Cronache operaie, edizioni Lotta Comunista
di  Lorenzo parodi
 

Prefazione alla terza edizione

Dalla prima edizione di "Cronache Operaie" sono trascorsi tre lustri. Si è prodotto un ribaltamento di certi modelli produttivi, e soprattutto del "ciclo integrale" siderurgico concepito alla fine degli anni '30 da Agostino Rocca e Oscar Sinigaglia. Modello concretizzato dal "piano Sinigaglia" a cavallo degli anni '50 con le vicende del "cantiere della morte" raccontate nelle Cronache".

Il ribaltamento del modello ad opera della ristrutturazione siderurgica mondiale, rispecchia la nuova divisione internazionale del lavoro e corrisponde all'esigenza, nelle metropoli imperialismo di un rapporto più flessibile tra domanda e offerta di prodotti siderurgici, che ha riabilitato i forni elettrici e i mini-laminatoi lombardi.

Certi aspetti della storia italiana, che hanno rappresentato il dramma di una generazione nella ristrutturazione postbellica, si ripresentano sotto forma di farsa nella ristrutturazione post-keynesiana. Nel dramma post-bellico c'era anche la farsa, come l'episodio della "colata della pace" messa in scena dallo stalinismo nel marzo del 1951 all'ILVA di Genova-Bolzaneto. Un catafalco simbolico sulla salma del grande complesso che era stato al centro delle guerre siderurgiche del primo Novecento e degli anni '30.

Nel 1988, dopo lunga malattia, è stata invece decretata la morte dell'Italsider, facendo però risorgere il morto sotto le mentite spoglie della vecchia ILVA. E questa è la farsa.

Aveva ragione quel noto banchiere d'affari franco-americano che dissuadeva un suo partner dal visitare gli stabilimenti: "Gli stabilimenti non ti dicono niente", ripeteva. Temeva che si innamorasse dei macchinari e che questo gli confondesse le idee. La legge degli "affari", che contraddistingue il capitalismo e lo rende caotico, dimostra infatti che il "capitale fisso" è solo un termine convenzionale, ma stabilimenti e macchinari sono estremamente mutevoli.

Eravamo tra i ragazzini entrati nelle fabbriche nei primi anni '40 a sostituire la "carne da cannone" inviata al fronte. Ignoravamo che il presidente della grande Ansaldo fosse quell'Agostino Rocca, riproposto quarant'anni dopo dagli storici come una figura esemplare di quella cultura industrialista e manageriale, che in Italia si è espressa prevalentemente nell'ambito del capitalismo di Stato. Sopravviveva il mito dell'Ansaldo, ma non potevamo innamorarci della fabbrica. Intanto perché fummo presto costretti a disertarla per sfuggire alle "retate" dei nazisti; poi perché vi ritornammo politicizzati, ma non per raccogliere la bandiera della "borghesia di lavoro" come raccomandava Stalin.

Nemmeno i coetanei politicizzati dallo stalinismo potevano innamorarsi della fabbrica. Ne erano impediti dalla ginnastica agitatoria imposta dai problemi reali dello scontro di classe e dall'influenza nefasta della guerra fredda. Tuttavia l'equivoco della vittoria sul fascismo aveva mascherato la continuità della linea industrialista capitalstatale, che del fascismo era stata matrice, e soggiacevano al mito del capitalismo di Stato, adesso sconsacrato dalla bancarotta delle ideologie.

Una bancarotta che coglie gli ex stalinisti impotenti e stupiti, per cui le nostre "cronache" potrebbero offrire un motivo di ripensamento. Ma non è questo lo scopo della riedizione. Esse portano un contributo alla memoria storica della classe operaia, e quindi si rivolgono alle nuove leve operaie. Ma perché rappresentino un insegnamento che vada oltre i problemi della difesa della classe, per stimolare quella conoscenza che è propria del partito-scienza, occorre collegarle alla documentazione storica offerta dagli archivi della borghesia.

Questi archivi vengono aperti dopo vari decenni per rendere la documentazione inoffensiva nell'impatto col presente. Ma anche il rapporto passato-presente può essere rivoluzionario, indagato dal partito-scienza. Del personaggio Agostino Rocca, non nominato nelle "cronache" ma presente col suo lascito di modelli produttivi (ciclo integrale", taylorismo stile Ansaldo), si apprende che, pur avendo rappresentato la Confindustria nella Camera dei fasci e delle corporazioni dal 1939 al 1943, nel momento della crisi del fascismo ha scelto l'appoggio alla "resistenza": un comportamento non privo di ambiguità (rapporti con alleati, tedeschi e partigiani per salvare il salvabile), comune a quello di Vittorio Valletta e di altri capitani d'industria. La commedia dell'epurazione antifascista ha però inciso su di lui più che su altri, dato che nella circostanza, i siderurgici lombardi con i quali si era scontrato negli anni '30, hanno colto l'occasione per un regolamento di conti. L'ipoteca accesa dall'antifascismo con i capitani d'industria, verrà riscossa dal comprirnario del Rocca, Oscar Sinigaglia (fondatore di uno dei primi lasci di combattimento ma al quale la questione razziale aveva ridato verginità) e dagli altri manager pubblici che il Vaticano aveva inserito nell'IRI già negli anni '30. Genova diventa così la capitale del capitalismo di Stato, e un riflesso di questa edificazione lo si può cogliere nel saggio che alla fine degli anni '50 abbiamo dedicato a "L'operaio negli ingranaggi di un grande complesso industriale". La pratica dell'opportunismo come mosca cocchiera del ca-pitalismo di Stato, è stata pagata dalla classe operaia nel grado di subalternità assunta nell'ambito di una formazione economi-co-sociale. La base di massa di questo capitalismo non poteva essere infatti l'aristocrazia operaia di vecchia memoria socialde-mocratica, bensì la piccola borghesia parassitaria dei tagliatori di cedole. Una base di massa nata negli anni '30 con l'IRI, con le obbligazioni IRI-STET, IRI-Mare-IRI-Ferro, come soluzioni alla crisi bancaria e del capitale di rischio.

Una base di massa che viene riorganizzata negli anni '50 per indirizzare il colletto-re del risparmio (comprensivo del denaro sporco del borsaneri-smo bellico e post-bellico) verso il mercato obbligazionario del-le industrie di base. Una base di massa che ha potuto prosperare fino alla crisi degli anni '70.

Inquadrate storicamente, quelle "cronache" sono davvero l'espressione di un dramma, nell'inconsapevolezza dei suoi protagonisti. La farsa di oggi, è che le ideologie della crisi e del declino lamentano l'assenza nella borghesia italiana di portatori di spirito imprenditoriale al livello dei Rocca, dei Sinigaglia, dei Reiss Romoli o dei Mattei. Tutti protagonisti dell'"economia pubblica". La storia si ribalta: gli inconsapevoli sono ora gli intellettuali che irridono al leninismo, ma poi credono che l'imputridimento imperialistico sia un fenomeno da trattare con l'ecologia dello spirito.

[Luglio 1988]

presentazione

Queste cronache, scritte da un operaio che le ha vissute negli anni cinquanta e adesso riordinate come testimonianza di lotte e di esperienze scaturite dal rapporto capitalistico di produzione, vanno accolte come contributo alla conoscenza della condizione di una classe presa nell'ingranaggio del cosiddetto "modello di sviluppo".

Per una migliore comprensione del materiale raccolto ci è tuttavia indispensabile una premessa che riguarda il processo di formazione personale, poiché, all'inizio, si tratta di un approccio di tipo spontaneistico, per cui l'operaio che ne è protagonista non può domandarsi ancora se le idee che lo animano sono veramente un prodotto della sua classe o non rispecchino invece l'influenza ideologica di altre classi e ceti sociali. L'inizio della sua vicenda politica avviene fuori della fabbrica quando, per sfuggire alle retate dei fascisti, nel 1944, è dovuto passare alla clandestinità. Nella nuova condizione, egli incontra dei compagni che hanno dovuto fare una scelta politica e si unisce a loro. La cellula clandestina che hanno creato si rifiuta di seguire la linea di collaborazione nazionale e il compromesso con la monarchia imposti da Togliatti appena approdato a Salerno. t il rifiuto del primo "compromesso storico" che interesserà tutta una generazione e la scelta diventa il comunismo libertario e internazionali sta, contrapposto a quello di osservanza staliniana.

A Genova esiste una tradizione libertaria e anarco-sindacalista che risale al processo di formazione del movimento operaio, alle peculiarità della Prima Internazionale in Italia, alle reazioni spontanee provocate dal marciume della Seconda Internazionale, quindi alle caratteristiche del primo dopoguerra rosso quando una Camera del Lavoro importante come quella di Sestri Ponente era a direzione anarcosindacalista.

La scelta individuale, contornata da aspirazioni e da atteggiamenti ideali propri dell'età giovanile, si conforma ad una scelta collettiva, legata certamente a quella tradizione, ma soprattutto come affermazione del rifiuto all'opportunismo togliattiano. Si esprime come esigenza e modo ancora confuso di salvare il salvabile di fronte all'ondata opportunistica che finirà per bloccare e sommergere il movimento di classe scaturito dalla lotta contro il fascismo.

Quando inizieranno queste " cronache operaie " il processo di formazione individuale si sarà già innestato in un processo collettivo indirizzato alla ricostruzione del Partito di classe. Ovviamente, come testimoniano forme e contenuti di queste stesse cronache, tale processo risentirà per un certo periodo dell'iniziale collocazione ideologica. Ma già vi è la coscienza dell'organizzazione e del rapporto avanguardia-classe.

Il responsabile di queste "cronache" era dunque partito con l'idea di far tesoro di tutte le esperienze positive del movimento operaio nelle sue varie componenti e, strada facendo, si è accorto che il primo tesoro da conquistare è l'omogeneità teorica come scienza della rivoluzione. Si è accorto che se Marx aveva impiegato vent'anni per scrivere il "Capitale", non tanti di meno ne occorrono per assimilarlo e comprenderlo appieno. Infine, nel processo collettivo di formazione, ha potuto appurare che se Lenin aveva dovuto impiegare le energie di una intera generazione di rivoluzionari per liberare il marxismo dalla mistificazione socialdemocratica, lo stesso problema e lo stesso impiego di energie si sarebbe posto a più generazioni per liberare il leninismo dalle mistificazioni dello stalinismo.

.Non è questa la sede per fare di un'esperienza personale e collettiva un motivo di riflessione per tanti spontaneisti della nuova generazione che rifiutano perfino l'idea di partenza che aveva animato l'autore.

 

I

Lo scopo di queste "cronache" era quello di parlare agli operai dei loro problemi, ma il cronista doveva sottrarsi all'influenza soggettiva di chi è parte in causa per trattare i problemi della classe in contrapposizione all'egemonia ideologica dello stalinismo nel suo periodo più buio.

Occorre precisare che il cronista imparava a trattare i problemi degli operai vivendoli nell'attività agitatoria, nell'impegno sindacale, nella responsabilità del proprio inserimento nelle varie istanze sindacali, da quella di base ("esperto», ora "delegato", di reparto), a quella di fabbrica del Comitato Sindacale (ora Consiglio), fino a quelle di categoria e dell'organizzazione orizzontale a livello confederale (Comitato Direttivo Nazionale della CGIL). Pertanto si tratta di un'esperienza "sindacale" il cui motivo di riflessione riguarda l'atteggiamento che il militante rivoluzionario deve tenere nella fabbrica e nelle istanze sindacali, nel suo modo di rapportarsi con gli operai e con la classe.

Va detto che molte «interpretazioni" iniziali delle situazioni economiche aziendali e nazionali erano spesso frutto dell'impreparazione personale. In una fase di formazione come quella attraversata gli errori erano inevitabili, ma va dato atto che rispetto agli interessi operai la cura del cronista era sempre quella di rilevare le ambiguità della linea sindacale, le sue contraddizioni e, soprattutto, le conseguenze del primo compromesso storico sul piano dello sfruttamento operaio.

I temi dello sfruttamento sono infatti dominanti e si può rilevare come sia ricorrente la questione dello "straordinario" ora ritornata di attualità. Il tema della «guerra che viene" sembra invece anacronistico, o tale può apparire per chi non ha conosciuto il clima della "guerra fredda". Appunto per questo una delle più gravi implicazioni della " guerra fredda" e dello stalinismo che ad essa informava agitazioni e propaganda, è stata quella di allontanare il cronista dalle motivazioni reali che erano alla base dei provvedimenti di politica economica. Nelle condizioni di allora, senza quell'attrezzatura teorica e organizzativa che oggi contraddistingue "Lotta comunista", anche l'interesse del cronista era deviato dall'attivismo che è alla base dell'azione sindacale. Era cioè impossibile avere una precisa cognizione del modello di sviluppo che si andava formando, quello che ha portato il capitalismo italiano ad una sua maturazione imperialistica.

Gli articoli scritti per il settimanale "Il Libertario" denunciano un'analisi sbrigativa soprattutto per impegni di lavoro, di attività e di agitazione. La cronistoria delle smobilitazioni e dei licenziamenti di massa avvenuti intorno al 1950 nel genovesato e in tutta l'industria che aveva proliferato nell'autarchia e nella produzione bellica, risente continuamente di impostazioni alternative che non erano reali: sia che si trattasse del ritorno alla temuta produzione bellica - in quanto si trattava soltanto di occasionali commesse tampone favorite dagli accordi atlantici - sia che si trattasse di riconversione produttiva, la quale verrà poi concretamente espressa dalle ragioni di scambio, con l'integrazione dell'industria italiana nel mercato internazionale. Comunque rimane la testimonianza della grande ramazzata, a base di licenziamenti e di provvedimenti polizieschi, passata sulla classe operaia in quegli anni. Rimane la testimonianza che l'alternativa della mano tesa alla borghesia per una politica di piano non riusciva minimamente ad attenuare gli effetti di quella ramazzata e, anzi, la favoriva in pieno.

Oppure è anche questa una testimonianza di come si pratica una ristrutturazione industriale, nei suoi riflessi sulla classe operaia, anche se oggi disponiamo di materiale d'analisi complementare, allora a noi inaccessibile, per documentare come essa non aveva bisogno di un "Piano del Lavoro" per essere realizzata.

Gli anni della cosiddetta "ricostruzione" finiscono nel 1950 e questo anno è preso come spartiacque, in relazione alla realizzazione del "modello di sviluppo", perché è nel 1950 che il reddito nazionale raggiunge il livello che aveva prima della guerra. Forse la classe operaia genovese, protagonista delle nostre cronache, non ha la possibilità di accorgersi di questo traguardo; anzi, se si considera che prima della guerra essa costituiva l'ossatura di un'industria pesante nazionale il cui primo cliente era lo Stato (quindi senza problemi di costi di produzione da comparare con la produttività internazionale) si capisce perché il confronto apparisse completamente negativo. Questa classe operaia nemmeno poteva rendersi conto che proprio nel 1950-51 doveva iniziare quel periodo di espansione (durato ininterrottamente fino al 1963) che doveva trasformare radicalmente l'economia nazionale da una struttura agricola -industriale, scarsamente integrata all'interno e _meno ancora verso il mercato internazionale, ad una struttura industriale che assumeva le caratteristiche cosiddette di un'economia aperta allo sviluppo tecnologico e all'integrazione con gli altri capitalismi.

In realtà, la necessità di una tale soluzione, cioè di una economia integrata all'interno per essere in grado di integrarsi all'esterno su di un piano di competenze internazionale, presupponeva un massiccio intervento dello Stato, ed era stata dibattuta dai veri protagonisti della restaurazione capitalistica prima ancora che gli "economisti" se ne fossero interessati su di un piano puramente accademico.

Dopo il 1945, ideologia ed economia miravano ad integrarsi a vicenda nell'esigenza di rendere soltanto fisiologici quei conflitti di classe che nella rottura storica di pochi mesi prima (o di pochi anni prima) avrebbero potuto creare una alternativa pericolosa per la borghesia. Infatti, già al primo convegno economico del PCI del 21-23 agosto 1945 il discorso di Togliatti aveva posto la questione dell'economia nei seguenti termini che riassumiamo:

1) « Siamo decisamente contrari ad ogni politica, misura economica, ecc., che porti a una soluzione catastrofica della situazione economica. Siamo orientati verso soluzioni costruttive sia nel campo politico che nel campo economico. Non vogliamo la bancarotta dello Stato, quindi... azione di base e di vertice per evitare la bancarotta. Una politica di inflazione è contraria agli interessi delle categorie a reddito fisso e a quelli del medio e piccolo risparmiatore ». Nella realtà l'inflazione era provocata dagli "alleati" con l'emissione di carta-moneta "amlire", ma Togliatti voleva salvare la lira dal crollo: « Come abbiamo lottato per salvare il paese dalla disfatta fascista, diceva, oggi vogliamo salvarlo dalla catastrofe economica ».

2) Per una politica di produzione e non di sussidi (se non in casi eccezionali). « Come linea di condotta fondamentale dobbiamo tendere a creare la maggior quantità possibile di lavoro: solo da una larga e molteplice ripresa della Produzione possiamo attenderci un radicale miglioramento economico. Noi siamo oggi una società povera, nella quale esistono grandi ricchezze accumulate a disposizione dello Stato, e anche per questo è essenziale fare una politica di lavoro, cioè di creazione di ricchezza, e non di sussidi... »

3) La questione dell'iniziativa privata, del controllo e dei piani economici. « Porre la questione, in questo momento, della rivendicazione di un piano economico nazionale è utopistico. Può darsi che tutti i compagni non siano d'accordo, ma attendo che mi si dimostri che esiste la possibilità di elaborare un piano nazionale. » Ma, continuava: « Se fossimo soli al potere faremmo appello per la ricostruzione all'iniziativa privata, perché sappiamo che vi sono compili a cui sentiamo che la società italiana non è ancora matura. Vi sono parli dell'economia che potranno essere piú rapidamente ordinate secondo un piano data la situazione stessa che il fascismo ci ha lasciato in certi settori. Ma si tratta di quelle parti che è discutibile fino a che punto potrà domani essere ancora indispensabile ed anche solo utile sviluppare ». « Una pianificazione generale della nostra economia la ritengo utopistica... dobbiamo lasciare un campo vasto all'iniziativa privata tanto nella produzione, quanto nella distribuzione e nello scambio ». li piano economico che non era possibile nel 1945 verrà lanciato dopo il quinquennio della "ricostruzione", quando la "restaurazione capitalistica" sarà consolidata e il reddito nazionale, giunto al livello prebellico, testimonierà che i ceti sociali presi a cuore da Togliatti erano stati tutelati dall'inflazione col sostanziale appoggio alla linea Einaudi per la difesa della lira. Certamente, la campagna del Piano del Lavoro del 1950, oltre ad avere le caratteristiche denunciate nel capitolo sulle lotte del genovesato (anche attraverso la citazione di Giolitti), era soltanto un arnese della "guerra fredda": è noto (ma non troppo) che le conferenze economiche per il piano sfociarono poi nella conferenza di Mosca per propagandare l'offerta di commesse da parte di quel capitalismo di Stato agli imprenditori italiani perché si sganciassero dagli USA. Ma l'anacronismo propagandistico di quel Piano stava nella pretesa di risolvere i problemi della classe operaia - problemi di occupazione e di reddito inserendosi nel meccanismo già sviluppato dal capitale dopo la "liberalizzazione" togliattiana del 1945. Non solo, ma l'anacronismo stava pure nella pretesa di riuscire a bloccare con la mano tesa della collaborazione la ramazzata dei licenziamenti in massa proprio in quelle parti dell'economia che lo stesso Togliatti aveva giudicato discutibile poter ancora sviluppare, prevedendo appunto un suo ridimensionamento. Nemmeno un anno dopo il discorso di Togliatti, alla FIAT era già terminato quel periodo del "doppio potere" - così definito da Renzo Gianotti del PCI - che lo fa datare dal 1943 al 1948. Valletta era già stato reintegrato nelle sue funzioni (era stato epurato per "collaborazionismo " nel 1945 dal CLN insieme ad Agnelli e Camerana) e si presenta al Ministero della Costituente nel 1946 a tenere un rapporto alla Commissione economica dell'Industria, probabilmente alla presenza di ministri comunisti e socialisti. Questo rapporto smentisce la tesi del Gianotti circa la "restaurazione capitalistica" come fase posteriore al 1948. Lo riassumiamo: La FIAT è in grado di dare la massima produzione (ad eccezione del settore aeronautico di cui è già prevista la riattIvazione, ed è quello che nel 1951 riceverà le commesse NATO) e di far fronte alle richieste di automobili, di camions e autoveicoli in genere, di motori marini, ecc. Occorre ripristinare il ritmo normale dell'intera produzione, ma a questa realizzazione si frappongono due inceppi: il primo, momentaneo, dovuto all'impossibilità di occupare le maestranze per intero; il secondo dovuto alle materie prime che arrivano irregolarmente o non arrivano. Dice Valletta che ha fatto un giro in officina dove ha trovato le maestranze che si adattano a riprendere la produttività, ma questa non si riprende se vi è un disturbo quasi continuo nell'afflusso delle materie prime. Quindi propone il ricorso al 66 per cento del salario, cioè alla cassa integrazione. Lo preoccupa la questione finanziaria, perché la FIAT è perfettamente in grado di fare quello che faceva prima... Valletta giudica però l'avvenire dell'azienda assai buono, in qualunqueregime economico si sviluppi, liberista o vincolista moderato... perché in Italia l'industria meccanica in generale e quella automobilistica in particolare, malgrado la deficienza di materie prime, possono contare su di un « mercato basso" della manodopera più che altrove e per decenni. E per sottolineare che questo del basso costo della manodopera è uno dei fattori principali del meccanismo che si vuol mettere in moto, egli assicura i suoi interlocutori del governo di unità nazionale che « se un miglioramento delle condizioni di vita si verificherà, questo sarà generale e la differenza tra noi e gli altri (paesi) permarrà ». Aggiunge che alla FIAT sono sempre stati in contatto con gli americani (anche durante gli anni del fascismo e della preparazione al massacro) non per accordi di carattere finanziario, bensì di carattere tecnico. Con la faccia di Bronzo del manager con i pantaloni a righe, precisa appunto che questi contatti sono continuati anche quando la FIAT poverina! - doveva "sottostare" alla politica autarchica. Grazie a ciò, adesso ha potuto riprenderli e mettersi in grado di aggiornarsi al massimo con la tecnica americana: « noi prenderemo il meglio dei progressi fatti dagli america i », dice euforico. Ma ha l'umiltà di sottolineare che, « per quanto la FIAT sia grande », la sua produzione rapportata al mondo automobilistico, è una piccola cosa. I quantitativi che ne vengono fuori non devono impressionare perché, per dieci anni, saranno una piccola cosa, aggiunge, azzeccando perfettamente le previsioni circa il periodo di accumulazione necessario. La prima sollecitazione esterna di carattere competitivo Valletta la riceve dalla Francia « che si sta buttando in un programma ardito ». Dice che ha prospettato agli americani l'opportunità che la FIAT faccia le piccole cilindrate ("500" e "1100") e tutti quei prodotti di più basso costo, sia per il mercato nazionale che per quello estero, comunque lontani dagli interessi degli americani. Insomma, si potrà raddoppiare e triplicare la produzione, tenendo conto che in Europa siamo i più arretrati e che il tasso di circolazione è ridicolo... « perché il regime autarchico ci ha rovinati ». Il regime autarchico non aveva rovinato la FIAT che, anzi, l'aveva voluto per produrre carri armati, veicoli militarI e produzione bellica in genere. Per l'occasione si rovesciava il discorso perché le stesse catene di montaggio che possono fare un cingolato possono benissimo fare un'automobile. Ciò che si può rilevare alla luce di questi documenti in relazione alle nostre "cronache" è che mentre nel 1946 Valletta era ascoltato dal governo di unità nazionale (comprensivo di ministri comunisti e socialisti) come un campione della "ricostruzione", alcuni anni dopo l'imbonitura propagandistica dello stalinismo, costretto all'opposizione, rovescerà a sua volta l'alternativa dello sviluppo tra politica del monopolio come fattore di stagnazione e industria pubblica da sganciare dal monopolio, da rendere «pilota" dello sviluppo, da costringere (attraverso la produzione siderurgica a basso costo?) la stessa FIAT a fare la politica dell'"utilitaria" a favore della motorizzazione popolare. Ricordiamo appunto che, oltre alle "colate della pace", vennero poi fatte anche le conferenze di produzione per spingere la FIAT a produrre l'utilitaria: si voleva anticipare i tempi calcolati dalla FIAT prima, cioè, che il mercato interno fosse in grado, in base alle stratificazioni del reddito, di assorbire una motorizzazione forzata. Il pragmatismo sindacale (strumentalizzato però dallo stalinismo) si era gettato nella politica di piano in un periodo congiunturale in cui le esigenze di ristrutturazione industriale sembravano avallare la tesi di una stagnazione. P, in questi periodi che il sindacato (come avviene anche attualmente) finisce per sbilanciare completamente la sua politica rivendicativa, mettendo la sordina alle rivendicazioni più sentite dalla classe operaia e abbassando la guardia nella linea di difesa salariale. Ma si può dire che il capitale non avesse un piano alla luce delle dichiarazioni di Valletta? La questione non è poi nemmeno questa. Resta il fatto che quando nel 1955 verrà pubblicato il "Piano Vanoni", si dirà che esso voleva surrogare le spinte espansive che avevano sorretto l'economia italiana nel quadriennio precedente, dovute a fattori particolari come l'utilizzazione di capacità produttive già esistenti, gli apporti di capitali esteri e il sostegno della spesa pubblica.

É un fatto che tutte le volte che viene strumentalizzata, dall'una o dall'altra parte, una politica di piano, con essa si fa sempre riferimento all'esigenza di superare una fase che appare di stagnazione; salvo accorgersi dopo, in sede di analisi, che in realtà gli anni precedenti non erano poi stati tanto di magra espansiva come si voleva far credere alle masse per meglio contenere la loro spinta rivendicativa. Certamente l'intervento dello Stato nell'economia non Può corrispondere ad un disegno preordinato, concepibile come 'Piano del capitale"; ma dall'antologia di Augusto Graziani, relativa alle interpretazioni dell'economia italiana dal 1945 al 1970, si può ricavare ancora un documento che ci permette di vedere il problema di quel primo periodo dal punto di vista di un "grande commesso" del capitale, seppure limitato nel giudizio al settore siderurgico. Si tratta di un articolo di Oscar Sinigaglia, appunto l'autore del piano siderurgico, pubblicato nel 1948 nella rivista della Banca del Lavoro edita in lingua inglese; e da esso si può rilevare come anche le interpretazioni attuali circa un "modello di sviluppo determinato dalle esportazioni" finiscono per corrispondere più a ragioni ideologiche che scientifiche. Sinigaglia era partito dalla considerazione che i costi della produzione siderurgica erano troppo alti e occorreva organizzare l'industria per ridurli rapidamente e metterla in grado di affrontare il mercato quando questo sarebbe cambiato. Se Valletta aveva indicato il fattore favorevole del basso costo della manodopera, Sinigaglia si preoccupava di sfatare l'handicap della nazione povera ancora ripreso da Togliatti tre anni prima con la definizione di "società povera" con "grandi ricchezze accumulate". « Il costo italiano del prodotto siderurgico - diceva Sinigaglia - non può più essere giustificato con la scarsità delle materie prime. Questa scarsità non può più essere invocata a giustificare lo stato d'inferiorità della siderurgia italiana perché le miniere di minerali ferrosi del Nord Africa - nostra fonte di approvvigionamento - sono motto Più vicine agli impianti a ciclo integrale della costa tirrenica di quanto non lo siano per esempio le miniere del Lago Superiore ai principali centri siderurgici degli Stati Uniti ». Per quanto riguarda la scarsità di combustibile locale, Sinigaglia diceva che l'importazione di carbone dalla Gran Bretagna e dalla Ruhr poteva essere compensata dal maggior valore dei sottoprodotti del coke metallurgico, cioè dal gas, dal catrame, benzolo, ecc. e quindi si collegava, oltre allo sviluppo della siderurgia, anche allo sviluppo della chimica, ancora limitata allo sfruttamento dell'unico minerale abbondante del sottosuolo italiano: le piriti. Il piano per la produzione siderurgica sottoposto dall'Italia al Comitato di Cooperazione della Conferenza per la Cooperazione Economica Europea - istituito nel 1947 per elaborare un rapporto per conto dell'European Recovery Program (ERP) - doveva soddisfare una precisa richiesta circa la capacità produttiva e la produzione massima in ogni settore siderurgico nell'ipotesi che fossero garantiti tutti i fabbisogni di materie prime, di energia e di finanziamento. In questo senso era il Piano Marshall che assicurava la ricostruzione degli impianti danneggiati e saccheggiati dai tedeschi (43.000 tonnellate di macchinari, compreso il famoso "treno quarto" oggetto di istanze ricostruttive alla SIAC di Cornigliano) e il completo perseguimento del programma originale circa i miglioramenti resi necessari dal progresso tecnologico. Sinigaglia concludeva che l'Italia avrebbe dovuto dipendere ancora dai paesi stranieri per una considerevole quantità di rottami di ferro e di acciaio semilavorato; comunque che con la produzione nazionale di acciaio grezzo progettata saranno coperte almeno le esigenze basilari di industrie importanti come la cantieristica, la meccanica e l'elettrica che « debbono poter contare su una siderurgia nazionale capace di fornire acciaio a prezzi modesti così che, a loro volta, esse possano esportare ai prezzi internazionali vigenti ». Questa conclusione sembra autorizzare la tesi che il modello di sviluppo venne determinato dalle esportazioni, ma il ragionamento di partenza di Sinigaglia contro il clichè delI' "Italietta", potrebbe anche autorizzare la tesi opposta di un modello determinato dalle importazioni e dall'esigenza di creare un'industria trasformatrice. Sarebbe comunque una questione di lana caprina se la disputa ideologica non nascondesse il problema di fondo che sono le ragioni di scambio e non le scelte volontaristiche che presiedono allo sviluppo economico e all'espansione industriale. Esse sono determinate dal mercato e dai rapporti internazionali, inoltre dalle condizioni e dalle possibilità di accumulazione del capitale. Queste ragioni di scambio che hanno orientato le esportazioni, per l'Italia sono state determinate proprio dall'esigenza di ripagare l'afflusso delle importazioni necessarie a un'industria trasformatrice; e questo è avvenuto non solo con quelle produzioni per le quali vi era domanda sul mercato internazionale, ma la scelta dei settori trainanti è stata determinata dalle possibilità e dal grado di accumulazione corrispondente ad una relativa sotto-accumulazione per Il peso dei consumi privati determinato da una vasta fascia di piccola borghesia parassitaria - e quindi dal grado e dal ritmo dell'investimento industriale. Certamente, una volta messo in moto il meccanismo di sviluppo, l'esigenza primaria è stata quella di espandere costantemente il flusso delle esportazioni in modo da far fronte al fabbisogno crescente di importazioni. Ma dal 1951 al 1957 il saldo della bilancia commerciale è stato costantemente negativo a significare le difficoltà del processo di accumulazione. Oggettivamente, essendo l'orientamento produttivo determinato dalla domanda internazionale; i fattori della domanda non potevano orientare la produzione verso i settori tradizionali di un mercato interno ancora poco sviluppato - come i tessili e gli alimentari - ma verso i prodotti richiesti dalle nazioni più industrializzate come i prodotti della meccanica (automobile), i prodotti chimici e petrolchimici. Quindi si spiega perché in tutti gli anni Cinquanta alla classe capitalistica fosse possibile svolgere una politica espansiva e nello stesso tempo beneficiare di un mercato basso della manodopera e comprimere il salario operaio. In relazione alle denunce delle nostre cronache, occorre sottolineare che proprio nell'anno in cui il piano siderurgico era passato alla fase esecutiva (un piano che in brevissimo tempo raddoppierà e triplicherà gli obbiettivi produttivi proposti dal "Piano del Lavoro" confederale) si verificherà la piú forte variazione annuale di consumi pubblici quale non si è più verificata in vent'anni. Nel 1952 al "cantiere della morte" (quello SCI di Cornigliano che a complesso ultimato prenderà il nome di Oscar Sinigaglia) la classe operaia genovese contava giornalmente i suoi morti. Adesso) le analisi post-ventennali dei teorici del capitalismo di Stato, provocate dalla crisi di squilibrio e dalla crisi energetica, ci illuminano sul fatto che il 1952 può essere considerato un anno splendido dal punto di vista dell'intervento statale e dei consumi pubblici. In quell'anno il contributo delle singole spese autonome, private e pubbliche, alla formazione del reddito nazionale, come variazione percentuale dei singoli fattori della domanda, fu il seguente: investimenti privati, 2,12; esportazioni, 0,32 (quindi 2,44 per il settore privato); consumi pubblici, 8,08; investimenti pubblici, 4,64; entrate tributarie e trasferimenti netti, 7,33; la variazione percentuale dell'intervento della Pubblica Amministrazione fu del 5,39; quindi la variazione della domanda globale fu del 7,83 per cento. In sede comparativa le più alte variazioni percentuali di consumi pubblici si verificheranno nel 1963, con il 6,87 e nel 1971 (per l'anno più recente) con il 5,66. Per gli investimenti pubblici, restando la variazione piú alta proprio nel 1952, quella relativamente alta più recente la ritroviamo nel 1970 con il 2,06 (certamente nel 1972-73 questo dato avrà visto un notevole incremento).

Un ragionamento a parte merita il fattore delle entrate tributarie che negli anni considerati non ha più toccato la vetta del 1952. Infatti il dato recente più alto è quello del 1967 con il 6,22 e, per una comparazione significativa circa l'insegnamento che si deve ricavare dalle campagne inerenti il "modello di sviluppo", occorrerà tener presente il risultato della variazione per l'anno 1974. Comunque abbiamo già gli elementi che stanno a significare come l'imposizione fiscale - attuata principalmente a danno della classe operaia direttamente, come categoria contribuente fissa e sicura, e indirettamente attraverso il prelievo sui generi di maggior consumo - è spinta al massimo appunto nei momenti del ciclo economico in cui il rilancio industriale viene attuato col sostegno pubblico. Quando, cioè, occorre patrocinare l'intervento statale attraverso i "grandi commessi" delle imprese pubbliche e attraverso quelle "commesse pubbliche" che fanno dello Stato il principale cliente delle grandi imprese, è sempre la classe operaia che deve pagare duramente. Come fu costretta a pagare negli anni '50 è documentato dalle nostre "cronache"; come paga adesso è dimostrato dal genere di inflazione utilizzata e "pilotata" per guadagnare nuovi margini di produttività, è dimostrato dal fatto che per la prima volta, mediante la «riforma che riforma" ' quella tributaria, sono stati tassati gli assegni familiari e persino quella parte del salario in natura costituita dal pasto Mensa.

 

II

Negli articoli che riguardano la politica del sindacato, il lettore può osservare il peso assunto in quegli anni dalla polemica sulla scala mobile, quindi i riferimenti continui come sinonimo di "miseria stabile" per gli operai delle categorie più basse. La polemica è ritornata di attualità, il congegno è ritornato ad essere "chiacchierato" come negli anni '50, da quando il processo inflazionistico in corso ne ha accelerato gli scatti in un modo mai visto. Certamente, per il padronato, questo aspetto degli scatti accelerati è un fattore di disturbo; tuttavia in questi anni '70 si va determinando qualche cosa di comune rispetto ai fenomeni degli anni '50 e uno riguarda il motivo di fondo che aveva spinto all'adozione del congegno di scala mobile. Ossia, che nelle variazioni annuali del salario la parte prevalente dell'aumento fosse sostenuta dalla "contingenza" anziché dalla contrattazione nazionale. Manchiamo di dati sull'andamento dei primi anni '50, ma dal 1954 al 1964 abbiamo infatti l'evoluzione salariale riportata nella tabella.

 

TABELLA

VARIAZIONI PERCENTUALI RIGUARDANTI GLI AUMENTI DEL SALARIO GIORNALIERO DURANTE L'ANNO, DOVUTE ALL'AUMENTO DELL'INDENNITA DI CONTINGENZA E ALL'AUMENTO IMPUTABILE ALLA CONTRATTAZIONE NAZIONALE

 

anni

1954

1955

1956

1957

1958

Dovuti_alla_scala_mobile

1,8

3,5

8,3

10,2

12,8

Dovuti_alla_Contrattazione

1,4

4,3

4,6

6,7

9,0

 

anni

1959

1960

1961

1962

1963

1964

Dovuti_alla_scala_mobile

13,8

14,2

15,7

20,1

25,6

26,3

Dovuti_alla_Contrattazione

8,8

11,7

12,7

16,0

17,7

29,0

 

Come si vede, ad eccezione del 1955 e dei 1964, gli aumenti dovuti alla scala mobile sono sempre prevalenti rispetto a quelli dovuti alla contrattazione nazionale. Ciò testimonia la debolezza contrattuale del sindacato negli anni '50, rotta negli anni '60 da un certo autonomismo di categoria soltanto nei settori trainanti dell'industria manifatturiera (in particolare dai settori della meccanica a forte espansione e proiettati sul mercato internazionale come la siderurgia, la motoristica e l'elettromeccanica). Dati che avvalorano la tesi di uno specialista del costo del lavoro per conto della Confindustria, cioè di Isidoro Franco Mariani che, commentando su "Rassegna di statistica del Lavoro" del gennaio-febbraio 1957 i risultati dell'accordo per il rinnovo del congegno di scala mobile appena stipulato, così si esprimeva: « Sotto l'aspetto sostanziale - precisava contro le critiche di alcuni settori padronali ostili alla scala mobile - l'assenza di un sistema piú o meno automatico di scala mobile provocherebbe, in caso di aumento dei prezzi, un adeguamento dei minimi salariali da operare di volta in volta, attraverso contrattazioni collettive; questi adeguamenti sarebbero senza dubbio meno frequenti e meno immediati rispetto all'aumento dei prezzi: ma sarebbero certamente piú consistenti - sia perché una trattativa sindacale tendente ad una maggiorazione dei minimi difficilmente riesce a concludersi con un aumento troppo modesto, sia perché l'elevazione dei minimi influirebbe su tutte le strutture salariali - e avrebbero in definitiva sul mercato un'influenza molto piú forte e duratura di quella derivata dal funzionamento della scala mobile ».

Appunto, se il congegno - in base a un indice sindacale purgato dalle tensioni dei prezzi "stagionali" degli ortofrutticoli, quindi inadeguato, e dal meccanismo che scatta in ritardo - permette di seguire a distanza l'aumento del costo della vita, la sequenza espressa dalle annate dal 1954 al 1964 testimonia soltanto un processo inflazionistico, sebbene ancora lontano dalla portata che avrebbe assunto negli anni '70, in seguito alle lotte interi imperialistiche, all'accaparramento delle materie prime, e quindi all' "inflazione da costi" che questo fenomeno avrebbe provocato. Gli stessi dati non possono testimoniare un miglioramento delle condizioni di vita dell'operaio italiano medio; un compito che avrebbe dovuto assolvere la contrattazione nazionale, ma la serie negativa degli aumenti contrattuali è stata rotta soltanto in poche occasioni: nel 1964, come risultato della tornata contrattuale del 1963 (il cui dato piú positivo fu tuttavia quello del settore edilizio) e, certamente, con la vera rottura "storica" che è stata operata nel 1969 -70 in seguito agli aumenti egualitari. Adesso l'evoluzione salariale sta certamente seguendo un processo di ritorno grazie alla partecipazione sindacale all'elaborazione del "nuovo modello di sviluppo". Ritorna a prevalere il giuoco della scala mobile (per l'operaio dell'industria in generale, quindi a parte gli "slittamenti salariali" a livello aziendale e di gruppo); quindi ritornano le polemiche sul congegno e sul valore del punto perfino negli stessi termini in cui si verificavano nel 1951, quando il meccanismo del congegno venne ancorato alle gerarchie salariali stabilite dalla "rival tazione salariale" del 1950. Annaspando per dare credibilità al sindacato nel suo rapporto con gli operai - in un momento in cui la sua politica era tutta squilibrata a favore di un nuovo modello di sviluppo e degli investimenti nel Sud - Storti ha persino raccolto, dopo più di vent'anni, l'istanza operaia per l'equiparazione del valore del punto delle categorie piú basse al valore di quelle piú alte. Non sappiamo ancora se l'abbia fatto per demagogia o per vera scelta rivendicativa, dal momento che una perequazione del genere comporta uno scontro di principio e di sostanza col padronato, essendo ugualitaria anche nella prospettiva, cioè tendente all'appiattimento del ventaglio parametrale. Si tenga infatti presente che lo scarto tra l'indennità mensile del manovale e quella dell'impiegato di V° cat. è di circa 40.000 lire.

 

III

Parte del materiale raccolto e soprattutto il saggio finale anticipa, criticamente, molte discussioni sulla condizione operaia quali sono scaturite dall' "autunno caldo". La campagna sull'assenteismo, ad esempio, viene ribattuta insistendo sul concetto di "disaffezione" come reazione individuale del lavoratore; l'alienazione intesa come "straniamento", come distacco dall'oggetto, e dalla condizione, che provoca le pene dell'operaio. Considerato l'assenteismo come un mezzo di autoprotezione dell'operaio, si ribatteva la versione scope tamente padronale come "provinciale e moralistica" perché esorcizzava un fenomeno  ormai vecchio nei paesi capitalisticamente più avanzati. Proprio alla maniera di j. S. Mill, il positivista inglese criticato da Marx perché si domandava se le macchine sono in grado di alleviare le fatiche dell'uomo.

Ma dopo il '69, scoperte e visioni del rinnovamento aziendale e societario assumevano l'Uomo dentro la fabbrica in quanto "essere fondamentalmente unitario" che non può lasciare fuori dai cancelli la propria umanità e la propria personalità; per cui queste visioni idealistiche mettevano l'uomo-operaio sotto tutela ideologica con l'obiettivo di eludere o di escludere l'autonomia della classe alla quale lo stesso appartiene e per ridurre la lotta di classe a puro accadimento fisiologico, al di fuori di una sua storica finalità e soluzione. Questa problematica ha investito in pieno il sindacato nel momento in cui il suo comportamento esprimeva delle difficoltà obbiettive a portare avanti una lotta di posizione dopo l'avanzata del 1969. Gli elementi di questa problematica sindacale, certamente umanistici, ma non per questo meno fasulli nella re ltà dei rapporti di produzione capitalistici, riguardavano la professionalità oper ia e una fantomatica lotta alla parcellizzazione e alla divisione del lavoro. S  grandi giornalisti e sociologi scopriva o la politica della professionalità come rimedio all'assenteismo-alienazione, i sindacalisti vi facevano eco ritornando indietro negli anni come impostazione "politica" (quella della professionalità individuale è degli anni '50), adeguando i temi alle condizioni dell'operaio comune, dell'operaio-massa. La politica della professionalità era stata la grande vocazione di tutta una generazione di quadri politici e sindacali espres i dallo stalinismo. Dal '45, ai conflitti nel quadro della "guerra fredda", l'esortazione staliniana a "raccogliere la bandiera dell'indipendenza nazionale lasciata cadere nel fango dalla borghesia" ha significato molte cose. Nelle fabbriche ha significato assumere una coscienza gestionaria e produttivistica (già riscontrata da Valletta nel citato "giro in officina" del 1946), che tradotta in compo tamento individuale ha significato esemplarità nel lavoro in un rapporto doveri-diritti, ma anche una concezione di possibilità di carri ra, di professionalità, appunto. La FIOM, in particolare, ha fondato per molti anni la sua politica sulle attese dell'operaio qualificato e specializzato; attese di riconoscimento e di promozione, tanto è vero che una critica sindacale espressa dal processo di "rifondazione" attraverso i Consigli di Fabbrica ha avuto per bersaglio il «clientelismo" delle Commissioni Interne. Questa politica venne spazzata via dall'ondata spontaneistica del 1968-69, piú dalla coscienza dell'operaio-massa espresso dalle nuove leve operaie che dagli organismi formalmente rinnovati che dovrebbero dirigerle. Il suo filo ideologico conduttore veniva già ripreso nei primi anni '70 malgrado le lotte per l'inquadramento unico operai-impiegati dirette a ridurre il ventaglio parametrale. 1 discorsi sofisticati degli "esperti" che usavano e abusavano dell'idea, gramsciana del "gorilla ammaestrato" di «Americanismo e fordismo" per introdurre una nuova concezione "professionale" basata sul "nuovo modo di fare l'automobile", miravano ad assoggettare l'operaio a una nuova mistificazione. Negli anni '50, bene o male, l'operaio aveva retto al paternalismo padronale con l'irrisione e il mugugno; adesso gli si diceva che il paternalismo padronale non erano le "relazioni umane", ma era il concetto di "gorilla ammaestrato" che il padrone avrebbe dell'operaio; cioè, che è l'ideologia che precede l'economia e la tecnica, non viceversa. « L'uomo al suo naturale non è responsabile, non vuol pensare, è pigro. Diamogli dunque, per il suo bene, il lavoro più semplice e meno importante possibile ». Questa, la traduzione taylorista della logica padronale, ritenuta una ideologia al cui servizio s rebbe « arrivata, puntuale, una tecnica che ha permesso la parcellizzazione del lavoro, l'accentramento delle funzioni direttive, la esautorazione dei q adri intermedi ». Almeno Gramsci aveva avuta l'intuizione opposta; diceva che anche il fordismo aveva compreso che "gorilla ammaestrato" era soltanto un modo di dire e che l'operaio "meccanizzato" era capace di pensare, nel senso della lotta di classe, forse meglio dello "specialista" soggetto ai valori della te nica, o innamorato del lavoro "che dà soddisfazione". Ciò che non hanno cap to i "nipotini" di Gramsci è proprio l'esempio fatto nelle note sul Machiavelli: la maggiore libertà del tipografo.meccanizzato rispetto al copista medievale che si interessava al testo. Per tutte queste ragioni, riteniamo che un'analisi dell'Operaio preso nell'ingranaggio della fabbrica capitalista, quale facemmo alla fine degli anni '50, sia tuttora di attualità appunto perché riguarda una condizione produttiva di piú alta professionalità dove l'operaio è portato ad interessa si al testo, cioè ad interpretare il disegno e magari a stabilire il  empo di lavorazione di pezzi complessi che non ha  aputo prev ntivare l'organizzazione - tempi. Non si tratta della condizione di una fabbrica arretrata, ma riguarda l'evoluzione di una fabbrica d'avvenire, in quanto la ristrutt razione subita nei primi anni '50 si è poi ripetuta negli anni '60, quando il comp esso ha dovuto abbandonare le produzioni diversificate, e quindi dispers ve, per accentrare la "ragione sociale" nelle centrali termonucleari. Anche per questo si può notare come il sindacato, malgrado il suo sforzo ad apparire "autonomo", conservi sempre un rapporto di dipendenza, di tipo pragmatista, con l'evoluzione della produzione capitalistica (infatti all'Ansaldo si grida periodicamente alla "crisi", c'è sempre da "salvare" l'azienda in coincide za alle condizioni del ciclo). Noi c'eravamo sforzati di mettere in rilievo le caratteristiche "universali" della condizione operaia, che non muta se il rapporto capitalistico è giuridicamente "pubblico" anziché "privato". Dovevamo combattere contro la demagogia "sloganistica" che tendeva a distrarre l'interesse operaio dalla linea più genuina della difesa sindacale, dirottandolo verso le istanze sull' "industria IRI pilota". E queste ist nze non precedevano, ma seguivano le linee già tracciate dal capitalismo collettivo per organizzare il settore dei cosiddetti «beni d'investimento". Soprattutto, i motivi "universali" che volevamo mettere in rilievo riguardavano la  falsa ,aIternativa tra la tradizionale linea di difesa sindacale esercitata attraverso la lotta salar ale per la conquista di una forza contrattuale, e la linea della proposta produttivistica, diretta a un impossibile controllo della produzione esercitato aziendalisticamente. Questo perché potevamo dimostrare -come operai - che distraendoci dalla linea di difesa sindacale ci trovavamo indifesi di fronte all'ineluttabile conflitto tra chi esercita il potere nella fabbrica e chi ne è oggetto. Poiché la fabbrica, come istituzione capitalistica, è essenzialmente una struttura gerarchica in cui l'elemento tecnico-decisionale è destinato a predominare in base alle "leggi" economiche proprie del rapporto di produzione. Insomma, rifiutavamo di pensare come possibile un'integrazione operaia nella vita aziendale nel senso più ampio; anche attraverso forme di "democrazia industriale" codificabili dal riconoscimento del sindacato come interlocutore dell' "Azienda" per conto degli operai. La validità della nostra linea, unita alla concezione del rapporto partito-classe realizzato dall'avanguardia, è dimostrata dall'esperienza. Mentre il pragmatismo opportunisticamente paludato da alternative dirette a privilegiare il momento produttivo rispetto a quello rivendicativo dell'operaio-massa, salta da una problematica all'altra e nemmeno avverte la sua mancanza di autonomia nell'inseguire le mode programmatorie determinate dagli orientamenti produttivi e dagli interessi capitalistici. La tendenza ad assolutizzare particolari fenomeni e condizioni dello sviluppo economico, ha spesso coperto la realtà capitalistica dell' "ineguale sviluppo", la realtà in cui si dibatte la classe e le sue stesse ragioni di lotta. t la storia dell'albero che in determinate circostanze copre la vista all'osservazione della foresta. Quando noi descrivevamo il modo e le condizioni in cui la classe operaia di una fabbrica veniva allenata al sistema di cottimo individuale e di squadra basato sul risparmio di tempo, gli esperti dei problemi del lavoro e lo stesso sindacato non avevano ancora abbandonato il battage della "seconda rivoluzione industriale", erano ancora presi dalla problematica dell' "automazione" esplosa nel 1956-57. Eppure la "realtà dell'automazione" non copriva che pochi settori aziendali di industrie particolari per lavorazioni di grandi serie (non è ancora una realtà adesso per la gran parte della meccanica), il contesto tecnologico della maggior parte delle fabbriche era ancora quello delle macchine di tipo "universale" da noi descritte a livello di reparto, e il progresso tecnologico era ancora quello del piccolo cambiamento nelle tecniche di produzione, ottenuto prevalentemente per via dell'esperienza acquisita nell'atto produttivo. Spesso, come si può rilevare dall'aneddotica d'officina, per merito dell'operaio costretto ad escogitare un nuovo modo individuale di produrre per riuscire a "stare nel tempo". Tutto questo dimostra il danno di uno schematismo che tende a generalizzare le problematiche delle "novità" in modo pappagallesco. Un esempio che vale il paragone con quanto avvenuto all'inizio degli anni '70: ci voleva il cortocircuito petrolifero per rendere chiaro dove voleva approdare la problematica sul "nuovo modo di produrre"; eppure era evidente da tempo che I' "inflazione da costo" prodotta dalla corsa alle materie prime - quindi dalle lotte interimperialistiche per la divisione dei mercati - avrebbe portato, specie in Italia, al cambiamento degli orientamenti produttivi; quindi che l'esigenza di dare la priorità ai "consumi pubblici" rispetto a quelli privati era un'esigenza capitalistica. Gli economisti borghesi più illuminati dicevano da tempo che se il "miracolo economico", produttivisticamente, era stato un fatto "quantitativo", il nuovo modo di produrre degli anni '70 doveva costituire un traguardo "qualitativo", basato sulla produzione di "merci ricche" di "valore aggiunto", di plusvalore, tali da favorire la permanenza e la conquista di nuovi mercati da parte dell'imperialismo italiano. Ecco perché era opportuno, attraverso questa raccolta, ricostruire il filo della nostra critica al pragmatismo sindacale. Perché essa riguarda un problema di fondo che è appunto quello dell'autonomia operaia; senza la quale, le contraddizioni tra le problematiche di moda e la realtà della lotta di classe spesso conducono la classe operaia laddove il capitalismo vuole che sia condotta.

 

Genova, febbraio 1974