Barilla, al di la del Mulino Bianco e dell’articolo 18

 

Nel parmense, le votazioni per il rinnovo delle RSU hanno visto stravincere la CGIL, con una maggioranza assoluta in Nestlè e in Parmalat e in numerose ditte alimentari. La CGIL cavalca la protesta di questi ultimi mesi, rispetto alle mosse governative. La spaccatura sancita dal Patto per l’Italia che a visto partecipare la CISL e la UIL, decisamente più morbide verso il governo, ora si articola a livello categoriale e aziendale. Alla Barilla le votazioni, contestate dalla UIL e della CISL, per paura di essere sconfitte, hanno visto trionfare la CGIL, con una massiccia partecipazione al voto. I dati: Impiegati (788, votanti 216, il 27,4%), produzione e servizi (738, votanti 456, il 61,8%). Bisogna considerare che gli stabilimenti a Parma (Rubbiana e Pedrignano) sono anche sedi amministrative per la Barilla a livello internazionale, e considerando la riottosità degli impiegati al partecipare alla vita politico-sindacale il dato delle votazioni premia l’isolamento della CGIL. Durante le assemblee si sono presentati leader della UIL a livello nazionale, preoccupati del clima di completa polarizzazione sindacale che si era creata.

Alla Barilla, fabbrica immagine di Parma, lavorano circa 1860 dipendenti (esclusi gli operai precari, gli stagisti negli uffici e i lavoratori per la movimentazione, legati o alle cooperative per quanto riguarda i facchini o a altra ditte come la Number One per il magazzino). Gli stagisti prendono un 1 milione di vecchie lirette al mese per 6 mesi. Gli danno la casa all’interno di residences di Barilla (viale Mentana, via Cavour, ecc) e gli pagano le spese (acqua, luce, gas) e sono zelanti nel fare sempre straordinari che non vengono pagati. Per gli interinali il discorso non cambia di molto rispetto ad altre ditte. I lavoratori della Number One che anno rimpiazzato i fissi della Barilla in magazzino, hanno condizioni peggiorative rispetto a prima. I lavoratori della Barilla addetti al magazzino sono stati invitati a licenziarsi e a farsi assumere dalla Number One, perdendo ovviante l’integrativo della Barilla, e come contropartita 100 euro al mese rispetto ai neo assunti della N.O. La NO è una ditta che copre l’esternalizzazione del magazzino voluta dalla Barilla. Un tale processo vediamo come sia diffuso in tutte le ditte, e nasconde non troppo velatamente il peggioramento delle condizioni dei lavoratori, e la loro divisione sul piano contrattuale-aziendale. Un simile processo investe tutte le mansioni di servizio delle aziende, dai call center, alle pulizie, alla mensa, alla movimentazione. Non è un caso che il futuro magazzino, che sta per essere costruito dentro la Barilla, vedrà impiegati la quasi totalità di lavoratori non assunti direttamente dalla Barilla stessa.

I salari sono tra i più alti che si possono trovare nelle ditte alimentari, e vi è stata da parte aziendale per molto tempo una strategia che favoriva l’inserimento in azienda di lavoratori autoctoni di Parma. Dietro alla Barilla, vi è una miriade di piccole ditte che, per lo più localizzate nella provincia di Parma e in Emilia, fungono da indotto. Questo fa si che l’impatto di questa industria sia immenso sul territorio tanto a livello di immagine e, ben più importante, a livello produttivo-occupazionale, essendo una degli assi portanti dell’economia parmigiana. La presunta città dorata tuttavia, inizia a sentire il fiato della crisi, con sempre maggiore flessibilità e precariato, perdendo uno a uno gli status simbol di “paradiso fabbrica”. La caduta per un segmento operaio e impiegatizio cosi ben abituato, può presentare delle interessanti novità per chi si muove verso la prospettiva dell’autonomia proletaria nel superamento di questa società fondata sul lavoro salariato.

La rottura sindacale invece di provocare inquietudine tra i lavoratori è stato salutato, dai lavoratori “tradizionalmente combattivi” (quelli che scioperano, che vanno ai cortei, che diffondono materiale sindacale) come un momento di liberazione. Ritorno alla politica in fabbrica, anche se in modo alquanto velato. Il paravento di UIL e CISL di dichiararsi strutture solamente economiche non regge di fronte all’attacco politico di governo e padroni contro la classe lavoratrice. La CGIL non è tuttavia quella limpida struttura che ora si presenta, ha avvallato l’introduzione del precariato e a depotenziato tutte le lotte autonome dei lavoratori (dagli scioperi operai dei precari in Fiat, a quelli dei lavoratori delle pulizie ferroviarie). Per molti giovani operai, per lo più interinali, questa presunta radicalizzazione della CGIL, non fa dimenticare la completa passività rispetto ai problemi della giovane classe operaia italiana e immigrata. Appare in questo senso abbastanza scontata la pacificazione del conflitto sociale, da parte della CGIL, se al governo ci fosse un blocco politico amico. Rimarrebbero comunque i problemi e gli attacchi padronali. In questa fase, tuttavia, va segnalata una ripresa di dibattito, un primo ma significativo mettersi in discussione da parte di molti attivisti CGIL. La stessa FIOM, la struttura più forte e combattiva della CGIL, ha posto la questione salariale al primo posto, chiedendo aumenti di 300 euro, infischiandosene della presunta povertà dei padroni. Questo non toglie che la strategia sindacale sia perdente per la classe operaia, che deve più che rappresentare un conflitto, agire nel conflitto, e iniziare a individuare dove poter far male al padrone, ossia scardinare gli attuali rapporti di forza.

Dentro la separazione dei sindacati quindi bisogna individuare gli spazi del dibattito, senza per questo immolarsi alla volontà del Cinese o di Epifani. Bisogna capire che dal momento in cui i lavoratori saranno chiamati a confrontarsi non più con un blocco omogeneo (la triplice sindacale) inevitabilmente si renderà possibile una maggiore circolazione di dibattito tramite lotte diversificate, momenti di socializzazione e materiali. Potrebbe essere più facile ora, per i giovani operai precari, far sentire la propria voce, andando al di la del parziale articolo 18 (che va difeso ma che raccoglie ormai una minoranza di lavoratori). Non è certamente con piattaforme alternative, di CGIL o di altri sindacati più a sinistra, ma nell’individuare qui e ora gli spazi che i lavoratori si conquistano, tramite la lotta collettiva o sotterranea, che si invertono i rapporti di forza tra lavoratori e capitale.

L’accusa che viene sempre lanciata contro gli operai combattivi, che si muovano per sviluppare autonomia proletaria è quello di isolarsi, di non guardare all’unità di classe; ebbene la vera unità è quella sui reali interessi di classe dei lavoratori non su tessere o organizzazioni sindacali. Questa divisione, se apparentemente vede divisi i sindacati e quindi i lavoratori, porta inevitabilmente un aiuto all’unità materiale dei lavoratori, nell’individuazione dei reali problemi che si vivono dentro agli stabilimenti e nella società. La declamata concertazione è stata fatta saltare dai padroni quando non gli è servita più, la CGIL l’ha difesa fino alla fine, ed è buffo vedere come i suoi leader sono imbarazzati nel dover chiamare alla lotta ma con la paura che questa trasbordi in comportamenti autonomi e combattivi. I bonzi della CGIL hanno subito la divisione con la UIL e la CISL, hanno dovuto presentare la difesa dell’articolo 18 come panacea di tutti i mali, preoccupati della vasta inquietudine che si trascina con sé da troppi anni la classe operaia, che al di la dell’articolo 18 chiede inconsapevolmente altro: migliori salari, fine della precarizzazione, diminuzione dei turni e ritmi. Ma si trova la classe operaia a dover contrastare il padronato dentro un periodo di crisi. Crisi utilizzata dai padroni per giustificare la loro riottosità al dare ma che se ribaltata contro di loro può rappresentare una preziosissima arma in mano agli operai. Non è un passaggio univoco, ma una linea di tendenza che va assecondata e fomentata.

 

da LavoroInformazione, Parma