Considerazioni sul ‘movimento’ dei disoccupati e dei precari in Francia

l’obbiettivo ricchezza del movimento contro la mancanza di potenza

Il movimento dei disoccupati e dei precari del 1997/98 suggerisce una prima considerazione: la sua qualità deriva in prima istanza più dalla sua base sociale che dalla sua ricchezza offensiva, o dalla sua capacità di interpretare in profondità i rapporti tra le classi. I militanti di base di queste agitazioni hanno vissuto una sorta di dicotomia irriducibile in cui sentimenti di impotenza e numerose illusioni si sono uniti e intrecciati. Le ragioni di una rabbia intensa, abbondantemente legittimata e largamente condivisa dall’insieme dei proletari depauperati, sono in sé sufficienti a sostenere ed a legittimare, agli occhi dei loro autori, delle azioni senza alcuna prospettiva. Gruppi di proletari disperati, ringalluzziti da una pubblicità medianica non proprio innocente né disinteressata, irresistibilmente spinti dalla loro indigenza, si sono letteralmente gettati in battaglie senza sbocchi di debole intensità e dall’aspetto per altro fortemente simbolico.

D’altro canto, il governo ha intuito il potenziale pericolo del movimento (al di là di ciò che pensassero i protagonisti stessi): quello dell’incontro tra tutti i proletari qualunque siano le loro condizioni, dal lavoratore ‘garantito’ al lavoratore ‘al nero’, passando per le diverse gradazioni che queste due polarità comprendono, contro lo sfruttamento e tutte le divisioni che genera.

Il governo s’è ugualmente servito dei limiti del movimento per fare passare le sue ricette per ‘la disoccupazione’.

Globalmente, le azioni non hanno raggiunto l’obbiettivo di allargare l’audience e l’organizzazione della lotta alla maggioranza dei disoccupati e dei precari, ed ancor meno ai proletari che hanno un’occupazione. Le occupazioni delle  Assedic, delle sedi dell’ANPE, degli uffici dell’EDF-GDF, delle stazioni ferroviarie, ecc. hanno visto generalmente la partecipazione di un numero ristretto di militanti(tra i 10 ed i 30), in una situazione di isolamento pressoché completo di fronte agli operai ed agli impiegati. Sempre, tra questi e quelli, si sono interposti dei sindacalisti e dei funzionari ’ben intenzionati’ che hanno fatto da schermo a tutti gli incontri diretti tra sfruttati. Non vale quasi la pena di ricordare che le ‘associazioni dei disoccupati’ ed i sindacati non hanno mai utilizzato la loro capacità di mobilitazione tra i proletari provvisti di lavori ‘stabili’ per farli avvicinare ai loro compagni meno occupati. Si sono in compenso moltiplicate le manifestazioni inoffensive del sabato pomeriggio.

Per ciò che concerne poi le azioni sponsorizzate dalle ali estreme delle associazioni preposte all’inquadramento di queste lotte (occupazioni dell’Ecole normale de la rue d’Ulm, dell’Università di Nanterre e di Jussieu, il chiedere l’elemosina sotto la forma di tre buoni d’acquisto a  Leclerc de Pantin, le incursioni gastronomiche alla Coupole e a Fouquet’s), sono state ancora meno funzionali e confuse, debordando nella rappresentazione spettacolare a buon mercato del movimento.

Sfortunatamente, per gli uni e per gli altri, a causa della ‘cozzaglia’ di rivendicazioni tanto disparate quanto inoffensive, la conoscenza del terreno dell’avversario e dei meccanismi d’oppressione preparati ad hoc è stata brutalmente fallimentare. Grazie alle azioni, la messa a nudo pratica attraverso la lotta della catena particolare dell’oppressione capitalista che tiene prigioniera la parte più indebolita del proletariato non è essenzialmente progredita. L’esperienza capitalizzata dai protagonisti delle azioni corre fortemente il rischio di risultare inoperante fino a che lo scontro non troverà lo slancio per uscire dal suo stato attuale di inquadramento democratico e consensuale . Così, una versione piuttosto farsesca della lotta di classe s’è svolta per strada senza mai divenire una reale minaccia né per l’ordine sociale dominante, né più modestamente, per i residuali istituti statali di previdenza. Così, le veline dell’informazione ufficiale non si sono ingannate: l’accentuazione ossessiva posta su delle azioni che, nel loro punto più alto di mobilitazione, non hanno coinvolto che qualche migliaio di persone, la dice lunga sul timore che la farsa possa divenire tragedia per le classi dominanti. Dietro la maschera abilmente agitata di un Maggio ’98 degli ‘esclusi’ - molto improbabile in queste condizioni - i padroni esorcizzano le preoccupazioni derivanti dalla frammentazione di un corpo sociale attraversato periodicamente da crisi galoppanti e da riprese economiche generalmente insufficienti.

Traduzione dell’ideologia dominante ad uso dei disoccupati e dei precari in lotta

Due correnti ideologiche monopolizzano la scena ufficiale degli attuali movimenti. Schematizzando, si può affermare che l’uno appartiene alla tipologia ‘lavorista’ social-democratica e stalinista di stampo classico, mentre l’altra si rifà alla tradizione dell’assistenza e del solidarismo cristiano. Ciascuna di queste correnti  possiede al suo interno una variante ‘estrema’. Il filone lavorista ha una variegata gamma di gradazioni, tra le quali quella trotskista, impersonificata dal telegenico Chistrophe Aguiton, amministratore pagato di France Télécom, appartenente al Sud e fondatore di AC !, mentre il filone cristiano vede sviluppare ai suoi margini la ‘voce interferente autonoma’, personificata dal fedele discepolo del sociologo italiano Toni Negri, Laurent Guilloteau, ex-animatore di Cargo, membro della direzione di AC !, promotore infaticabile delle azioni parigine a cui i media hanno dato maggior risalto (occupazioni delle Facoltà, operazioni di ‘ristoro gratuito’ all’interno dei grandi centri commerciali della capitale, ecc.)

l'ideologia lavorista alla francese e le sue peripezie

La concezione lavorista della condizione salariale si basa sull’assunto che l’essere sociale, e la stessa struttura psichica degli individui, viene formata dal lavoro salariato, forma d’attività dominante della società e del processo di civilizzazione a cui si riferisce, e di cui si considera il prodotto. Lo sfruttamento è, secondo questo punto di vista, l’apprendistato, il luogo privilegiato di formazione dell’essere sociale. Non vi è traccia di una critica all’essenza del lavoro, nessun rinvio al suo formidabile potenziale di de-socializzazione e di atomizzazione del lavoratore. Ciò che, in compenso, è affermato, è la funzione emancipatrice fondamentale del lavoro salariato. Così, l’individuo senza lavoro non è veramente un essere sociale, il suo sviluppo non progredisce; questo risulta non adatto alla creazione, alla fabbricazione e alla riflessione. Per l’ideologia lavorista non c’è salvezza al di fuori delle catene dello sfruttamento. Ferma nel suo ruolo di difensore delle fondamenta del capitale industriale (lavoro salariato), non può che progettare, o per meglio dire, invocare appassionatamente il ritorno più rapido di questi esseri umani ‘a metà’, che sono cloro ‘ privi di una occupazione’, al lavoro. Questa posizione è rappresentata  pienamente dalla CGT, ma anche, essenzialmente, da i gauchistes ‘classici’ (trotskistes, stalinisti ‘ortodossi’, ex-maoisti). Inanzitutto, anche loro, si adoperano a dissimulare, mascherandola ideologicamente, la dura realtà  del lavoro salariato anteponendole ciò che è il lavoro ‘dal punto di vista antropologico’:

<<Il lavoro appare come un processo storico di scambio organico tra la natura e la società umana, di conversione d’energia, di trasformazione reciproca>>[1]. Questi gauchistes, che hanno una forte presenza all’interno delle associazioni e di alcuni sindacati, si fanno carico particolarmente di gettare un ponte all’altra anima ideologica dominante all’interno degli attuali movimenti dei senza-reddito, quella solidarista. È chiaramente dovuta a loro la diffusione dello slogan pass-partout della ridistribuzione del lavoro(35,32,28 ore settimanali). Sono proprio loro che si oppongono al riconoscimento di uno ‘statuto del disoccupato’ (il reddito minimo universale, caro alle correnti solidariste estreme), che tacciano di essere una soluzione liberale[2] (come gli amici di Chevénement accusano la rivendicazione della libera circolazione delle persone di essere una “soluzione liberale”...). Sono sempre loro ad essere tra i primi nella lotta che mira alla riformulazione del concetto di “cittadinanza” - la partecipazione alla vita della città, secondo l’assioma corrente - tramite l’accesso di tutti al lavoro. Le agitazioni e le associazioni dei senza reddito sono considerate alla stregua del reinserimento degli “esclusi” nel mondo dei, in quanto lavoratori, “veri cittadini”. I movimenti di disoccupati e di precari come anticamera alla Repubblica democratica fondata sul lavoro salariato: ecco la vera finalità che i gauchistes e gli stalinisti conferiscono a queste agitazioni. L’analisi del rapporto operaio-macchina, del ‘lavoratore collettivo’ con il lavoro salariato così caro a Viannet, che ha il coraggio di definirsi ancora comunista, si pone anni luce da queste scempiaggini repubblicane. Karl Marx, nei Manoscritti del 1844, lo descrive in questo modo:

“Il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e dunque, nel suo lavoro, non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto ma infelice, non sviluppa una libera attività fisica e intellettuale, ma mortifica il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò, l’operaio solo fuori del lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è un soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione. (...) Come nella religione, l’attività propria della fantasia uman, del cervello umano e del cuore umano influisce dall’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé. Ne viene quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al più ancora l’abitare una casa e vestirsi; e invece si sente nulla più che una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano e ciò che è umano diventa animale”.

Contrariamente al professore ex operaista Toni Negri oggi trasformatosi in vate del “imprensa  biopolitica” per il quale “il lavoro si è emancipato grazie alla sua capacità di divenire intellettuale, immateriale (...) si è emancipato dalla disciplina di fabbrica[3], bisogna riconoscere che le considerazioni di Marx sono tuttora pertinenti ed attuali. Così, se è vero che l’uomo regredisce ad uno stadio bestiale, quando lavora, se il suo rapporto con il lavoro salariato è una costrizione, e che questo gli rimane irriducibilmente esterno, anche astraendo dal fatto che il pieno impiego è un miraggio, e che avere un lavoro non significa assolutamente possedere una quantità sufficiente di denaro per sopravvivere, è stupido, anzi criminale di proporre ai proletari senza lavoro l’Eden di un lavoro nel quale possano ritrovare la “loro dignità”, e grazie al quale si liberino della loro condizione di estrema indigenza.

La dottrina sociale della Chiesa

La nozione di lavoro salariato, non è presente nella dottrina sociale della Chiesa. Il lavoro è considerato nella sua più larga e generica accezione di attività generatrice cosciente ed è unicamente considerato al di sopra di tutte le epoche: sotto “è attraverso il lavoro che l’uomo deve procurarsi il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della tecnica, e soprattutto alla elevazione costante, culturale e morale, della società nella quale vive in comunità con gli altri fratelli. La parola “lavoro” designa tutto il lavoro compiuto dall’uomo, quali che siano le caratteristiche di questo lavoro, o detto in altro modo tutta l’attività umana che può e che deve essere riconosciuta come lavoro tra la ricchezza delle attività di cui l’uomo è capace e alle quali è predisposto per sua stessa natura, in virtù del suo carattere umano. Fatto a immagine, e a somiglianza di Dio stesso nell’universo visibile e posto in questo

per dominare la terra, l’uomo è dunque dall’inizio chiamato al lavoro”. (lettera enciclica Laborem exergens, Giovanni Paolo II, 14 settembre 1981). Se, alla maniera di tutto ciò che esiste, per la Chiesa e le sue pecorelle, il lavoro viene da Dio, non è concepito, all’opposto delle concezioni lavoriste, come luogo privilegiato della formazione allo stesso tempo della società e dell’individuo[4]. Il lavoro “cristiano” è soprattutto un tributo che l’uomo deve necessariamente pagare per sopravvivere, è dunque soprattutto una costrizione alla quale l’uomo è “chiamato dall’inizio”. Certamente, il lavoro deve contribuire all’elevazione costante, culturale e morale, della società”, ma ciò non toglie che, secondo la Chiesa, questo resta soprattutto un’imprescrittibile costrizione. Il secondo principio fondatore, o piuttosto la seconda esclusione concettuale dopo quella di lavoro salariato, della concezione cattolica di lavoro, è la negazione pura e semplice dell’esistenza del lavoratore collettivo, dell’ operaio sociale. Perché, “è in quanto persona che l’uomo è soggetto al lavoro”. Non comprende l’opposizione e la lotta tra le classi e non comprende la possibilità ontologica della costituzione della classe proletaria come classe per sé che si oppone al lavoro. Così, l’elevazione sussidiaria dell’uomo attraverso il lavoro non concerne che l’individuo. E’ un altro elemento importante di separazione nei confronti della concezione del lavoro socialista.

In compenso, l’ideologia lavorista e la concezione cristiana combaciano, e si confondono, allorché ambedue affermano che il lavoro così com’è realmente non può essere superato. Entrambe, non concepiscono una società nella quale l’uomo sociale potrebbe emanciparsi completamente dalla costrizione del lavoro, di qualsiasi genere di lavoro. Si nutrono dello sfruttamento - che vorrebbero perenne - degli schiavi moderni, lo sacralizzano conferendogli delle alte finalità etiche individuali e/o sociali.

Naturalmente, in relazione ai problemi trattati, le specificità ideologiche del cattolicesimo suggeriscono approcci e obbiettivi che differiscono da quelli dei lavoratori.

Se gli ideologi lavoristi impiegano tutte le loro energie nella ricerca chimerica della piena occupazione, il pietismo in gonnella pone l’accento piuttosto sulla ‘solidarietà’ nei confronti dell’individuo in miseria. O piuttosto, usando una terminologia più alla moda, sulla “redistribuzione della ricchezza” così cara agli autonomi civilizzati di AC ![5]

Una eccentrica ruota di scorta

Una variante laica estrema dell’ideologia del Vaticano è rappresentata dalla nebulosa gauchista non tradizionale. Qui, si ritrova tale e quale la sinistra cristiana composta da alcuni autogestionari, da umanisti radicali e soprattutto da ex-operaisti.

 Persuasa dalla volontà di difendere gli esclusi di ogni sorta, queste componenti politiche danno vita ad una specie di estrema sinistra pluralista che scimmiotta i suoi referenti governativi. Se questi ultimi si ritrovano nelle stanze della Repubblica, gli altri si incontrano nelle strade, nelle chiese occupate, nelle occupazioni degli uffici dell’Assedic o nelle case sfitte. Più simpatici perché più ‘popular’, queste frange della sinistra pluralista restano comunque avversari dei proletari. Questa si propone infatti di incanalare all’interno dei limiti del consenso democratico,  con forme ‘barricadere’ e per così dire ‘ di base’, i timidi accenni di rivolta espressi dal proletariato. Il punto debole di questo dispositivo consiste nella sua incapacità integrale nel riuscire a raggiungere anche solo una delle sue molteplici rivendicazioni. Difendono gli immigrati? La sinistra pluralista al potere ne regolarizza qualche decina di migliaia per poterne meglio espellere centinaia di migliaia. Perseguono l’obbiettivo di un alloggio per tutti? Il governo insabbia il progetto Juppé di riesumare delle case-prigione per i più poveri. Chiedono la piena occupazione? Per tutta risposta ottengono una maggiore legalizzazione delle forme di lavoro precario. Pretendono un reddito decente per i poveri? Ottengono l’aumento di qualche centinaio di franchi supplementari per singola persona. Spesso i proletari accalappiati da queste persone pagano a caro prezzo l’irresponsabilità di questi agitatori. Un esempio? I centinaia di migliaia di immigrati in una situazione amministrativa irregolare che seguendo il loro suggerimento di depositare dei dossier in prefettura si trovano oggi completamente esposti a la caccia spietata delle forze di polizia.

Anche sul piano della produzione ideologica, i gauchisti autoproclamati in “movimento sociale” si rivelano modestamente indigenti. Tra coloro che proclamano instancabilmente “i diritti dell’uomo”, coloro che fanno del micro-sindacalismo con altri mezzi, coloro che spolverano l’ideologia sessanttotarda e coloro che giocano la carta della “teologia della liberazione”, non c’è veramente nulla di nuovo sotto il sole. Solo qualche “italiano” ha portato una parvenza di idee originali in mezzo a questo circolo di ideologhi perduti: il professor Toni Negri è il capofila indiscusso di tale corrente di pensiero. Appoggiandosi all’assunto filosofico secondo il quale ogni attività è ormai produttiva, constatando che ogni essere umano - all’epoca della dominazione del lavoro intellettuale e della produzione di beni immateriali - è dotato dello strumento di lavoro essenziale per una tale epoca: il cervello[6] (e che nessuna persona può sradigargli), il professore giunge alla conclusione che tutti coloro che partecipano ipso facto a questa nuova “comunità biopolitica” devono ricevere un salario garantito[7]. Ecco così “frantumato”, ma solamente nel cervello prolifico negli incantesimi ideologici del professore, il “nesso tra la produzione di ricchezza e il lavoro salariato” e, conseguentemente capovolto il rapporto di causa tra lavoro e salario. Non è più il lavoro che giustifica il salario, ma il semplice fatto di percepire un salario garantito a priori dallo Stato fondato su “una democrazia radicale e assoluta” che rende il lavoro produttivo.

Per vie traverse, la realizzazione dell’obbiettivo del “diritto di un impiego”, indispensabile per i trotskisti e li stalinisti per accedere ad un salario e alla “cittadinanza” esce dalla porta principale, perché, per Negri, “di lavoro ce né è troppo”, perché tutti lavorano e contribuiscono alla costruzione della ricchezza sociale. Partendo da una constatazione pertinente - “i disoccupati lavorano (..) e contrariamente il lavoro è tanto assistito quanto la disoccupazione”[8]        

il re veneto del paradosso ne deduce che se il salario è ancora in relazione di dipendenza rispetto al lavoro propriamente detto, è a causa della volontà dispotica delle classi dominati di “subordinare

l’attività della produzione della richezza delle forme di controllo dell’impresa o dello stato”(idem, p. 18). Questo è Ciò che giustifica ai suoi occhi la necessità di una “transizione politica” - paragonabile a “ quella che ha portato dall’ancien Régime alla rivoluzione” - facendo tabula rasa del “capitalismo parassita”. Se la richiesta di un salario garantito sganciato dall’impiego avvicina gli autonomi al solidarismo cristiano, non ci sono rivendicazioni che non gli permettano di aspirare vantaggiosamente di inserirsi all’interno della sinistra lavorista. Quest’altri fattori non sono meno importanti che i loro punti di convergenza con il solidarismo cristiano. Considerati globalmente, questi frammenti ideologici fanno degli ex-operaisti(allo stesso titolo che i gauchisti “classici”) degli artefici di primo ordine della ricongiunzione e della ricomposizione delle differenti componenti della sinistra plularista al potere.

Lo sfruttamento statale nelle agitazioni dei disoccupati

Dalla parte delle classi dominanti la collera dei senza reddito, fino a che non si esprime in modo indipendente e all’altezza della propria sofferenza, offre spesso l’opportunità di riformulare “ a caldo” i termini dell’oppressione.

E’ esattamente ciò che è successo in occasione delle recenti agitazioni. Grazie alle briciole distribuite sotto forma di premio eccezionale  natalizio durante il momento culminante dell’ondata delle occupazioni (un miliardo di franchi)- e di cui la distribuzione a livello individuale (dopo la presentazione individuale di un dossier di richiesta di aiuti eccezionali) continua a soppiatto a dosi ragionevoli - il governo francese è riuscito a introdurre le leggi sull’occupazione giovanile e sull’esclusione in un contesto sociale sensibile e attento a focalizzare l’attenzione di parti imorptanti della società civile sul suo progetto di legge sulle 35 ore. Conviene evocarne rapidamente le finalità ed i prevedibili risultati.

Questi dispositivi legislativi mirano a tre obiettivi principali:

diminuire l’intensità dell’impatto della disoccupazione giovanile e di quella di lungo periodo sulla coesione della società civile.

Presente alle due estremità temporali della vita lavorativa, misurandola sulla durata totale del periodo “attivo“(al momento dell’inserimento dopo i corsi scolastici e a partire dai 50-55 anni[9]), questo tipo di disoccupazione sottrae al proletario ogni speranza di miglioramento della sua condizione, La sensazione si radica dal momento in cui si entra con crescenti difficoltà nei ranghi dei lavoratori e da quando termina con un impoverimento e un espulsione precoce da questi stessi ranghi. Questa percezione delle cose, ormai largamente condivisa dai proletari, affievolisce notevolmente la fiducia nel modo di produzione dominante e nello stato. Così, senza distorcere fondamentalmente le esigenze imperiose del mercato del lavoro, sono numerosi i governi che, dovendo affrontare le conseguenze politiche fortemente spiacevoli di un tale situazione ( disaffezzione elettorale, sfiducia nelle istituzioni, rivolte, scioperi ecc..), si adoperano prioritariamente ad un lavoro di cosmesi di questi tipi di disoccupazione. Tutta una gamma di misure sono allora adottate: per i giovani, parcheggio nelle scuole (l’esame di maturità per tutti) e nella formazione parascolastico (stage di tutti i generi), diffusione degli impieghi non qualificati “atipici” (Contratti a tempo determinato, lavori finanziati parzialmente o completamente da fondi pubblici,  part-time, stagionale, orario ridotto, contratti week-end, stage remunerati, ecc), riduzione dei salari di ingresso; per i disoccupati cronici, prepensionati parzialmente o totalmente, apprendistati di lunga durata, lavori cosiddetti di pubblica utilità, accesso pilotato e finanziato dalla stato agli impieghi “atipici”, poco prima ad appannaggio quasi esclusivo dei giovani. Il risultato raggiunto consiste nel disseminare l’illusione che tutte queste persone sono state strappate dall’inferno della disoccupazione e, per questa ragione che “hanno ritrovato la loro dignità” di sfruttati a tempo pieno.

Accresce la flessibilità del mercato del lavoro e ridurre il costo del lavoro non qualificato

I padroni si lamentano senza sosta del costo della manodopera e chiedono dei finanziamenti sempre più consistenti (fiscalizzazione dei salari + defiscalizzazione dei carichi padronali).

Dal loro lato, i governi si adoperano regolarmente nella formulazione di “ Cantieri sociali” per soddisfare le esigenze padronali, somministrando ai proletari che sono al centro delle loro attenzioni dosi massicce di ideologia per fargli ingoiare il boccone senza protestare. In questa attività la sinistra giunta ai posti di comando dello Stato ha tradizionalmente sempre brillato. Oggi questo assunto più valido che mai:

  1. attacca i “tempi morti” (introduzione della distinzione tra tempo di lavoro effettivo e tempo di lavoro contrattuale)

  2. imposizione di un abbassamento generale della remunerazione degli straordinari, giungendo fino ad un loro puro e semplice assorbimento nel tempo di lavoro contrattato (estensione del lavoro atipico)

  3. vancella la categoria di SMIC orario e la divide (SMIC 35 ore e SMIC 39 ore)

  4. fa saltare il paletto della durata legale della giornata di lavoro (annualizzazione della durata del lavoro, generalizzazione delle squadre di lavoratori wekend, del lavoro notturno e stagionale), come la legge Robien emanata da un governo di destra ( meno di 20mila posti di lavoro creati fino a qui)

  5. incoraggia ampliamente l’abbassamento del salario nominale “in cambio di lavori conservati o creati” e in ogni caso proclama il blocco delle remunerazioni per un periodo indefinito

Se con queste misure il reale impatto del totale dei risparmi fatti dalle imprese sui costi della manodopera non è ancora stato analiticamente valutato dagli specialisti degli istituti di analisi e previsione economica, noi scommettiamo che, in ogni modo i padroni saranno i soli ad averci  guadagnato.

Impiegare i disoccupati

Questo punto è spesso sottostimato. Per questo si rileva di grande importanza. La stagnazione dei salari reali, perfino il loro abbassamento per numerose categorie di lavoratori - dopo l’ultima crisi ciclica francese degli anni 90, l’espansione vertiginosa della disoccupazione congiunturale e di quella tecnologica[10], la proliferazione dei lavori precari e del lavoro nero (corrispondente all’incirca al 10% del PIL, secondo le stime della Commissione Europea), l’estensione del margine temporale di disponibilità al lavoro sulla giornata, la settimana e l’anno (lavoro week-end, straordinario, lavoro stagionale, di notte, ecc..) sono per tanto dei fenomeni che hanno una profonda influenza sul morale dei proletari e li hanno resi palesemente più docili e rassegnati. Ma ai lavoratori che hanno guadagnato un lavoro stabile “tradizionale” (neanche troppo pagato) resta lo stesso e malgrado tutto la sensazione che la giungla si ferma sulle porte del loro luogo di lavoro. Ciò sta per cambiare.

Il governo Jospine è sul punto di riuscire nella non facile impresa di utilizzare le innumerevoli debolezze di questa mini-rivolta di disoccupati per ridurre ulteriormente per via legale le molteplici segmentazioni verticali e orizzontali (tra le regioni geografiche, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra i mestieri, fra i livelli di salari, tra i sessi, e tra età e origini differenti ecc.) che , dal punto di vista del capitale, sclerotizzano il mercato del lavoro. Ma soprattutto, con il suo omologo britannico, è ben piazzato per riuscire nel periglioso tour de force di fare in parte cadere la barriera che esiste tra lavoro e disoccupazione. Ormai, grazie al governo, ciascun disoccupato potrà essere impiegato a questo titolo, ogni disoccupato potrà essere chiamato a contribuire attivamente alla produzione di merci o alla riproduzione del rapporto sociale dominante (gli ausiliari di polizia, gli aiuti sorveglianti della scuola ecc) senza per tanto che la sua estrema vulnerabilità diminuisca e senza che le sue stigmati di poverta. Parallelamente, ogni salariato miseria innanzitutto la breve distanza che lo separa oggi giorno dalla disoccupazione.

I militanti di base del sindacalismo prigionieri del sindacalismo e della pedagogia dell’esempio

Se un primo deve essere tratto dalla lotta dei disoccupati e dei precari, di cui fanno parte a lato di tutte le briciole ottenute fino a qui (sospensioni del taglio della corrente elettrica, buoni pasto, qualche centinaio di franchi strappato a disoccupato, maggiore rispetto nella Assedic, fotocopie gratuite, ecc..), l’incorporazione dei nuovi organi di rappresentanza dei disoccupati (AC!, Apeis, Mncp, e il comitato CGT) nelle istanze ufficiali della negoziazione tra le parti sociali con in prospettiva la partecipazione alla gestione dei fondi speciali di assistenza-disoccupazione.

I senza reddito in lotta sognano e si battono per un mondo senza povertà? La traduzione concreta dei loro sogni si realizza nel lancio nell’orbita delle istituzioni della democrazia sociale del capitale di una nuova generazione di sindacalisti. La debolezza e la confusione che regnano nei movimenti attuali sono per la maggior parte nella realizzazione di un obiettivo così illusorio, ma questi due aspetti delle cose non spiegano tutto. Esiste anche una carenza pressochè totale di espressione politica indipendente di questi movimenti.

Perciò, come l’avevamo osservato durante gli ultimi movimenti di maggior spessore[11], questo non si traduce in una assenza di elaborazione politica dei proletari più impegnati. Come l’avevamo rilevato durante questi scioperi, anche all’interno di alcuni comitati di disoccupati e precari la discussione politica e animata. Il bisogno di traduzione politica delle idee prodotto e/o verificate dalle agitazioni resta pressante. Pertanto la fiducia in se cade la delega resta e l’espressione politica tarda a venire.

Il sindacalismo ricopre così di una spessa rete di sbocchi falsamente realisti e ragionevoli (rivendicazioni più negoziazioni) l’aspirazione dei proletari giunti all’indipendenza e alla lotta politica ricoprano l’integrità della condizione di sfruttato. Numerosi sono i proletari che considerano è un male minore rispetto alla passività, la sottomissione o la rivolta romantica senza esito. L’inibizione della qualità politica delle lotte procede quindi, noi ne siamo convinti, dall’inseguimento di un “periodo cerniera  che si distende senza fine”. Periodo[12]che impone ai comunisti di intervenire all’interno di questi movimenti brandendo più che mai l’arma della critica del sindacalismo e allontanare questo dalle lotte del proletariato. Gli operai hanno bisogno di sbocchi politici rivoluzionari chiari, riconoscibili e organizzati.

Quale critica del sindacalismo

La critica del sindacalismo non deve però aprirsi su una litania ossessiva fatta di esortazioni permanenti alla rivoluzione (parola tanto vuota quanto inoperante nelle circostanze attuali), o, ancora peggio sulla negazione di tutte le rivendicazioni particolari. Ciò che riguarda le nostre critiche non è la ricerca di un miglioramento-sempre reversibile- della condizione di sfruttato ma il sindacalismo che divide le battaglie difensive dalla prospettiva comunista per integrarle in seguito nei molteplici dispositivi della democrazia sociale del capitale. Il sindacalismo fa della lotta economica, inevitabile dal punto di vista oggettivo dei rapporti tra chi vende e compra la forza lavoro, una scelta, un orizzonte voluto e concepito come non superabile, sufficiente a lui stesso. E’ la che deve essere combattuto. Le strutture proletarie indipendenti, quando esistono, devono evitare la piaga della delega della lotta difensiva a degli organi preposti o predisposti a questo fine per l’avversario. Non si è verificato da nessuna parte che, perché la classe sfruttata in lotta possa vincere, deve armarsi di una serie completa e gerarchicizzata di istituti, ciascuno corrispondente della guerra sociale. L’ungo tutto il percorso della storia del movimento operaio, si a avuto a che fare con tutti i tipi di combinazioni possibili: dei partiti operai senza o con sindacati, dei sindacati più o meno politicizzati con o senza un partito, dei consigli o delle milizie con o senza un partito o un sindacato, ecc, e nessuna alchimia organizzativa a dimostrato di essere una garanzia sufficiente per la vittoria. In compenso anche quando i differenti campi di battaglia sui quali si decide del destino della condizione operaia creano degli organi ad hoc la dinamica del movimento se non è interrotta tende sempre alla loro unificazione alla loro fusione al servizio della massima concentrazione delle forza proletarie disponibili, processo necessario quando i confronti diventano decisivi.

E’ dunque alla comprensione di questa logica concreta che, da oggi noi desidereremmo invitare gli operai avanzati.

Quale centralizzazione

Le strutture proletarie indipendenti prodotte per la lotta delle classi devono assumere e portare in prima linea la battaglia politica rivoluzionaria legandola alla sua base materiale: la battaglia quotidiana per la difesa degli interessi “economici” dei proletari.

E’ solamente quando un tessuto sufficientemente solido esteso e rappresentativo di organi di questa natura avrà fatto la sua apparizione che noi avremmo accesso alle chiavi della soluzione pratica della questione della formazione dell’organizzazione politica indipendente del proletariato. Da qui a la, conviene concentrare tutte le nostre forze disponibili sul terreno della costituzione di una rete di comitati politici operai. Rinviare a tempi migliori, dove i conflitti di classe saranno più forieri di comunismo, l’avviamento del processo di auto-costituzione politica del proletariato, significa rinunciarci per quanto riguarda l’oggi. A questo proposito nulla sarà più nefasto che di considerare che noi  potremmo avviare la fase della battaglia politica solamente una volta completata quella della lotta economica. Questo contribuirebbe a sostenere l’idea che la lotta politica rivoluzionaria è indipendente dai rapporti di produzione e dalle tensioni che li attraversano.

 Inoltre, la proliferazione di un sindacalismo più o meno “alternativo” non costituirà, in alcun modo, una tappa in questo processo. Questa ultima rappresenta, al contrario, un ostacalo maggiore sul cammino ripido che è stato indicato. Oggi, una tale coscienza delle cose è tristemente troppo raramente condivisa dagli elementi più radicalizzati tra il proletariato. In questi tempi, sono numerosi coloro che tra questi preferiscono ridurre la loro azione al sindacalismo cosiddetto alternativo; trovarsi uno spazio dentro la gabbia sindacale e impiegando tutte le loro forze nella proliferazione di azioni ultra-minoritarie, di propaganda, avendo il fine di “sensibilizzare” i fratelli di classe per spingerli nella lotta. Alle false scappatoie sindacali si aggiungono le fragili valvole di sfogo espresse in modo offensivo ed effimero da delle azioni con poche persone condotte da qualcuno in nome di qualcuno che pretende di rappresentarli. E sperando che i media li daranno spazio... La passività politica del ripiegamento sul sindacalismo si sposa con la protesta dell’Italia e l’avanguardismo peggiore anche se si riduce a una imitazione grottesca, a una caricatura della lotta di classe. Il tutto accompagnato da una palese ignoranza del terreno e dei rapporti di forza reali. Le agitazioni dei senza reddito ne hanno fornito un nuovo esempio a grandezza naturale

 


[1] Christophe Aguiton e Daniel Bensaid la retour de la question sociale,pp.21 e 22, Edition Page deux, 1997

[2] Secondo il professore trostskista Ben Said e il sindacalista amministratore di France Télécom Aguiton, la rivendicazione di un “diritto ad un reddito incondizionato e universale” porterebbe: “(...) 1°) a giustificare la rinuncia alla lotta per il diritto all’occupazione ( alla piena occupazione) ed alla riduzione massiccia del tempo di lavoro (...) 2°) a far saltare il paletto dello Smic salariando un’esclusione istituzionalizzata e costituisce paradossalmente allo stesso tempo una macchina da guerra contro il sistema della produzione sociale (...)” (Christophe Aguiton e Daniel Bensaid Le retour de la question sociale). Non considerando l’evidente mala fede, degna della peggiore pratica stalinista, di cui i due complici dell’LCR danno prova per demonizzare l’avversario, scaturisce da questi pochi enunciati che condividono con i loro nuovi amici del PCF gli obbiettivi della piena occupazione e della riduzione del tempo di lavoro, della difesa dello Smic e dei meccanismi di protezione sociale. Questo non assomiglia più al Programma di transizione ma dovrà aiutarli un giorno ad ottenere la tessera del Partito...  Ostentando delle posizioni di una tale “audacia” anche il loro vecchio compagno Henri Weber, oggi senatore divenuto portaborse di Laurent Fabius, può loro ricordare che “sono in realtà divenuti dei riformisti di sinistra, appena più radicali di Jiulian Drey, Jean-Luc Mélechon o dell’ispettore del Lavoro Gérard Filoshe”. (Cfr. Le monde des livres del 2 maggio 1998)

[3] Toni Negri Exil op. cit.

[4] Al centro del dispositivo cristiano sociale è posta la famiglia, alla quale il lavoro viene subordinato affinché questa possa agire efficacemente da struttura portante dell’educazione di un credente. Accessoriamente il lavoro è anche il campo di verifica e di applicazione dell’educazione impartita dalla famiglia cattolica. “Il lavoro è, in un cero modo, la condizione che rende possibile la formazione di una famiglia, perché questa esige mezzi di sussistenza che l’uomo acquisisce normalmente attraverso il lavoro. Il lavoro e l’ardore al lavoro condizionano anche tutto il processo di educazione all’interno della famiglia, precisamente perché ciascuno “diviene uomo”, inoltre, attraverso il lavoro, e ciò che fa divenire uomo esprime giustamente il fine principale di tutto il processo educativo. E’ così che entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che assicura la vita e la sussistenza della famiglia, e quello per il quale si realizzano i fini della famiglia, soprattutto dell’educazione. Nondimeno questi due aspetti del lavoro sono uniti tra loro e si completano a vicenda.” (lettera enciclica Laborem exercens, Giovanni Paolo II, 14 settembre 1981)

[5] “Nel momento in cui l’offensiva liberale sostenuta in tutta Europa dal trattato di Maastricht e di Amsterdam, le lotte dei disoccupati e delle disoccupate si sviluppano, e portano con vigore la richiesta di una ridistribuzione delle ricchezze”(Piattaforma rivendicativa adottata dalla Seconda assise europea contro la disoccupazione e le esclusioni - Bruxelles, 18 e 19 aprile 1998)

[6] “Il lavoratore, al giorno d’oggi, non ha più bisogno di strumenti di lavoro (cioè di capitale fisso) che siano messi a disposizione del capitale. (...) il capitale fisso più importante, quello che determina i differenziali di produttività, si trova ormai nel cervello di coloro che lavorano: è la macchina-strumento che ciascuno di noi porta con sé (...) La macchina-strumento è stata strappata dal capitale all’operaio, affinché questa lo segua durante tutta la sua esistenza, che l’operaio ha incorporato questa forza produttiva all’interno del suo stesso cervello” (Toni Negri Exil op. cit.)

[7] “Il salario garantito è la condizione di riproduzione di una società nella quale gli uomini, grazie alla loro libertà, diventano produttivi” (Toni Negri Exil op. cit.)

[8] Toni Negri Exil p. 19, Editions Mille et une nuit, 1998

[9] In Francia, nel 1955 la metà dei giovani tra i 15 e i 25 anni erano disoccupati, tra gli occupati, il 20% svolgevano un lavoro “atipico” e il 16% erano occupati part-time. Nel 1997, circa il 35% delle persone tra i 50 e i 59 anni non esercitano più alcuna attività professionale, e quasi la metà delle persone tra i 55-59 anni si trovano in questa situazione.

[10] Dietro questo”concetto” molto alla moda si nascondono due dati di fatto. Da una parte in Francia, la produttività del lavoro è progredita molto di più che il mercato interno a differenza dei suoi compagni stranieri, i grandi gruppi francesi hanno rinforzatola loro internazionalizzazione e hanno impiantato delle nuove unità di produzione la dove i mercati si sviluppano a dei ritmi più rapidi rispetto a quelli dell’europa occidentale. In compenso, la peristente anemia del mercato interno molto meno assistito di prima dalle commesse statali (dal 1993 in Francia la parte della spesa pubblica sul PIL ha iniziato un lento movimento di diminuzione; nel 1997 si è stabilizzato al 54,7% del PIL, contro il 55,2% del 1996), li gli investimenti realizzati in Francia sono soprattutto mirati alla razionalizzazione e alla modernizzazione dell’apparato produttivo esistente che all’aumento delle capacità di produzione. D’altra parte, la meccanizzazione della gran parte del lavoro intellettuale e l’automazione accresciuta del lavoro manuale ottenute grazie all’introduzione massiccia dei nuovi strumenti elettronici, (informatica, telecomunicazioni), a definitivamente eliminato molti mestieri (come le dattilografe, i contabili, ecc..) e scartato dal mondo del lavoro degli interi settori della manodopera relativi a questa trasformazione. Oggi 40.000 posti di segretaria o di impiegati amministrativi scompaiono ogni anno. Risultato: in Francia tra il 1990 e il 1997, dopo un recente studio del direzione degli studi del ministero francese del lavoro, il lavoro è restato pressoché stabile (+0,1%). Solo i servizi a bassa composizione tecnica di capitale hanno aumentato i loro effettivi tra il 1990 e il 1997 (+8%). Mentre i posti di lavoro nell’industria e nell’edilizia sono diminuiti durante lo stesso periodo rispettivamente del 13,5% e del 17%. Il numero degli operai non qualificati di questi due settori si è abbassato in media di più che nei settori indicati. Così con il 23,6%, il tasso di disoccupazione degli operai non qualificati rappresenta quasi il doppio di quello della popolazione attiva

[11] In Francia e in Belgio: gli scioperi dei ferrovieri del 1986, gli operai della Peugeot-Sochaux nell’ottobre del 1989, gli operai della Renault-Cléon alla fine del 1991, le lotte degli operai belgi contro il Plan global dell’autunno 1993 e quello dei lavoratori dell’Air France nell’ottobre dello stesso anno, lo sciopero degli operia Gec-Alsthom di Belfort et Bourogne nel novembre-dicembre 1994, gli scioperi degli operai nella primavera del 1995 e quelli della funzione pubblica del novebre-dicembre dello stesso anno, i lunghi conflitti della Renault-Vilvoorde e delle Forges de Clabecq nel 1997)

[12] In Francia il 1997 è stato contrassegnato dal numero di ore annuali non lavorate a causa di scioperi il più basso dal 1935