La settimana di 35 ore: meno salario, più lavoro

 

Sono molti a considerare una riduzione collettiva dei tempi di lavoro come rimedio efficace per combattere l'assurdità del capitalismo moderno, che da una parte produce milioni di disoccupati e dall'altra costringe quelli che un lavoro ce l'hanno a fare straordinari. Quando si riuniscono sindacalisti di sinistra e coloro che si occupano di politica sociale, il rivendicare «tagli radicali dei tempi di lavoro» si aggiunge alla rivendicazione di un «reddito minimo garantito».

Lavorare di meno va bene quasi a tutti, ma lo slogan (sindacale) sulla riduzione dei tempi di lavoro viene accolto dei lavoratori con grande diffidenza, visto che dalla metà degli anni '80 è stato un meccanismo regolatore della crisi, nelle mani di industriali e sindacati, attraverso il quale i lavoratori sono stati doppiamente imbrogliati: i tempi di lavoro non sono diminuiti in maniera rilevante, in compenso sono diminuiti i salari.

La riduzione contrattuale dei tempi di lavoro settimanali ha eliminato la giornata lavorativa di otto ore e ha consentito una flessibilizzazione radicale degli orari di lavoro nell'industria.

A differenza della Francia, dove gli orari di lavoro sono stati ridotti per legge, nella RFT si è lasciato che i lavoratori stessi lottassero per la loro flessibilizzazione nella «storica» lotta per i contratti del 1984.

Su iniziativa di un'impresa si giunse a quello che fino ad oggi resta il taglio più radicale sugli orari regolari. Con l'introduzione della settimana di 28,8 ore nel 1994, la Volkswagen era scesa al di sotto di quelle 30 ore che i sindacati fino ad allora non si erano quasi azzardati a mettere in discussione. Il modello VW viene lodato fino all'interno della sinistra come un modello per il futuro e all'estero viene visto da lavoratori e gruppi sindacali come una meta. Ma mentre si fa un gran parlare di riduzione dell'orario di lavoro, in realtà si tende al suo allungamento.

 

1. Orari di lavoro e rifiuto del lavoro

Il dibattito su salario e orario di lavoro è un'asse portante della lotta di classe. Non si tratta solo della lunghezza in assoluto della giornata lavorativa, che è limitata da leggi e accordi sindacali. Si tratta anche del controllo sul corpo e su quanto lavoro sia possibile spremere dai lavoratori durante le ore di lavoro stabilite. Il capitalista compra forza lavoro, deve però imporre all'interno del processo lavorativo quanto lavoro si eroga in pratica. In questa lotta quotidiana i lavoratori cercano di allargare i pori della giornata lavorativa, e così si crea un dislivello tra i tempi di lavoro ufficiali e quelli effettivi, fino a che non interviene il padrone. Il potere dei lavoratori è espresso da questi «pori informali»: i sindacati invece formalizzano lo status quo in contratti per le ferie, contratti collettivi, regolamentazione dell'orario di lavoro ecc.

Fino all'inizio degli anni '80 sono esistiti relativamente molti pori. Era normale che i lavoratori terminassero il loro cottimo in cinque o sei ore, dopodiché s'imboscavano. Nelle grandi imprese, ad esempio, era naturale farsi la doccia prima della fine del lavoro e cambiarsi, per poi trovarsi insieme ad aspettare di timbrare il cartellino. Esistevano pause informali, solo in parte ancorate nei contratti come pause di cottimo o per andare ai servizi. Queste pause diventarono oggetto di attacchi nelle seguenti lotte per gli orari di lavoro.

Negli anni '80 i lavoratori hanno pagato la minima riduzione dei tempi di lavoro ufficiali con l'eliminazione di questi pori. Fin dall'introduzione della settimana di 38 ore e mezza la pausa pagata del turno di notte si è trasformata nella gran parte delle aziende in pausa non pagata.

Chiaro che è meglio uscire alle 21.15 invece che alle 23.00 dal turno di sera in compenso però bisogna lavorare fino all'ultimo minuto, mentre in passato l'ultima ora del turno di sera veniva più che altro dedicata ad attività sociali.

Questa rigidità collettiva era anche un fare buon viso a cattivo gioco per i vecchi. La «loro» fabbrica era ancora il luogo in cui si definiva il proprio ruolo nella società, nel quale si organizzavano e discutevano ...

Molti giovani non sopportano la vita di lavoro collettiva, ci vedono dentro solo ottusità e cercano di sfuggirne non appena possono. Vogliono lavorare di meno, avere più tempo libero a disposizione. Si arrampicano su vacanze e turni liberi, accettano limitazioni, perché non ce lo fanno a rimanere più di tanto tempo di seguito sul posto di lavoro. E cercano di pattuire orari ridotti solo per se stessi, anche se poi guadagnano di meno.

 

 

2. 35 ore o il sogno di una ridistribuzione del lavoro

Da circa 15 anni, cioè da quando i sindacati propongono la riduzione dei tempi di lavoro, questi diminuiscono più lentamente che non nei decenni precedenti. Tra il 1956 (settimana lavorativa di 48 ore per la quasi totalità dei lavoratori) ed il 1975 (settimana lavorativa di 40 ore per il 96% di tutti i lavoratori) si è verificato una riduzione di otto ore sui tempi di lavoro. Ciò è avvenuto sostanzialmente attraverso l'eliminazione del sabato come regolare giornata lavorativa alla fine degli anni '60 («di sabato il papà è nostro»). Ci sono voluti ancora vent'anni fino all'introduzione, nel 1995, della settimana di 35 ore nell'industria metallmeccanica in Germania Ovest. Ogni riduzione dei tempi di lavoro veniva «pagata» con una rinuncia ad aumenti salariali, il numero delle ore di straordinario era regolarmente in rialzo.

Anche per quanto riguarda le ferie, niente negli ultimi 16 anni, non è più successo niente: nell'industria metallmeccanica, tra il 1960 ed il 1982, erano state a poco a poco raddoppiate. Un ruolo fondamentale ebbero gli scioperi selvaggi, come quello alla Ford nel 1973, infiammatosi sul fatto che i lavoratori turchi, rientrati in ritardo dalle ferie di tre settimane, erano stati licenziati.

I tempi di lavoro annuali secondo contratto si sono ridotti in Germania occidentale dalla metà degli anni '80 fino al 1997 in percentuale di 160 ore o del 9,6%. Ma dal 1995 lo sviluppo ristagna: gli altri settori non si sono adeguati all'industria metalmeccanica. Negli anni '80 i sindacati hanno soprattutto contrattato regolamenti di prepensionamento, attraverso i quali si è verificato un ringiovanimento radicale degli organici ed una diminuizione degli anni di lavoro della prima generazione di lavoratori dopo la seconda guerra mondiale.

Dopodiché si sono firmati solo contratti nella logica dell «assicurare la nostra posizione nella concorrenza globale» (Standortsicherungsverträge) che prevedevano riduzioni limitate dei tempi di lavoro e contemporeamente tagli sul salario.

La rivendicazione della settimana di 35 ore era cresciuta all'inizio degli anni '70 nella sinistra sindacale. Nella RFT, nel contesto della crisi mondiale del 1973/74, i padroni iniziarono la loro offensiva di razionalizzazione con licenziamenti di massa. Solo nell'industria dell'acciaio sono stati eliminati tra il 1975 ed il 1978 circa 40 000 posti di lavoro. L'attacco agli operai dell'acciaio era stato tanto massiccio, perché nelle acciaierie esistevano maestranze bene organizzate che già nel 1969 avevano procurato ai padroni un autunno caldo con una serie di scioperi selvaggi. Per salvaguardiare i posti di lavoro i quadri sindacali aziendali volevano ridurre gradualmente la settimana lavorativa e introdurre un quinto turno.

La settimana di 35 ore fu inserita nella piattaforma (catalogo delle rivendicazioni) nel congresso sindacale dell'IG Metall nel 1977, contro i vertici, che la riteneva esagerata e non praticabile. Un anno più tardi gli stessi vertici portarono questa rivendicazione alla vertenza per i contratti dell'acciaio per rendere possibile la soluzione della crisi in quell'industria.

Il padronato voleva a tutti i costi mantenere la settimana di 40 ore e offrì come indennizzo più ferie e aumenti di salario. Il sindacato proclamò lo sciopero: questa era una modo di mettere gli operai dell'acciaio sotto controllo. In novembre 1978 entrarono in sciopero le maestranze di alcune acciaierie scelte dal sindacato, la risposta fu una serrata massiccia.

Mentre la base scioperava con grande entusiasmo, i vertici del sindacato sabotavano lo sciopero. Il contratto che fu concluso nel gennaio sanciva la settimana di 40 ore per altri cinque anni, era già stata. Il sindacato aveva mostrato che non era possibile impedire i licenziamenti di massa nell'industria dell'acciaio, e aveva anche definito la propria politica nelle «crisi strutturali» a venire.

 

 

3. I sindacati come strateghi della modernizzazione

Ad osservare retrospettivamente la politica della riduzione del tempo di lavoro, salta agli occhi come i sindacati avessero assunto il punto di vista dell'ideale capitalista per eccellenza della Germania quando questa posizione non era ancora praticabile per il capitale stesso. Nella fino a quel momento più profonda recessione, nel 1980-82, la maggior parte dei sindacati di settore aveva fatto propria la rivendicazione di una riduzione del tempo di lavoro. Loro intenzione era far diventare la RFT il luogo più produttivo per la produzione industriale a livello mondiale, senza però suscitare forti fratture sociali come negli USA.

I sindacati hanno ritenuto e ritengono che la possibilità reale di imporre questa strategia sia in una flessibilizzazione del tempo di lavoro, così com'era stata richiesta dalle grandi aziende, per poter fare un uso più intensivo dei macchinari.

La rivendicazione delle 35 ore conteneva fin dall'inizio l'idea della flessibilizzazione, che avrebbe potuto funzionare come oggetto delle trattative. Non si era mai neanche accennato a una giornata lavorativa di sette ore.

Con tali concetti di modernizzazione i sindacati precorrevano di molto gli imprenditori di medie aziende, che non intendevano mollare il loro potere sulla forza lavoro. Ad esempio, mentre nel 1984 le officine BMW di Regensburg introducevano la settimana di quattro giorni, e questo ancora prima del contratto collettivo, in altre aziende in cui turni unici e straordinari continui erano la prassi, non fu possibile passare così velocemente ad un'altra forma di organizzazione del lavoro. Ancora nel 1995 solo il 20% delle piccole e medie aziende lavorava in più turni.

Ma prima bisognava ancora conquistare la propria base, che dopo i magri anni della crisi voleva un bell'aumento della busta paga. Argomento principale dei sindacati in una campagna condotta con molto pathos, fu la disoccupazione di massa: si cercarono immagini di disoccupati affamati nelle zone d'emergenza di Detroit, o di rivolte della fame. La settimana di 35 ore avrebbe dovuto impedire un tale aumento della disoccupazione e rendersi funzionale a una soluzione capitalista moderna: turni più brevi, tempi aziendali più lunghi, costi più bassi (cioè più produttività), nuove assunzioni.

Per imporre questa politica del compromesso anticipato contro l'opposizione delle due parti, era necessaria la dinamica sociale di una lunga vertenza conflittuale. La vertenza per i contratti fu fatta diventare «il conflitto del secolo», alle fine del quale non furono in molti a capire chi avesse vinto.

Nel 1984 la settimana di 35 ore avrebbe dovuto venir imposta nella regione centrale dell'industria metalmeccanica di Nord-Württemberg/Nord-Baden, con quelli definiti i contratti più progressisti fino ad allora pattuiti. Visto che la parte padronale rifiutava ufficialmente trattative sulla riduzione del tempo di lavoro, la IG Metall iniziò scioperi articolati (strategia «minimax») in alcune aziende automobilistiche e di fornitura scelte dal sindacato. I padroni sbatterono fuori lavoratori in tutta la RFT e lo stato si rifiutò di pagare la cassa integrazione ai lavoratori cacciati fuori per mancanza di lavoro. A questo punto il sindacato mobilitò soprattutto contro le serrate e intraprese passi legali contro il taglio della cassa integrazione (§ 166 del codice del lavoro AFG). Più lo sciopero durava, e più assumeva un carattere difensivo; ebbe termine dopo più di sette settimane per mano dell'ex ministro del lavoro Leber (SPD) che funzionò da mediatore. L'IG Metall festeggiò il risultato, la riduzione graduale della settimana lavorativa a 38 ore e mezza, come «inizio» della settimana di 35 ore - nonostante fosse chiaro che proprio la graduale riduzione dell'orario di lavoro non avrebbe in pratica portato a nuove assunzioni.

La vera novità era data dalla flessibilizzazione del tempo di lavoro: dopo il «compromesso Leber» solo l'orario aziendale medio era vincolato alle 38 ore e mezza. Fino al 18% delle maestranze poteva lavorarne 40, altri solo 37. I tempi di funzionamento dei macchinari potevano venir adeguatamente prolungati, a seconda delle necessità aziendali. Da allora in poi il concreto ampliamento delle riduzione dei tempi di lavoro viene contrattato fra il consiglio di fabbrica e il padrone.

Questa forma di riduzione del tempo di lavoro è stata man mano assunta dagli altri sindacati. I sindacati hanno avuto già nella seconda metà degli anni '80 grosse difficoltà a mobilitare la propria base per le successive lotte sulla settimana di 35 ore.

Quasi nessuno si accorse della data «storica» del 1.10.95, giorno in cui venne finalmente ridotta a 35 ore la settimana dei lavoratori metalmeccanici.

Il conguaglio in giornate libere per gli straordinari eseguiti era stato nel frattempo tirato a due anni, il che significava che potevano passare anche due anni, prima di poter usufruire dei giorni liberi a cui i lavoratori avevano diritto.

I tempi aziendali nell'industria metalmeccanica sono stati protratti, dalle 60,6 ore settimanali medie del 1984, a 71,8 ore nel 1996.[1] La produttività lavorativa è aumentata più velocemente di come si sia ridotto il tempo di lavoro contrariamente a quanto accaduto nei «paesi modello» USA e Olanda, dove si sono ridotti i salari, mentre non si è quasi verificato un aumento della produttività lavorativa.[2]

In aziende tedesche con un sistema a più turni i macchinari restano accesi più a lungo che non nella media europea, nonostante i regolari tempi di lavoro siano più brevi che altrove. E dato che allo scopo di ridurre gli orari di lavoro si sono immolati possibili aumenti salariali, è chiaro come il costo unitario sia a un livello incredibilmente basso. La mancata rivendicazione degli aumenti di salario nella RFT negli anni '90 è stata, in rapporto allo sviluppo della produttività, più alta che non negli USA, con contratti salariali al disotto delle quote d'inflazione.[3]

La tanto citata «sovranità del tempo» dei lavoratori non ha nessun significato all'interno dei centri di produzione: qui si tratta solo di far funzionare in modo flessibile maestranze possibilmente «snellite», conformemente alle ordinazioni, senza dover incorrere ad indesiderate indennità di straordinario. Nel frattempo i sindacati hanno perso «massa di contrattazione»: sempre più aziende flessibilizzano gli orari di lavoro senza però ridurli.

Quasi contemporaneamente all'introduzione della settimana di 38 ore e mezza nell'industria metallmeccanica, entrava in vigore nel 1985 la legge sull'incremento dell'occupazione, che aboliva limitazioni sul lavoro interinale e consentiva rapporti di lavoro a scadenza nell'industria (fino a 18 mesi e dal 1996 fino a 24), cosa in passato consentita solo in casi speciali come ad esempio sostituzione per maternità o per obbligo militare. I contratti a scadenza sono diventati nel frattempo normalità in caso di nuove assunzioni: è possibile ottenere un cosiddetto posto di lavoro definitivo solo dopo una lunga occupazione a scadenza.

 

Il progetto della sinistra sindacale, di ottenere una ridistribuzione del lavoro per mezzo della riduzione del tempo di lavoro ha condotto alla sua sconfitta storica. Nè rivendicazione degli aumenti di salario moderati nè flessibilizzazione della politica contrattuale hanno ottenuto la «ridistribuzione del lavoro» ai disoccupati sperata dai loro fautori. Analisi sindacali ottimisei valutano l'effetto occupazione tra un terzo e la metà dei tempi di lavoro ridotti. Questo comunque solo in caso che «la posizione più forte sul mercato del lavoro» non porti ad aumenti salariali che in tempi medi potrebbero distruggere l'effetto occupazione! Analisi critiche non vedono affatto un effetto occupazione e fanno presente che sono stati soprattutto gli aumenti salariali a rallentare per via dei contratti combinati.[4]

Quando quasi nessuno più parlava di ulteriori riduzioni dei tempi di lavoro, scoppiò la bomba, nell'ottobre del 1993: la Volkswagen annunciò di voler ridurre il tempo di lavoro a 28,8 ore settimanali. Nel bel mezzo della crisi dell'industria automobilistica, con un settore padronale che parlava solo di allungamento del tempo di lavoro e diminuizione dei salari, il contratto firmato alla VW sembrava voler andare in tutt'altra direzione.

 

 

4. Il modello Volkswagen: capitalismo renano moderno

La Volkswagen ha ristrutturato la produzione con l'introduzione della settimana di 28,8 ore. Con l'aiuto del sindacato la VW è riuscita a recuperare il divario di razionalizzazione che ancora all'inizio degli anni '90 esisteva con altre aziende. Nell'impresa modello IG Metall i lavoratori godevano dei salari più alti, di più indennizzi straordinari, delle pause più lunghe, delle migliori regolamentazioni delle ferie - e le automobili avevano i tempi di montaggio più lunghi. Negli anni '80 si era sperimentata una produzione altamente automatizzata («fabbriche deserte»), che però era fallita a causa degli alti impieghi di capitale necessari e della dipendenza da pochi specialisti. Una spinta della produttività era raggiungibile solo attraverso la riorganizzazione del processo lavorativo. Questo conteneva l'abolizione del vecchio sistema di cottimo, il prelievo/l'assorbimento del sapere operaio attraverso il processo di continuo miglioramento (?)(CIP), l'eliminazione (abolizione) della vecchia gerarchia dei capi e capetti e la trasmissione della responsabilità ai gruppi di lavoro.

Questo processo era appena iniziato, con tanti problemi, quando la direzione dell'impresa calcolò nel ottobre '93 un'eccedenza di 31 000 lavoratori sull'organico assoluto di 108 000 dipendenti e annunciò licenziamenti di massa, specialmente nel «dinosauro» Wolfsburg (53 000 dipendenti). L'azienda, con un licenziamento di massa di questa portata, moleggiato con piano sociale, non solo avrebbe pagato miliardi, ma avrebbe anche rischiato di confrontarsi con i lavoratori e di perdere la loro cooperazione.

La Volkswagen invece propose un cambiamento radicale degli orari. Nel giro di quattro settimane la IG Metall contrattava la riduzione della settimana lavorativa a 28,8 ore dal 1994 in poi e sacrificava il suo principio dell'indennità del salario. In contromossa l'impresa rinunciava a licenziamenti per i prossimi due anni. Confrontati con l'alternativa, 40 000 licenziamenti oppure la settimana di 28,8 ore, i lavoratori accettarono la flessibilizzazione.

La rinuncia a licenziamenti creava il clima ottimo per la ristrutturazione. La Volkswagen si era procurata una riserva di forza lavoro qualificata, era riuscita a risolvere il problema della scarsa rentabilità con basso utilizzo e si era assicurata contro costi salariali troppo alti nei tempi di crisi di ordinazioni.

Nello stesso periodo, attraverso prepensionamenti, liquidazioni e mancato prolungamento dei contratti a scadenza, continuava la riduzione dell'organico: da 108 000 dipendenti nel 1993 a 94 000 nel 1995. «Assicurazione dell'occupazione» significa solo rinuncia a licenziamenti per motivi aziendali, non significa: conservazione di tutti i posti di lavoro.

Nella fabbrica «respirante» l'orario si addatta alle necessità della produzione. Il tempo libero è individualizzato e ancora più determinato dal volume della produzione. È cresciuto il potere direzionale del padrone sul tempo dei lavoratori. I gruppi di lavoro non hanno più la pausa contemporaneamente, la possibilità di comunicare è quindi fortemente ridotta. Teoricamente tutti i lavoratori possono essere spediti in tutte le fabbriche dell'impresa che sono distanti centinai di chilometri. Si sono sperimentati 150 modelli diversi di orari e turni, da turni brevi nella produzione continua a quattro turni (Vierschichtbetrieb) fino a giornate «normali» di otto ore con giornate libere di conguaglio. A questo modo si potevano allungare i tempi aziendali per certi modelli da 3 700 fino a 4 600 ore nell'anno.[5] Il tempo di lavoro necessario per il montaggio di un'auto si è ridotto da 30 ore nel 1993 a 20 ore nel 1998.

La settimana di 28,8 ore viene oggi accettata dopo alcune riserve iniziali da parte dei lavoratori. Soprattutto i lavoratori più giovani senza famiglia preferiscono lavorare meno, anche se l'effetto di ricreazione viene assorbito da carichi di lavoro più alti ed orari sfavorevoli. Il salario mensile è diminuito poco mentre sono state tagliate la tredicesima e altre indennità speciali della Volkswagen. Il salario annuale lordo è sceso del 16% (quello netto del 10%); prima i salari Volkswagen erano 1,6 volte più alti del salario contrattuale della regione. Per questo non si può applicare il modello VW ad altre aziende.

Al contrario di quanto afferma la propaganda, la settimana di 28,8 ore a quattro giornate di 7,2 ore era si realizzava solo per una minoranza dei dipendenti. Da una parte riguardava stabilimenti a basso utilizzo (come Emden), dall'altra parte impiegati non soggetti al ritmo rigido delle macchine e dove si presumono alcuni «pori» nella giornata lavorativa. Nella fabbrica di camion di Hannover si lavorava quasi tutto il periodo 37,5 ore - grazie all'alto utilizzo della fabbrica. Ma si pagano solo 35 ore: 1,2 ore vengono donate all'azienda («assicurazione dell'occupazione»), per 1,3 ore si ottiene tempo libero. Le settimane di ferie o di malattia vengono pagate però a 28,8 ore. Alla Volkswagen Hannover la settimana di 28,8 ha significato solo diminuizione del salario. Per questo si protestava fortemente, nel 1995 contro l'allungamento dell'accordo e ulteriori pretese come diminuizione delle pause, turni di sabato e straordinari con indennità diminuita e solo al di sopra di 38,8 ore settimanali.

Nel 1998 la produzione aumentava anche nelle altre fabbriche VW; per mancanza di personale la direzione preferiva pagare straordinari piuttosto che dare tempo libero come conguaglio. Contemporaneamente si assumevano lavoratori con contratti a tempo.

Nel febbraio 1999, la VW di Wolfsburg eliminò gli orari diversificati e introdusse il lavoro in tre turni rigidi con l'opzione di far lavorare gli operai quattro, cinque o anche sei giorni alla settimana, a seconda delle ordinazioni. Base per calcolare i salari rimangono però le 28,8 ore. «Col progredire della realizzazione della segmentazione delle strutture produttiva si continua a conseguire la sincronizzazione dell'organizzazione del lavoro», dice l'istruzione per i capi. Il nuovo orario impone il turno di notte a tutti quelli che lavorano nei reparti a tre turni e mira a un ulteriore aumento della produzione.

 

5. La crisi del 1992/93 e i contratti per assicurare il luogo di produzione

La crisi economica del 1992/93 fu una svolta. Mentre l'industria automobilistica usufruiva della recessione per ristrutturare la produzione e minacciava licenziamenti e spostamenti, i sindacati furono confrontati, per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale, con forti perdite di iscritti. Di conseguenza cercarono di mantenere il loro influsso laddove da sempre esisteva la base del loro potere: nel essere riconosciuti sia dal capitale che e dallo stato. Istituti di ricerca sindacali concentrarono tutte le loro forze nell'elaborazione di concetti per il luogo di produzione Germania, prendendo questo tema più seriamente  dei capitalisti. Consigli di fabbrica firmarono in accordo con l'imprenditore contratti che demolivano muri dati per sicuri - senza nessun vantaggio per gli operai, come fu il caso della VW.

Iniziarono la svolta gli accordi aziendali con una validità di cinque anni nelle aziende della Daimler a Wörth ed a Gaggenau nella primavera del 1993. Si abbondanavano posizioni ottenute combattendo negli anni '70 come per es. le pause di cinque minuti all'ora per i cottimisti e si imponeva l'allungamento dell'orario. Il consiglio di fabbrica di Wörth si è impegnato inoltre a collaborare attivamente alla diminuizione del 30% dei costi e all'aumento del 20% dei ritmi - in cambio della garanzia che l'azienda non sposti la produzione di un nuovo tipo di camion leggeri nella Repubblica Ceca. Il numero dei dipendenti veniva ridotto da 15 000 a 10 000 nel 1994.

La vecchia legislazione del lavoro del 1938, che fissava le condizioni minime dello sfruttamento, in tempo di lavoro o giorni di ferie, è stata adattata è stata adattata al bisogno di orari flessibili. La giornata di otto ore è ancora il punto di riferimento, ma può essere allungata fino a dieci ore per sei giorni alla settimana a condizione che le ore straordinarie vengono effettuate entro sei mesi. Il sabato è giornata lavorativa. L'indennità di lavoro straordinario non è più obbligatoria.

I contratti regionali degli ultimi dieci anni contengono clausole che permettono in caso di crisi di un'azienda di ridurre l'orario fino a 30 ore settimanali con riduzioni salariali e anche un allungamento dell'orario. Negli ultimi anni si sono avuti peggioramenti delle condizioni in un quarto delle aziende con consiglio di fabbrica / del personale nel settore pubblico, come per es. riduzioni del tempo di lavoro e del salario; rinuncia all'indennità di lavoro straordinario; turni di sabato; riduzioni della tredicesima; allungamenti del tempo di lavoro; straordinari non pagati; riduzione della busta paga a quella contrattuale. Tutto questo è stato accordato in cambio della vaga promessa dell'imprenditore di non chiudere la fabbrica nei prossimi anni.[6] Fra i gruppi che fanno uso di queste possibilità ci sono fabbriche automobilistiche come la Opel, la Ford, la Volkswagen e la Daimler-Chrysler, cioè gruppi che fanno miliardi di profitto, aziende per niente in crisi!

Nella maggior parte delle fabbriche di gomme è stata allungata la settimana lavorativa. Alla Pirelli per es. si è fatto un accordo aziendale per tornare dalla settimana di 37½ alla settimana di 40 ore dal primo gennaio 1999 - senza aumenti di salario! Il padrone, in cambio, rinuncia a licenziamenti per motivi aziendali fino al 2001. Per lo stesso periodo è progettato un aumento della produzione del 20%.[7]

 

6. L'orario di lavoro si sta di nuovo allungando

Nella RFT, al contrario della Francia o dell'Inghilterra, il tempo reale lavorato dai dipendenti a pieno orario è diminuito fra il 1983 ed il 1993 di circa il quattro percento, con grande differenze fra l'Est e l'Ovest della Germania. Le ore lavorate di tutti i lavoratori sono diminuite molto di più, visto il forte aumento del lavoro salariato femminile dagli anni '60 in poi. Questo sviluppo è stato sistematicamente ignorato dalla politica contrattuale dei sindacati che hanno sostenuto la richiesta della riduzione generale dell'orario con conguaglio salariale. I sindacati fanno oggi invece una campagna per incitare anche gli uomini a lavorare part-time. Questa forma di riduzione dell'orario è aumentata dagli anni 70 in poi. Chi guadagnava abbastanza per lavorare meno non ha aspettato l'introduzione della settimana di 35 ore, ma ha cercato di contrattare col padrone un orario individuale.

Oggi si profila uno sviluppo che corre incontro alla tendenza centennale della riduzione del tempo di lavoro.

La quota di assenze dal lavoro è arrivata a un basso storico. In tutte le grande aziende si fanno campagne contro l'assenteismo sostenute dai consigli di fabbrica, nella logica della riduzione dell'orario e la «Standortsicherung» (assicurazione del luogo di produzione).

Mentre il tempo di lavoro contrattuale diminuisce, un numero crescente dei lavoratori fa un secondo lavoro per bilanciare la perdita di salario reale degli ultimi anni. Nel 1998 c'erano tre milioni di lavoratori con un secondo lavoro dipendente o un lavoro autonomo di dieci ore in media per settimana.[8]

Nello stesso periodo le imprese facevano lavorare 1,8 di miliardi ore straordinarie - una cifra che corrisponderebbe ad un milione di posti regolari. Questo per capire in che misura le aziende abbiano ridotto l'organico stabile ed evitato assunzioni. A paragone con l'anno del boom 1970, nel 1998 si sono contate solo la metà delle ore straordinarie «classiche» a causa delle banche ore che esistono ormai nell' 80% delle aziende con consiglio di fabbrica. La cifra di queste ore straordinarie non pagate è di 2,4 miliardi nel 1995.

La nuova tendenza più importante è l'aumento di ore straordinarie nel quadro di «orari di fiducia», che non vengono registrate. Questo vale per impiegati di reparti come distribuzione, amministrazione di rete, programmazione nei quali regge un'alta pressione di rendimento e di termini convenuti/scaduti e dove una settimana lavorativa di 50 o 60 ore non è una rarità. «Le imprese, prima di tutto per la categoria dei dipendenti altamente qualificati, tendono a non stabilire più un orario fisso nel contratto di lavoro, ma a pagare il tot di lavoro o di non registrare più il tempo lavorato. (...) Però non si può ridistribuire tempo di lavoro non registrato e non pagato.»[9] La IBM aspira ad un quadro generale del tempo di lavoro di 19-60, ore in cui gli impiegati devono finire il loro lavoro senza registrare il tempo lavorato. Così si produce una pressione, in modo che gli impiegati lavorano più di quanto vogliono.

 

7. Che cosa fanno i lavoratori?

La propaganda che da anni ha cercato di servirsi dei disoccupati contro i «possessori dei posti di lavoro» ha avuto un certo successo. Ma non tutte le maestranze hanno accettato in silenzio i contratti per l'assicurazione del luogo di produzione (Standortsicherungsverträge); la rabbia si è espressa in piccoli scioperi selvaggi alle catene, come nell'estate del 1993 alla Opel Bochum contro l'«iniziativa assicurazione del luogo» lanciata dalla direzione, o alla Daimler Wörth contro una imposizione insopportabile di lavoro. Un alto segnale di conflitto è l'aumento dell'assenteismo in certi reparti. Che solo poche proteste collettive giungano all'esterno, è il risultato dell'«aziendalizzazione» dei conflitti.

In singole aziende «forti» i consigli di fabbrica erano anche in grado di realizzare la riduzione dell'orario in modo da migliorare le condizioni dei lavoratori. Ma queste fabbriche non sono più le protagoniste come un tempo; vengono invece sempre più isolate dal resto dei lavoratori. Gli stessi delegati stanno a guardare quando reparti interi vengono esternalizzati per ridurre i salari; quando l'imprenditore utilizza lavoratori interinali per bilanciare ordinazioni massime; quando contratti a tempo determinato diventano la regola per l'assunzione di operai. I sindacati sono prima di tutto i rappresentanti dell'organico stabile; l'organico marginale (Randbelegschaft) è solo una figura nella scacchiera delle trattative per arrivare a risultati migliori.

Che una situazione acuita può anche produrre un nuovo modo di lotte, mostra il caso della Opel Bochum dove 1800 lavoratori hanno smesso il lavoro nell'ottobre 1998 per richiedere in modo definitivo l'assunzione di 300 lavoratori con contratti à termine scaduti. L'organico era stato ridotto in modo da non poter più garantire personale che sostituisce i lavoratori in pausa per andare ai servizi. La direzione reagì subito: diminuì il ritmo della catena del 2,5% e assunse 50 lavoratori a tempo indeterminato. In marzo 1999 fermarono di nuovo la catena e interruppero il lavoro perché l'azienda si rifiutava di assumere più personale stabile. In aprile 1999, si è scioperato alla VW di Emden per l'assunzione dei lavoratori con contratti a termine.

La politica sindacale della riduzione del tempo di lavoro era regolazione della crisi capitalista. Invece di frenare il peggiorare dello sfruttamento l'ha reso possibile. La sinistra di fabbrica e sindacale, partecipando a questo gioco, si è consumata e/o è stata assorbita dall'apparato. Non è possibile radicalizzare questi modelli da un punto di vista rivoluzionario. Si tratta invece di rifiutarli completamente e di smascherarli per quello che sono già da molto tempo agli occhi degli operai: strategie con cui il capitale si assicura in modo sempre più brutale il potere discrezionale sul nostro tempo complessivo per poterci isolare e sfruttare sempre di più.

 


 

[1].Gerhard Bosch: «Arbeitszeitverkürzungen. Nicht nur auf das 'Ob', sondern auch auf das 'Wie' kommt es an.», Gewerkschaftliche Monats­hefte 9 / 98.

[2].Beschäftigungswachstum in den USA - ein erklärbares Wunder, in: DIW-Wochen­be­richt Nr. 9 / 98.

[3].DIW-Wochenbericht a.a.O.

[4].H. Seifert, Arbeitszeitpolitik in Deutschland: auf der Suche nach neuen We­gen, in: WSI-Mitteilungen 9 / 1998, S. 579 ff.

[5].Bosch, a.a.O.

[6].Ergebnis einer repräsentative Befragung der WSI-Projektgruppe von fast 3 000 Be­triebs- und Perso­nal­räten, WSI-Mitteilungen 10 / 98, S. 653 ff.

[7].Frankfurter Rundschau, 11.12.98.

Studie des gewerkschaftsnahen Instituts für Sozialfor­schung und Gesell­schafts­politik ISG, zitiert nach Metall 11 / 1998.[8].

[9].Bosch, a.a.O.