degli operai, utilizzare la
percezione diretta che provoca l’inquadramento al lavoro, il rapporto con un
caporeperto, le “piccole” peripezie per avere una casa e muoversi visto
l’abbassamento del potere di aquisto dei salari. Un inchiesta fatta in questo
modo oltre a descrivere lo sfruttamento capitalistico porta ad un duplice
effetto:
1)
Si assume un punto di vista interno alla vita aziendale, si riesce a percepire
quello che i sociologi non riescono a descrivere: la vita le sofferenze dei
lavoratori contro il lavoro, le forme di organizzazione di base nella resistenza
contro i padroni. E’ in questo modo che si arriva a comprendere che in alcuni
casi sono i muri dei cessi della fabbrica ad essere la memoria storica...
2)
E’ un ottimo modello di propaganda diretta, che riesce a coinvolgere e far
sentire partecipi altri lavoratori, visto che è fatta da lavoratori per
lavoratori. Il prendere in considerazione la propria posizione
nell’organizzazione sociale capitalistica, e in special modo nella fabbrica,
arriva ad essere il primo passo per capire la divisione in classe e il rapporto
di lotta che esiste tra queste.
Queste
considerazioni assumono un importanza fondamentale, in un momento in cui la
classe operaia non a più vincoli con le organizzazioni ufficiali che la
rappresentavano un tempo. E’ quindi indispensabile
trovare descrivere le forme di autoidentificazione e di capacità di
forza collettiva.
La
classe è al tempo stesso produttrice di capitale, ma ne è anche negatrice,
vive dialetticamente nell’essere parte del capitale e suo unico possibile
elemento di negazione. Si a quindi nel suo sviluppo storico un elemento
derivante dalla composizione del capitale, che rende la classe, vincolata dai
livelli di accumulazione capitalista, ma al tempo stesso possiede una vita
propria, fondata sulla negazione di questo sistema, che fa si che si possa
determinare una storia di classe fatta dalla classe stessa. Va in questo senso
l’estremo interesse all’esperienza proletaria rivoluzionaria antagonista al
capitale[1].
Non
è una riedizione di un tardo operaismo, ribasato su un soggettivismo che non
prende in considerazione il livello di accumulazione del capitale, ma è il
prendere in considerazione in un momento di crisi per il capitale le forze
sociali che possono intervenire in senso rivoluzionario in questo dato momento.
E’ per questo motivo che l’interesse si sposta ancora una volta
sull’eterna contraddizione capitale-lavoro, con le masse che porta con se e
nell’organizzazione spontanea che si da la classe in lotta (scioperi, comitati
di lotta, assemblee) contro il capitale. In una fase di recessione le classi
lavorative meno qualificate, più precarie, subiranno l’urto maggiore, ed è
in questo processo che vediamo una nuova possibile dimensione rivoluzionaria di
classe. Per partecipare attivamente a questo processo, bisogna codificare,
immergersi all’interno della classe, capire l’organizzazione del lavoro
capitalista e l’attacco che porta con se contro gli operai. Questo è forse
l’unico compito affidato alle realtà operaie che si battano per
l’organizzazione diretta di classe.
Il
Kaizen
“Il
movimento non è sinonimo di lavoro. Solo il lavoro aggiunge effettivamente
valore al prodotto. Uno dei compiti principali dei dirigenti è controllare che
ogni movimento dei lavoratori sia proficuo ai fini produttivi e non si disperda
in un inutile agitarsi” Ohno, Lo spirito Toyota
Il
Kiazen non è un sistema nuovo, visto che ormai è da almeno una decina di anni
che in molte ditte in Italia si è sperimentato questo modello, vedi in questo
caso il modello della FIAT di Melfi[2].
Il
Kaizen è un modello-filosofia aziendale della Toyota, che ha visto nella figura
di Ohno[3]
il suo padre fondatore.
Tale
modello si basa sulla diminuzione del personale e su una diversificazione nella
produzione adeguata al mercato. Il risparmio della forza lavoro è uno dei
paradigmi portanti di questo modello.
L’azienda
segue l’orientamento del marcato, non produce quantità massicce ma si calibra
alla domanda sul breve periodo (alla Ducati-motor vi sono alcuni modelli che
prima di essere prodotti devono essere ordinati via internet). Si azzerano i
magazzini e si concepisce una fabbrica snella e flessibile, quella stessa
flessibilità che viene successivamente utilizzata a livello contrattuale e di
orari per sopperire agli sbalzi di produzione e ai cali.
Ma
il sistema Toyota non è solo questo, è l’affidamento delle mansioni
burocratiche ai singoli operai. Si chiede non solo di svolgere una mansione, ma
anche di contribuire alla programmazione delle mansioni altrui. E’ un
primordiale processo di estrazione di intelligenza operaia ai fini del profitto
capitalistico. Questa metodologia viene definita Kan-Ban, in italiano la si può
tradurre “cartellino”, infatti gli operai non fanno altro che compilare un
cartellino che riporta la qualità ed il tipo di pezzi prelevati. I rimpiazzi
vengono riordinati ai reparti a monte o ai fornitori esterni dopo la raccolta
dei predetti cartellini, cioè dopo che se ne manifesta la reale esigenza. Tutto
questo diminuendo la cosiddetta burocrazia di magazzino.
Vi
è quindi un doppio livello che si può osservare in questo modello:
1)
adeguamento alle esigenze di mercato, e alla crisi in cui versa il sistema di
produzione capitalista. Arrivando a dover ammettere che non esiste un modello
infinito di espansione del capitale (vedi in proposito i continui accenni di
Ohno alla crisi)
2)
coinvolgimento operaio nella produzione, nel momento in cui l’atomizzazione
del processo produttivo a svuotato ogni conoscenza operaia sul macchinario. Si
arriva quindi a creare una forma virtuale di conoscenza, da dare agli operai,
per farli sentire meno disumanizzati. Ovviamente le proposte che azienda e
operai possono contrattare sono a sistema chiuso, e sempre predefinite dalla
ditta.
Nell’analizzare
questo tuttavia non bisogna cadere nel modernismo (ricerca di novità, in
mancanza di chiare analisi rispetto ai processi sociali in atto), visto che le
forme di coinvolgimento operaio al lavoro erano sviluppate quanto ora.[4]
Cosi
come bisogna tenere presente che il modello Toyotista riguarda la produzione di
veicoli, cosi come nel modello fordista. Che come il secondo (nel maggior
sviluppo del sistema fordista, la popolazione lavoratrice mondiale che lavorava
con questa organizzazione toccava a malapena il 3%, di cui bianca e maschile),
il toyotismo è prima di tutto una filosofia e metodologia aziendale applicabile
solo in determinate produzioni.
Il
controllo che provoca questo modello è sicuramente più sottile e -democratico-
del rigido burocratismo della fabbrica “fordista”, tuttavia nel suo rendere
partecipi i lavoratori dimostra la sua debolezza. I lavoratori sono ancora una
volta al centro del loro modello, si invitano i capi reparto e i dirigenti a
magiare con loro, si devono abbassare a parlare con gli ultimi, per far si che i
lavoratori producano in un sitema sempre più alienato. Appare quindi
prepotentemente un sistema che si basa interamnete sulla produzione reale,
questo in barba a tutti i produttori di immaterialità... Ogni singolo elemento
organizzativo, dalle macchine al personale per la manutenzione e la logistica
sono rivolti ancora una volta verso all’operaio che produce e che deve
produrre sempre meglio e più velocemente...
Disvelare
il livello ideologico che sta dietro a questo modello è compito di tutti i
lavoratori che vogliono lottare per gli interessi della propria classe.
Nelle
fabbriche dove è passato si è visto un aumento dei ritmi, e della
concentrazione che i padroni chiedono ai lavoratori, e in termini di qualità
della vita ai lavoratori poco è venuto in tasca da questa “autogestione
operaia” imposta dall’alto.
In
questi ultimi mesi anche a Bologna sta prendendo piede questo modello in alcune
ditte. E’ sperimentato in due delle più importanti fabbriche del bolognese:
la Ducati Motor e la Fini Compressori. Il modello che verrà impiantato in
queste due fabbriche deriva dal Kaizen ed è stato copiato dallo stabilimento
della Porsche di Stoccarda, non è un caso che si è avuto nei due stabilimenti
italiani ingegneri tedeschi della Porsche, che hanno preparato i gruppi guida
per la realizzazione dell’introduzione di questo nuovo modello di
organizzazione del lavoro. Come Precari Nati, abbiamo editato un foglio operaio
territoriale (ZONA INDUSTRIALE, foglio operaio territoriale di Zola Predosa e
Casalecchio) che cerca di mappare questa situazione, portando il contributo di
operai dello stabilimento della Porsche di Stoccarda sul loro modello di
produzione interno. Abbiamo cercato di precedere la direzione di queste aziende,
riportando le lamentele di questi operai tedeschi, per rendere più eloquenti le
critiche che hanno formulato i compagni che lavorano in queste fabbriche.
Riportiamo ora una scheda scritta da un operaio della Ducati-Motor sull’introduzione di questo modello in fabbrica:
La
puzza di benzina mi fa girar la testa,
quando
sto su di lei è proprio la mia festa,
mi
guardo quando passo sui vetri dei negozi,
mi
accorgo che con lei mi sembro proprio Fonzie…
Coro
E
sai che hai una bella moto sta sera voglio uscire con te (due volte)
Ritornello
Sei
come la mia moto, sei proprio come lei
Su
vieni farci un giro, fossi in te io ci starei
Lorenzo
Cherubini alias Jovanotti da La Mia Moto
Immaginate
che una mattina, magari di Lunedì, veniate accompagnati come se foste
visitatori appassionati di motociclismo o più verosimilmente una vociante
scolaresca, all’interno del Museo della Ducati-Motor in un sala molto simile a
quella di un cinema d’essai: poltrone comode, ambiente familiare, aria
di svago. Allontanarsi da i reparti in gruppo accompagnati dal direttore di
produzione, invidiati dai compagni che restano a lavorare, produce un senso di
liberazione istantaneo, si sale ai piani alti. Le luci soffuse della sala
conciliano il sonno cullati dalle timide chiacchiere dell’audience, ma
la presenza di loschi figuri della direzione e la soffocante atmosfera di
partecipata conciliazione tra lavoratori e management che si instaura,
stomaca da subito, sta per iniziare un singolare lavaggio del cervello: una
lezione di Kaizen/basics. Lo schermo mobile su cui proiettare velocemente lucidi
su lucidi scende, entrano altre facce poco raccomandabili insieme ad altri
lavoratori della Ducati (vestiti da vallette) che montano la scenografia: sono
dei collaboratori del DIP, ovvero Ducati Improvement Process. Alla fine
ci sarà pure uno dei partecipanti ai workshops che ripeterà
pedissequamente le bagianate in salsa New Age già esposte durante la lezione
dai vari quadri aziendali, così come nel Multi-level marketing per convincere i
malcapitati c’è chi in presentazioni ad effetto, tra cubiste e tartine al
finto caviale, espone la sua rapida ed inarrestabile ascesa grazie alla vendita
dei prodotti della ditta che ha organizzato l’happening, o come chi nella
pubblicità, facendo sfoggia di una linea invidiabile, sfila in costume da bagno
mentre appaiono in sovra-impressione le foto della vita precedente che
dovrebbero documentare l’esito prodigioso di una dieta all’avanguardia[i].
Comunque
ci vengono chiesti i nomi ad uno ad uno, da quant’è che siamo in azienda (e
non per quanto ci resteremo…), come ci troviamo e se abbiamo qualcosa da
chiedere. Inizia un interrogatorio mascherato da un amichevole scambio di
vedute, si fanno domande stupide il pubblico risponde. Si passano in rassegna i
vari argomenti, si susseguono i lucidi, le uniche lamentele che escono sono uno
sfogo momentaneo da si lavora male, cioè bisognerebbe lavorare meglio - ci si
lamenta di tutto tranne che dell’essenziale - , Il nostro salame in
piedi con l’abilità di un conduttore di quiz televisivi annuisce soddisfatto
quando si da le risposte corrette sugli argomenti trattati, qualcuno viene
chiamato a rispondere, altri fanno sfogo della loro intelligenza da settimana
enigmistica. La soddisfazione del cliente, l’incremento dell’immagine - cioè
la ‘creazione di valore’ secondo gli addetti ai lavori - , la sottrazione
alle altre case motociclistiche di quote di mercato ed il consolidamento della
propria performance di vendita - l’obbiettivo di produzione si aggira sulle
40.000 unità quest’anno - sono gli scopi che l’azienda, in totale e
imbarazzante accordo con i sindacati, si è preposta, la riduzione dei costi per
unità di prodotto è il tramite per migliorare la performance.
Quindi
flessibilità oraria: sabati lavorativi, precarietà della forza lavoro:
interinali, contratti a tempo determinato, cfl, aumento dei ritmi e dei carichi
di lavoro, peggioramento delle condizioni di lavoro da punto di vista della
sicurezza, sono il lato oscuro della competività, naturalmente tralasciati
dall’azienda durante questa esilarante lezione.
Tutto
funziona, se hai le allucinazioni, John Lennon
Le
espressioni ‘valorizzazione delle risorse umane’ e ‘radicale cambiamento
di mentalità’ ricorrono ossessivamente durante la lezione. Le risorse umane
dovrebbero contribuire ad individuare gli sprechi, evidenziare i problemi,
eliminare gradualmente le operazioni che non concorrono alla ‘creazione di
valore aggiunto’: si dovrebbe contribuire a ridurre i ‘tempi morti’, cioè
ogni movimento non direttamente funzionale alla produzione,
azzerare le scorte (zero stock) in magazzino e riduzione dei polmoni
all’interno del ciclo produttivo, segnalare le disfunzioni ed allo stesso
tempo risalire alla fonte del problema ( i cosiddetti ‘5 perché’),
spremendosi le meningi, per risolverli attivamente.
In
Ducati non ci sono pause collettive se non per mangiare, chi lavora in catena di
montaggio o nei sottogruppi che l’alimentano, lavora dalle 8 del mattino alle
5 del pomeriggio con un ora di pausa, mentre chi è in officina lavora su tre
turni e chi è al collaudo lavora su due. In catena il tempo che guadagni
nell’operazione che svolgi ti permette di berti un caffè al volo, mentre se
si è amanti delle sieste prolungate in bagno è meglio aspettare gli
ultimi 5 minuti in cui la linea si ferma per espletare i vostri bisogni
fisiologici. Ai sottogruppi il ritmo è più blando, anche se alcune operazioni
ti inchiodano al banco di lavoro pressato dalla logica del ‘just in time’
che non ti permette di avvantaggiarti più di tanto con le richieste della
linea. I jolli di linea ( che lavorano sempre e comunque più di 8 ore),
dovrebbero sostituirti in caso di necessità, in realtà svolgono la
funzione di tappa-buchi per le persone che mancano in quel dato giorno o aiutano
il magazziniere, recuperano le moto non complete prima del collaudo o si
prodigano in veloci recuperi nel caso in cui un pezzo precedentemente non
reperibile dal magazziniere arrivi, montandolo prima che la moto scenda dalla
linea, quando non lo fa l’operatore stesso. Il sabato poi si lavora sei ore
filate, l’unica speranza in una pausa sta nel mancato arrivo di alcune
componenti essenziali come motori, telai e forcelle( Fedeli alla linea ferma
è lo slogan lanciato da un operaio interinale). Chi schiaccia il fungo
dell’emergenza, che ferma la linea, viene subito identificato… gli viene
chiesto per quale motivo l’ha pigiato. I compagni di lavoro sono sempre
solerti nell’avvertirti mentre la moto è ancora sulla linea se vi è un
componente - che avresti dovuto montare - mancante, o se il suo montaggio non è
conforme e magari impedisce ad un altro operatore di assemblare correttamente un
altro pezzo, oppure segnala all’operatore al banco di lavoro la non conformità
di un pezzo che ha assemblato: L’auto controllo è evidente, ma la sua
percezione non è tale, è più un aiuto che fa si di non ricevere un
rimprovero, tralasciando i casi di servilismo di bassa lega, e gli spioni di
turno che applicano alla perfezione il postulato: mors tua, vita mea. Vi è una
scheda in cui si segnalano i difetti al motore ed al motociclo ed in cui inoltre
si scrive il pezzo mancante, il tutto corredato da firma. Per le componenti
difettose - anche per delle viti non filettate, dei dadi con dei trucioli
metallici no rimovibili – si compila una scheda di non conformità, e si
poggia tale componente su di un apposito carrello.
Se
il collaudatore trova un difetto lo segnala su di una scheda che il responsabile
del collaudo alla fine della giornata raccoglie. Il giorno successivo, tranne i
casi di grave errore a cui è applicata la legge coranica per i ladri recidivi,
o passa uno del controllo qualità facendoti presente l’errore, o osservando
come compi la sequenza di operazione, prendendo in mano la scheda del ciclo di
produzione[ii],
ti da i consigli del caso, oppure il capo-collaudo con tanto di capo-reparto
marca visita talvolta con il direttore della produzione, vieni cazziato a
dovere, invitato ‘cordialmente’ a fare più attenzione, pena la non conferma
a fine contratto se sei precario, un soggiorno prolungato nella postazione in
cui ti trovi se sei fisso, o un posto sempre prenotato sulla pedana della
linea…L’assunzione in Ducati per i precari interinali e non, l’ascesi a
Jolly-aiuto magazziniere, a collaudatore, al controllo qualità, al
- urlo di tromba, rullata di tamburi - reparto esperienze o reparto corse
(come il nostro amico citato
all’inizio che guarda a caso da Jolly sponsor del Kaizen è entrato al reparto
corse) è l’ambizione comune quanto meno per uscire dalla trincea della linea.
Vestire una tutina di colore diverso: rosso fuoco in caso di un collaudatore,
grigio chiaro in caso del controllo qualità, o anche le vesti tra il tirato ed
il casual dell’impiegato, non è certo il destino degli operai meno
accondiscendenti ai voleri dell’azienda e invisi al sindacato.
La fabbrica dei sogni è
l’incubo di tutti i giorni
Il Kaizen, svestito dei
suoi aspetti più pacchiani, fa presa sul feticismo per il prodotto che si fa e
per l’immagine che ne si ha all’esterno: il mito Ducati. La direzione
sfrutta le conoscenze tecniche e la sensibilità estetica degli operatori
generalmente appassionati neofiti, aspiranti raiders, o consolidati
motociclisti, rimuove i problemi essenziali o li canalizza verso l’amore per
l’azienda ed un surplus di auto-controllo o di controllo reciproco che si
integra su un controllo diretto ed un ricatto costante. Inoltre su dei
cartelloni verticali grafici e statistiche informano della quantità degli
errori commessi operazione per operazione, cioè postazione per postazione, le
imperfezioni riscontrate anche in caso di un pedissequa esecuzione del ciclo di
produzione e come sono state migliorate (ci manca solo il ‘moviolone’ da
Domenica Sportiva per completare il quadro). Sapremo come classe operaia rompere
questo incubo?.
PRECARI
NATI Bologna
e-mail:
ti14264@iperbole.bologna.it
[1] Su questi argomenti si può leggere: Luci e ombre, potenzialità e limiti della classe, Precari nati n.7 maggio 2000
[2] Laura Fiocco, La cellularizzazione della forza lavoro e le forme di resistenza alla FIAT di Melfi, Collegamenti Wobbly n.6-7 1998-99
[3] Ohno, Lo spirito Toyota, il modello giapponese della qualità totale. E il suo prezzo, Einaudi, 1993
[4]
“In molti casi gli operai trasgrediscono ai regolamenti e oltrepassano i
compartimenti stagni delle reciproche funzioni: come nel caso del reparto
che fa gli utensili al widiam, cioè gli utensili da tornio o fresa. Quando
un fresatore di questo reparto riceve un’ordinazione, deve innanzitutto
andare lui stesso a procurarsi il disegno, consultare gli schedari, e fare
perciò un lavoro per il quale non viene pagato perchè questo spreco di
tempo non è previsto dal marcatempo. Come un automa potrebbe accontentarsi
d’eseguire il pezzo conforme al disegno, ma l’operaio sa per esperienza
che non deve farlo, se non vuole avere delle grane. Infatti, se gli utensili
che ha fatto non si possono utilizzare, corre il rischio di farsi insultare,
anche se gli utensili corrispondono esattamente al disegno. Ma succede
spesso che una piccola modifica del disegno, fatta nel corso della
lavorazione, possa facilitare lo svolgimento delle operazioni”. Questa
lunga citazione non parla di una fabbrica toyotista, ma della normalissima
Renault in Francia negli anni 50-60 (D.Mothé, Diario di un operaio
1956-1959, Einaudi editore, 1960). Questo sapere operaio dato al capitale,
non è da leggersi a senso unico. In molti casi è uno strategemma dei
lavoratori per evitare -cazziate- inutili dei capireparto o per rendere meno
-lobotomizzata- per alcuni istanti la propria vita dentro la fabbrica. E’
un metodo di difesa contro l’alienazione e la monotonia del lavoro. Quindi
queste correzzioni erano prima di tutto uno strumento dei lavoratori più
che un aiuto dato ai padroni.
[i] Il DIP è il progetto speculare di trasformazione dell’organizzazione del lavoro attuato alla Porche, a sua volta mutuato dal sistema Toyota con l’assistenza dei suoi ingegneri gestionali. I Work-shops sono i gruppi di lavoro a cui partecipano operai e quadri responsabili del reparto e del DIP che reparto per reparto partendo dall’officina e sotto l’iniziale collaborazione dell’ E.C. della Porche stanno ‘gradualmente migliorando’ l’organizzazione del lavoro, è questo che significa grosso modo Kaizen.
[ii] Documento di produzione in cui vengono descritte minuziosamente le operazioni da compiersi, gli strumenti da utilizzare, la verifica del corretto assemblaggio.