Tra rivendicazione e sovversione:

il movimento dei disoccupati in Francia

Nel cosiddetto “ movimento dei disoccupati ” dell’inverno 1997-1998 in Francia, si sono incrociate varie esigenze, che si possono senza forzature raggruppare in due poli: da un lato quello della difesa organizzata dei senza lavoro stabile, condannati a vivere di sussidi; dall’altro quello animato da un desiderio di sovversione sociale, capace di mettere in discussione le regole di ripartizione diseguale della ricchezza sociale. Questi due poli sono coesistiti, a volte in una mescolanza originale, spesso conflittuale, a volte con la volontà di distinguersi reciprocamente. Se scelgo di prenderli in esame separatamente è soprattutto per arrivare a individuare allo stesso tempo la posta in gioco ed i successi o i limiti dell’uno e dell’altro.

Un sindacalismo di disoccupati in costruzione

Dato che lo scopo di questo testo non è di parlare della realtà della disoccupazione in Francia, mi limiterò a segnalare la sua ampiezza (più di 3 milioni di disoccupati ufficiali, circa il 13% della popolazione attiva) e la sua persistenza nel tempo. Anche se agli inizi ha colpito soprattutto i salariati di settori in via di modernizzazione, non ha smesso di crescere durante due decenni, senza che questa progressione fosse giustificata da una crisi economica. Si tratta dunque di un fenomeno cronico. Ha assunto così il carattere di un problema di società, anche agli occhi dei governi successivi, che da vari anni mettono in vetrina “ la lotta contro la disoccupazione ” come una delle loro priorità, cosa che gli ha soprattutto permesso di contribuire alla riduzione dei salari e ad incrementare il precariato introducendo molteplici sotto-statuti salariali a beneficio dei disoccupati di lungo periodo.

Quando scoppia il movimento in dicembre ’97, è già da dieci anni che si fanno dei tentativi di organizzare i disoccupati, a partire da motivazioni diverse:

Il carattere poco simpatico di quest’ultima motivazione non le impedisce di essere basata sulla percezione di una realtà: in Francia la disoccupazione non aggredisce con la stessa virulenza tutti gli strati di lavoratori. Alcuni sono più esposti di altri, in particolare i giovani non qualificati e quelli più anziani, facilmente considerati non competitivi (esiste inoltre una sovraesposizione delle donne alla disoccupazione, ma mascherata dalla forte progressione del tempo parziale). In altri termini, malgrado un’offerta di lavoro che non si è mai veramente esaurita, una certa frangia della società tende a farsi marginalizzare dal mercato del lavoro. Cosa che traduce in modo eloquente la progressione continua della disoccupazione di lungo periodo, anche nei momenti in cui le statistiche registrano una leggera diminuzione della disoccupazione globale. Ora, i disoccupati la cui situazione si prolunga sono i peggio protetti dal rischio di massima povertà, rischio che l’introduzione nel 1988 del RMI [Reddito Minimo d’Inserimento] (2.500 franchi al mese) non ha fatto altro che moderare. E questa situazione non ha fatto che aggravarsi nel corso degli anni, al ritmo delle revisioni successive delle regole di indennizzazione dei disoccupati attraverso la cassa di assicurazione contro la disoccupazione, che hanno penalizzato sempre di più - in nome del necessario equilibrio finanziario - quelli che incontrano le maggiori difficoltà a ritrovare un lavoro (la famosa “ degressività ” dei sussidi) ed i precari.

E’ assolutamente evidente che esiste una categoria sociale la cui situazione richiederebbe un lavoro di difesa collettiva organizzata, qualcosa che potremo definire come un sindacalismo di disoccupati. Questa necessità ha finito per entrare nelle teste. E’ probabilmente così che si spiega, per esempio, lo sviluppo della “ tendenza reddito ” in seno a AC![1], tendenza che lavora per focalizzare tutta la critica e tutta l’energia di AC! sulla lotta rivendicativa in favore di un reddito garantito per tutti.

Ma per quale motivo le confederazioni sindacali, così pronte a rivendicare il loro monopolio della rappresentanza dei salariati, non hanno praticamente fatto niente per occupare questo terreno (con la relativa eccezione - come vedremo più avanti - della CGT)? Probabilmente perché sono state svuotate di tutte le loro energie militanti a causa della scelta, fatta da lungo tempo mafortemente accentuata dalla loro collaborazione con la sinistra al governo, di privilegiare tutte le forme di potere istituzionale, fonte di finanziamenti indiretti sicuri, piuttosto che lavorare per mantenere un radicamento sempre più aleatorio nel mondo del lavoro. Una logica che la crescita della disoccupazione non può che accentuare: gli interessi dei disoccupati non si difendono in nessun comitato d’impresa o commissione paritaria, ma solo in piazza. Senza dimenticare che la cassa di assicurazione contro la disoccupazione, l’UNEDIC, è cogestita dalle...grandi confederazioni sindacali. Allora se, per proteggere l’equilibrio finanziario di questo organismo minacciato dalla crescita del numero dei pretendenti, la soluzione consiste a sacrificare, di comune accordo col padronato, la parte meno “ operativa ” - e la meno attrezzata per difendersi - dei salariati, perché privarsene? Che in questo modo venga minato il principio stesso del sistema di assicurazione collettiva di cui hanno la gestione paritaria dal dopoguerra - e che esigerebbe, logicamente, un aumento dei contributi per la disoccupazione (dei padroni e dei salariati) all’altezza del rischio reale - e che un’intera frangia della classe operaia si trovi di colpo risospinta verso la dipendenza dallo stato - visto che il governo decide da solo sul montante e sulle regole di attribuzione delle indennità di sopravvivenza definite “ minimi sociali ” (di circa 2500 franchi al mese) - non può porre, tutt’al più, che qualche problema di coscienza ai più onesti dei loro burocrati[2].

Queste scelte comportano di fatto un solo rischio per le organizzazioni sindacali: che tutte queste misure restrittive facciano crescere l’esigenza di una lotta collettiva degli esclusi dal lavoro che metterebbe in evidenza le loro responsabilità nell’infame trattamento riservato ai lavoratori più fragili.

Rischio reale, in effetti. Soprattutto se si considera che, dentro AC!, la dissidenza sindacale è fortemente rappresentata: SUD, “ CFDT en lutte ” e più generalmente ciò che diventerà il “ gruppo dei 10 ”, vi hanno assunto un ruolo notevole, attraverso il loro sostegno finanziario e la presenza attiva dei loro militanti (che sono a volte funzionari sindacali); la stessa CNT è presente in alcuni collettivi locali. In questo senso, la posizione “ padronale ” delle confederazioni sindacali che gestiscono l’UNEDIC non può che favorire lo sviluppo di un sindacalismo di rottura.

Non ci si può stupire, in questo contesto, dell’ostilità sindacale di fronte agli embrioni delle organizzazioni di disoccupati. Ma l’ostilità non esclude una certa prossimità di pensiero. Si sa che in Francia la dissidenza sindacale si distingue dalle grandi confederazioni più su degli obiettivi che su delle pratiche. La delega permanente di potere, in particolare, non è mai stata - salvonella CNT - messa in discussione. E’ quindi piuttosto logico che i nostri responsabili di associazioni di disoccupati tendano a spiegare le deviazioni sindacali nella gestione dell’UNEDIC con l’assenza di rappresentanza dei disoccupati in questo ente. E, senza mal di pancia, propongono se stessi come candidati per colmare questa lacuna... Si spiega così la rivendicazione di “ rappresentanza dei disoccupati in tutti i luoghi in cui si decide della loro sorte ” avanzata dalle organizzazioni che finiranno per autodefinirsi “ associazioni di disoccupati ”, come per marcare il loro territorio[3], e che, durante tutto il movimento, si ritroverà in tutti i loro volantini in calce alla lista delle rivendicazioni, quasi fosse una conclusione che si impone come un’evidenza.

Al momento della nascita del movimento, esiste dunque un embrione già ben sviluppato di sindacalismo di disoccupati. Delle alleanze si sono forgiate e stabilizzate in seno a delle strutture ad hoc. Se per loroè difficile vivere dei contributi di aderenti senza quattrini, queste hanno saputo aggirare la difficoltà: AC! vive delle sovvenzioni dei sindacati che federa,mentre i collettivi che accettano di riconoscere la dirigenza della struttura nazionale autocostituita attraverso il pagamento di una quota annuale non fanno certo la coda; le associazioni che compongono il MNCP trovano dei soldi nel quadro del lavoro diformazione di cui si occupano. Differenze di storie, di modi di reclutamento e di metodi (accompagnamento nelle pratiche amministrative per l’APEIS, offerta di servizi per il MNCP, misto variabile di agitazione propagandista e di mutuo appoggio per i collettivi AC!) fanno sì che ci sia più una divisione dei compiti che concorrenza, un po’ come nel sindacalismo francese. Cosa provata dall’organizzazione, già da vari anni, di manifestazioni comuni, in cui questa divisione dei compiti diventa visibile attraverso le differenze di origine e di stile delle loro “ truppe ”.

Ma non bisogna dimenticare di far posto in questo quadro ai comités d’action chômeurs della CGT, nati a Marsiglia dal lavoro di mobilitazione effettuato da militanti licenziati dei cantieri navali di La Ciotat. Anche se l’esistenza ufficiale di una organizzazione specifica di disoccupati in seno alla CGT va contro l’idea, persistente in ambito sindacale, che i disoccupati non possono essere organizzati che all’interno del loro sindacato di provenienza, essi presentano il vantaggio di permettere alla CGT, la più “ tribunizia ” delle confederazioni, di non farsi marginalizzare su questo terreno rivendicativo (i suoi militanti possono appellarsi al rifiuto, quasi liturgico, della confederazione di firmare degli accordi paritari per dimenticare la sua responsabilità nella cogestione dell’UNEDIC).

Tra la CGT-chômeurs e le “ associazioni ”, l’unità è più problematica, a causa dell’incorreggibile volontà di egemonia dei cégétistes. Ma il movimento la renderà momentaneamente possibile, offrendo a tutti l’occasione di giocare la carta del riconoscimento istituzionale. E’ questa preoccupazione unitaria degli apparati, abbastanza forte da resistere per tutta la durata del movimento e anche oltre, che giustifica il termine di “ banda dei quattro ” a volte utilizzato per derisione.

La dinamica sindacale si nutre del movimento

Rendiamo a Cesare quel che è di Cesare: è al lavoro di agitazione dei “ sindacati di disoccupati ” che si deve l’impulso iniziale del movimento. Varie iniziative separate arrivano a fondersi: AC! organizza una nuova campagna d’agitazione coordinata dei suoi collettivi locali per denunciare la degressività delle indennità di disoccupazione, campagna che prende la forma di occupazioni rapide di ANPE [Association Nationale Pour l’Emploi, è l’ente che si occupa di recensire la disoccupazione e mettere a disposizione le offerte di lavoro] o di agenzie ASSEDIC [le antenne locali che distribuiscono le indennità di disoccupazione] in tutta la Francia. Il clima è ancora agitato quando la CGT-chômeurs rilancia a Marsiglia la sua mobilitazione di fine anno, ormai rituale, destinata a permettere ai disoccupati che le si aggregano per l’occasione di intascare una parte di quel che resta del bilancio annuale dei “ fondi sociali ” degli ASSEDIC. Salvo che in questa fine d’anno 1997, si scopre che l’esistenza dei fondi sociali è stata rimessa in discussione e che non c’è più niente da ridistribuire...

Di colpo, da rituale, la mobilitazione diventa reale: l’occupazione degli ASSEDIC marsigliesi non è più soltanto temporanea, ma si sposta sulla durata, nell’idea di ottenere quel che verrà definito come una “ gratifica di Natale ”, offrendo a numerosi disoccupati dell’agglomerazione urbana un luogo di incontro e di socializzazione. I militanti “ associativi ” tentano di riprodurre la cosa altrove - non senza aver elaborato sullo slancio una piattaforma rivendicativa comune - a volte con un certo successo. Così l’occupazione di ASSEDIC a Arras, organizzata dal collettivo AC! e dal comité d’action CGT, riesce a tenere per varie settimane, creando anche là un vero avvenimento locale. Perché c’è un altro elemento che fa montare la maionese: la stampa, a corto di avvenimenti in questo periodo vuoto di natale e cosciente di poter giocare su una cattiva coscienza cristiana ravvivata dallo spreco dei consumi delle feste, si interessa al fenomeno. Contribuisce così a amplificare il movimento: localmente, facendo conoscere la mobilitazione a degli individui esterni al movimento e dando loro i mezzi di aggregarsi; nelle teste, attribuendo al fenomeno l’ampiezza di un avvenimento nazionale. Quel che diventa allora sensibile, è la ricettività (passiva) della società rispetto alle rivendicazioni dei disoccupati, al senso di ingiustizia gridato sull’etere, una ricettività che rende la carta della repressione poliziesca più difficile da giocare. Di qui una discreta ripresa delle redini del trattamento che i media riservano al movimento, accompagnata da una boccata d’ossigeno di 1 miliardo di franchi (il“ fondo d’emergenza sociale ”, che viene in questo caso a prendere il cambio dei “ fondi sociali ” incautamente soppressi). Il movimento riesce allora a trovare un nuovo slancio. Da gennaio agli inizi di marzo le occupazioni si moltiplicano, sia come numero che come obiettivi, nuovi collettivi si formano, un po’ come se la fine della coperture dei media spingesse il movimento a uno sforzo di fantasia e di autonomia. I primi segni di stanchezza arriveranno soltanto verso i primi di marzo, in parte sotto l’effetto di una repressione poliziesca più seria. Ma il fuoco coverà ancora per alcuni mesi e le ultime braci non si spegneranno che l’anno successivo.

Nella strategia delle “ associazioni di disoccupati ”, il movimento modifica la situazione facendo evolvere i rapporti di forza. Non tanto per l’ampiezza in sé della mobilitazione (varie centinaia, forse alcune migliaia di nuovi venuti), ma per il fatto che questa permette di focalizzare su di loro l’attenzione dei media. In effetti una delle chiavi del successo, ai loro occhi, è un’abile sfruttamento dei media, in particolare televisivi. Per questo, oltre a dei contatti strategici negli ambienti giornalistici (stabiliti in occasione di mobilitazioni precedenti), sono necessarie due condizioni: offrire dello spettacolo e assicurarsi il monopolio delle rivendicazioni. Per lo spettacolo, gli ingredienti non mancano: una certa dose di senso d’ingiustizia mal articolato, un altra di illegalismo e di disordine, il tutto insaporito con un pizzico di repressione poliziesca abilmente messa in scena[4], e l’audience è assicurata. Quanto al monopolio del discorso, basta contare sulla reazione istintiva del giornalista d’attualità che, per mancanza di curiosità, pigrizia o semplice rispetto interiorizzato “ dell’ordine naturale delle cose ”, tende spontaneamente il microfono agli stessi eterni individui, identificati come “ rappresentanti ”.

Ma questo è probabilmente il punto più doloroso. Perché non basta che la stampa riconosca uno status di rappresentanti ad alcuni candidati a questa funzione, occorre anche che il potere li consideri realmente capaci di canalizzare le masse che hanno messo in moto. Ora la realtà del movimento - osservata attentamente e ostentatamente dai Renseignemensts Généraux [la squadra politica] - non testimonia in questo senso.

L’adesione della base ai suoi rappresentanti autoproclamati in effetti non salta all’occhio. La prima ragione risiede probabilmente nello scarto profondo tra la situazione economica concreta dei militanti candidati al ruolo di dirigenti e dei disoccupati in movimento.

Quelli che sono attirati dall’agitazione organizzata non sono i “ veri cercatori di lavoro ” - che difficilmente possono essere mobilitati, dato che investono tutte le loro energie nella ricerca di un lavoro che richiede un autocondizionamento alla sottomissione difficilmente compatibile con lo spirito della lotta - ma due tipi di disoccupati in un certo qual modo “ marginali ”: quelli che un periodo troppo lungo di permanenza fuori dal salariato ha reso definitivamente non impiegabili e i quali, sapendolo, hanno smesso di cercare un lavoro; e, ancora più numerosi, dei precari atipici, che hanno organizzato la loro vita in funzione della loro situazione di precarietà, giocando su una alternanza di lavoretti e di periodi di sussidio, a volte completando il loro RMI con qualche lavoretto al nero che capita. Due categorie insomma che hanno imparato a tenere a bada la paura di un domani incerto che, paradossalmente, è quella che mina in profondità il mondo del salariato. E costoro, di conseguenza, si mostrano piuttosto reticenti, se non ostili, alle forme di inquadramento delle lotte, quando non si tratta di militanti che hanno fatto la scelta dell’azione diretta autorganizzata.

Per questi nuovi venuti il movimento è in primo luogo una occasione di socializzazione. In effetti le occupazioni, soprattutto quando sono durevoli, permettono di organizzarsi collettivamente per la sopravvivenza (mangiare, dormire), ma anche per mandare avanti la lotta (preparazione di volantini e manifesti). Sono inoltre un’occasione di libera discussione. A tal punto che dei luoghi si organizzeranno per soddisfare queste esigenze senza dover dipendere dall’esistenza di occupazioni specifiche: a Parigi saranno organizzati degli incontri regolari all’università di Jussieu o alla “ Maison des ensembles ”, col solo scopo di discutere liberamente; in varie città si apriranno delle occupazioni collettive, tanto per soddisfare un bisogno immediato, come a Bordeaux o a Montpellier, che per il gusto dell’esperienza collettiva, come a Parigi.

Questi nuovi venuti all’azione collettiva sono dunque, nell’insieme, piuttosto estranei alla dimensione rivendicativa del movimento, manifestando nei suoi confronti una sorta di opportunismo vicino all’atteggiamento del salariato medio di fronte alla lotta sindacale in azienda - “ se permette di ottenere qualcosa, è comunque benvenuto ”. Cosa che, là come nelle aziende, lascia le mani libere ai pretendenti dirigenti ma non dà loro credito rispetto agli interlocutori.

Questa situazione di separazione tra “ rappresentanti ” e “ masse ” non ha impedito ai primi di guidare la barca nel senso da loro desiderato. Semplicemente, hanno dovuto imparare a gestire la cosa, sfruttando l’opportunismo dei secondi. Così si è potuta vedere nelle ultime occupazioni organizzate dalla“ banda dei quattro ”, la messa a punto di uno scenario ben rodato: si entra in un luogo con un carattere più simbolico che strategico, si organizza una rituale presa di parola di ogni “ rappresentante ” d’associazione - ovviamente dopo essersi assicurati la presenza di alcuni giornalisti e cameramen, si mette in piedi una delegazione per incontrare la direzione, lasciando le truppe occupare questo lasso di tempo con delle piccole riappropriazioni, e si contratta una evacuazione rapida scambiandola con qualche vantaggio immediato, qualche pacchetto di tikets restaurant, per esempio, la cui distribuzionesarà affidata - va da sé - a qualche responsabile associativo...

Occorre tuttavia dire che la gestione del movimento da parte dei “ responsabili ” ha conosciuto alcuni seri ostacoli, in tutti i posti dove il movimento ha dato origine a raggruppamenti autonomi che si distinguevano più o meno nettamente dalle strutture già esistenti. A Parigi, gli scontri sono stati soprattutto verbali. Nei dibattiti alla “ Maison des ensembles ” (succursale di AC!), era contestata soprattutto la legittimità dei sindacalisti(stipendiati) esponenti di AC! a parlare (senza vergogna) a nome dei disoccupati, molto meno i metodi e gli scopi perseguiti da questi dirigenti autoproclamati che facevano attenzione a riunirsi in altri posti, al riparo dagli interventi assembleari incontrollabili. A Jussieu, si è piuttosto tentato di ricostruire un polo ideologico con riferimenti propri, arrivando a teorizzare l’indifferenza rispetto alla dimensione rivendicativa... Ma in provincia dei conflitti a volte gravi, che arrivavano fino allo scontro fisico, hanno visto opporsi dei collettivi AC! ad altri collettivi nati su altre esigenze nel corso del movimento (che potevano ugualmente richiamarsi ad AC!, come a Bordeaux), dove quel che veniva messo in discussione erano soprattutto i metodi manipolatori e monopolizzatori dei militanti politici che tenevano le redini dei collettivi già costituiti. Va segnalata inoltre la nascita di un “ coordinamento nazionale dei collettivi autonomi ”, che durante più di un anno ha organizzato vari incontri nazionali in cui si mescolavano dibattiti, azioni di riappropriazione collettive e momenti di festa, ma che - riconosciamolo - non ha spinto il desiderio di autonomia fino a cercare seriamente di concepire una forma di autorganizzazione capace di dare al movimento una coerenza e una struttura propria che gli permettesse di sopravvivere a questo momento di febbre. Come per il movimento “ autonomo ” della fine degli anni ’70, l’autonomia sarà per questo coordinamento soprattutto una questione di identità, mascherando una dipendenza di fatto di fronte alle strutture che contesta.

Per quali risultati?

Per chi lo “ scavalcamento ” delle organizzazioni candidate a canalizzare il movimento non è uno scopo in sé, ma tutt’al più un indizio, il bilancio di un movimento deve farsi in primo luogo in funzione delle ambizioni espresse esplicitamente. Si deve dunque tenere conto delle rivendicazioni formulate nei volantini messi in circolazione.

L’essenziale di queste rivendicazioni era una richiesta di soldi per i redditi più bassi: “ aumento dei minimi sociali di 1500 franchi ”, dunque “ nessun reddito inferiore a 4000 franchi ”, compresi i giovani di meno di 25 anni, fino ad ora esclusi dal RMI. Benché fosse più frutto del calcolo strategico dei vertici che dell’esigenza di giustizia e di uguaglianza della base - esigenza difficile da tradurre in cifre - questa rivendicazione non ha ottenuto la minima concretizzazione. E’ impossibile in effetti considerare come qualcosa che va in questa direzione l’aumento simbolico del RMI - semplice recupero dell’inflazione, come ha ammesso lo stesso Jospin - né la somma di 1 miliardo di franchi accordati per una sola volta sotto forma di “ fondi d’emergenza ”: oltre al montante ridicolo (333 franchi per disoccupato ufficiale), questa somma era destinata a essere attribuita caso per caso, da commissioni ad hoc. Ciò che delimitava bene il quadro del negoziabile: quello dell’assistenza, del “ soccorso ” attribuito in funzione dei criteri (oscuri) dei servizi sociali.

La ragione di questo blocco governativo non è da ricercare da altre parti se non nelle giustificazioni avanzate dal primo ministro: non è assolutamente il caso che i sussidi sociali minimi facciano concorrenza ai bassi salari. In altri termini nonè il caso, nonostante la “ priorità alla lotta contro la disoccupazione ” esposta in vetrina da anni dal governo, di fare qualsiasi cosa che possa mettere in discussione l’utilità della disoccupazione per i detentori del capitale. Data l’importanza della posta in gioco, si capisce bene che solo un impressionante rapporto di forza avrebbe potuto costringere il governo a una ritirata su questo terreno. E, pur supponendo che i “ responsabili ” della banda dei quattro abbiano creduto che questa rivendicazione fosse ottenibile, l’illusione si spiega meno con una sopravvalutazione delle loro capacità di mobilitazione che con una loro prossimità emotiva con la “ sinistra ” al potere, che impedisce loro di comprendere la sua vera funzione (i Verdi, che hanno portato la rivendicazione nell’arena politica, hanno giocato un ruolo motore in questo accecamento volontario).[5]

Facendo queste poche concessioni minori, il governo non ha soltanto ceduto alla pressione: ha anche abilmente delimitato il quadro del possibile per le rivendicazioni dei disoccupati. Il messaggio è stato perfettamente capito, da certuni almeno, dato che da due anni si vede rinascere in dicembre a Marsiglia, con tentativi di ripresa in altre città, una mobilitazione di una decina di migliaia di disoccupati che chiedono modestamente una“ gratifica di Natale ”... che babbo governo accorda senza farsi pregare troppo - logica che ormai resiste a tutti gli sforzi di radicalizzazione.

E’ in questo senso che bisogna capire la risposta governativa all’altra rivendicazione fondamentale del movimento: la rappresentanza dei disoccupati a livello istituzionale. Malgrado le molteplici udienze accordate da vari alti responsabili ministeriali, se non da Madame Aubry in persona, niente è stato concesso che possa rimettere in discussione l’esclusività delle confederazioni sindacali nella rappresentanza del mondo del salariato. In cambio, è stata aperta una porta alla presenza delle “ organizzazioni di disoccupati ” in alcune commissioni destinate a permettere un migliore coordinamento dei servizi incaricati della gestione dei disoccupati e più generalmente di coloro che dipendono dall’assistenza dello stato (per es. commissioni di attribuzione del FUS [fondo di emergenza sociale], commissioni che si occupano dell’ANPE). Un modo di mettere un po’ d’olio dentro ingranaggi ancora mal regolati...

E, per disinnescare qualsiasi eventualità di riorganizzazione di un polo contestatore sulla questione della disoccupazione, dei mezzi saranno concessi alle organizzazioni di disoccupati per giocare i loro ruolo di canalizzazione. Come spiegare altrimentila concessione, alcuni mesi dopo la ricaduta del movimento, di sovvenzioni non indifferenti alle quattro “ organizzazioni di disoccupati ”? Formazione dei disoccupati, strutture di lavoro alternative, lavoro umanitario associativo...poveri in rivolta, lavorate allo sviluppo del “ terzo settore ”, l’ingiustizia sociale vi sembrerà meno penosa. 

Ci si rende conto dunque, alla fine di questo movimento, che questo ha contribuito a far emergere un nuovo gruppo di attori, le “ associazioni di disoccupati ”, il cui ruolo è di colmare una carenza della rappresentazione sociale, e che dovrebbe trovare il suo posto sulla scena istituzionale a condizione di attenersi a quello che vogliono lasciargli gli attori già sulla scena: quello della rappresentanza di un gruppo sociale mantenuto ai margini del mercato del lavoro e delle strutture che ne assicurano il buon funzionamento, e la cui sopravvivenza dipende dallo stato, il quale non può essere che il suo unico interlocutore. Se accetta di accontentarsi di questa carota, questo gruppo di attori dispone di un terreno praticamente vergine da occupare: quello della cogestione dell’assistenza. Il sistema di assistenza ha in effetti bisogno di essere modernizzato per prendere in conto l’esistenza durevole di una categoria sociale la cui funzione è precisamente di essere improduttiva e...povera. Un certo arretramento della logica della carità a beneficio di un inquadramento sistematico è probabilmente necessario, cosa che la sinistra al potere si adopera a fare utilizzando come copertura la nozione di “ diritti ”. Come prova l’introduzione nel 1998 di una “ legge contro l’esclusione sociale ”, che fissa nei fatti delle regole di gestione dell’esclusione e, più di recente, l’instaurazione di una “ copertura universale di malattia ” che instaura un sistema parallelo di previdenza sanitaria a beneficio dei poveri, che potranno così essere sistematicamente schedati.

Il movimento dei disoccupati ha probabilmente fatto capire ai governanti che un lavoro di pacificazione era necessario per prevenire i rischi di esplosione che senza di esso, non possono che moltiplicarsi in una società in via di polarizzazione sociale (e che non può più contare seriamente sull’ammortizzatore della solidarietà familiare). I militanti della “ lotta contro la disoccupazione e l’esclusione ” saranno probabilmente chiamati a contribuire a quest’attività essenziale...

Ma tutti quelli che hanno finito per capire che questa lotta non può che passare attraverso una rimessa in discussione radicale delle leggi della ripartizione della ricchezza sociale prodotta (quindi necessariamente anche delle condizioni della sua produzione)non possono che dedicarsi a un lungo lavoro di ricostruzione di una prospettiva di trasformazione radicale, che richiede senza alcun dubbio una ricerca di unità nella lotta tra disoccupati e salariati.

Questa esigenza sovversiva, portata avanti all’inizio da una frangia di militanti, si è nutrita durante il movimento della forza del sentimento di ingiustizia che vi si è espresso. Mille difficoltà si sono opposte alla sua espressione aperta, di cui la minore non era l’impatto della logica sindacale qui descritta. Eppure si può considerare che alcune piste d’azione sono state aperte, attraverso forme d’azione diretta autorganizzata, sulle quali è importante soffermarsi, tanto più che non hanno suscitato riflessioni collettive elaborate. E’ quello che tenterò di fare nella seconda parte.

La volontà di sovversione e le sue manifestazioni concrete

Il movimento dei disoccupati si inserisce incontestabilmente dentro l’ondata di mobilitazioni nata col movimento di dicembre 1995, che ha visto due milioni di salariati scendere in piazza e che ha segnato una rottura con vari anni di offensiva capitalista senza resistenza. Dopo il movimento dei sans papiers, allora in fase calante, ha portato a sua volta in primo piano una delle categorie del fondo della scala sociale, quelle di cui il movimento del ‘95 sembrava aver ignorato le esigenze, interessandosi apparentemente solo della difesa degli interessi dei lavoratori del pubblico impiego.

Mi sembra però che il movimento dei disoccupati presenti una differenza importante rispetto ai movimenti che l’hanno preceduto o seguito. Le esigenze di cui è portatore (lavoro o reddito per tutti) sono fortemente antagoniste al sistema(poco numerosi o ben indennizzati, i disoccupati non possono giocare il ruolo di spauracchio per l’insieme del mondo salariato di cui ha bisogno la classe capitalista), mentre le sue forze sono deboli (i disoccupati sono una categoria instabile e senza potere di blocco). A differenza dei movimenti precedenti, era dunque assai improbabile che il movimento dei disoccupati sboccasse su una concessione significativa da parte del governo: non poteva che spegnersi o accentuare la propria forza di sovversione, fino a contaminare altri pezzi della società. Si è spento, e relativamente presto: all’autunno successivo i tentativi di rilancio non potevano contare che su delle forze indebolite e non si trattavaormai che di nuove campagne di agitazione militante. Occorredunque interrogare gli schemi e le strategie di sovversione che hanno giocato un ruolo in questo movimento, e comprenderne i limiti.

Vorrei cercare a questo punto di esaminarli uno dopo l’altro, anche se è l’interpenetrazione di tutte queste tensioni differenti che permette di parlare di movimento.

La lotta dei "senza"

Ancora prima del movimento del ‘95 erano apparsi dei gruppi contestatori decisi a battersi a fianco di una frangia crescente della popolazione toccata dalla miseria: Droit au logement (DAL) [Diritto all’alloggio], prima, nato da un movimento di occupazione di case, Droits devant!! (DD) [Avanti diritto!!] dopo, nato nela scia del DAL per portare nell’arena politica la questione dei "diritti fondamentali". L’idea di questi gruppi, che hanno attirato individui che spesso avevano fatto i primi passi al PC o dai maoisti prima di "staccare" con l’attività militante, era di presentarsi come "la voce dei senza voce", in altri termini di condurre una battaglia politica con (o in nome...) dei più poveri. Con l’apparizione del movimento dei sans papiers, quelli che una volta venivano definiti come esclusi, sono a poco a poco diventati "i senza": senza tetto, senza diritti, senza documenti...e fra poco, quando nascerà il movimento dei disoccupati, senza lavoro.

Le "azioni" organizzate da questi gruppi sono basate su un misto di azione diretta e di mediatizzazione - quest’ultima dovendo compensare le debolezze della prima - sfruttando la fibra ugualitaria - alcuni preferiscono dire "repubblicana" - di una parte della popolazione francese. Il discorso consiste essenzialmente nel denunciare il carattere scandaloso della miseria in una società ricca. Ma questi metodi toccano rapidamente i loro limiti: la mediatizzazione chiede sempre delle novità e il sentimento dello scandaloso si smorza... Così il DAL si adagia in una prossimità malsana con le organizzazioni caritative per arrivare a restare "il" polo della lotta dei mal logés[male alloggiati], mentre DD si sfinisce in un sostegno alle lotte dei sans papiers basato sull’accompagnamento individuale nei meandri amministrativi.

Il movimento dei disoccupati non poteva che fornire un nuovo impulso a questa logica di agitazione mediatizzata, grazie alla sua forte legittimità. La realtà o il rischio della disoccupazione tocca in effetti direttamente una parte enorme della popolazione - tutti hanno un figlio, un fratello, un cugino, un ex collega disoccupato, tutti ne conoscono da vicino o da lontano gli effetti devastanti e li temono. Più dei "dipendenti pubblici", più degli "immigrati clandestini", i disoccupati sono dunque immediatamente legittimati a farsi sentire. E’ probabilmente questo che spiega la grande disponibilità dei media a coprire all’inizio le loro agitazioni.

Non ci si stupirà dunque che sia stato abbondantemente sfruttato dal movimento dei disoccupati il metodo collaudato dal DAL: occupazione + mediatizzazione. Ma perché questo si mostri efficace sul lungo periodo, ci sarebbe stato bisogno che il movimento avesse dato tanto prova d’immaginazione quanto lo sfruttamento mediatico dello spettacolo ha bisogno del nuovo... E soprattutto che arrivasse a dare una consistenza politica alla legittimità immediata di cui godeva, per resistere alla controffensiva ideologica del governo. Quando Jospin rifiuta di aumentare seriamente i minimi sociali per - dice - non offendere quelli che guadagnano appena 2000 franchi di più col sudore della fronte, gioca su uno dei fondamenti della morale operaia: il reddito si merita con la fatica, in altri termini, il lavoro resta il solo criterio giusto della ripartizione della ricchezza collettivamente prodotta.

Il gioco della legittimità mediatica è dunque fragile, facile da bloccare per il potere, soprattutto in un paese di cui la stampa ed i media non brillano per il loro spirito di indipendenza. I disoccupati lo hanno imparato a loro spese. E può darsi che la lezione sia servita anche ad altri.

L’unità disoccupati-salariati nella lotta contro la disoccupazione

L’idea che - essendo la disoccupazione un male che tocca l’insieme dei settori salariati - la lotta contro la disoccupazione può arrivare ad unire disoccupati e salariati era una delle idee-forza all’origine della creazione di AC!. Durante cinque anni "l’unità disoccupati-salariati" vi è stata proclamata in continuazione, e i militanti hanno creduto di poterle dare una consistenza reale articolando la rivendicazione di un reddito decente per tutti a quella di una riduzione del tempo di lavoro massiccia e senzacontropartite, ma anche assicurandosi la rappresentanza in seno ad AC! delle diverse forze sindacali in rotta con le grandi confederazioni, garanti in un certo modo della partecipazione del mondo del lavoro a questa lotta contro la disoccupazione. Certo,delle frizioni hanno più di una volta fatto apparire delle differenze di esigenze e di interessi, ma il funzionamento stesso di AC! - fondato sull’idea che le divergenze devono risolversi attraverso il consenso e non meritano di trovare una espressione organizzata - ha impedito che fosse presa la misura reale di queste divergenze[6]. E’ dunque il movimento che si incaricherà di sottomettere il mito fondatore alla prova dei fatti. E - riconosciamolo - ha resistito male.

Se i sindacati SUD, FSU, SNUI, CNT e la corrente CFDT en lutte non hanno mai rifiutato il loro sostegno ufficiale ai disoccupati, non sembra che al di là di una ostentata presenza nelle manifestazioni e di un sostegno logistico (disponibilità delle fotocopiatrici, per esempio), abbiano investito molte forze nel movimento (con l’eccezione della CNT, presente a seconda dei luoghi attraverso i suoi "comités d’action chômeurs" [comitati d’azione disoccupati]). A questo si possono trovare varie spiegazioni: questo sostegno ostentato rispondeva probabilmente a una preoccupazione di visibilità, dettato da una logica strategica interna al mondo degli apparati sindacali (a conferma, fin dall’autunno ‘98, quando alcuni tenteranno a fatica di rilanciare il movimento, si potranno notare le defezioni sindacalifin nelle campagne organizzate da AC!, nel momento in cui il riavvicinamento tra CGT e CFDT obbliga gli altri sindacati a rivedere le loro strategie).

Ma è anche l’idea dell’unità alla base tra disoccupati e salariati che è stato necessario rimettere in discussione. Finché si è trattato in effetti di mobilitazioni pensate e messe in pratica da militanti, sindacali il più delle volte, un po’ sul modello dell’agitazione sindacale, i disoccupati sono rimasti di fatto in posizione subalterna, accontentandosi del ruolo di truppe. Ma nell’inverno ‘97-98 arrivano in numero sufficiente per diventare realmente attori del loro movimento. Di colpo le priorità cambiano: la soddisfazione dei bisogni immediati - trovare un alloggio, mangiare senza pagare, ma anche ritrovare dei luoghi di socialità - passa in primo piano. Sul piano rivendicativo, l’articolazione col mondo del lavoro che era rappresentata dalla riduzione del tempo di lavoro, passa nel dimenticatoio. Per reazione, i "vecchi" militanti salariati si allontanano e, laddove rifiutano di cedere terreno, entrano apertamente in conflitto con i nuovi venuti. Il fossato si approfondisce. Di colpo quando delle forme di autorganizzazione appaiono nei  centri occupati, come a Montpellier, Bordeaux o Nantes, i disoccupati si trovano abbandonati, condannati ad assicurare da soli il sostegno ai più inguaiati di loro (senza tetto, drogati, ecc.), mentre i militanti hanno disertato, quando non hanno, come si è visto in certi casi, fatto un discreto lavoro di sabotaggio.

Allo stesso modo, in tutte le occasioni in cui dei disoccupati hanno fatto irruzione sui luoghi di lavoro, si sono potute osservare serie tensioni fra salariati e disoccupati. Questi ultimi - che, ripeto, erano più degli esclusi dal lavoro o precari atipici che "veri" cercatori di lavoro - trovavano in effetti nelle mobilitazioni l’occasione di esprimere la loro rabbia e il disgusto dell’ordine stabilito, cosa che si traduceva spesso attraverso comportamenti "poco educati" - graffiti, furtarelli, insulti - che non potevano che urtare i salariati, per i quali il luogo di lavoro è anche un luogo di vita collettiva sottoposto alle regole formali del rispetto reciproco.

Attualmente tende a diffondersi tra i militanti della lotta contro la disoccupazione l’idea che l’articolazione tra disoccupazione e salariato si sta facendo attraverso il passaggio del precariato: i precari - dato che sono ora disoccupati, ora salariati - sarebbero in posizione di articolare le rivendicazioni dei salariati e dei disoccupati. Benché sia meno strettamente soggettivo, questo punto di vista non ha (ancora?) trovato conferma nella realtà delle mobilitazioni: tra i collettivi di precari radicati nel rapporto di salario e i collettivi di disoccupati-precari che agiscono sul terreno sociale, l’incontro si è fatto difficilmente. Il riferimento dei salariati a statuto precario - che si tratti dei supplenti della Pubblica Istruzione, dei precari di Beaubourg, della BNF, ecc. - è rimasto il settore, e l’oggetto della loro lotta la discriminazione statutaria di cui sono vittime. E le occasioni d’incontro tra i precari di dentro e quelli di fuori, fornite in due occasioni dalla Coordination des Travailleurs Précaires[7] (Coordinamento dei lavoratori precari), hanno soprattutto fatto emergere degli scontri di sensibilità.

Se c’è dunque una lezione che si può trarre da questo movimento, è che l’unità di classe tra disoccupati e salariati non si proclama: le condizioni oggettive di vita non si incontrano e neppure le attese rispettive. Degli incroci forti, inscritti nelle realtà materiali degli interessi, rimangono da trovare.

La sovversione attraverso il rifiuto del lavoro

Il movimento è stato anche un’occasione di raggrupparsi per degli individui fino a quel momento isolati, tentati di dare un valore positivo alla loro posizione marginale rispetto al mondo del lavoro. Nella maggior parte delle città di provincia si sono inseriti nei collettivi esistenti. Ma a Parigi si è formato un polo importante intorno agli incontri organizzati alla facoltà di Jussieu dopo la fine dell’occupazione dell’Ecole normale supérieure, dando vita a un polo di disoccupati "intellettualizzati", attirati dalla possibilità di articolare una pratica sovversiva a un discorso radicale. L’apprendistato del dibattito collettivo è stato probabilmente il più grande successo di quest’impresa.

Il polo "Jussieu" - il più consistente dei raggruppamenti nati nel movimento e che rivendicavano la loro autonomiarispetto alle organizzazioni ufficiali dei disoccupati - si è mostrato inventivo praticando delle "passeggiate" metà organizzate metà improvvisate, che consistevano a fare delle visite a sorpresa in alcuni luoghi simbolici dell’oppressione capitalista per apportare la contestazione o organizzare delle azioni collettive di "riappropriazione" nei ristoranti o in certi negozi[8]. Sul piano ideologico ha lavorato a restituire un valore positivo alla scelta del non-lavoro, assimilando radicalità e rifiuto del lavoro.

E’ difficile interrogare la validità teorica di tale posizione, perché, rispondendo soprattutto a un bisogno di identità collettiva positiva, essa è sempre stata posta come un assioma. Nei fatti, il criterio del rifiuto del lavoro gli ha permesso essenzialmente di stabilire una linea di demarcazione di fronte alle organizzazioni di disoccupati, classificate indifferentemente nel campo degli "ideologi del lavoro" - categoria che per loro inglobava tanto quelli che chiedono un lavoro come condizione della reintegrazione sociale e della dignità (posizione dei comitati CGT), che chiedono un lavoro e, aspettando, un reddito decente (posizione dell’APEIS), o un reddito decente per tutti, indipendentemente da qualsiasi condizione di ritorno al lavoro (posizione dominante in seno ad AC!). Ma nessuno di loro sembra essersi seriamente chiesto come il rifiuto del lavoro può giustificarsi agli occhi di lavoratori sovraccarichi di lavoro e mal retribuiti, ma che pagano i contributi che permettono ai fautori del rifiuto del lavoro di sopravvivere...

In fondo il polo di Jussieu sembrava dire: il punto di vista dei lavoratori non ci interessa, visto che hanno il torto di voler lavorare... Questa indifferenza nei confronti degli altri proletari - percettibile anche nel loro rifiuto di principio di qualsiasi contatto con i media qualiche fossero e quali che ne fossero le modalità, come pure nel rifiuto del dibattito sulle rivendicazioni, il tutto compensato da una survalorizzazione della socialità - ha tuttavia segnato i limiti dell’esperienza. L’afflusso di persone nuove si è presto esaurito e, quando le "azioni" organizzate hanno finito per far scattare la repressione (l’assenza d’inquadramento "ufficiale" e di copertura mediatica li esponeva direttamente), si sono manifestati i primi seri conflitti. I vari squats collettivi emersi dal raggruppamento di Jussieu finiranno, nell’anno seguente, per morire uno dopo l’altro dei loro conflitti interni[9]. Del polo parigino dei "disoccupati felici", resisterà solo il TCP (Travailleurs Chômeurs Précaires - Lavoratori, Disoccupati, Precari), continuando la propria attività di autorganizzazione dei disoccupati attraverso il mutuo appoggio e la contestazione delle forme di controllo sociale che pesano su di loro, iniziata ben prima del movimento.

Fra coloro che fanno la scelta di non inserirsi sul mercato del lavoro, c’è tuttavia un gruppo che tenta di articolare questa scelta con una ricerca di trasformazione sociale: i fautori del "reddito garantito". Questi, riuniti a Parigi nel collettivo Cargo, hanno scelto AC! come terreno di intervento, ma le loro produzioni teoriche seducono un pubblico ben più ampio, in particolare gli ambienti intellettuali che discutono di "fine del lavoro", "terzo settore", "nuovo contratto sociale", ecc., con i quali condividono la falsa ingenuità di chi esclude dal proprio ragionamento la realtà degli interessi, del potere e dei rapporti di forza tra le classi. Anche fra i "garantisti" l’impasse sulla questione della ripartizione del lavoro è totale, che si tratti del lavoro salariato nel quadro capitalista odierno o del solo lavoro socialmente necessario (la parte indispensabile) in una società liberata. Cosa che solleva un piccolo problema teorico, ma soprattutto un grosso problema strategico. Perchè occorre poter dire attraverso quali mezzi la si fa’ valere, questa bella idea del reddito garantito. Forse attraverso la lotta collettiva dei lavoratori uniti? Allora non si può evitare la questione della ripartizione del lavoro. In effetti dubito che la creatività rivendicata di individui che fanno di tutto per mettere l’accento sulla loro esteriorità al rapporto di sfruttamento che fonda l’identità proletaria sia sufficiente per far scattare la solidarietà degli schiavi del salariato. Far valere, come fanno i militanti di AC! che un reddito di sostituzione per i disoccupati che si avvicinerebbe al salario minimo legale, sarebbe il modo migliore per sconfiggere i bassi salari è già più convincente, ma con ogni evidenza non abbastanza perché si mettano in movimento in favore di altri delle masse che hanno già paura di battersi per sé stesse. Allora per via governativa o parlamentare? Il problema resta lo stesso:senza un movimento sociale massiccio, per quale motivo questa soluzione dovrebbe imporsi da sola? Non resta più che convincere i capitalisti... cosa che certi teorici del reddito garantito come Negri o Moulier non esitano a cercare di fare[10]. Non del tutto senza successo d’altronde, dato che certi padroni cominciano a trovare del fascino a quest’idea, nella sua versione liberale di "reddito di esistenza". E a ragione: venendo come complemento dei redditi salariali, questo sarebbe la porta aperta alla soppressione del salario minimo legale e alla generalizzazione di salari minuscoli...

La lotta per la soddisfazione dei bisogni fondamentali

L’impatto del movimento dei disoccupati sull’opinione pubblica ha permesso che fossero prese anche delle iniziative sulla base di raggruppamenti militanti di circostanza, sull’onda dall’idea che questo momento di agitazione sociale allargava improvvisamente l’orizzonte del possibile. Queste iniziative, che non avevano niente di precostituito, sono state ai miei occhi le più ricche di senso. Esse sono difficili da recensire dato che sono state assimilate alle iniziative delle associazioni o collettivi di disoccupati costituiti, ma è certo che sono state ben più numerose in provincia, dove le reti militanti locali sono spontaneamente più trasversali che a Parigi, dove restano facilmente vittime della prossimità delle lotte degli apparati. Mi soffermerò tuttavia su un’esperienza parigina che conosco bene: l’occupazione dell’agenzia EDF del boulevard Barbès.

Questa occupazione è stata organizzata da un gruppo di militanti contattati dal collettivo locale di AC! che conservava dei contatti stabiliti sul quartiere in occasione del movimento di dicembre ‘95 e poi nel sostegno ai sans papiers della chiesa Saint Bernard. All’inizio si trattava soprattutto di militanti salariati, ma rapidamente si sono aggregati al gruppo dei disoccupati del quartiere o già impegnati nel movimento. L’occupazione, che è durata otto giorni, è stata tenuta di giorno dai disoccupati, e la giunzione con i salariati avveniva la sera, nel quadro di una assemblea generale quotidiana e di una serie di discussioni informali. Questa forte dinamica unitaria ha permesso di mettere in comune spontaneamente le competenze militanti e generato la volontà di opporsi a qualsiasi manifestazione di spirito settario, incoraggiando al tempo stesso pratiche di democrazia di base (ogni discussione col direttore si faceva con l’insieme degli occupanti e tutte le decisioni importanti si prendevano in assemblea generale). Ma questa era servita anche dal fatto che l’occupazione era motivata da un obbiettivo concreto preciso, all’altezza delle forze reali: ottenere dal direttore dell’agenzia la sospensione dei tagli della corrente imposti brutalmente alle famiglie troppo povere per pagare le loro fatture (fatture spesso troppo elevate, a causa della politica del tutto elettrico incoraggiata da EDF con la complicità dei costruttori o dei proprietari senza scrupoli). In questo, essa rompeva con la logica essenzialmente simbolica e agitatoria delle occupazioni precedenti e sfuggiva ai calcoli strategici degli apparati delle organizzazioni di disoccupati, assenti dalla lotta.

Questo contesto ha permesso che si imponessero quasi da sole delle pratiche nuove, tutte motivate da una volontà di allargamento: la ricerca sistematica di contatto con la popolazione locale confrontata alla povertà (avevamo imposto che l’agenzia restasse aperta, cosa che permetteva di entrare in contatto con le persone venute per tentare di contrattare un rinvio di pagamento, e di prendere così tutta la misura del problema) e la ricerca di collegamenti con i salariati dell’impresa coinvolta (difficile, è vero, a causa della separazione dai salariati dell’agenzia e della presa di distanza di fatto della CGT-EDF, sindacato maggioritario ma apertamente cogestionario). Nei contatti con i giornalisti venuti sul posto (soprattutto stranieri, dato che i media francesi si autocensuravano per non dover rinunciare alla manna pubblicitaria di EDF), sempre con la preoccupazione di non fare la scelta di ripiegarci su noi stessi, abbiamo tentato di contrattare il modo di filmare o di fare le domande.

Segnaliamo un’altra iniziativa presa nel sud di Parigi, più breve ma che presenta una certa somiglianza con la precedente: una rete militante di quartiere che aveva ereditato dei contatti presi all’epoca del movimento di dicembre ‘95, in cui erano presenti militanti sindacali dell’ospedale Pitié-Salpetrière, ha organizzato una manifestazione dentro l’ospedale per mettere sotto accusa il trattamento discriminatorio riservato ai malati non coperti dalla mutua e il rifiuto di cure che a volte veniva opposto ai sans papiers. Un confronto diretto ha potuto allora essere organizzato tra disoccupati e salariati da un lato e autorità dell’ospedale dall’altro, in cui tutta la rabbia delle vittime della mancanza di cure siè espressa senza mediazioni, e cheè rapidamente sboccato su un impegno scritto del direttore.

Queste esperienze mostrano che, per la difesa degli interessi degli strati proletari tenuti ai margini del mondo del lavoro, altri metodi che quelli sindacali sono possibili. Si possono condurre delle lotte per la soddisfazione dei bisogni fondamentali di tutti appoggiandosi su una congiunzione di forze organizzate sul quartiere e nelle imprese coinvolte. Su una scala significativa, una tale congiunzione potrebbe aprire delle prospettive nuove. Ai collettivi di disoccupati potrebbe permettere di uscire dalla trappola con cui hanno regolarmente a che fare ogni volta che cercano di ottenere risultati concreti per quelli di cui prendono le difese: vedersi obbligati ad accettare - e volte anche a proporre - un trattamento specifico per i poveri, avallando in questo modo la messa in opera di un sistema di gestione dell’esclusione. Ai salariati potrebbe offrire, attraverso la solidarietà attiva nei confronti dei più poveri, un modo per uscire dal vicolo cieco in cui le lotte settoriali o categoriali si trovano spesso costrette in un’epoca in cui l’offensiva capitalista tende a imporre la sua logica mercantile a tutti i livelli di organizzazione della società. Almeno due esempi di questo possibile sono stati messi in luce nel quadro del movimento dei disoccupati, anche se si tratta in questo caso di congiunzioni mancate.

I disoccupati in lotta contro i tagli della luce nelle abitazioni hanno cercato di fare la giunzione con la lotta dei salariati di EDF contro la privatizzazione. Se non si fossero urtati al peso interno della CGT, che non ha esitato a rinunciare ad opporsi alla ristrutturazione di EDF in cambio del mantenimento dello statuto specifico dei suoi salariati, si sarebbe potuta condurre una vera battaglia contro la logica mercantile di EDF, associando la nozione di servizio pubblico non più alla semplice difesa dell’impresa pubblica, ma alla soddisfazione egualitaria di un bisogno essenziale, con forme rispettose dell’ambiente e della vita delle generazioni future (da cui un’articolazione con la lotta antinucleare)[11]. Quanto alla lotta dei disoccupati per l’accesso ai trasporti pubblici - se i militanti sindacali avessero voluto prendere sul serio il discorso sulla gratuità dei trasporti per tutti tenuto da certi "marginali" del movimento dei disoccupati, ma anche se gli strateghi delle organizzazioni di disoccupati non avessero costantemente utilizzato l’argomento dell’emergenza per orientare la mobilitazione verso trasporti gratuiti per i disoccupati - avrebbe potuto collegarsi alla lotta dei conducenti di mezzi pubblici contro le aggressioni di cui sonoa volte vittime, permettendo un superamento della logica securitaria (e di fatto poliziesca) in cui tendono a rinchiudersi.

Se la combattività e la tensione verso l’unità non sono bastate a rendere queste congiunzioni possibili, non è impossibile - osservando le lotte recenti dei salariati in Francia - tentare un’ipotesi più ottimista. Negli scioperi che scuotono gli ospedali dal novembre scorso, si vede avanzare una riflessione sulle conseguenze della logica della redditività che il potere impone agli ospedali: la carenza di organici, la precarizzazione e la flessibilità del lavoro non sono soltanto denunciate come fonte di degrado delle condizioni di lavoro, ma anche delle cure fornite ai malati. Allo stesso titolo, nella lotta degli insegnanti contro la riforma Allègre, la denuncia del precariato e della mancanza di professori si articola con una denuncia della versione liberale dell’insegnamento che pretende, per dirla in due parole, sostituire la formazione alla cultura. E si sente che, a differenza delmovimento di dicembre ‘95 in cui la reazione del settore pubblico si era organizzata in primo luogo sulla base della difesa dello statuto, in queste mobilitazioni recenti la difesa di una certa idea di "servizio pubblico" non è più in posizione subalterna, non serve più a legittimare agli occhi di tutti delle rivendicazioni in primo luogo settoriali. Che l’inquietudine è più profonda, ma anche più viva la volontà di trovare la via che permetterebbe di organizzare il servizio al pubblico secondo un’altra logica, una logica solidale, centrata sulla soddisfazione dei bisogni essenziali di tutti.

Vorremmo sperare che si tratti di un processo di maturazione che attraversa tutta la società e di cui i diversi movimenti sociali saliti sulla scena dal ‘95 non sarebbero che l’espressione visibile, congiunturale, i quali traducono nel linguaggio del loro settore una preoccupazione, una domanda che, in un modo o nell’altro, è quella di tutti gli strati subalterni. E, per tornare all’oggetto del nostro articolo, che il movimento dei disoccupati sia stato un momento di questa domanda in atto, e che le sue sconfitte ne traducano soprattutto il balbettio.

Nicole Thé

(marzo 2000)

(Trad. G. Soriano)

 


[1] Tendenza composta essenzialmente dai membri di Cargo [Collettivo autonomo per un reddito garantito ottimale], collettivo di ispirazione negriana, caratterizzato da un gergo avanguardista ma dalle pratiche entriste di un’altra epoca, nonostante la loro efficienza.

[2] E questo qualsiasi cosa ne pensi Bernard Friot, che in un libro stimolante e discutibile, ma poco discusso, Et la cotisation sociale créera l’emploi (ed. La Dispute), spiega in che cosa l’assistenza (attraverso lo stato) si oppone alla solidarietà (attraverso i contributi sul salario), con i sindacati che ai suoi occhi sono garanti di questi ultimi.

[3] Segnaliamo un dettaglio significativo del livello di “ feticizzazione ” della rappresentazione che esiste in questo ambiente “ associativo ”: il MNCP contesta la legittimità della CGT-chômeurs e di AC! nel ruolo di rappresentanti dei disoccupati, considerandole tutt’e due come emanazioni sindacali.

[4] Perché, checché ne dicano i portatori dell’ideologia dominante in ambiente contestatore, le simpatie per le forme di sovversione sociale non sono assenti nell’ambiente dei giornalisti, soprattutto quando si tratta del personale di base, spesso precario e sottopagato, che può trovare nella copertura di questi avvenimenti un gusto di piccola vendetta, non avendo i mezzi per difendersi collettivamente loro stessi. E se questo traspare tanto poco attraverso lo schermo, lo si deve soprattutto alla censura di fatto esercitata dai giornalisti della gerarchia redazionale, garanti di una informazione “ responsabile ”.

[5] Un bell’esempio di questa vicinanza inconfessata è stata l’organizzazione dell’ultima manifestazione del movimento, nel marzo 1998, in cui la “ banda dei quattro ” porterà il corteo davanti alla Camera dei deputati, dove si discuteva la prima versione della legge sulle 35 ore, cosa che permise alla stampa di dire che si trattava di una manifestazione di sostegno al governo.

Segnaliamo che tutte le “ perversioni ” di questa legge che pretendeva far valere una vecchia rivendicazione operaia per via istituzionale, al di fuori di qualsiasi contesto di lotta (promozione della flessibilità sotto molteplici forme, freno alla progressione salariale e soprattutto attacco allo zoccolo giuridico comune all’insieme dei salariati attraverso la promozione di accordi d’impresa) erano già individuabili ed in parte individuati all’epoca.

[6] Questa ricerca di consenso, che viene alimentata da una vera preoccupazione di unità nella differenza quando si verifica su piccola scala, è - al livello degli incontri nazionali - fonte di tutte le possibili manipolazioni: i dibattiti prendono la forma di una successione di interventi dove la semplice riflessione individuale è trattata nello stesso modo che la presa di posizione di un collettivo locale, dove la conclusione che si suppone traduca il consenso è tratta... dalla persona che presiede i dibattiti (installata da chi in questa posizione? Mistero...). Non è inutile segnalare che questa forma di organizzazione disorganizzata sembra essersi imposta in numerose situazioni di lotta di lungo periodo da quando il centralismo democratico non è più di moda. Ma qui siamo ancora lontani da una pratica della democrazia di base (a meno di considerare che la base è costituita dai più informati, dai più abili e dai più mediatici dei militanti...).

[7] Nata alla fine del ‘97, ha cercato di organizzare il sostegno reciproco tra collettivi di precari già costituiti ed è servita come luogo d’incontro a un buon numero di precari isolati. Più che delle iniziative proprie, è riuscita soprattutto a dar vita a un lavoro di "censimento" e a un fruttuoso dibattito interno. Ha pubblicato un numero del giornale Tsunami. Indirizzo E-mail : Coord.Travailprecaire@wanadoo.fr

[8] Se ne possono trovare dei resoconti dettagliati in Les Lundi au soleil, pubblicato dalle edizioni L’Insomniaque.

[9] Un processo che sotto vari aspetti ricorda quello degli anni del post-68 francese, in cui la sconfitta della rottura attraverso la lotta unitaria dei proletari aveva incoraggiato l’idea di una rottura attraverso la scelta della marginalità (il tema del ritorno alla terra è d’altronde riapparso qui e là verso la fine del movimento), tuttavia con una maggior dose di opportunismo, all’immagine dei tempi in cui viviamo.

[10] Come lo mostra bene nel suo Economie de la misère (ed. La Digitale) Claude Guillon, il cui vigore critico si esaurisce sfortunatamente quando si tratta di formulare una prospettiva differente da quella avanzata da coloro che demolisce. Non vedo in effetti come il "desiderio" possa servire da prospettiva collettiva.

[11] E’ quello che ha tentato di fare il "Collettivo Barbès", che aveva ereditato l’esperienza dell’occupazione dell’agenzia di Barbès, in collegamento con dei militanti della CNT-Energia e SUD-Energia. Ci si può informare sui suoi tentativi leggendo il solo numero del suo giornale Haute Tension o l’articolo "Le collcectif Barbès se raconte", nel supplemento "Précarité" di Le Monde Libertaire di maggio 2000. E-Mail del collettivo : Barbes@malang.remcomp.com