un punto di vista operaio
“Presuppongo naturalmente lettori che vogliono imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche
pensare da sè”
K.Marx
Questo
opuscolo nasce dalla collaborazione tra il GOA, Gruppo Operaio Autorganizzato
della Mangeti Marelli e Precari Nati.
Il
Quaderno vuole offrire un altro punto di vista sulla Magneti Marelli e più in
generale sul comparto metalmeccanico a Bologna.
Il
materiale si basa sul comportamento operaio in azienda e sulle motivazioni che
spingono i lavoratori a lottare contro i padroni.
E’
per questo che parliamo delle lotte degli anni 40 e di quelle del 70. Già
sapere che è esistita una risposta operaia, una capacità di autorganizzarsi
per contrastare il padronato è già un contributo contro l’apatia e il buio
storico imposto dai padroni.
Questa
breve ricostruzione, non si trova nei libri di scuola, nè la studiano gli
studenti all’università. Noi operai possiamo offrire un’altra storia, la
nostra storia.
In
questo Quaderno si cercherà di illusrare le innovazioni teconologiche alla
Weber, perchè attraverso lo studio dell’organizzazione del lavoro, noi operai
possiamo avere più mezzi per contrastare i padroni.
E’
nell’azienda che il lavoratore forma tanto la sua rivolta contro lo
sfruttamento quanto la sua capacità di ricostruire un tipo superiore di società,
la sua solidarietà di classe con gli altri lavoratori e il suo odio per lo
sfruttamento e gli sfruttatori, i padroni ed i burocrati.
Non
facciamo l’apologia di un vuoto “operaismo” spesso barattato con un basso
populismo produttivista, ma vediamo ancor oggi la forza collettiva e di comunità
della classe lavoratrice. Questo osservando la vita in fabbrica, le piccole
lotte, la solidarietà tra lavoratori, tutte “piccole questioni” che abbiamo
la pretesa di chiamare: nuovi rapporti sociali, ossia un altro modo di
relazionare con le persone, di considerare i padroni e i burocrati per quel che
sono.
Il
Quaderno e’ uno strumento che offriamo a tutti i lavoratori della Magneti e in
generale di Bologna, per ipotizzare un altro modo per contrastare il padronato
senza farsi gestire dal sindacato.
Costituire
una rete di lavoratori solidali tra loro, passa attraverso la comprensione dei
fenomeni sociali e produttivi del territorio, della propria memoria e storia, e
della comunanza della condizione che ci viviamo tutti i giorni sulla pelle.
“La
storia di ogni società finora
esistita è storia di lotte di classi”
Gli
operai della Weber, e successivamente Magneti Marelli, hanno seguito i vari
cicli di lotte operaie che si sono avuti in Italia. Si ricordano a Bologna i
primi scioperi legati al clima di instabilità politica e inasprimento delle
condizioni di vita operaia negli anni 40.
La
Weber sarà la prima fabbrica a Bologna a scioperare nel 1943. Si venne a creare
una situazione che solo attraverso una lotta radicale poteva portare dei
vantaggi per gli operai.
La
nuova fase politica di quegli anni con il tracollo del fascismo portava nel 1944
alla situazione di non sapere più cosa sarebbe rimasto del lavoro in piena
instabilità politica. Vi fu da parte operaia una spontanea richiesta di
migliorare il salario, di diminuire l’orario di lavoro, anche attraverso forme
come il sabotaggio. Questo si innestava nella generica richiesta dei partiti
della sinistra di non dare nessun aiuto al regime e di non offrire ai
nazifascisti industrie produttive. Mentre avveniva tutto questo il padronato,
intimorito sia da una crisi reale in cui versava l’economia in Italia e sia
dal relativo pericolo operaio, in quegli anni si arriverà ad avere solo un
30-40% delle maestranze rispetto al periodo precedente, licenziava o diminuiva
l’organico.
Questa
combattività veniva immediatamente sconfessata dopo la fine del conflitto. Nei
mesi successivi alla fine della guerra gli scioperi venivano osteggiati da tutto
l’arco “pre-costituzionale” italiano. L’uso della forza operaia ora
doveva essere disinnescato. Si arriverà da parte della sinistra ufficiale a
eliminare fisicamente gli operai scomodi come nel caso del comunista
internazionalista Fausto Atti (trucidato da partigiani stalino-democratici il 27
marzo 1945 a Trebbo BO).
Per
rivedere scioperi che arrivassero a riversarsi nella città, si dovrà aspettare
la stagione del 68.
Gli
operai della Weber parteciperanno all’autunno caldo e vi sarà in questa
fabbrica la costituzione di comitati di lotta indipendenti dai sindacati.
Attorno a questa fabbrica come ad altri grandi fabbriche di Bologna vi sarà un
intenso lavoro politico, che porterà alla stesura di numerosi materiali,
ricordiamo in proposito il testo “I problemi della giovane classe operaia
al centro dell’azione politica dei giovani comunisti”, a cura della FGCI
di Bologna del 1968 comparso su Gioventù operaia. In questo breve, ma
esauriente documento si illustra il modello produttivo all’avanguardia della
Weber rispetto alla figura dell’uomo macchina (operaio autistico rispetto alla
macchina attiva) e alla polarizzazione tra tecnici altamente specializzati e
operai addetti a lavori ripetitivi e manualistici.
Ci
sembra di una attualità evidente citare un passo di questo documento: “
Per chi non ha mai lavorato a catena può sembrare leggero il compito di questi
operai, molti dei quali lo svolgono stando seduti davanti ad un tavolo: lo è
per un’ora, due, ma dopo una giornata c’è da impazzire, e se si pensa che
questa gente lo svolge da anni, senza apprendere professionalmente nulla, nel
mezzo di un rumore assordante mentre migliaia di cestelli colorati vanno e
vengono senza sosta, si capisce come essi siano sottoposti ad una degenerazione,
ad un abbrutimento della loro personalità: è il prezzo che devono pagare per
girare in automobile e per fare girare gli altri”
I
documenti prodotti sulla Weber giravano anche nella stampa cosiddetta “operaista”,
sul giornale LA CLASSE -operai e studenti uniti nella lotta- n°7.
del 14/21 1969 veniva riportato un volantino che metteva in luce i collegamenti
che gli operai dovevano creare tra di loro per unificare i loro sforzi contro il
cottimo...
Non
bisogna dimenticare tuttavia che Bologna, e più in generale l’Emilia Romagna,
non riuscì ad esprimere un punto di vista operaio che in prospettiva potesse
rompere con le organizzazioni tradizionali di sinistra (PCI e CGIL in primis).
Questo era dovuto ad un controllo attento di queste organizzazioni che
riuscirono a tutelare in modo abbastanza localista gli interessi delle
maestranza operaie bolognesi. Tale situazione era il prodotto dello sviluppo
industriale locale, che non portò a mutazioni radicali a livello di
organizzazione del lavoro e urbanistico, cosa che avvenne invece in altri
capoluoghi nel nord Italia. Non si vivrà una immigrazione massiccia e vi sarà
sempre una capacità di inter-relazione tra le strutture sindacali ed economiche
cittadine, utilizzando ovviamente il sistema cooperativo. Questa incapacità si
tramuterà in una effimera consistenza per tutte quelle esperienze che si erano
mosse indipendentemente dai sindacati e partiti della sinistra basandosi su un
punto di vista operaio.
Lo
scollamento che si avrà nella rivolta “studentesca” del 77, toccherà
marginalmente il clima nelle fabbriche e ben più importante non seguirà quello
che erano i rapporti di forza tra operai e padroni in quel periodo. La vita
operaia in fabbrica negli anni 80 rispecchierà le evoluzioni del comparto
metalmeccanico a livello nazionale.
In
questi ultimi periodi una risposta indipendente dei lavoratori latita o è
“marginale” come la lotta degli stagionali di recente memoria. E’ cronaca
recente il delirante centenario della FIAT, che è stato propinato anche alla
Weber Magneti Marelli ( industria del gruppo FIAT), e le continue repressioni
che subiscono i lavoratori combattivi, queste sono le ultime per ora......
“La
stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacche la macchina non
libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro”
Affrontare
una ricostruzione tecnica dei passaggi che l’organizzazione del lavoro alla
Weber sarebbe troppo lungo per essere riportata in questo Quaderno, perciò ci
limiteremo ad affrontare il livello di automazione che la fabbrica ha vissuto
negli anni 80-90, cosa utile per decodificare i punti deboli dove poter
intervenire per fare sentire la nostra pressione contro il padrone.
Quando
passò il grosso della cosiddetta “automazione” in Weber le lavorazioni
riguardavano principalmente due prodotti: il carburatore
e il sistema di iniezione.
Questi
due modelli hanno avuto un diverso destino, con un incremento esponenziale dei
sistemi di iniezione.
E’
interessante tuttavia vedere come all’epoca di questa mini rivoluzione in
fabbrica il prodotto che maggiormente “tirava” era il carburatore. Tale
prodotto aveva all’epoca una notevole diffusione e la fabbrica aveva delle
buone commesse.
Si
avviò in fabbrica una standarizzazione dei prodotti e una relativa riduzione
dei tempi complessivi di produzione, che determinarono un aumento dei ritmi e
una previsione di quella che sarebbe divenuta la produzione flessibile. A questo
passaggio si legava l’introduzione di tipologie contrattuali flessibili che
potevano assecondare il flusso produttivo. Si avvierà l’introduzione dei
sistemi Cad (nuovi modelli di progettazione che mutavano anche la figura del
porgettatore e del tecnico).
La
parte tuttavia più interessante riguardava il decentramento produttivo per le
prime fasi di lavorazione del prodotto e la parte riguardante il montaggio.
Al
montaggio vi sarà la fine della “linea”(rondò di carrelli) sostituita dal
“modulo”.
Questo
veniva introdotto dall’azienda per i seguenti motivi:
accorciare
i tempi di cambio lavorazione riducendo la giacenza sui carrelli
imporre
una suddivisione rigida e programmata delle operazioni andando ad imporre una
riduzione dei tempi individuali
introdurre
il centro del montaggio robotizzato per le operazioni standard
diminuire
gli scarti
ridurre
ancor di più i tempi eliminando il collaudo a fondo linea
Questo
ovviamente intensificava i ritmi di lavorazione, ma portava gli operai ad avere
rispetto a questa novella rigidità (da lavorazioni fisse a posti di lavoro
fissi e sequenziali) delle armi da adoperare, si potevano facilmente creare dei
“tappi di bottiglia” causando delle assenze improvvise sulle singole
postazioni di lavoro e/o dai diversi livelli di produttività dei lavoratori.
Tale rigidità rendeva ancor meno digeribile il lavoro portando a dei
comportamenti che urtavano e urtano il cosiddetto spirito di squadra...
L’introduzione
dei robot ha rilevato la notevole fallacità di queste macchine, rispetto agli
errori e alle frequenti rotture. Aumentarono i ritardi nella finitura del
prodotto, questo handicap aumentò anche a causa dell’eliminazione del
collaudo, che portò gli scarti a lievitare sino a raggiungere il 30%-40% al
flussaggio.
Mentre
veniva introdotto tutto questo il controllo rispetto alla salute e alla
sicurezza in fabbrica diminuiva, anche grazie ad una politica dello struzzo del
sindacato.
Sono
stati introdotti gruppi di lavoro per il montaggio e il collaudo, cercando di
superare i “colli di bottiglia” con la polivalenza delle operazioni e si è
assistito alla “autodeterminazione” da parte dei gruppi di lavoro dei tempi
e delle modalità di lavorazione, portando come unici parametri di valutazione
per l’azienda la qualità e le quantità prodotte.
E’
significativo che queste recenti innovazioni siano state sperimentate dagli
operai per migliorare la propria condizione, tuttavia la pochezza dell’azione
sindacale sempre tesa a santificare il produttivismo, non vide quella che era
una forma di difesa operaia, portando queste innovazioni come una dimostrazione
della possibilità di costruire una allegra brigata in fabbrica che vede uniti
padroni e operai.
L’interscabliabilità
delle postazioni o l’affincamento a volte sono per gli operai dei modi, anche
se il modulo non lo permetterebbe, per rompere la routine quotidiana o mezzi per
socializzare (fare le cosiddette due chiacchiere) con un collega.
L’automazione,
in sintesi, è servita oltre ad assecondare l’oggettivo sviluppo del sistema
produttivo capitalista a controllare maggiormente gli operai. In questo rapporto
vi è stata una delle ultime “rivoluzioni” del capitale che è riuscito a
prevenire maggiormente una possibile risposta operaia. Il provare a creare un
sistema ibrido che mette assieme “l’autocontrollo” dei lavoratori al
controllo della macchina è un fenomeno generale che investe tutta l’industria
Non
è un caso che nel 92 si aveva qui in Weber, attraverso l’accordo sulla qualità,
l’introduzione dei Team, sul modello FIAT a livello nazionale. La Weber è
stata la prima fabbrica nel bolognese a sperimentare questa forma. Tale
modificazione organizzativa prevedeva un coinvolgimento delle rappresentanze
sindacali aziendali su un complesso di materie quali quantità, qualità,
affidabilità della produzione. Si insiste che il raggiungimento dei risultati
positivi fa perno fondamentalmente sulle motivazioni professionali dei
lavoratori, chiamati a sperimentare un modello organizzativo di gruppo a
gerarchie ridotte. Il nucleo produttivo è individuato nella UTE (unità
tecnologica elementare), che hanno una autonomia gestionale e si strutturano su
team di lavoratori, ognuno con un proprio “team-leader”. I team hanno piena
responsabilità anche in termini di controllo sulla qualità dei prodotti.
All’epoca dell’introduzione di tale modello coinvolsero, attraverso percorsi
formativi, subito 250 dei circa 1200 lavoratori della Weber.
“Caro
padrone domani ti sparo, farò di tua pelle sapon di somaro”
Che
cosa significa combattere contro i padroni? Chi sono e cosa vogliono?.
Quello
che dobbiamo prima di tutto dire è che non è solo per arricchirsi che i
padroni sfruttano i lavoratori. La ricchezza dei padroni non è assolutamente
proporzionata al loro potere. Per esempio, Agnelli in proporzione alle macchine
che produce, dovrebbe andare vestito d’oro, invece si accontenta di una nave e
di un aereo privato... cose che può benissimo permettersi un altro padrone con
una fabbrica più modesta della FIAT. Quello che interessa ad Agnelli è la
conservazione, lo sviluppo e la crescita del capitalismo. Il capitalismo è una
potenza impersonale e i capitalisti agiscono come suoi funzionari (la stessa
cosa avveniva in Russia con i dirigenti di partito).
Ciò
che rivela la presenza del capitalismo è il profitto. Una distribuzione del
profitto più “giusta” non ha nulla a che vedere con un miglioramento
collettivo dei lavoratori, perche solo da un rovesciamento dei rapporti di
produzione capitalistici si può distruggere il profitto.
In
fabbrica, come in altri tipi di aziende, i padroni hanno reti per mantenere
questo controllo e esercitare il potere, capo reparti, team leader, guardiani
ecc...
Questa
burocrazia, che ha nella polizia l’espressione sociale generale, è da
considerarsi uno degli ostacoli importanti che in una lotta un lavoratore si
trova davanti. Al tempo stesso il rapporto tra i lavoratori e le macchine
(automatizzazione) rappresenta una forma di controllo che la macchina, e quindi
anche il padrone, esercita su di noi, pensate alle macchine a controllo numerico
e alle nuove tipologie di linee di produzione, così come i computer per i
tecnici e gli impiegati. Vediamo come la “facilita del lavoro diventa un
mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro” anzi ne
accentua i livelli di controllo. Oltre ad essere diretti come appendici dalle
macchine, siamo consapevoli che il nostro lavoro è inutile e insensato, per chi
lavora in linea o al montaggio dopo diversi anni di lavoro quello che ha appreso
è una serie di gesti ripetitivi che ci rovinano la schiena e le mani. Noi
lavoratori tuttavia non siamo contro le macchine, ma contro coloro che usano le
macchine per farci lavorare oltremisura.
“I
sindacati mancano in genere al proprio scopo in quanto si limitano a una guerra
di scaramucce contro gli effetti del regime esistente, anzichè lavorare nello
stesso tempo alla sua trasformazione e servirsi della propria forza organizzata
come di una leva per l’emancipazione definitiva della classe lavoratrice, vale
a dire l’abolizione definitiva del salariato”
L’integrazione
sindacale nell’attuale società è dimostrata da tutte le scelte di fondo
fatte dal capitale:
Accettazione della fantomatica politica dei redditi e dell’occupazione,
subordinazione dell’aumento salariale e una maggiore flessibilità d’orario
all’aumento della produzione e dei relativi profitti aziendali. Cosa che viene
anche avvallata delle “nuove” figure contrattuali (interinali) che vengono
barattate come nuova occupazione
Partecipazione
alla gestione aziendale (contrattazione del cottimo, della nocività, ecc...)
che di fatto sono un riconoscimento di tutti quegli strumenti per dividere i
lavoratori
Castrazione
e isolamento di tutte quelle lotte che si muovono
verso obiettivi più qualificanti e collettivi per i lavoratori: lotta per
l’assunzione degli stagionali, sciopero contro la guerra
Favoreggiamento
di un maggiore allargamento delle tipologie contrattuali, il lavoro interinale
è stato avvallato dai sindacati
Il
sindacato vede il lavoratore come un produttore e mai come un proletario con
bisogni che vanno ben al di la del produrre. Tale figura rende schiavo il
sindacato della mentalità produttivista e dell’etica del lavoro. Pur vivendo
in una società dove il ricatto della disoccupazione ci viene propinato
continuamente, non possiamo dimenticare che sopra i campi di concentramento i
nazisti scrivevano: Il lavoro rende liberi.
Vi
è una separazione tra dirigente e diretto, tra iscritto e non iscritto tra un
lavoratore di una categoria e un altro
I sindacati alternativi-cobas pur offrendo generosi sforzi per mantenere un
livello di conflittualità contro i padroni, hanno accettato tutte le
compatibilità e necessariamente sono diventati delle strutture in piccolo sul
modello dei confederali. Vi è una corsa alle tessere, al rapporto di trattativa
con i padroni dimenticandosi quali sono i rapporti di forza che fanno piegare i
padroni. In più rimane di fondo la convinzione che il miglioramento dei
lavoratori sia dovuto ad un ampliamento della distribuzione sociale, non
mettendo minimamente in discussione quelli che sono le cause di una tale
divisione. Tale modellistica arriva al deliro di potenza quando vede
l’ampliarsi del conflitto rispetto al numero di tessere raggiunte o di
eletti....
“Di
tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva è la classe
rivoluzionaria stessa”
Intendiamo
per metroperaio la capacità che hanno i lavoratori di misurare e rapportarsi
allo sfruttamento in modo autonomo partendo dalla loro condizioni di vita.
Nell’azienda si vede quella che è la produzione capitalista, che riflette i
modelli di controllo nella società. Se vi è lo sfruttamento si può anche
intravedere una possibile collettività antagonista, la solidarietà di classe e
l’ odio per i padroni. Viviamo in una società che si basa sullo sfruttamento.
Riteniamo che i padroni hanno come terreno centrale l’estensione dei profitti,
quindi il terreno su cui possiamo più colpirli è quello della produzione, e
nel quale noi superiamo le nostre differenze di area geografica, di colore della
pelle ecc... Favoriamo le lotte autonome dove i lavoratori creano forme di
autorganizzazione basate sull’assemblea e l’azione diretta, che altro non
sono che un primo livello di potere dei lavoratori. Un intervento di classe si
dirige infatti a modificare i rapporti di potere nell’azienda, anche come
obiettivo permanente e fondamentale della lotta stessa.
Bisogna
legare le manifestazioni di “insofferenza” al lavoro ad una dimensione
collettiva, per rendere tali comportamenti una forza da utilizzare contro i
padroni. L’utilizzo delle mutue, la dimenticanza nell’esecuzione di un
compito sono manifestazioni di conflitto, non è tuttavia nostra intenzione fare
l’apologia del rifiuto o di una fisiologica disaffezione al lavoro che hanno
gli esseri umani. Arrivare a formalizzare il malcontento con pratiche di lotta
collettive è per noi un segnale positivo dovuto anche alla consapevolezza che
l’isolamento favorisce solo il padrone. Siamo consapevoli delle difficoltà
che una tale opzione porta con sé in un periodo che ci vede ricattati di
continuo rispetto alle ristrutturazioni e alla relativa disoccupazione, tuttavia
è importante ribadire che la crisi che sta attraversando il capitale deve
essere in primis una crisi da far pagare ai padroni. Siamo stanchi di essere
ricattati e di subire tutto.
Non
abbiamo contropiattaforme particolari da proporre ma riteniamo più interessante
favorire e allargare i conflitti che già ora si pongono e che vengono vissuti
dai lavoratori ogni giorno: salario, ritmi, sicurezza, orari. In questo
partecipiamo attivamente offrendo la nostra solidarietà, la partecipazione
diretta e il senso critico. Per esempio rispetto al contratto nazionale
metalmeccanici, bidone di livelli colossali, più che muoversi con delle contro
proposte è stato interessante analizzare tale trattativa e utilizzare i momenti
di conflitto che ha portato con sé. Abbiamo veicolato un altro punto di vista e
ci siamo aggancianti, dove ci sono state, alle spinte indipendenti che
contrastarono tali trattative. Vale lo stesso discorso per il lavoro interinale
entrato ormai in Weber. Risulta impossibile scatenare una battaglia contro
questa forma contrattuale, più interessante è coinvolgere questi lavoratori
nelle problematiche interne all’azienda e farli sentire uniti ai lavoratori a
tempo indeterminato. Una lotta contro questa forma contrattuale non sarà mai
gestita solamente dai lavoratori interinali, e neppure da una sola fabbrica,
facilmente accerchiabile dal padronato, ma da una generale risposta operaia che
sappia legare tutte le manifestazioni di disagio operaio, rispettandone i vari
contenuti e manifestazioni. Puntiamo ad una unità tra tutti i lavoratori
indipendentemente dalla tipologia contrattuale e pensiamo che forme di
solidarietà e di collegamento con altre situazioni lavorative (territoriali e
aziendali) possano favorire le nostre battaglie interne. Il metro che
utilizziamo può essere uno stimolo e un propulsore per momenti di conflitto da
allargare in tutta le sfera sociale dei bisogni immediati (casa, servizi).
Tendiamo a valorizzare nell’azione militante l’abolizione delle gerarchie
negli incarichi, autogestione delle lotte, socializzazione delle esperienze di
conflittualità e insofferenza al lavoro. Il nostro terreno è quello
extrasindacale ed extraparlamentare, non riconoscendo le regole legali imposte
dai padroni per delimitare, per i loro interessi, lo scontro di classe.
Riteniamo che un gruppo attivo di lavoratori debba fondere l’aspetto economico
e politico visto che esiste un intreccio visibilissimo tra condizioni di lavoro
e gestione complessiva della società. I lavoratori non devono adottare
religiosamente le parole d’ordine di un gruppo o di un programma qualsiasi, e
neppure del nostro, ma devono pensare da soli, decidere e agire loro stessi.
“E’
tempo di abbandonare discussioni bizantine sul’organizzazione, sognarne
future, estasiarsi con l’illusione di macro-organizzazioni che rappresentano
in ogni momento, tutti gli interessi del proletariato. L’organizzazione è
l’organizzazione dei compiti”
Nei
momenti in cui i lavoratori hanno avuto il potere di decidere, hanno vissuto
quello che noi definiamo l’autorganizzazione operaia.
L’autorganizzazione
operaia è il movimento reale in cui la classe acquista -anche momentaneamente-
una dimensione collettiva d’azione. Un movimento, la cui origine si trova
nelle contraddizioni esistenti tra capitale e lavoro, si rende visibile, come
risposta generalizzata, quando occupa la totalità dello spazio sociale,
superando, in una fase montante, il terreno aziendale. Assume diverse forme: il
sabotaggio, il rifiuto del lavoro, lo sciopero di solidarietà, l’assemblea,
l’autorganizzazione della lotta ecc.. La ricerca di questa espressione
indipendente di classe segue un lungo purgatorio.
Dall’insubordinazione
individuale all’azione collettiva, dall’egoismo corporativo alla comunità
d’azione. Le forme di rappresentanza dell’autorganizzazione operaia seguono
un lungo sviluppo dialettico in cui ogni nuova tappa è unita alla precedente
mediante la sua negazione e assimilazione. In questa evoluzione sorge l’autorganizzazione
come forma superiore di collettività operaia, come concretizzazione di un
movimento sovversivo. Nonostante ciò gli obiettivi possono porsi in funzione
dei padroni, se non diventano una vera e propria frontiera di classe. Le forme
dell’autorganizzazione sono di per sè ambivalenti, come lo é la stessa
classe lavoratrice, in quanto forza lavoro, e forza che nega il sistema. L’autorganizzazione
operaia prende il via dalla condizione di sfruttamento del lavoratore salariato,
ma si estende, per il suo carattere di movimento reale comprendendo nel suo seno
altre porzioni di classe quali i detenuti, gli studenti lavoratori, i
disoccupati.
A
chi crede che queste cose siano “roba vecchia” rispondiamo che non possiamo
non sentire lo sfruttamento che ci viene imposto: i ritmi, le “favolose”
paghe, i turni, le ore di lavoro, la sicurezza (ogni giorno muoiono in Italia 3
persone sul lavoro). Riteniamo il movimento operaio legato alle vicissitudini
dello sviluppo capitalista. Se c’è stato un periodo di relativa quiete è
perchè il sistema di produzione capitalista si era stabilizzato, la rincorsa al
nuovo “modello del laisser faire” può riportare di estrema attualità la
vecchia lotta di classe, quando si manifesterà in tutta la sua magnificenza il
“nuovo capitalismo”. L’attuale società si sta manifestando con un
riformismo al contrario, ora a noi operai la risposta.
“I
lavoratori devono reagire all’offensiva reazionaria portando il peso della
loro volontà nella lotta. Nelle officine devono ritornare quelle assemblee
spontanee dove i lavoratori manifestano i loro propositi di azione. Si impone
un’opposizione rivoluzionaria e questa non può essere fatta a base di slogan
e di manifestazione comandate. L’unità e la lotta si esprimono nelle
manifestazioni che partono dalla base e la situazione è tale da richiedere
almeno la fiducia nella nostra forza”
Riportiamo
il racconto di un ex-operaio della Magneti Marelli, assunto con un contratto
stagionale, dello stabilimento di Bologna, che partecipò alla lotta per il
rinnovo dei contratti degli stagionali. Non possiamo certamente parlare di una
lotta vittoriosa, ma l’energia, la solidarietà, la forza che traspare da
questo racconto sono la miglior dimostrazione di quello che definiamo “nuovi
rapporti sociali”.
In
una lotta, indipendentemente dall’esito, durante la mobilitazione, gli operai
rompono gli schemi sociali, sperimentano altre forme di socialità, si prendono
gioco del potere dei capetti e dei dirigenti. In questa lotta gli operai hanno
dimostrato di non essere stati addomesticati e che il confine di potere dei
padroni può essere aggredito, basta essere uniti e determinati.
Non
è quindi un problema di organizzazione, di correnti, di sindacati, ma di
comunità d’intenti tra operai, di determinazione a vivere un momento di
lotta. La fabbrica è dura, tuttavia al suo interno più il padronato si impegna
a controllare, più produce una risposta operaia. Quando come operai viviamo
questi momenti di piena collettività d’azione, tante divisioni spariscono,
non ci sono vecchi e giovani, ne bianchi e neri, ne donne ne uomini, ma
sfruttati contro sfruttatori.
***
Inizia
tutto nel 1998, quando la Magneti Marelli per conto della Volvo apre una nuova
linea di montaggio in particolare di corpi farfallati ad iniezione.
Sembra
strano che il colosso svedese decidesse di venire a produrre in Italia, ma per
53 lavoratori inizia l’esperienza della Fiat.
I
colloqui vengono suddivisi tra i responsabili del personale, che bene o male
illustrano ai futuri dipendenti le solite baggianate pre-assunzione.
Per
me era la prima esperienza come metalmeccanico ed inoltre non c’ero mai stato
in una grande fabbrica, lo stesso valeva per molti dei neoassunti.
Durante
il colloquio ci promisero questo iter-assuntivo:
sei
mesi + sei mesi a tempo determinato, diciotto mesi con un CFL e infine la
fatidica assunzione a tempo indeterminato (vero miraggio per chi oggi si
avvicina a questo settore).
Sbrigate
le visite mediche e le questioni burocratiche, arriva il primo giorno di lavoro,
ci dividono principalmente nei reparti di montaggio e nella famosa linea ad U.
Questo modello di organizzazione interna non prevede più le grosse catene di
montaggio dove decine e decine di operai attaccati quasi l’uno all’altro
montavano pezzi sul pezzo passato dal collega della postazione precedente. In
queste linee le postazioni di lavoro sono molte di meno, in ogni postazione si
esegue una diversa operazione e l’operaio appena finito il pezzo non lo passa
più direttamente al suo collega o lo rimette sul nastro, ma lo inserisce in un
apposito carello, dove si trovano altri pezzi, producendo una grande scorta di
lavorati.
In
questo modo, non solo la produzione ne trae un vantaggio, perchè da ogni
singola postazione il numero dei pezzi prodotti può variare, non dovendo essere
legati l’una all’altra, ma si evità anche il blocco di tutta la linea
quando una postazione si ferma o si guasta, semplicemente perchè l’operaio
prende i pezzi dal carello e quindi dalla relativa scorta. L’autonomia di ogni
singola postazione è determinata solo dal numero dei pezzi che l’azienda
decide di tenere come scorta.
I
primi problemi in fabbrica ci furono intorno alla vertenza per il numero dei
pezzi voluti dall’azienda. Si presentò il pericolo di nocività dovuta alla
presenza di macchinari con grossi campi eletromagnetici e un banco alla resina
per l’isolamento dei circuiti elettrici.
Una
mattina, mentre entravo in fabbrica trovai un gruppetto di operai che
volantinavano davanti ai cancelli. Nel loro volantino questi operai facevano una
giusta critica al sindacato e proponevano un discorso di autorganizzazione e
discussione sui problemi in fabbrica.
Mi
misi in contatto con questi lavoratori che avevano volantinato e subito mi
trovai daccordo con loro.
Nella
nuova linea della Volvo mi capitò di lavorare in una strana postazione, era
quella della resina, che veniva utilizzata per sigillare i circuiti della
centralina.
Sin
dal primo momento avvertivo un certo mal di testa, quasi nausea come quando stai
per vomitare, poi c’era anche un altra questione, non ci avevano fornito
neanche i guanti appositi per lavorare con quel composto. Venendone a contatto
si poteva rimanere macchiati anche per una settimana, a meno che non ti pulivi
con il Metinil Isocianato, potente solvente che veniva utilizzato per rendere
lavorabile e liquida la resina.
Cercai
di parlare con i miei colleghi della salute sul lavoro, visto che molti
soffrivano di insistenti mal di testa e lacrimazioni. Li sollecitai a portare
uniti una protesta contro i capi sulla salute in fabbrica, tuttavia molti per
paura di attirarsi antipatie mi davono ragione ma nei fatti non facevano nulla.
Dopo
il quarto giorno di lavoro alla postazione della resina, mi sentii bruciare la
faccia e subito andai in bagno, provocando la rabbia del team-leader, e
guardandomi allo spechio mi ritrovai pieno di macchie, quasi fosse morbillo.
In
infermieria mi raggiunse un sindacalista che -fingendosi preoccupato- si diede
da fare per trovare il medico. La pantomima del sindacalista copriva una guerra
intestina per farsi le scarpe a vicenda, cioè una certa corrente sindacale che
voleva far le scarpe alla R.S.U. sfruttando tali vicende.
Vedendo
che il medico non c’era feci il permesso e me ne andai a casa.
Mi
sentii con gli operai che avevano diffuso il volantino, che mi consigliarono di
farmi fare un certificato dove si attestasse la probabile allergia sorta a
lavorare con la resina.
Ritornai
a lavorare con il certificato medico in tasca, mi presentai dal medico aziedale,
ma non era ancora arrivato, andai quindi in reparto per lavorare, ma mi
rifiutati in modo categorico di lavorare ancora su quella postazione. Dopo un pò
di polemica con i vari capetti andai di nuovo in infermeria per vedere se il
medico fosse arrivato, con uno della RSU. Lo trovai lì sulla sua poltrona, gli
spiegai il fatto, e gli dissi che indipendentemente da quello che avrebbe deciso
io, mai e poi mai, sarei ritornato a quella postazione. Il medico subito dopo
aver sentito le mie lamentele, aveva iniziato a spiegare che secondo la sua
diagnosi la mia reazione cutanea non era dovuta alla resina, ma al sudore
provocato dal caldo, tuttavia vista la mia determinazione mi concesse il
nulla-osta per non lavorare più a quel banco.
La
mia situazione era cambiata, ma quella dei miei colleghi era rimasta uguale,
infatti molti di loro continuavano ad avere mal di testa e a soffrire di
lacrimazioni.
Parlandone
con i compagni decidemmo, che era il caso di documentarci meglio sia sulla
resina sia sui campi eletromagnetici, ci incontrammo con un compagno medico
dell’USL che ci diede varie delucidazioni sia sulla resina che sui campi
eletromagnetici.
Ci
riunimmo e butammo giù il volantino, quello che sarebbe stato il primo di una
serie.
La
spinta l’avevamo avuta anche quando si seppe che 2 lavoratori che si erano
rifiutati di lavorare su “certi” banchi alla linea della Volvo, e non
avevano avuto il rinnovo del contratto.
Ovviamente
questo fatto aveva aumentato i timori dei miei colleghi in linea.
Subito
dopo aver volantinato, lì in reparto si accese subito un pò di dibattito. I
capi non avevano gradito molto la cosa, infatti si aggiravano per la linea molto
nervosamente cercando di tranquilizzare tutti quelli che ad un certo punto
cominciavono a fare domande.
Non
sò se per merito del nostro volantino (e della reazione dei lavoratori) o come
semplice coincidenza, ma cominciarono a fornirci guanti per la lavorazione della
resina e potenziarono anche l’impianto di aspirazione per quanto riguardava i
fumi. Purtroppo riguardo ai campi eletromagnetici non cambiò nulla. Mi resi
comunque conto che bastava poco per far saltare alcuni meccanismi in fabbrica.
Da
quel volantino decidemmo di firmarci GOA, Gruppo Operaio Autorganizzato, propriò
perchè avevamo fatto delle cose senza delegare nulla a nessuno, specialmente
rifiutando il sindacato.
Ho
parlato di questo per far capire in che clima si lavora alla Magneti Marelli, ed
in special modo come stagionale.
Cominciò
ad arrivare l’inverno, ed era il mese di novembre quando una mattina mentre
lavoravamo arrivò la notizia che da lì a pochi giorni avrebbe cambiato molte
cose. Si diffuse la voce che tutti i contratti dei semestrali non sarebbero
stati rinnovati perchè con la fine dell’incentivo della rottamazione si stava
verificando un calo produttivo per cui noi stagionali non saremmo serviti più.
Chiaramente
a me a ad altri compagni la cosa non convinse molto. Era impossibile, che nel
giro di pochi giorni, la fine dell’incentivazione della rittamazione, portasse
un calo così drastico delle richieste; infatti considerando che dall’inizio
dell’estate 98 si era registrato un vero e proprio boom di richieste d’auto
ed era da mesi che si lavorava a ritmi serrati, e in moltissimi reparti oltre
agli straordinari gionalieri si lavorava sistematicamente anche il sabato; la
produzione si fermasse così repemtimamente.
La
prima cosa che mi ricordo, fu il momento in cui la RSU convocò l’assebmlea
per illustrare la questione, fino a quel momento i miei colleghi non avevano
preso sul serio la notizia del non rinnovo, molti di loro erano quelli che si
prestavano maggiormente agli straordinari.
Prima
dell’assemblea pensammo che sarebbe stato buono fare un intervento come GOA,
dove si spronava i nostri colleghi a rifiutare lo straordinario, per non
accelerare quel processo di espulsione dei 53 operai stagionali.
Il
volantino lo intitolammo “straordinario no grazie” e molto sinteticamente
cercammo di convincere i colleghi a riscoprire quel senso di solidarietà che
nel tempo era stato dimenticato.
Ci
fu l’assemblea dove per la prima volta il rappresentante dell’RSU spiegò i
fatti: non si sarebbero rinnovati i contratti. La scappatoia prevista
dall’azienda era la formazione della diciottesima squadra di lavoro, in parole
povere l’azienda chiedeva di venire a lavorare anche il sabato su tre turni.
La
cosa particolare era che chiaramente non sarebbero bastati i 53 lavoratori a
termine, ma si avrebbe avuto bisogno di altri 80 lavoratori per rendere
praticabile questa cosa.
Si
verificarono subito molte polemiche. Si sapeva benissimo che questo era
l’ennesimo ricatto aziedale, che utilizzava il rinnovo del contratto degli
stagionali per far diventare lavorativo a tutti gli effetti anche il sabato.
La
parte sindacale RSU e i suoi sotenitori erano d’accordo su questo fronte, ma
non avevano tenuto in considerazione una cosa, chi avrebbe convinto gli altri 80
lavoratori a tempo indeterminato a lavorare anche al sabato?. I lavoratori a
tempo indeterminato protestarono. Anche io come lavoratore a tempo determinato
ero contrario a questo tipo di “patto” che avrebbe portato ad un ulteriore
peggioramento della vita operaia in Magneti Marelli, avrebbe vanificato le lotte
precedenti dei lavoratori della fabbrica. La Weber, si chiamava ancorà così
all’epoca, fu una delle poche fabbriche negli anni 80 che per mesi e mesi
rifiutò l’imposizione dei 4 sabati lavorativi annuali stipulati nel contratto
dei metalmeccanici nazionale, per colpa di un estremo isolamento questa
resistenza operaia (picchetti, blocco delle merci) fu vana.
Purtroppo
molti non la pensavono come me. Io pensavo che per rifiutare quell’accordo, ci
sarebbe voluta una forte unità e si sarebbe dovuta intrapprendere una lotta,
anche se il periodo storico non era dei più favorevoli.
Un
bel giorno venimmo a sapere che invece tutto questo possibile accordo era
saltato, non sapendo tuttavia se si era ritirata l’azienda o la RSU.
Comunque
la cosa squallida fu che continuarono gli straordinari per ore e ore.
La
RSU si era intanto espressa contro gli strordinari.
Si
arrivò a metà novembre, erano le 11.30 poco dopo saremmo andati in mensa per
la pausa. Ad un collega con la mia stessa tipogia contrattuale venne consegnata
la prima lettera di non rinnovo contrattuale. Visto che molti di noi erano
entrati a maggio, questi erano i primi ad essere mandati via, eravamo
scaglionati in scadenze su tre mesi, i primi a novembre, poi dicembre, e gli
ultimi a gennaio.
Appena
fui certo della non riconferma, smisi di lavorare e uscii dal mio reparto per
vedere cosa stava succedendo.
Mi
resi conto della situazione e tornai al mio reparto a chiamare i colleghi di cui
mi fidavo per scioperare. Uscimmo in 4 e subito vedemmo che nel reparto Volvo
stavono facendo la stessa cosa, bloccando chi in quella situazione faceva finta
di niente e continuava a lavorare.
Si
formò subito un capanello e decidemmo insieme di scioperare fino alla fine del
turno cercando di coinvolgere nello scioopero tutti i reparti.
Qualche
operaio vedendo i caporeparti e i loro lecchini fece avanti indietro nella linea
a fare domande sul perchè ci fossimo fermati, cominciò a dire che bisognava
riprendere a lavorare perchè non eravamo coperti dal sindacato.
Andai
nella saletta sindacale dove la RSU si stava riunendo. Spiegai la situazione e
dissi che avevano l’obbligo di coprirci, dato che due reparti praticamente si
erano fermati. I sindacalisti vedendo la determinazione degli operai a
scioperare furono costretti a dare la copertura. La situazione si era per il
momento calmata, ma ci rendemmo conto che per riuscire avremmo dovuto fare un
giro per tutto il capannone cercando di far scioperare per solidarietà altri
reparti.
C’era
però un fattore: il tempo. Molti erano già andati a mangiare in mensa visto
che era mezzogiorno. Io ed altri operai decidemmo di andare in mensa per
spiegare la situazione, mentre gli altri rimanevano in linea a pichettarla
evitando che durante la nostra assenza i team-leader potessero mettersi a
lavorare alle macchine.
Arrivammo,
la mensa era pienissima, iniziai a urlare: “Compagni alscoltatemi, oggi è
arrivata la prima lettera di non rinnovo, ci stanno licenziando, noi siamo già
in sciopero e vi chiediamo di scioperare con noi, perchè noi da soli non
possiamo fare molto, ma insieme abbiamo la forza di cambiare le cose”. Con lo
stupore generale alcuni operai decisero di tornare giù e di formare un corteo
che di reparto in reparto chiedesse solidarietà.
Non
facevamo i conti però con la RSU, che per riprendere in mano il controllo aveva
previsto due ore e mezza di scipero per il giorno dopo, con relativa assemblea.
Questa
cosa materialmente ci aveva negato la possibilità di far scioperare altri
reparti, ma noi comunque decidemmo di continuare, fino alla fine del turno.
Pensai
subito che l’assemblea del giorno dopo sarebbe stata una buona occasione per
smuovere qualcosa.
Decidemmo
comunque alla fine del turno di trovarci fuori dalla fabbrica per discutere un
attimo sul dafarsi.
Aspettammo
quelli del turno dopo e gli spiegammo le nostre motivazioni.
Questi
avevano scioperato due ore e mezza, perchè la RSU li avevano avvertiti di
scioperare solamente le stesse ore che avevamo fatto noi.
Ci
trovammo fuori, e subito qulacuno cominciò a dire che non si poteva fare nulla.
Ma la maggior parte degli operai volevano fare qualcosa.
La
proposta era di intervenire in assemblea e di coinvolgere il più alto numero
possibile di lavoratori per andare in corteo sù negli uffici per far sentire la
nostra voce ai dirigenti che stavono al secondo piano. Poi da li ci saremmo
diretti in strada.
Alla
fine tuttavia decidemmo collettivamente solamente di intervenire in assemblea e
provare a dirottare i lavoratori in un corteo interno.
Il
giorno dopo già dalle 6 della mattina, appena entrati per il turno, come
lavoratori stagionali entrammo in sciopero aspettando l’assemblea che si
sarebbe tenuta verso le 10,30.
Prima
dell’assemblea, per imbonirci, venne uno dei massimi dirigenti della fabbrica.
Fece un discorso demagogico e squallido, scaricando la colpa sul “mercato” e
sul mancato accordo con la RSU, poi per prenderci in giro, chiese il parere ad
uno ad uno sull’accaduto. Per paura molti operai si mostrarono comprensivi
rispetto alle esigenze della direzione, io presi la parola e attaccai duramente
la linea aziendale e la RSU, loro ci stavano licenziando e basta!.
Il
dirigente, trovandosi spiazzato dal mio discorso, disse in modo molto arrogante
che stavo strumentalizzando a fini politici altri lavoratori e che facevo della
demagogia spicciola. Gli altri operai pensavono le stesse cose che dicevo io, ma
per paura e per l’abitudine a rispettare le gerarchie in questa società dei
padroni, non erano intervenuti prima contro il dirigente.
Io
mi sentivo doppiamente preso in giro, non solo ci cacciavano a casa ma ci
accusavano di essere pure incazzati per tutto questo!.
Preso
da uno scatto d’ira mi avvicinai all’ingegnere e urlandogli in faccia
iniziai a dirgli che non si doveva permettere di parlare in quel modo, di
parlare di demagogia spicciola visto che era proprio lui a farla, visto che
accusava un lavoratore di non voler diventare disoccupato!.
L’ingegnere
se ne andò con la coda in mezzo alle gambe, ma che tristezza essere stato
l’unico operaio ad avergli risposto a tono.
Arrivarono
le 10.30 e salimmo per partecipare all’assemblea. Ero emezionato con me
c’erano due compagni del GOA.
Dopo
la solita litania di interventi della RSU presi la parola e cercai di essere il
più chiaro possibile.
Spiegai
quali erano stati i regali della flessibilità, perchè era un peggioramento
della qualità della vita l’aumento del ritmo di lavoro. Di come i lavoratori
avevano lottato in precedenza, dei loro sforzi della loro generosità e
solidarietà di classe. Di come i padroni ricattavano i lavoratori con queste
forme di lavoro precario: CFL, stagionali e il lavoro interinale.
L’unica
soluzione era l’unità e la lotta di tutti gli operai. Insistetti sulla
solidarietà che dovevano dare i lavoratori a tempo indeterminato, meno colpiti
dal ricatto padronale. Cercai di tirar fuori quello che avevo dentro. In quei
sei mesi in cui avevo lavorato alla Magneti, avevo visto crearsi dei rapporti
umani molto profondi. Lavorando insime giorno per giorno, si creano dei legami
irripetibili a livello di socialità e solidarietà. Infine esortai all’unità,
la sola possibilità di rimanere era con una lotta generale e collettiva, non ci
dovevano lasciare soli.
Invitai
l’assemblea infine, ad organizzare un corteo interno per far sentire la nostra
voce sù in direzione.
Dopo
il mio intervento un altro compagno parlo, ed esortò ad organizzare il corteo
interno.
Alla
fine parlò un rappresentante delle RSU, che annunciava il blocco degli
straordinari, fino ad una nuova assemblea.
Appena
finitò l’ultimo intervento del sindacalista, la maggior parte dei lavoratori
stava andandosene in silenzio, allora cominciammo ad urlare: -CORTEO CORTEO
CORTEO- sbattendo pugni sul tavolo e le seggiole contro il pavimento cercando di
fare il più possibile rumore.
Tutto
il gruppo degli stagionali si diresse verso l’entrata esterna che porta verso
gli uffici e alla direzione e si mise sui gradini aspettando di essere in un
numero consistente, nel frattempo si mise tra i lavoratori e la porta il più
squallido e filopadronale dei sindacalisti interni delegato delle RSU (CISL
degli impiegati) che tutto agitato diceva che la direzione ci avrebbe sentito
anche li dalle scale, invitandoci a non proseguire.
Senza
neanche discutere appena fummo in 200 operai entrammo, cominciammo a cantare ed
urlare e a tirar pugni alle porte chiuse a chiave (con capetti, impiegati e
crumiri chiusi dentro). Cominciammo a scandire slogan ed entrammo negli uffici,
dove con una faccia di bronzo fuori dal normale impegati e tecnici crumiri
continuavono a lavorare, li insultammo dicendogli un po di tutto, anche al capo
dei sorveglianti che ora non poteva fare nulla.
Il
corteo stava ritornado nelle officine per concludersi, quando si decise di
andare anche negli uffici dei dirigenti maggiori. I delegati sindacali erono
contrari, e ci dicevono che non avremmo trovato nessuno.
Ma
se le cose stavono in quel modo, perchè il capo dei sorveglianti si era messo a
sorvegliare le scale che davono al secondo piano (il piano dei dirigenti).
Consultandoci
velocemente, per non sfilacciarci, decidemmo di andare su in dirigenza. Il capo
dei sorveglianti ci bloccò il passaggio, ma venne allontanato in malo modo.
Ricominciammo
a “bussare sulle porte” e a farci sentire. Arrivammo in una grande stanza
dove c’erano riunite 20 persone che sentendo i nostri slogan si erono
spaventate, un compagno andò in mezzo a loro per prenderli in giro.
Arrivò
di nuovo il capo dei sorveglianti che lo mandò via, io mi misi in mezzo, ci
divise un delegto delle RSU.
Dopo
questo iniziammo a gridare slogan più politici, davanti ai dirigenti, -IL
POTERE DEVE ESSERE OPERAIO- -TUTTO IL POTERE DEVE ESSERE OPERAIO- ecc...
La
cosa che mi resterà sempre nel cuore e che insieme a me, agli stagionali,
c’erano anche vecchi operai, mi ricordo di un operaia che di li a poco doveva
andare in pensione, ma non per questo si tirava indietro.
Il
corteo finì e subito la dirigenza convocò la RSU per lamentarsi del torto
subito, disse che avrebbe preso seri provvedimenti contro chi aveva interrotto
la riunione. Le 20 persone da noi sbeffeggiate erano i massimi vertici della
Magneti e della Renault che discutevano di progetti comuni.
Andammo
in mensa a mangiare e quando tornammo nelle officine, noi stagionali continuammo
lo sciopero delle nostre linee per tutta la fine del turno.
Aspettammo
i compagni del 2 turno, gli racontammo le cose che erono sucesse, e gli
proponemmo di organizzare un corteo nell’assemblea del pomeriggio.
In
realtà il giorno dopo venimmo a sapere che l’assemblea fu poco partecipata e
venne fatto uno sciopero solo di 2,5 ore indette dal sindacato.
Lo
sciopero ad oltranza fu praticato solo dagli operai del GOA, che per colpa dei
turni sfalzati rendeva difficile un collegamaneto stabile.
La
RSU aveva indetto il blocco degli straordinari e pensò di organizzare i
pichetti, dando come primo appuntamento le ore 6.00 di sabato mattina.
Appena
dopo due soli sabati di pichetti (dalle mattina dalle 5.30 alle 10.30) il
sindacato andò a firmare uno schifosissimo accordo.
Nello
specifico:
Non
prevedeva il rientro di tutti invalidando le manifestazioni interne alla
fabbrica
Prevedeva
la formazione di un “paniere” così chiamato dove l’azienda avrebbe potuto
scegliere tranquillamente chi riprendere
Fermavano il blocco degli straordinari (si vede che l’azienda aveva spinto
molto per togliere i pichetti) infatti nelle linee dove lavoravamo si
intensificarono le ore di straordinario
Come
GOA le idee erano chiare in testa e ci preparammo per l’assemblea.
Si
fece un volantino che spiegava le cose, lo volantinammo la mattina e il
pomeriggio dell’assemblea.
All’assemblea
non perdemmo l’occasione ed intervenimmo spiegando che non si poteva accettare
un accordo simile. Noi avremmo continuato a pichettare al sabato contro gli
straordinari, perchè era un accordo che non prevedeva il rientro di tutti.
Il
sabato mattina andammo ai pichetti.
L’assemblea
fu alquanto discussa ma il sabato sucessivo a fare il pichetto ci trovammo solo
con un gruppo di operai, anche perchè l’azienda con le RSU aveva imposto un
sabato obligatorio, rompendo ancor di più il fronte di lotta.
Come
GOA continuammo a presidiare con pichetti davanti alla fabbrica di domenica e
sabato. Issammo sui cancelli un gigantesco striscione con scritto: -NO ai
licenziamneti NO agli straordinari NO alla cassa integrazione NO alla
repressione-. Pur non avendo una partecpazione massiccia fu un iniziativa che
destò molto stupore.
Alla
fine della vertenza solo 30 lavoratori di 55 stagionali rimasero a lavorare alla
Magneti Marelli.
Fu
lasciato fuori chi si era messo in prima linea nella lotta e chi aveva avuto
problemi medici o con i ritmi in fabbrica.
In questa lotta sono stati coinvolti molti lavoratori in prima persona, tuttavia non bisogna nascondere che è bastato un intervento della RSU, firmando un accordo schifoso, per far interrompere la mobilitazione.