La Weber Magneti Marelli,

un punto di vista operaio

 

Presentazione

Un pò di storia

Il passaggio all’automazione

I padroni

I sindacati

Il “metroperaio”

L’autorganizzazione operaia

Cronache operaie

Presentazione

 

“Presuppongo naturalmente lettori che vogliono imparare qualcosa di nuovo e che quindi vogliano anche 

pensare da sè”  K.Marx  

 

Questo opuscolo nasce dalla collaborazione tra il GOA, Gruppo Operaio Autorganizzato della Mangeti Marelli e Precari Nati.

Il Quaderno vuole offrire un altro punto di vista sulla Magneti Marelli e più in generale sul comparto metalmeccanico a Bologna.

Il materiale si basa sul comportamento operaio in azienda e sulle motivazioni che spingono i lavoratori a lottare contro i padroni.

E’ per questo che parliamo delle lotte degli anni 40 e di quelle del 70. Già sapere che è esistita una risposta operaia, una capacità di autorganizzarsi per contrastare il padronato è già un contributo contro l’apatia e il buio storico imposto dai padroni.

Questa breve ricostruzione, non si trova nei libri di scuola, nè la studiano gli studenti all’università. Noi operai possiamo offrire un’altra storia, la nostra storia.

In questo Quaderno si cercherà di illusrare le innovazioni teconologiche alla Weber, perchè attraverso lo studio dell’organizzazione del lavoro, noi operai possiamo avere più mezzi per contrastare i padroni.

E’ nell’azienda che il lavoratore forma tanto la sua rivolta contro lo sfruttamento quanto la sua capacità di ricostruire un tipo superiore di società, la sua solidarietà di classe con gli altri lavoratori e il suo odio per lo sfruttamento e gli sfruttatori, i padroni ed i burocrati.

Non facciamo l’apologia di un vuoto “operaismo” spesso barattato con un basso populismo produttivista, ma vediamo ancor oggi la forza collettiva e di comunità della classe lavoratrice. Questo osservando la vita in fabbrica, le piccole lotte, la solidarietà tra lavoratori, tutte “piccole questioni” che abbiamo la pretesa di chiamare: nuovi rapporti sociali, ossia un altro modo di relazionare con le persone, di considerare i padroni e i burocrati per quel che sono.

Il Quaderno e’ uno strumento che offriamo a tutti i lavoratori della Magneti e in generale di Bologna, per ipotizzare un altro modo per contrastare il padronato senza farsi gestire dal sindacato.

Costituire una rete di lavoratori solidali tra loro, passa attraverso la comprensione dei fenomeni sociali e produttivi del territorio, della propria memoria e storia, e della comunanza della condizione che ci viviamo tutti i giorni sulla pelle.

 

Un po’ di storia  

 

“La storia  di ogni società finora esistita è storia di lotte di classi”  K.Marx  

 

Gli operai della Weber, e successivamente Magneti Marelli, hanno seguito i vari cicli di lotte operaie che si sono avuti in Italia. Si ricordano a Bologna i primi scioperi legati al clima di instabilità politica e inasprimento delle condizioni di vita operaia negli anni 40.

La Weber sarà la prima fabbrica a Bologna a scioperare nel 1943. Si venne a creare una situazione che solo attraverso una lotta radicale poteva portare dei vantaggi per gli operai.

La nuova fase politica di quegli anni con il tracollo del fascismo portava nel 1944 alla situazione di non sapere più cosa sarebbe rimasto del lavoro in piena instabilità politica. Vi fu da parte operaia una spontanea richiesta di migliorare il salario, di diminuire l’orario di lavoro, anche attraverso forme come il sabotaggio. Questo si innestava nella generica richiesta dei partiti della sinistra di non dare nessun aiuto al regime e di non offrire ai nazifascisti industrie produttive. Mentre avveniva tutto questo il padronato, intimorito sia da una crisi reale in cui versava l’economia in Italia e sia dal relativo pericolo operaio, in quegli anni si arriverà ad avere solo un 30-40% delle maestranze rispetto al periodo precedente, licenziava o diminuiva l’organico.

Questa combattività veniva immediatamente sconfessata dopo la fine del conflitto. Nei mesi successivi alla fine della guerra gli scioperi venivano osteggiati da tutto l’arco “pre-costituzionale” italiano. L’uso della forza operaia ora doveva essere disinnescato. Si arriverà da parte della sinistra ufficiale a eliminare fisicamente gli operai scomodi come nel caso del comunista internazionalista Fausto Atti (trucidato da partigiani stalino-democratici il 27 marzo 1945 a Trebbo BO).

Per rivedere scioperi che arrivassero a riversarsi nella città, si dovrà aspettare la stagione del 68.

Gli operai della Weber parteciperanno all’autunno caldo e vi sarà in questa fabbrica la costituzione di comitati di lotta indipendenti dai sindacati. Attorno a questa fabbrica come ad altri grandi fabbriche di Bologna vi sarà un intenso lavoro politico, che porterà alla stesura di numerosi materiali, ricordiamo in proposito il testo “I problemi della giovane classe operaia al centro dell’azione politica dei giovani comunisti”, a cura della FGCI di Bologna del 1968 comparso su Gioventù operaia. In questo breve, ma esauriente documento si illustra il modello produttivo all’avanguardia della Weber rispetto alla figura dell’uomo macchina (operaio autistico rispetto alla macchina attiva) e alla polarizzazione tra tecnici altamente specializzati e operai addetti a lavori ripetitivi e manualistici.

Ci sembra di una attualità evidente citare un passo di questo documento: “ Per chi non ha mai lavorato a catena può sembrare leggero il compito di questi operai, molti dei quali lo svolgono stando seduti davanti ad un tavolo: lo è per un’ora, due, ma dopo una giornata c’è da impazzire, e se si pensa che questa gente lo svolge da anni, senza apprendere professionalmente nulla, nel mezzo di un rumore assordante mentre migliaia di cestelli colorati vanno e vengono senza sosta, si capisce come essi siano sottoposti ad una degenerazione, ad un abbrutimento della loro personalità: è il prezzo che devono pagare per girare in automobile e per fare girare gli altri”

I documenti prodotti sulla Weber giravano anche nella stampa cosiddetta “operaista”, sul giornale LA CLASSE -operai e studenti uniti nella lotta- n°7. del 14/21 1969 veniva riportato un volantino che metteva in luce i collegamenti che gli operai dovevano creare tra di loro per unificare i loro sforzi contro il cottimo...

Non bisogna dimenticare tuttavia che Bologna, e più in generale l’Emilia Romagna, non riuscì ad esprimere un punto di vista operaio che in prospettiva potesse rompere con le organizzazioni tradizionali di sinistra (PCI e CGIL in primis). Questo era dovuto ad un controllo attento di queste organizzazioni che riuscirono a tutelare in modo abbastanza localista gli interessi delle maestranza operaie bolognesi. Tale situazione era il prodotto dello sviluppo industriale locale, che non portò a mutazioni radicali a livello di organizzazione del lavoro e urbanistico, cosa che avvenne invece in altri capoluoghi nel nord Italia. Non si vivrà una immigrazione massiccia e vi sarà sempre una capacità di inter-relazione tra le strutture sindacali ed economiche cittadine, utilizzando ovviamente il sistema cooperativo. Questa incapacità si tramuterà in una effimera consistenza per tutte quelle esperienze che si erano mosse indipendentemente dai sindacati e partiti della sinistra basandosi su un punto di vista operaio.

Lo scollamento che si avrà nella rivolta “studentesca” del 77, toccherà marginalmente il clima nelle fabbriche e ben più importante non seguirà quello che erano i rapporti di forza tra operai e padroni in quel periodo. La vita operaia in fabbrica negli anni 80 rispecchierà le evoluzioni del comparto metalmeccanico a livello nazionale.

In questi ultimi periodi una risposta indipendente dei lavoratori latita o è “marginale” come la lotta degli stagionali di recente memoria. E’ cronaca recente il delirante centenario della FIAT, che è stato propinato anche alla Weber Magneti Marelli ( industria del gruppo FIAT), e le continue repressioni che subiscono i lavoratori combattivi, queste sono le ultime per ora......

 

Il passaggio all’automazione  

 

“La stessa facilità del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacche la macchina non libera dal lavoro l’operaio, ma toglie il contenuto al suo lavoro”  K.Marx  

 

Affrontare una ricostruzione tecnica dei passaggi che l’organizzazione del lavoro alla Weber sarebbe troppo lungo per essere riportata in questo Quaderno, perciò ci limiteremo ad affrontare il livello di automazione che la fabbrica ha vissuto negli anni 80-90, cosa utile per decodificare i punti deboli dove poter intervenire per fare sentire la nostra pressione contro il padrone.

Quando passò il grosso della cosiddetta “automazione” in Weber le lavorazioni riguardavano principalmente due prodotti: il carburatore  e il sistema di iniezione.

Questi due modelli hanno avuto un diverso destino, con un incremento esponenziale dei sistemi di iniezione.

E’ interessante tuttavia vedere come all’epoca di questa mini rivoluzione in fabbrica il prodotto che maggiormente “tirava” era il carburatore. Tale prodotto aveva all’epoca una notevole diffusione e la fabbrica aveva delle buone commesse.

Si avviò in fabbrica una standarizzazione dei prodotti e una relativa riduzione dei tempi complessivi di produzione, che determinarono un aumento dei ritmi e una previsione di quella che sarebbe divenuta la produzione flessibile. A questo passaggio si legava l’introduzione di tipologie contrattuali flessibili che potevano assecondare il flusso produttivo. Si avvierà l’introduzione dei sistemi Cad (nuovi modelli di progettazione che mutavano anche la figura del porgettatore e del tecnico).

La parte tuttavia più interessante riguardava il decentramento produttivo per le prime fasi di lavorazione del prodotto e la parte riguardante il montaggio.

Al montaggio vi sarà la fine della “linea”(rondò di carrelli) sostituita dal “modulo”.

Questo veniva introdotto dall’azienda per i seguenti motivi:

ridurre ancor di più i tempi eliminando il collaudo a fondo linea

Questo ovviamente intensificava i ritmi di lavorazione, ma portava gli operai ad avere rispetto a questa novella rigidità (da lavorazioni fisse a posti di lavoro fissi e sequenziali) delle armi da adoperare, si potevano facilmente creare dei “tappi di bottiglia” causando delle assenze improvvise sulle singole postazioni di lavoro e/o dai diversi livelli di produttività dei lavoratori. Tale rigidità rendeva ancor meno digeribile il lavoro portando a dei comportamenti che urtavano e urtano il cosiddetto spirito di squadra...

L’introduzione dei robot ha rilevato la notevole fallacità di queste macchine, rispetto agli errori e alle frequenti rotture. Aumentarono i ritardi nella finitura del prodotto, questo handicap aumentò anche a causa dell’eliminazione del collaudo, che portò gli scarti a lievitare sino a raggiungere il 30%-40% al flussaggio.

Mentre veniva introdotto tutto questo il controllo rispetto alla salute e alla sicurezza in fabbrica diminuiva, anche grazie ad una politica dello struzzo del sindacato.

Sono stati introdotti gruppi di lavoro per il montaggio e il collaudo, cercando di superare i “colli di bottiglia” con la polivalenza delle operazioni e si è assistito alla “autodeterminazione” da parte dei gruppi di lavoro dei tempi e delle modalità di lavorazione, portando come unici parametri di valutazione per l’azienda la qualità e le quantità prodotte.

E’ significativo che queste recenti innovazioni siano state sperimentate dagli operai per migliorare la propria condizione, tuttavia la pochezza dell’azione sindacale sempre tesa a santificare il produttivismo, non vide quella che era una forma di difesa operaia, portando queste innovazioni come una dimostrazione della possibilità di costruire una allegra brigata in fabbrica che vede uniti padroni e operai.

L’interscabliabilità delle postazioni o l’affincamento a volte sono per gli operai dei modi, anche se il modulo non lo permetterebbe, per rompere la routine quotidiana o mezzi per socializzare (fare le cosiddette due chiacchiere) con un collega.

L’automazione, in sintesi, è servita oltre ad assecondare l’oggettivo sviluppo del sistema produttivo capitalista a controllare maggiormente gli operai. In questo rapporto vi è stata una delle ultime “rivoluzioni” del capitale che è riuscito a prevenire maggiormente una possibile risposta operaia. Il provare a creare un sistema ibrido che mette assieme “l’autocontrollo” dei lavoratori al controllo della macchina è un fenomeno generale che investe tutta l’industria

Non è un caso che nel 92 si aveva qui in Weber, attraverso l’accordo sulla qualità, l’introduzione dei Team, sul modello FIAT a livello nazionale. La Weber è stata la prima fabbrica nel bolognese a sperimentare questa forma. Tale modificazione organizzativa prevedeva un coinvolgimento delle rappresentanze sindacali aziendali su un complesso di materie quali quantità, qualità, affidabilità della produzione. Si insiste che il raggiungimento dei risultati positivi fa perno fondamentalmente sulle motivazioni professionali dei lavoratori, chiamati a sperimentare un modello organizzativo di gruppo a gerarchie ridotte. Il nucleo produttivo è individuato nella UTE (unità tecnologica elementare), che hanno una autonomia gestionale e si strutturano su team di lavoratori, ognuno con un proprio “team-leader”. I team hanno piena responsabilità anche in termini di controllo sulla qualità dei prodotti. All’epoca dell’introduzione di tale modello coinvolsero, attraverso percorsi formativi, subito 250 dei circa 1200 lavoratori della Weber.

 

I padroni

“Caro padrone domani ti sparo, farò di tua pelle sapon di somaro”  P.Pietrangeli  

 

Che cosa significa combattere contro i padroni? Chi sono e cosa vogliono?.

Quello che dobbiamo prima di tutto dire è che non è solo per arricchirsi che i padroni sfruttano i lavoratori. La ricchezza dei padroni non è assolutamente proporzionata al loro potere. Per esempio, Agnelli in proporzione alle macchine che produce, dovrebbe andare vestito d’oro, invece si accontenta di una nave e di un aereo privato... cose che può benissimo permettersi un altro padrone con una fabbrica più modesta della FIAT. Quello che interessa ad Agnelli è la conservazione, lo sviluppo e la crescita del capitalismo. Il capitalismo è una potenza impersonale e i capitalisti agiscono come suoi funzionari (la stessa cosa avveniva in Russia con i dirigenti di partito).

Ciò che rivela la presenza del capitalismo è il profitto. Una distribuzione del profitto più “giusta” non ha nulla a che vedere con un miglioramento collettivo dei lavoratori, perche solo da un rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici si può distruggere il profitto.

In fabbrica, come in altri tipi di aziende, i padroni hanno reti per mantenere questo controllo e esercitare il potere, capo reparti, team leader, guardiani ecc...

Questa burocrazia, che ha nella polizia l’espressione sociale generale, è da considerarsi uno degli ostacoli importanti che in una lotta un lavoratore si trova davanti. Al tempo stesso il rapporto tra i lavoratori e le macchine (automatizzazione) rappresenta una forma di controllo che la macchina, e quindi anche il padrone, esercita su di noi, pensate alle macchine a controllo numerico e alle nuove tipologie di linee di produzione, così come i computer per i tecnici e gli impiegati. Vediamo come la “facilita del lavoro diventa un mezzo di tortura, giacché la macchina non libera dal lavoro” anzi ne accentua i livelli di controllo. Oltre ad essere diretti come appendici dalle macchine, siamo consapevoli che il nostro lavoro è inutile e insensato, per chi lavora in linea o al montaggio dopo diversi anni di lavoro quello che ha appreso è una serie di gesti ripetitivi che ci rovinano la schiena e le mani. Noi lavoratori tuttavia non siamo contro le macchine, ma contro coloro che usano le macchine per farci lavorare oltremisura.

 

I sindacati  

 

“I sindacati mancano in genere al proprio scopo in quanto si limitano a una guerra di scaramucce contro gli effetti del regime esistente, anzichè lavorare nello stesso tempo alla sua trasformazione e servirsi della propria forza organizzata come di una leva per l’emancipazione definitiva della classe lavoratrice, vale a dire l’abolizione definitiva del salariato” K Marx  

 

L’integrazione sindacale nell’attuale società è dimostrata da tutte le scelte di fondo fatte dal capitale:

I sindacati alternativi-cobas pur offrendo generosi sforzi per mantenere un livello di conflittualità contro i padroni, hanno accettato tutte le compatibilità e necessariamente sono diventati delle strutture in piccolo sul modello dei confederali. Vi è una corsa alle tessere, al rapporto di trattativa con i padroni dimenticandosi quali sono i rapporti di forza che fanno piegare i padroni. In più rimane di fondo la convinzione che il miglioramento dei lavoratori sia dovuto ad un ampliamento della distribuzione sociale, non mettendo minimamente in discussione quelli che sono le cause di una tale divisione. Tale modellistica arriva al deliro di potenza quando vede l’ampliarsi del conflitto rispetto al numero di tessere raggiunte o di eletti....

 

Il “metroperaio”

“Di tutti gli strumenti di produzione, la più grande forza produttiva è la classe rivoluzionaria stessa” K.Marx  

 

Intendiamo per metroperaio la capacità che hanno i lavoratori di misurare e rapportarsi allo sfruttamento in modo autonomo partendo dalla loro condizioni di vita. Nell’azienda si vede quella che è la produzione capitalista, che riflette i modelli di controllo nella società. Se vi è lo sfruttamento si può anche intravedere una possibile collettività antagonista, la solidarietà di classe e l’ odio per i padroni. Viviamo in una società che si basa sullo sfruttamento. Riteniamo che i padroni hanno come terreno centrale l’estensione dei profitti, quindi il terreno su cui possiamo più colpirli è quello della produzione, e nel quale noi superiamo le nostre differenze di area geografica, di colore della pelle ecc... Favoriamo le lotte autonome dove i lavoratori creano forme di autorganizzazione basate sull’assemblea e l’azione diretta, che altro non sono che un primo livello di potere dei lavoratori. Un intervento di classe si dirige infatti a modificare i rapporti di potere nell’azienda, anche come obiettivo permanente e fondamentale della lotta stessa.

Bisogna legare le manifestazioni di “insofferenza” al lavoro ad una dimensione collettiva, per rendere tali comportamenti una forza da utilizzare contro i padroni. L’utilizzo delle mutue, la dimenticanza nell’esecuzione di un compito sono manifestazioni di conflitto, non è tuttavia nostra intenzione fare l’apologia del rifiuto o di una fisiologica disaffezione al lavoro che hanno gli esseri umani. Arrivare a formalizzare il malcontento con pratiche di lotta collettive è per noi un segnale positivo dovuto anche alla consapevolezza che l’isolamento favorisce solo il padrone. Siamo consapevoli delle difficoltà che una tale opzione porta con sé in un periodo che ci vede ricattati di continuo rispetto alle ristrutturazioni e alla relativa disoccupazione, tuttavia è importante ribadire che la crisi che sta attraversando il capitale deve essere in primis una crisi da far pagare ai padroni. Siamo stanchi di essere ricattati e di subire tutto.

Non abbiamo contropiattaforme particolari da proporre ma riteniamo più interessante favorire e allargare i conflitti che già ora si pongono e che vengono vissuti dai lavoratori ogni giorno: salario, ritmi, sicurezza, orari. In questo partecipiamo attivamente offrendo la nostra solidarietà, la partecipazione diretta e il senso critico. Per esempio rispetto al contratto nazionale metalmeccanici, bidone di livelli colossali, più che muoversi con delle contro proposte è stato interessante analizzare tale trattativa e utilizzare i momenti di conflitto che ha portato con sé. Abbiamo veicolato un altro punto di vista e ci siamo aggancianti, dove ci sono state, alle spinte indipendenti che contrastarono tali trattative. Vale lo stesso discorso per il lavoro interinale entrato ormai in Weber. Risulta impossibile scatenare una battaglia contro questa forma contrattuale, più interessante è coinvolgere questi lavoratori nelle problematiche interne all’azienda e farli sentire uniti ai lavoratori a tempo indeterminato. Una lotta contro questa forma contrattuale non sarà mai gestita solamente dai lavoratori interinali, e neppure da una sola fabbrica, facilmente accerchiabile dal padronato, ma da una generale risposta operaia che sappia legare tutte le manifestazioni di disagio operaio, rispettandone i vari contenuti e manifestazioni. Puntiamo ad una unità tra tutti i lavoratori indipendentemente dalla tipologia contrattuale e pensiamo che forme di solidarietà e di collegamento con altre situazioni lavorative (territoriali e aziendali) possano favorire le nostre battaglie interne. Il metro che utilizziamo può essere uno stimolo e un propulsore per momenti di conflitto da allargare in tutta le sfera sociale dei bisogni immediati (casa, servizi). Tendiamo a valorizzare nell’azione militante l’abolizione delle gerarchie negli incarichi, autogestione delle lotte, socializzazione delle esperienze di conflittualità e insofferenza al lavoro. Il nostro terreno è quello extrasindacale ed extraparlamentare, non riconoscendo le regole legali imposte dai padroni per delimitare, per i loro interessi, lo scontro di classe. Riteniamo che un gruppo attivo di lavoratori debba fondere l’aspetto economico e politico visto che esiste un intreccio visibilissimo tra condizioni di lavoro e gestione complessiva della società. I lavoratori non devono adottare religiosamente le parole d’ordine di un gruppo o di un programma qualsiasi, e neppure del nostro, ma devono pensare da soli, decidere e agire loro stessi.

 

L’autorganizzazione operaia  

 

“E’ tempo di abbandonare discussioni bizantine sul’organizzazione, sognarne future, estasiarsi con l’illusione di macro-organizzazioni che rappresentano in ogni momento, tutti gli interessi del proletariato. L’organizzazione è l’organizzazione dei compiti”  Solidaridad Obrera, Spagna  

 

Nei momenti in cui i lavoratori hanno avuto il potere di decidere, hanno vissuto quello che noi definiamo l’autorganizzazione operaia.

L’autorganizzazione operaia è il movimento reale in cui la classe acquista -anche momentaneamente- una dimensione collettiva d’azione. Un movimento, la cui origine si trova nelle contraddizioni esistenti tra capitale e lavoro, si rende visibile, come risposta generalizzata, quando occupa la totalità dello spazio sociale, superando, in una fase montante, il terreno aziendale. Assume diverse forme: il sabotaggio, il rifiuto del lavoro, lo sciopero di solidarietà, l’assemblea, l’autorganizzazione della lotta ecc.. La ricerca di questa espressione indipendente di classe segue un lungo purgatorio.

Dall’insubordinazione individuale all’azione collettiva, dall’egoismo corporativo alla comunità d’azione. Le forme di rappresentanza dell’autorganizzazione operaia seguono un lungo sviluppo dialettico in cui ogni nuova tappa è unita alla precedente mediante la sua negazione e assimilazione. In questa evoluzione sorge l’autorganizzazione come forma superiore di collettività operaia, come concretizzazione di un movimento sovversivo. Nonostante ciò gli obiettivi possono porsi in funzione dei padroni, se non diventano una vera e propria frontiera di classe. Le forme dell’autorganizzazione sono di per sè ambivalenti, come lo é la stessa classe lavoratrice, in quanto forza lavoro, e forza che nega il sistema. L’autorganizzazione operaia prende il via dalla condizione di sfruttamento del lavoratore salariato, ma si estende, per il suo carattere di movimento reale comprendendo nel suo seno altre porzioni di classe quali i detenuti, gli studenti lavoratori, i disoccupati.

A chi crede che queste cose siano “roba vecchia” rispondiamo che non possiamo non sentire lo sfruttamento che ci viene imposto: i ritmi, le “favolose” paghe, i turni, le ore di lavoro, la sicurezza (ogni giorno muoiono in Italia 3 persone sul lavoro). Riteniamo il movimento operaio legato alle vicissitudini dello sviluppo capitalista. Se c’è stato un periodo di relativa quiete è perchè il sistema di produzione capitalista si era stabilizzato, la rincorsa al nuovo “modello del laisser faire” può riportare di estrema attualità la vecchia lotta di classe, quando si manifesterà in tutta la sua magnificenza il “nuovo capitalismo”. L’attuale società si sta manifestando con un riformismo al contrario, ora a noi operai la risposta.

 

Cronache operaie  

 

“I lavoratori devono reagire all’offensiva reazionaria portando il peso della loro volontà nella lotta. Nelle officine devono ritornare quelle assemblee spontanee dove i lavoratori manifestano i loro propositi di azione. Si impone un’opposizione rivoluzionaria e questa non può essere fatta a base di slogan e di manifestazione comandate. L’unità e la lotta si esprimono nelle manifestazioni che partono dalla base e la situazione è tale da richiedere almeno la fiducia nella nostra forza”  L Parodi  

 

Riportiamo il racconto di un ex-operaio della Magneti Marelli, assunto con un contratto stagionale, dello stabilimento di Bologna, che partecipò alla lotta per il rinnovo dei contratti degli stagionali. Non possiamo certamente parlare di una lotta vittoriosa, ma l’energia, la solidarietà, la forza che traspare da questo racconto sono la miglior dimostrazione di quello che definiamo “nuovi rapporti sociali”.

In una lotta, indipendentemente dall’esito, durante la mobilitazione, gli operai rompono gli schemi sociali, sperimentano altre forme di socialità, si prendono gioco del potere dei capetti e dei dirigenti. In questa lotta gli operai hanno dimostrato di non essere stati addomesticati e che il confine di potere dei padroni può essere aggredito, basta essere uniti e determinati.

Non è quindi un problema di organizzazione, di correnti, di sindacati, ma di comunità d’intenti tra operai, di determinazione a vivere un momento di lotta. La fabbrica è dura, tuttavia al suo interno più il padronato si impegna a controllare, più produce una risposta operaia. Quando come operai viviamo questi momenti di piena collettività d’azione, tante divisioni spariscono, non ci sono vecchi e giovani, ne bianchi e neri, ne donne ne uomini, ma sfruttati contro sfruttatori.

***  

Inizia tutto nel 1998, quando la Magneti Marelli per conto della Volvo apre una nuova linea di montaggio in particolare di corpi farfallati ad iniezione.

Sembra strano che il colosso svedese decidesse di venire a produrre in Italia, ma per 53 lavoratori inizia l’esperienza della Fiat.

I colloqui vengono suddivisi tra i responsabili del personale, che bene o male illustrano ai futuri dipendenti le solite baggianate pre-assunzione.

Per me era la prima esperienza come metalmeccanico ed inoltre non c’ero mai stato in una grande fabbrica, lo stesso valeva per molti dei neoassunti.

Durante il colloquio ci promisero questo iter-assuntivo:

sei mesi + sei mesi a tempo determinato, diciotto mesi con un CFL e infine la fatidica assunzione a tempo indeterminato (vero miraggio per chi oggi si avvicina a questo settore).

Sbrigate le visite mediche e le questioni burocratiche, arriva il primo giorno di lavoro, ci dividono principalmente nei reparti di montaggio e nella famosa linea ad U. Questo modello di organizzazione interna non prevede più le grosse catene di montaggio dove decine e decine di operai attaccati quasi l’uno all’altro montavano pezzi sul pezzo passato dal collega della postazione precedente. In queste linee le postazioni di lavoro sono molte di meno, in ogni postazione si esegue una diversa operazione e l’operaio appena finito il pezzo non lo passa più direttamente al suo collega o lo rimette sul nastro, ma lo inserisce in un apposito carello, dove si trovano altri pezzi, producendo una grande scorta di lavorati.

In questo modo, non solo la produzione ne trae un vantaggio, perchè da ogni singola postazione il numero dei pezzi prodotti può variare, non dovendo essere legati l’una all’altra, ma si evità anche il blocco di tutta la linea quando una postazione si ferma o si guasta, semplicemente perchè l’operaio prende i pezzi dal carello e quindi dalla relativa scorta. L’autonomia di ogni singola postazione è determinata solo dal numero dei pezzi che l’azienda decide di tenere come scorta.

 

I primi problemi in fabbrica ci furono intorno alla vertenza per il numero dei pezzi voluti dall’azienda. Si presentò il pericolo di nocività dovuta alla presenza di macchinari con grossi campi eletromagnetici e un banco alla resina per l’isolamento dei circuiti elettrici.

 

Una mattina, mentre entravo in fabbrica trovai un gruppetto di operai che volantinavano davanti ai cancelli. Nel loro volantino questi operai facevano una giusta critica al sindacato e proponevano un discorso di autorganizzazione e discussione sui problemi in fabbrica.

Mi misi in contatto con questi lavoratori che avevano volantinato e subito mi trovai daccordo con loro.

 

Nella nuova linea della Volvo mi capitò di lavorare in una strana postazione, era quella della resina, che veniva utilizzata per sigillare i circuiti della centralina.

Sin dal primo momento avvertivo un certo mal di testa, quasi nausea come quando stai per vomitare, poi c’era anche un altra questione, non ci avevano fornito neanche i guanti appositi per lavorare con quel composto. Venendone a contatto si poteva rimanere macchiati anche per una settimana, a meno che non ti pulivi con il Metinil Isocianato, potente solvente che veniva utilizzato per rendere lavorabile e liquida la resina.

Cercai di parlare con i miei colleghi della salute sul lavoro, visto che molti soffrivano di insistenti mal di testa e lacrimazioni. Li sollecitai a portare uniti una protesta contro i capi sulla salute in fabbrica, tuttavia molti per paura di attirarsi antipatie mi davono ragione ma nei fatti non facevano nulla.

Dopo il quarto giorno di lavoro alla postazione della resina, mi sentii bruciare la faccia e subito andai in bagno, provocando la rabbia del team-leader, e guardandomi allo spechio mi ritrovai pieno di macchie, quasi fosse morbillo.

In infermieria mi raggiunse un sindacalista che -fingendosi preoccupato- si diede da fare per trovare il medico. La pantomima del sindacalista copriva una guerra intestina per farsi le scarpe a vicenda, cioè una certa corrente sindacale che voleva far le scarpe alla R.S.U. sfruttando tali vicende.

Vedendo che il medico non c’era feci il permesso e me ne andai a casa.

Mi sentii con gli operai che avevano diffuso il volantino, che mi consigliarono di farmi fare un certificato dove si attestasse la probabile allergia sorta a lavorare con la resina.

Ritornai a lavorare con il certificato medico in tasca, mi presentai dal medico aziedale, ma non era ancora arrivato, andai quindi in reparto per lavorare, ma mi rifiutati in modo categorico di lavorare ancora su quella postazione. Dopo un pò di polemica con i vari capetti andai di nuovo in infermeria per vedere se il medico fosse arrivato, con uno della RSU. Lo trovai lì sulla sua poltrona, gli spiegai il fatto, e gli dissi che indipendentemente da quello che avrebbe deciso io, mai e poi mai, sarei ritornato a quella postazione. Il medico subito dopo aver sentito le mie lamentele, aveva iniziato a spiegare che secondo la sua diagnosi la mia reazione cutanea non era dovuta alla resina, ma al sudore provocato dal caldo, tuttavia vista la mia determinazione mi concesse il nulla-osta per non lavorare più a quel banco.

La mia situazione era cambiata, ma quella dei miei colleghi era rimasta uguale, infatti molti di loro continuavano ad avere mal di testa e a soffrire di lacrimazioni.

Parlandone con i compagni decidemmo, che era il caso di documentarci meglio sia sulla resina sia sui campi eletromagnetici, ci incontrammo con un compagno medico dell’USL che ci diede varie delucidazioni sia sulla resina che sui campi eletromagnetici.

Ci riunimmo e butammo giù il volantino, quello che sarebbe stato il primo di una serie.

La spinta l’avevamo avuta anche quando si seppe che 2 lavoratori che si erano rifiutati di lavorare su “certi” banchi alla linea della Volvo, e non avevano avuto il rinnovo del contratto.

Ovviamente questo fatto aveva aumentato i timori dei miei colleghi in linea.

Subito dopo aver volantinato, lì in reparto si accese subito un pò di dibattito. I capi non avevano gradito molto la cosa, infatti si aggiravano per la linea molto nervosamente cercando di tranquilizzare tutti quelli che ad un certo punto cominciavono a fare domande.

Non sò se per merito del nostro volantino (e della reazione dei lavoratori) o come semplice coincidenza, ma cominciarono a fornirci guanti per la lavorazione della resina e potenziarono anche l’impianto di aspirazione per quanto riguardava i fumi. Purtroppo riguardo ai campi eletromagnetici non cambiò nulla. Mi resi comunque conto che bastava poco per far saltare alcuni meccanismi in fabbrica.

Da quel volantino decidemmo di firmarci GOA, Gruppo Operaio Autorganizzato, propriò perchè avevamo fatto delle cose senza delegare nulla a nessuno, specialmente rifiutando il sindacato.

Ho parlato di questo per far capire in che clima si lavora alla Magneti Marelli, ed in special modo come stagionale.

Cominciò ad arrivare l’inverno, ed era il mese di novembre quando una mattina mentre lavoravamo arrivò la notizia che da lì a pochi giorni avrebbe cambiato molte cose. Si diffuse la voce che tutti i contratti dei semestrali non sarebbero stati rinnovati perchè con la fine dell’incentivo della rottamazione si stava verificando un calo produttivo per cui noi stagionali non saremmo serviti più.

Chiaramente a me a ad altri compagni la cosa non convinse molto. Era impossibile, che nel giro di pochi giorni, la fine dell’incentivazione della rittamazione, portasse un calo così drastico delle richieste; infatti considerando che dall’inizio dell’estate 98 si era registrato un vero e proprio boom di richieste d’auto ed era da mesi che si lavorava a ritmi serrati, e in moltissimi reparti oltre agli straordinari gionalieri si lavorava sistematicamente anche il sabato; la produzione si fermasse così repemtimamente.

La prima cosa che mi ricordo, fu il momento in cui la RSU convocò l’assebmlea per illustrare la questione, fino a quel momento i miei colleghi non avevano preso sul serio la notizia del non rinnovo, molti di loro erano quelli che si prestavano maggiormente agli straordinari.

Prima dell’assemblea pensammo che sarebbe stato buono fare un intervento come GOA, dove si spronava i nostri colleghi a rifiutare lo straordinario, per non accelerare quel processo di espulsione dei 53 operai stagionali.

Il volantino lo intitolammo “straordinario no grazie” e molto sinteticamente cercammo di convincere i colleghi a riscoprire quel senso di solidarietà che nel tempo era stato dimenticato.

Ci fu l’assemblea dove per la prima volta il rappresentante dell’RSU spiegò i fatti: non si sarebbero rinnovati i contratti. La scappatoia prevista dall’azienda era la formazione della diciottesima squadra di lavoro, in parole povere l’azienda chiedeva di venire a lavorare anche il sabato su tre turni.

La cosa particolare era che chiaramente non sarebbero bastati i 53 lavoratori a termine, ma si avrebbe avuto bisogno di altri 80 lavoratori per rendere praticabile questa cosa.

Si verificarono subito molte polemiche. Si sapeva benissimo che questo era l’ennesimo ricatto aziedale, che utilizzava il rinnovo del contratto degli stagionali per far diventare lavorativo a tutti gli effetti anche il sabato.

La parte sindacale RSU e i suoi sotenitori erano d’accordo su questo fronte, ma non avevano tenuto in considerazione una cosa, chi avrebbe convinto gli altri 80 lavoratori a tempo indeterminato a lavorare anche al sabato?. I lavoratori a tempo indeterminato protestarono. Anche io come lavoratore a tempo determinato ero contrario a questo tipo di “patto” che avrebbe portato ad un ulteriore peggioramento della vita operaia in Magneti Marelli, avrebbe vanificato le lotte precedenti dei lavoratori della fabbrica. La Weber, si chiamava ancorà così all’epoca, fu una delle poche fabbriche negli anni 80 che per mesi e mesi rifiutò l’imposizione dei 4 sabati lavorativi annuali stipulati nel contratto dei metalmeccanici nazionale, per colpa di un estremo isolamento questa resistenza operaia (picchetti, blocco delle merci) fu vana.

Purtroppo molti non la pensavono come me. Io pensavo che per rifiutare quell’accordo, ci sarebbe voluta una forte unità e si sarebbe dovuta intrapprendere una lotta, anche se il periodo storico non era dei più favorevoli.

Un bel giorno venimmo a sapere che invece tutto questo possibile accordo era saltato, non sapendo tuttavia se si era ritirata l’azienda o la RSU.

Comunque la cosa squallida fu che continuarono gli straordinari per ore e ore.

La RSU si era intanto espressa contro gli strordinari.

Si arrivò a metà novembre, erano le 11.30 poco dopo saremmo andati in mensa per la pausa. Ad un collega con la mia stessa tipogia contrattuale venne consegnata la prima lettera di non rinnovo contrattuale. Visto che molti di noi erano entrati a maggio, questi erano i primi ad essere mandati via, eravamo scaglionati in scadenze su tre mesi, i primi a novembre, poi dicembre, e gli ultimi a gennaio.

Appena fui certo della non riconferma, smisi di lavorare e uscii dal mio reparto per vedere cosa stava succedendo.

Mi resi conto della situazione e tornai al mio reparto a chiamare i colleghi di cui mi fidavo per scioperare. Uscimmo in 4 e subito vedemmo che nel reparto Volvo stavono facendo la stessa cosa, bloccando chi in quella situazione faceva finta di niente e continuava a lavorare.

Si formò subito un capanello e decidemmo insieme di scioperare fino alla fine del turno cercando di coinvolgere nello scioopero tutti i reparti.

Qualche operaio vedendo i caporeparti e i loro lecchini fece avanti indietro nella linea a fare domande sul perchè ci fossimo fermati, cominciò a dire che bisognava riprendere a lavorare perchè non eravamo coperti dal sindacato.

Andai nella saletta sindacale dove la RSU si stava riunendo. Spiegai la situazione e dissi che avevano l’obbligo di coprirci, dato che due reparti praticamente si erano fermati. I sindacalisti vedendo la determinazione degli operai a scioperare furono costretti a dare la copertura. La situazione si era per il momento calmata, ma ci rendemmo conto che per riuscire avremmo dovuto fare un giro per tutto il capannone cercando di far scioperare per solidarietà altri reparti.

C’era però un fattore: il tempo. Molti erano già andati a mangiare in mensa visto che era mezzogiorno. Io ed altri operai decidemmo di andare in mensa per spiegare la situazione, mentre gli altri rimanevano in linea a pichettarla evitando che durante la nostra assenza i team-leader potessero mettersi a lavorare alle macchine.

Arrivammo, la mensa era pienissima, iniziai a urlare: “Compagni alscoltatemi, oggi è arrivata la prima lettera di non rinnovo, ci stanno licenziando, noi siamo già in sciopero e vi chiediamo di scioperare con noi, perchè noi da soli non possiamo fare molto, ma insieme abbiamo la forza di cambiare le cose”. Con lo stupore generale alcuni operai decisero di tornare giù e di formare un corteo che di reparto in reparto chiedesse solidarietà.

Non facevamo i conti però con la RSU, che per riprendere in mano il controllo aveva previsto due ore e mezza di scipero per il giorno dopo, con relativa assemblea.

Questa cosa materialmente ci aveva negato la possibilità di far scioperare altri reparti, ma noi comunque decidemmo di continuare, fino alla fine del turno.

Pensai subito che l’assemblea del giorno dopo sarebbe stata una buona occasione per smuovere qualcosa.

Decidemmo comunque alla fine del turno di trovarci fuori dalla fabbrica per discutere un attimo sul dafarsi.

Aspettammo quelli del turno dopo e gli spiegammo le nostre motivazioni.

Questi avevano scioperato due ore e mezza, perchè la RSU li avevano avvertiti di scioperare solamente le stesse ore che avevamo fatto noi.

Ci trovammo fuori, e subito qulacuno cominciò a dire che non si poteva fare nulla. Ma la maggior parte degli operai volevano fare qualcosa.

La proposta era di intervenire in assemblea e di coinvolgere il più alto numero possibile di lavoratori per andare in corteo sù negli uffici per far sentire la nostra voce ai dirigenti che stavono al secondo piano. Poi da li ci saremmo diretti in strada.

Alla fine tuttavia decidemmo collettivamente solamente di intervenire in assemblea e provare a dirottare i lavoratori in un corteo interno.

Il giorno dopo già dalle 6 della mattina, appena entrati per il turno, come lavoratori stagionali entrammo in sciopero aspettando l’assemblea che si sarebbe tenuta verso le 10,30.

Prima dell’assemblea, per imbonirci, venne uno dei massimi dirigenti della fabbrica. Fece un discorso demagogico e squallido, scaricando la colpa sul “mercato” e sul mancato accordo con la RSU, poi per prenderci in giro, chiese il parere ad uno ad uno sull’accaduto. Per paura molti operai si mostrarono comprensivi rispetto alle esigenze della direzione, io presi la parola e attaccai duramente la linea aziendale e la RSU, loro ci stavano licenziando e basta!.

Il dirigente, trovandosi spiazzato dal mio discorso, disse in modo molto arrogante che stavo strumentalizzando a fini politici altri lavoratori e che facevo della demagogia spicciola. Gli altri operai pensavono le stesse cose che dicevo io, ma per paura e per l’abitudine a rispettare le gerarchie in questa società dei padroni, non erano intervenuti prima contro il dirigente.

Io mi sentivo doppiamente preso in giro, non solo ci cacciavano a casa ma ci accusavano di essere pure incazzati per tutto questo!.

Preso da uno scatto d’ira mi avvicinai all’ingegnere e urlandogli in faccia iniziai a dirgli che non si doveva permettere di parlare in quel modo, di parlare di demagogia spicciola visto che era proprio lui a farla, visto che accusava un lavoratore di non voler diventare disoccupato!.

L’ingegnere se ne andò con la coda in mezzo alle gambe, ma che tristezza essere stato l’unico operaio ad avergli risposto a tono.

Arrivarono le 10.30 e salimmo per partecipare all’assemblea. Ero emezionato con me c’erano due compagni del GOA.

Dopo la solita litania di interventi della RSU presi la parola e cercai di essere il più chiaro possibile.

Spiegai quali erano stati i regali della flessibilità, perchè era un peggioramento della qualità della vita l’aumento del ritmo di lavoro. Di come i lavoratori avevano lottato in precedenza, dei loro sforzi della loro generosità e solidarietà di classe. Di come i padroni ricattavano i lavoratori con queste forme di lavoro precario: CFL, stagionali e il lavoro interinale.

L’unica soluzione era l’unità e la lotta di tutti gli operai. Insistetti sulla solidarietà che dovevano dare i lavoratori a tempo indeterminato, meno colpiti dal ricatto padronale. Cercai di tirar fuori quello che avevo dentro. In quei sei mesi in cui avevo lavorato alla Magneti, avevo visto crearsi dei rapporti umani molto profondi. Lavorando insime giorno per giorno, si creano dei legami irripetibili a livello di socialità e solidarietà. Infine esortai all’unità, la sola possibilità di rimanere era con una lotta generale e collettiva, non ci dovevano lasciare soli.

Invitai l’assemblea infine, ad organizzare un corteo interno per far sentire la nostra voce sù in direzione.

Dopo il mio intervento un altro compagno parlo, ed esortò ad organizzare il corteo interno.

Alla fine parlò un rappresentante delle RSU, che annunciava il blocco degli straordinari, fino ad una nuova assemblea.

Appena finitò l’ultimo intervento del sindacalista, la maggior parte dei lavoratori stava andandosene in silenzio, allora cominciammo ad urlare: -CORTEO CORTEO CORTEO- sbattendo pugni sul tavolo e le seggiole contro il pavimento cercando di fare il più possibile rumore.

Tutto il gruppo degli stagionali si diresse verso l’entrata esterna che porta verso gli uffici e alla direzione e si mise sui gradini aspettando di essere in un numero consistente, nel frattempo si mise tra i lavoratori e la porta il più squallido e filopadronale dei sindacalisti interni delegato delle RSU (CISL degli impiegati) che tutto agitato diceva che la direzione ci avrebbe sentito anche li dalle scale, invitandoci a non proseguire.

Senza neanche discutere appena fummo in 200 operai entrammo, cominciammo a cantare ed urlare e a tirar pugni alle porte chiuse a chiave (con capetti, impiegati e crumiri chiusi dentro). Cominciammo a scandire slogan ed entrammo negli uffici, dove con una faccia di bronzo fuori dal normale impegati e tecnici crumiri continuavono a lavorare, li insultammo dicendogli un po di tutto, anche al capo dei sorveglianti che ora non poteva fare nulla.

Il corteo stava ritornado nelle officine per concludersi, quando si decise di andare anche negli uffici dei dirigenti maggiori. I delegati sindacali erono contrari, e ci dicevono che non avremmo trovato nessuno.

Ma se le cose stavono in quel modo, perchè il capo dei sorveglianti si era messo a sorvegliare le scale che davono al secondo piano (il piano dei dirigenti).

Consultandoci velocemente, per non sfilacciarci, decidemmo di andare su in dirigenza. Il capo dei sorveglianti ci bloccò il passaggio, ma venne allontanato in malo modo.

Ricominciammo a “bussare sulle porte” e a farci sentire. Arrivammo in una grande stanza dove c’erano riunite 20 persone che sentendo i nostri slogan si erono spaventate, un compagno andò in mezzo a loro per prenderli in giro.

Arrivò di nuovo il capo dei sorveglianti che lo mandò via, io mi misi in mezzo, ci divise un delegto delle RSU.

Dopo questo iniziammo a gridare slogan più politici, davanti ai dirigenti, -IL POTERE DEVE ESSERE OPERAIO- -TUTTO IL POTERE DEVE ESSERE OPERAIO- ecc...

La cosa che mi resterà sempre nel cuore e che insieme a me, agli stagionali, c’erano anche vecchi operai, mi ricordo di un operaia che di li a poco doveva andare in pensione, ma non per questo si tirava indietro.

Il corteo finì e subito la dirigenza convocò la RSU per lamentarsi del torto subito, disse che avrebbe preso seri provvedimenti contro chi aveva interrotto la riunione. Le 20 persone da noi sbeffeggiate erano i massimi vertici della Magneti e della Renault che discutevano di progetti comuni.

Andammo in mensa a mangiare e quando tornammo nelle officine, noi stagionali continuammo lo sciopero delle nostre linee per tutta la fine del turno.

Aspettammo i compagni del 2 turno, gli racontammo le cose che erono sucesse, e gli proponemmo di organizzare un corteo nell’assemblea del pomeriggio.

In realtà il giorno dopo venimmo a sapere che l’assemblea fu poco partecipata e venne fatto uno sciopero solo di 2,5 ore indette dal sindacato.

Lo sciopero ad oltranza fu praticato solo dagli operai del GOA, che per colpa dei turni sfalzati rendeva difficile un collegamaneto stabile.

La RSU aveva indetto il blocco degli straordinari e pensò di organizzare i pichetti, dando come primo appuntamento le ore 6.00 di sabato mattina.

Appena dopo due soli sabati di pichetti (dalle mattina dalle 5.30 alle 10.30) il sindacato andò a firmare uno schifosissimo accordo.

Nello specifico:

  1. Non prevedeva il rientro di tutti invalidando le manifestazioni interne alla fabbrica

  2. Prevedeva la formazione di un “paniere” così chiamato dove l’azienda avrebbe potuto scegliere tranquillamente chi riprendere

  3. Fermavano il blocco degli straordinari (si vede che l’azienda aveva spinto molto per togliere i pichetti) infatti nelle linee dove lavoravamo si intensificarono le ore di straordinario

 

Come GOA le idee erano chiare in testa e ci preparammo per l’assemblea.

Si fece un volantino che spiegava le cose, lo volantinammo la mattina e il pomeriggio dell’assemblea.

All’assemblea non perdemmo l’occasione ed intervenimmo spiegando che non si poteva accettare un accordo simile. Noi avremmo continuato a pichettare al sabato contro gli straordinari, perchè era un accordo che non prevedeva il rientro di tutti.

Il sabato mattina andammo ai pichetti.

L’assemblea fu alquanto discussa ma il sabato sucessivo a fare il pichetto ci trovammo solo con un gruppo di operai, anche perchè l’azienda con le RSU aveva imposto un sabato obligatorio, rompendo ancor di più il fronte di lotta.

Come GOA continuammo a presidiare con pichetti davanti alla fabbrica di domenica e sabato. Issammo sui cancelli un gigantesco striscione con scritto: -NO ai licenziamneti NO agli straordinari NO alla cassa integrazione NO alla repressione-. Pur non avendo una partecpazione massiccia fu un iniziativa che destò molto stupore.

Alla fine della vertenza solo 30 lavoratori di 55 stagionali rimasero a lavorare alla Magneti Marelli.

Fu lasciato fuori chi si era messo in prima linea nella lotta e chi aveva avuto problemi medici o con i ritmi in fabbrica.

In questa lotta sono stati coinvolti molti lavoratori in prima persona, tuttavia non bisogna nascondere che è bastato un intervento della RSU, firmando un accordo schifoso, per far interrompere la mobilitazione.