Considerazioni
sul ‘movimento’ dei disoccupati e dei precari in Francia
l’obbiettivo ricchezza del movimento contro la mancanza di potenza
Il
movimento dei disoccupati e dei precari del 1997/98 suggerisce una prima
considerazione: la sua qualità deriva in prima istanza più dalla sua base
sociale che dalla sua ricchezza offensiva, o dalla sua capacità di interpretare
in profondità i rapporti tra le classi. I militanti di base di queste
agitazioni hanno vissuto una sorta di dicotomia irriducibile in cui sentimenti
di impotenza e numerose illusioni si sono uniti e intrecciati. Le ragioni di una
rabbia intensa, abbondantemente legittimata e largamente condivisa
dall’insieme dei proletari depauperati, sono in sé sufficienti a sostenere ed
a legittimare, agli occhi dei loro autori, delle azioni senza alcuna
prospettiva. Gruppi di proletari disperati, ringalluzziti da una pubblicità
medianica non proprio innocente né disinteressata, irresistibilmente spinti
dalla loro indigenza, si sono letteralmente gettati in battaglie senza sbocchi
di debole intensità e dall’aspetto per altro fortemente simbolico.
D’altro
canto, il governo ha intuito il potenziale pericolo del movimento (al di là di
ciò che pensassero i protagonisti stessi): quello dell’incontro tra tutti i
proletari qualunque siano le loro condizioni, dal lavoratore ‘garantito’ al
lavoratore ‘al nero’, passando per le diverse gradazioni che queste due
polarità comprendono, contro lo sfruttamento e tutte le divisioni che genera.
Il
governo s’è ugualmente servito dei limiti del movimento per fare passare le
sue ricette per ‘la disoccupazione’.
Globalmente,
le azioni non hanno raggiunto l’obbiettivo di allargare l’audience e
l’organizzazione della lotta alla maggioranza dei disoccupati e dei precari,
ed ancor meno ai proletari che hanno un’occupazione. Le occupazioni delle
Assedic, delle sedi dell’ANPE, degli uffici dell’EDF-GDF, delle
stazioni ferroviarie, ecc. hanno visto generalmente la partecipazione di un
numero ristretto di militanti(tra i 10 ed i 30), in una situazione di isolamento
pressoché completo di fronte agli operai ed agli impiegati. Sempre, tra questi
e quelli, si sono interposti dei sindacalisti e dei funzionari ’ben
intenzionati’ che hanno fatto da schermo a tutti gli incontri diretti tra
sfruttati. Non vale quasi la pena di ricordare che le ‘associazioni dei
disoccupati’ ed i sindacati non hanno mai utilizzato la loro capacità di
mobilitazione tra i proletari provvisti
di lavori ‘stabili’ per farli avvicinare ai loro compagni meno
occupati. Si sono in compenso moltiplicate le manifestazioni inoffensive del
sabato pomeriggio.
Per
ciò che concerne poi le azioni sponsorizzate dalle ali estreme delle
associazioni preposte all’inquadramento di queste lotte (occupazioni dell’Ecole
normale de la rue d’Ulm, dell’Università di Nanterre e di Jussieu, il
chiedere l’elemosina sotto la forma di tre buoni d’acquisto a
Leclerc de Pantin, le incursioni gastronomiche alla Coupole e a
Fouquet’s), sono state ancora meno funzionali e confuse, debordando nella
rappresentazione spettacolare a buon mercato del movimento.
Sfortunatamente,
per gli uni e per gli altri, a causa della ‘cozzaglia’ di rivendicazioni
tanto disparate quanto inoffensive, la conoscenza del terreno dell’avversario
e dei meccanismi d’oppressione preparati ad hoc è stata brutalmente
fallimentare. Grazie alle azioni, la messa a nudo pratica attraverso la lotta
della catena particolare dell’oppressione capitalista che tiene prigioniera la
parte più indebolita del proletariato non è essenzialmente progredita.
L’esperienza capitalizzata dai protagonisti delle azioni corre fortemente il
rischio di risultare inoperante fino a che lo scontro non troverà lo slancio
per uscire dal suo stato attuale di inquadramento democratico e consensuale .
Così, una versione piuttosto farsesca della lotta di classe s’è svolta per
strada senza mai divenire una reale minaccia né per l’ordine sociale
dominante, né più modestamente, per i residuali istituti statali di
previdenza. Così, le veline dell’informazione ufficiale non si sono
ingannate: l’accentuazione ossessiva posta su delle azioni che, nel loro punto
più alto di mobilitazione, non hanno coinvolto che qualche migliaio di persone,
la dice lunga sul timore che la farsa possa divenire tragedia per le classi
dominanti. Dietro la maschera abilmente agitata di un Maggio ’98 degli
‘esclusi’ - molto improbabile in queste condizioni - i padroni esorcizzano
le preoccupazioni derivanti dalla frammentazione di un corpo sociale
attraversato periodicamente da crisi galoppanti e da riprese economiche
generalmente insufficienti.
Traduzione
dell’ideologia dominante ad uso dei disoccupati e dei precari in lotta
Due
correnti ideologiche monopolizzano la scena ufficiale degli attuali movimenti.
Schematizzando, si può affermare che l’uno appartiene alla tipologia
‘lavorista’ social-democratica e stalinista di stampo classico, mentre
l’altra si rifà alla tradizione dell’assistenza e del solidarismo
cristiano. Ciascuna di queste correnti possiede
al suo interno una variante ‘estrema’. Il filone lavorista ha una variegata
gamma di gradazioni, tra le quali quella trotskista, impersonificata dal
telegenico Chistrophe Aguiton, amministratore pagato di France Télécom,
appartenente al Sud e fondatore di AC !, mentre il filone cristiano vede
sviluppare ai suoi margini la ‘voce interferente autonoma’, personificata
dal fedele discepolo del sociologo italiano Toni Negri, Laurent Guilloteau,
ex-animatore di Cargo, membro della direzione di AC !, promotore infaticabile
delle azioni parigine a cui i media hanno dato maggior risalto (occupazioni
delle Facoltà, operazioni di ‘ristoro gratuito’ all’interno dei grandi
centri commerciali della capitale, ecc.)
l'ideologia
lavorista alla francese e le sue peripezie
La
concezione lavorista della condizione salariale si basa sull’assunto che
l’essere sociale, e la stessa struttura psichica degli individui, viene
formata dal lavoro salariato, forma d’attività dominante della società e del
processo di civilizzazione a cui si riferisce, e di cui si considera il
prodotto. Lo sfruttamento è, secondo questo punto di vista, l’apprendistato,
il luogo privilegiato di formazione dell’essere sociale. Non vi è traccia di
una critica all’essenza del lavoro, nessun rinvio al suo formidabile
potenziale di de-socializzazione e di atomizzazione del lavoratore. Ciò che, in
compenso, è affermato, è la funzione emancipatrice fondamentale del lavoro
salariato. Così, l’individuo senza lavoro non è veramente un essere sociale,
il suo sviluppo non progredisce; questo risulta non adatto alla creazione, alla
fabbricazione e alla riflessione. Per l’ideologia lavorista non c’è
salvezza al di fuori delle catene dello sfruttamento. Ferma nel suo ruolo di
difensore delle fondamenta del capitale industriale (lavoro salariato), non può
che progettare, o per meglio dire, invocare appassionatamente il ritorno più
rapido di questi esseri umani ‘a metà’, che sono cloro ‘ privi di una
occupazione’, al lavoro. Questa posizione è rappresentata
pienamente dalla CGT, ma anche, essenzialmente, da i gauchistes
‘classici’ (trotskistes, stalinisti ‘ortodossi’, ex-maoisti).
Inanzitutto, anche loro, si adoperano a dissimulare, mascherandola
ideologicamente, la dura realtà del
lavoro salariato anteponendole ciò che è il lavoro ‘dal punto di vista
antropologico’:
<<Il
lavoro appare come un processo storico di scambio organico tra la natura e la
società umana, di conversione d’energia, di trasformazione reciproca>>[1].
Questi gauchistes, che hanno una forte presenza all’interno delle associazioni
e di alcuni sindacati, si fanno carico particolarmente di gettare un ponte
all’altra anima ideologica dominante all’interno degli attuali movimenti dei
senza-reddito, quella solidarista. È chiaramente dovuta a loro la diffusione
dello slogan pass-partout della ridistribuzione del lavoro(35,32,28 ore
settimanali). Sono proprio loro che si oppongono al riconoscimento di uno
‘statuto del disoccupato’ (il reddito minimo universale, caro alle correnti
solidariste estreme), che tacciano di essere una soluzione liberale[2]
(come gli amici di Chevénement accusano la rivendicazione della libera
circolazione delle persone di essere una “soluzione liberale”...). Sono
sempre loro ad essere tra i primi nella lotta che mira alla riformulazione del
concetto di “cittadinanza” - la partecipazione alla vita della città,
secondo l’assioma corrente - tramite l’accesso di tutti al lavoro. Le
agitazioni e le associazioni dei senza reddito sono considerate alla stregua del
reinserimento degli “esclusi” nel mondo dei, in quanto lavoratori, “veri
cittadini”. I movimenti di disoccupati e di precari come anticamera alla
Repubblica democratica fondata sul lavoro salariato: ecco la vera finalità che
i gauchistes e gli stalinisti conferiscono a queste agitazioni. L’analisi del
rapporto operaio-macchina, del ‘lavoratore collettivo’ con il lavoro
salariato così caro a Viannet, che ha il coraggio di definirsi ancora
comunista, si pone anni luce da queste scempiaggini repubblicane. Karl Marx, nei
Manoscritti del 1844, lo descrive in questo modo:
“Il
lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e dunque,
nel suo lavoro, non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto ma
infelice, non sviluppa una libera attività fisica e intellettuale, ma mortifica
il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò, l’operaio solo fuori del
lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa
propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi
non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è un soddisfacimento
di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua
estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena vien meno la coazione
fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il
lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio
di se stessi, di mortificazione. (...) Come nella religione, l’attività
propria della fantasia uman, del cervello umano e del cuore umano influisce
dall’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività
estranea, divina o diabolica, così l’attività dell’operaio non è la sua
propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé. Ne viene
quindi come conseguenza che l’uomo (l’operaio) si sente libero soltanto
nelle sue funzioni animali, come il mangiare, il bere, il procreare, e tutt’al
più ancora l’abitare una casa e vestirsi; e invece si sente nulla più che
una bestia nelle sue funzioni umane. Ciò che è animale diventa umano e ciò
che è umano diventa animale”.
Contrariamente
al professore ex operaista Toni Negri oggi trasformatosi in vate del “imprensa
biopolitica” per il quale “il lavoro si è emancipato grazie alla sua
capacità di divenire intellettuale, immateriale (...) si è emancipato dalla
disciplina di fabbrica[3],
bisogna riconoscere che le considerazioni di Marx sono tuttora pertinenti ed
attuali. Così, se è vero che l’uomo regredisce ad uno stadio bestiale,
quando lavora, se il suo rapporto con il lavoro salariato è una costrizione, e
che questo gli rimane irriducibilmente esterno, anche astraendo dal fatto che il
pieno impiego è un miraggio, e che avere un lavoro non significa assolutamente
possedere una quantità sufficiente di denaro per sopravvivere, è stupido, anzi
criminale di proporre ai proletari senza lavoro l’Eden di un lavoro nel quale
possano ritrovare la “loro dignità”, e grazie al quale si liberino della
loro condizione di estrema indigenza.
La
nozione di lavoro salariato, non è presente nella dottrina sociale della
Chiesa. Il lavoro è considerato nella sua più larga e generica accezione di
attività generatrice cosciente ed è unicamente considerato al di sopra di
tutte le epoche: sotto “è attraverso il lavoro che l’uomo deve procurarsi
il pane quotidiano e contribuire al continuo progresso delle scienze e della
tecnica, e soprattutto alla elevazione costante, culturale e morale, della
società nella quale vive in comunità con gli altri fratelli. La parola
“lavoro” designa tutto il lavoro compiuto dall’uomo, quali che siano le
caratteristiche di questo lavoro, o detto in altro modo tutta l’attività
umana che può e che deve essere riconosciuta come lavoro tra la ricchezza delle
attività di cui l’uomo è capace e alle quali è predisposto per sua stessa
natura, in virtù del suo carattere umano. Fatto a immagine, e a somiglianza di
Dio stesso nell’universo visibile e posto in questo
per
dominare la terra, l’uomo è dunque dall’inizio chiamato al lavoro”.
(lettera enciclica Laborem exergens, Giovanni Paolo II, 14 settembre 1981). Se,
alla maniera di tutto ciò che esiste, per la Chiesa e le sue pecorelle, il
lavoro viene da Dio, non è concepito, all’opposto delle concezioni lavoriste,
come luogo privilegiato della formazione allo stesso tempo della società e
dell’individuo[4].
Il lavoro “cristiano” è soprattutto un tributo che l’uomo deve
necessariamente pagare per sopravvivere, è dunque soprattutto una costrizione
alla quale l’uomo è “chiamato dall’inizio”. Certamente, il lavoro deve
contribuire all’elevazione costante, culturale e morale, della società”, ma
ciò non toglie che, secondo la Chiesa, questo resta soprattutto
un’imprescrittibile costrizione. Il secondo principio fondatore, o piuttosto
la seconda esclusione concettuale dopo quella di lavoro salariato, della
concezione cattolica di lavoro, è la negazione pura e semplice dell’esistenza
del lavoratore collettivo, dell’ operaio sociale. Perché, “è in quanto
persona che l’uomo è soggetto al lavoro”. Non comprende l’opposizione e
la lotta tra le classi e non comprende la possibilità ontologica della
costituzione della classe proletaria come classe per sé che si oppone al
lavoro. Così, l’elevazione sussidiaria dell’uomo attraverso il lavoro non
concerne che l’individuo. E’ un altro elemento importante di separazione nei
confronti della concezione del lavoro socialista.
In
compenso, l’ideologia lavorista e la concezione cristiana combaciano, e si
confondono, allorché ambedue affermano che il lavoro così com’è realmente
non può essere superato. Entrambe, non concepiscono una società nella quale
l’uomo sociale potrebbe emanciparsi completamente dalla costrizione del
lavoro, di qualsiasi genere di lavoro. Si nutrono dello sfruttamento - che
vorrebbero perenne - degli schiavi moderni, lo sacralizzano conferendogli delle
alte finalità etiche individuali e/o sociali.
Naturalmente,
in relazione ai problemi trattati, le specificità ideologiche del cattolicesimo
suggeriscono approcci e obbiettivi che differiscono da quelli dei lavoratori.
Se
gli ideologi lavoristi impiegano tutte le loro energie nella ricerca chimerica
della piena occupazione, il pietismo in gonnella pone l’accento piuttosto
sulla ‘solidarietà’ nei confronti dell’individuo in miseria. O piuttosto,
usando una terminologia più alla moda, sulla “redistribuzione della
ricchezza” così cara agli autonomi civilizzati di AC ![5]
Una
variante laica estrema dell’ideologia del Vaticano è rappresentata dalla
nebulosa gauchista non tradizionale. Qui, si ritrova tale e quale la sinistra
cristiana composta da alcuni autogestionari, da umanisti radicali e soprattutto
da ex-operaisti.
Persuasa dalla volontà di difendere gli esclusi di ogni
sorta, queste componenti politiche danno vita ad una specie di estrema sinistra
pluralista che scimmiotta i suoi referenti governativi. Se questi ultimi si
ritrovano nelle stanze della Repubblica, gli altri si incontrano nelle strade,
nelle chiese occupate, nelle occupazioni degli uffici dell’Assedic o nelle
case sfitte. Più simpatici perché più ‘popular’, queste frange della
sinistra pluralista restano comunque avversari dei proletari. Questa si propone
infatti di incanalare all’interno dei limiti del consenso democratico,
con forme ‘barricadere’ e per così dire ‘ di base’, i timidi
accenni di rivolta espressi dal proletariato. Il punto debole di questo
dispositivo consiste nella sua incapacità integrale nel riuscire a raggiungere
anche solo una delle sue molteplici rivendicazioni. Difendono gli immigrati? La
sinistra pluralista al potere ne regolarizza qualche decina di migliaia per
poterne meglio espellere centinaia di migliaia. Perseguono l’obbiettivo di un
alloggio per tutti? Il governo insabbia il progetto Juppé di riesumare delle
case-prigione per i più poveri. Chiedono la piena occupazione? Per tutta
risposta ottengono una maggiore legalizzazione delle forme di lavoro precario.
Pretendono un reddito decente per i poveri? Ottengono l’aumento di qualche
centinaio di franchi supplementari per singola persona. Spesso i proletari
accalappiati da queste persone pagano a caro prezzo l’irresponsabilità di
questi agitatori. Un esempio? I centinaia di migliaia di immigrati in una
situazione amministrativa irregolare che seguendo il loro suggerimento di
depositare dei dossier in prefettura si trovano oggi completamente esposti a la
caccia spietata delle forze di polizia.
Anche
sul piano della produzione ideologica, i gauchisti autoproclamati in
“movimento sociale” si rivelano modestamente indigenti. Tra coloro che
proclamano instancabilmente “i diritti dell’uomo”, coloro che fanno del
micro-sindacalismo con altri mezzi, coloro che spolverano l’ideologia
sessanttotarda e coloro che giocano la carta della “teologia della
liberazione”, non c’è veramente nulla di nuovo sotto il sole. Solo qualche
“italiano” ha portato una parvenza di idee originali in mezzo a questo
circolo di ideologhi perduti: il professor Toni Negri è il capofila indiscusso
di tale corrente di pensiero. Appoggiandosi all’assunto filosofico secondo il
quale ogni attività è ormai produttiva, constatando che ogni essere umano -
all’epoca della dominazione del lavoro intellettuale e della produzione di
beni immateriali - è dotato dello strumento di lavoro essenziale per una tale
epoca: il cervello[6] (e che nessuna persona può
sradigargli), il professore giunge alla conclusione che tutti coloro che
partecipano ipso facto a questa nuova “comunità biopolitica” devono
ricevere un salario garantito[7].
Ecco così “frantumato”, ma solamente nel cervello prolifico negli
incantesimi ideologici del professore, il “nesso tra la produzione di
ricchezza e il lavoro salariato” e, conseguentemente capovolto il rapporto di
causa tra lavoro e salario. Non è più il lavoro che giustifica il salario, ma
il semplice fatto di percepire un salario garantito a priori dallo Stato fondato
su “una democrazia radicale e assoluta” che rende il lavoro produttivo.
Per
vie traverse, la realizzazione dell’obbiettivo del “diritto di un
impiego”, indispensabile per i trotskisti e li stalinisti per accedere ad un
salario e alla “cittadinanza” esce dalla porta principale, perché, per
Negri, “di lavoro ce né è troppo”, perché tutti lavorano e contribuiscono
alla costruzione della ricchezza sociale. Partendo da una constatazione
pertinente - “i disoccupati lavorano (..) e contrariamente il lavoro è tanto
assistito quanto la disoccupazione”[8]
il
re veneto del paradosso ne deduce che se il salario è ancora in relazione di
dipendenza rispetto al lavoro propriamente detto, è a causa della volontà
dispotica delle classi dominati di “subordinare
l’attività
della produzione della richezza delle forme di controllo dell’impresa o dello
stato”(idem, p. 18). Questo è Ciò che giustifica ai suoi occhi la necessità
di una “transizione politica” - paragonabile a “ quella che ha portato
dall’ancien Régime alla rivoluzione” - facendo tabula rasa del
“capitalismo parassita”. Se la richiesta di un salario garantito sganciato
dall’impiego avvicina gli autonomi al solidarismo cristiano, non ci sono
rivendicazioni che non gli permettano di aspirare vantaggiosamente di inserirsi
all’interno della sinistra lavorista. Quest’altri fattori non sono meno
importanti che i loro punti di convergenza con il solidarismo cristiano.
Considerati globalmente, questi frammenti ideologici fanno degli ex-operaisti(allo
stesso titolo che i gauchisti “classici”) degli artefici di primo ordine
della ricongiunzione e della ricomposizione delle differenti componenti della
sinistra plularista al potere.
Dalla
parte delle classi dominanti la collera dei senza reddito, fino a che non si
esprime in modo indipendente e all’altezza della propria sofferenza, offre
spesso l’opportunità di riformulare “ a caldo” i termini
dell’oppressione.
E’
esattamente ciò che è successo in occasione delle recenti agitazioni. Grazie
alle briciole distribuite sotto forma di premio eccezionale
natalizio durante il momento culminante dell’ondata delle occupazioni
(un miliardo di franchi)- e di cui la distribuzione a livello individuale (dopo
la presentazione individuale di un dossier di richiesta di aiuti eccezionali)
continua a soppiatto a dosi ragionevoli - il governo francese è riuscito a
introdurre le leggi sull’occupazione giovanile e sull’esclusione in un
contesto sociale sensibile e attento a focalizzare l’attenzione di parti
imorptanti della società civile sul suo progetto di legge sulle 35 ore.
Conviene evocarne rapidamente le finalità ed i prevedibili risultati.
Questi
dispositivi legislativi mirano a tre obiettivi principali:
diminuire l’intensità dell’impatto della disoccupazione giovanile e di quella di lungo periodo sulla coesione della società civile.
Presente
alle due estremità temporali della vita lavorativa, misurandola sulla durata
totale del periodo “attivo“(al momento dell’inserimento dopo i corsi
scolastici e a partire dai 50-55 anni[9]),
questo tipo di disoccupazione sottrae al proletario ogni speranza di
miglioramento della sua condizione, La sensazione si radica dal momento in cui
si entra con crescenti difficoltà nei ranghi dei lavoratori e da quando termina
con un impoverimento e un espulsione precoce da questi stessi ranghi. Questa
percezione delle cose, ormai largamente condivisa dai proletari, affievolisce
notevolmente la fiducia nel modo di produzione dominante e nello stato. Così,
senza distorcere fondamentalmente le esigenze imperiose del mercato del lavoro,
sono numerosi i governi che, dovendo affrontare le conseguenze politiche
fortemente spiacevoli di un tale situazione ( disaffezzione elettorale, sfiducia
nelle istituzioni, rivolte, scioperi ecc..), si adoperano prioritariamente ad un
lavoro di cosmesi di questi tipi di disoccupazione. Tutta una gamma di misure
sono allora adottate: per i giovani, parcheggio nelle scuole (l’esame di
maturità per tutti) e nella formazione parascolastico (stage di tutti i
generi), diffusione degli impieghi non qualificati “atipici” (Contratti a
tempo determinato, lavori finanziati parzialmente o completamente da fondi
pubblici, part-time, stagionale,
orario ridotto, contratti week-end, stage remunerati, ecc), riduzione dei salari
di ingresso; per i disoccupati cronici, prepensionati parzialmente o totalmente,
apprendistati di lunga durata, lavori cosiddetti di pubblica utilità, accesso
pilotato e finanziato dalla stato agli impieghi “atipici”, poco prima ad
appannaggio quasi esclusivo dei giovani. Il risultato raggiunto consiste nel
disseminare l’illusione che tutte queste persone sono state strappate
dall’inferno della disoccupazione e, per questa ragione che “hanno ritrovato
la loro dignità” di sfruttati a tempo pieno.
Accresce la flessibilità del mercato del lavoro e ridurre il costo del lavoro non qualificato
I
padroni si lamentano senza sosta del costo della manodopera e chiedono dei
finanziamenti sempre più consistenti (fiscalizzazione dei salari +
defiscalizzazione dei carichi padronali).
Dal
loro lato, i governi si adoperano regolarmente nella formulazione di “
Cantieri sociali” per soddisfare le esigenze padronali, somministrando ai
proletari che sono al centro delle loro attenzioni dosi massicce di ideologia
per fargli ingoiare il boccone senza protestare. In questa attività la sinistra
giunta ai posti di comando dello Stato ha tradizionalmente sempre brillato. Oggi
questo assunto più valido che mai:
Con
la legge sull’occupazione giovanile, la sinistra inventa il lavoro a tempo
determinato di lunga durata (5 anni); i giovani proletari che accettano gli
impieghi a loro offerti vedono respinta almeno di 5 anni la loro vera
entrata nella condizione di lavoratori dipendenti classici. Sono impiegati
in mansioni dal contenuto professionale quasi nullo e con dei salari simili
allo SMIC.
Con
la legge sull’esclusione, il governo “pluralista” mira prima di tutto
a mettere i disoccupati alla merce del mercato del lavoro. Questo si traduce
in una serie di dispositivi di costrizione che portano all’obbligo per il
disoccupato di accettare qualsiasi lavoro a qualsiasi condizione.
Con
la legge sulle 35 ore, in cambio della promessa della creazione di circa
115000 posti di lavoro, la sinistra:
attacca
i “tempi morti” (introduzione della distinzione tra tempo di lavoro
effettivo e tempo di lavoro contrattuale)
imposizione
di un abbassamento generale della remunerazione degli straordinari,
giungendo fino ad un loro puro e semplice assorbimento nel tempo di lavoro
contrattato (estensione del lavoro atipico)
vancella
la categoria di SMIC orario e la divide (SMIC 35 ore e SMIC 39 ore)
fa
saltare il paletto della durata legale della giornata di lavoro (annualizzazione
della durata del lavoro, generalizzazione delle squadre di lavoratori wekend,
del lavoro notturno e stagionale), come la legge Robien emanata da un
governo di destra ( meno di 20mila posti di lavoro creati fino a qui)
incoraggia
ampliamente l’abbassamento del salario nominale “in cambio di lavori
conservati o creati” e in ogni caso proclama il blocco delle remunerazioni
per un periodo indefinito
Se
con queste misure il reale impatto del totale dei risparmi fatti dalle imprese
sui costi della manodopera non è ancora stato analiticamente valutato dagli
specialisti degli istituti di analisi e previsione economica, noi scommettiamo
che, in ogni modo i padroni saranno i soli ad averci
guadagnato.
Questo
punto è spesso sottostimato. Per questo si rileva di grande importanza. La
stagnazione dei salari reali, perfino il loro abbassamento per numerose
categorie di lavoratori - dopo l’ultima crisi ciclica francese degli anni 90,
l’espansione vertiginosa della disoccupazione congiunturale e di quella
tecnologica[10],
la proliferazione dei lavori precari e del lavoro nero (corrispondente
all’incirca al 10% del PIL, secondo le stime della Commissione Europea),
l’estensione del margine temporale di disponibilità al lavoro sulla giornata,
la settimana e l’anno (lavoro week-end, straordinario, lavoro stagionale, di
notte, ecc..) sono per tanto dei fenomeni che hanno una profonda influenza sul
morale dei proletari e li hanno resi palesemente più docili e rassegnati. Ma ai
lavoratori che hanno guadagnato un lavoro stabile “tradizionale” (neanche
troppo pagato) resta lo stesso e malgrado tutto la sensazione che la giungla si
ferma sulle porte del loro luogo di lavoro. Ciò sta per cambiare.
Il
governo Jospine è sul punto di riuscire nella non facile impresa di utilizzare
le innumerevoli debolezze di questa mini-rivolta di disoccupati per ridurre
ulteriormente per via legale le molteplici segmentazioni verticali e orizzontali
(tra le regioni geografiche, tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra i
mestieri, fra i livelli di salari, tra i sessi, e tra età e origini differenti
ecc.) che , dal punto di vista del capitale, sclerotizzano il mercato del
lavoro. Ma soprattutto, con il suo omologo britannico, è ben piazzato per
riuscire nel periglioso tour de force di fare in parte cadere la barriera che
esiste tra lavoro e disoccupazione. Ormai, grazie al governo, ciascun
disoccupato potrà essere impiegato a questo
titolo, ogni disoccupato potrà essere chiamato a contribuire attivamente
alla produzione di merci o alla riproduzione del rapporto sociale dominante (gli
ausiliari di polizia, gli aiuti sorveglianti della scuola ecc) senza per tanto
che la sua estrema vulnerabilità diminuisca e senza che le sue stigmati di
poverta. Parallelamente, ogni salariato miseria innanzitutto la breve distanza
che lo separa oggi giorno dalla disoccupazione.
I
militanti di base del sindacalismo prigionieri del sindacalismo e della
pedagogia dell’esempio
Se
un primo deve essere tratto dalla lotta dei disoccupati e dei precari, di cui
fanno parte a lato di tutte le briciole ottenute fino a qui (sospensioni del
taglio della corrente elettrica, buoni pasto, qualche centinaio di franchi
strappato a disoccupato, maggiore rispetto nella Assedic, fotocopie gratuite,
ecc..), l’incorporazione dei nuovi organi di rappresentanza dei disoccupati
(AC!, Apeis, Mncp, e il comitato CGT) nelle istanze ufficiali della negoziazione
tra le parti sociali con in prospettiva la partecipazione alla gestione dei
fondi speciali di assistenza-disoccupazione.
I
senza reddito in lotta sognano e si battono per un mondo senza povertà? La
traduzione concreta dei loro sogni si realizza nel lancio nell’orbita delle
istituzioni della democrazia sociale del capitale di una nuova generazione di
sindacalisti. La debolezza e la confusione che regnano nei movimenti attuali
sono per la maggior parte nella realizzazione di un obiettivo così illusorio,
ma questi due aspetti delle cose non spiegano tutto. Esiste anche una carenza
pressochè totale di espressione politica indipendente di questi movimenti.
Perciò,
come l’avevamo osservato durante gli ultimi movimenti di maggior spessore[11],
questo non si traduce in una assenza di elaborazione politica dei proletari più
impegnati. Come l’avevamo rilevato durante questi scioperi, anche
all’interno di alcuni comitati di disoccupati e precari la discussione
politica e animata. Il bisogno di traduzione politica delle idee prodotto e/o
verificate dalle agitazioni resta pressante. Pertanto la fiducia in se cade la
delega resta e l’espressione politica tarda a venire.
Il
sindacalismo ricopre così di una spessa rete di sbocchi falsamente realisti e
ragionevoli (rivendicazioni più negoziazioni) l’aspirazione dei proletari
giunti all’indipendenza e alla lotta politica ricoprano l’integrità della
condizione di sfruttato. Numerosi sono i proletari che considerano è un male
minore rispetto alla passività, la sottomissione o la rivolta romantica senza
esito. L’inibizione della qualità politica delle lotte procede quindi, noi ne
siamo convinti, dall’inseguimento di un “periodo cerniera
che si distende senza fine”. Periodo[12]che
impone ai comunisti di intervenire all’interno di questi movimenti brandendo
più che mai l’arma della critica del sindacalismo e allontanare questo dalle
lotte del proletariato. Gli operai hanno bisogno di sbocchi politici
rivoluzionari chiari, riconoscibili e organizzati.
La
critica del sindacalismo non deve però aprirsi su una litania ossessiva fatta
di esortazioni permanenti alla rivoluzione (parola tanto vuota quanto inoperante
nelle circostanze attuali), o, ancora peggio sulla negazione di tutte le
rivendicazioni particolari. Ciò che riguarda le nostre critiche non è la
ricerca di un miglioramento-sempre reversibile- della condizione di sfruttato ma
il sindacalismo che divide le battaglie difensive dalla prospettiva comunista
per integrarle in seguito nei molteplici dispositivi della democrazia sociale
del capitale. Il sindacalismo fa della lotta economica, inevitabile dal punto di
vista oggettivo dei rapporti tra chi vende e compra la forza lavoro, una scelta,
un orizzonte voluto e concepito come non superabile, sufficiente a lui stesso.
E’ la che deve essere combattuto. Le strutture proletarie indipendenti, quando
esistono, devono evitare la piaga della delega della lotta difensiva a degli
organi preposti o predisposti a questo fine per l’avversario. Non si è
verificato da nessuna parte che, perché la classe sfruttata in lotta possa
vincere, deve armarsi di una serie completa e gerarchicizzata di istituti,
ciascuno corrispondente della guerra sociale. L’ungo tutto il percorso della
storia del movimento operaio, si a avuto a che fare con tutti i tipi di
combinazioni possibili: dei partiti operai senza o con sindacati, dei sindacati
più o meno politicizzati con o senza un partito, dei consigli o delle milizie
con o senza un partito o un sindacato, ecc, e nessuna alchimia organizzativa a
dimostrato di essere una garanzia sufficiente per la vittoria. In compenso anche
quando i differenti campi di battaglia sui quali si decide del destino della
condizione operaia creano degli organi ad hoc la dinamica del movimento se non
è interrotta tende sempre alla loro unificazione alla loro fusione al servizio
della massima concentrazione delle forza proletarie disponibili, processo
necessario quando i confronti diventano decisivi.
E’
dunque alla comprensione di questa logica concreta che, da oggi noi
desidereremmo invitare gli operai avanzati.
Le
strutture proletarie indipendenti prodotte per la lotta delle classi devono
assumere e portare in prima linea la battaglia politica rivoluzionaria legandola
alla sua base materiale: la battaglia quotidiana per la difesa degli interessi
“economici” dei proletari.
E’
solamente quando un tessuto sufficientemente solido esteso e rappresentativo di
organi di questa natura avrà fatto la sua apparizione che noi avremmo accesso
alle chiavi della soluzione pratica della questione della formazione
dell’organizzazione politica indipendente del proletariato. Da qui a la,
conviene concentrare tutte le nostre forze disponibili sul terreno della
costituzione di una rete di comitati politici operai. Rinviare a tempi migliori,
dove i conflitti di classe saranno più forieri di comunismo, l’avviamento del
processo di auto-costituzione politica del proletariato, significa rinunciarci
per quanto riguarda l’oggi. A questo proposito nulla sarà più nefasto che di
considerare che noi potremmo
avviare la fase della battaglia politica solamente una volta completata quella
della lotta economica. Questo contribuirebbe a sostenere l’idea che la lotta
politica rivoluzionaria è indipendente dai rapporti di produzione e dalle
tensioni che li attraversano.
Inoltre, la proliferazione di un sindacalismo più o meno
“alternativo” non costituirà, in alcun modo, una tappa in questo processo.
Questa ultima rappresenta, al contrario, un ostacalo maggiore sul cammino ripido
che è stato indicato. Oggi, una tale coscienza delle cose è tristemente troppo
raramente condivisa dagli elementi più radicalizzati tra il proletariato. In
questi tempi, sono numerosi coloro che tra questi preferiscono ridurre la loro
azione al sindacalismo cosiddetto alternativo; trovarsi uno spazio dentro la
gabbia sindacale e impiegando tutte le loro forze nella proliferazione di azioni
ultra-minoritarie, di propaganda, avendo il fine di “sensibilizzare” i
fratelli di classe per spingerli nella lotta. Alle false scappatoie sindacali si
aggiungono le fragili valvole di sfogo espresse in modo offensivo ed effimero da
delle azioni con poche persone condotte da qualcuno in nome di qualcuno che
pretende di rappresentarli. E sperando che i media li daranno spazio... La
passività politica del ripiegamento sul sindacalismo si sposa con la protesta
dell’Italia e l’avanguardismo peggiore anche se si riduce a una imitazione
grottesca, a una caricatura della lotta di classe. Il tutto accompagnato da una
palese ignoranza del terreno e dei rapporti di forza reali. Le agitazioni dei
senza reddito ne hanno fornito un nuovo esempio a grandezza naturale
[1] Christophe Aguiton e Daniel Bensaid la retour de la question sociale,pp.21 e 22, Edition Page deux, 1997
[2] Secondo il professore trostskista Ben Said e il sindacalista amministratore di France Télécom Aguiton, la rivendicazione di un “diritto ad un reddito incondizionato e universale” porterebbe: “(...) 1°) a giustificare la rinuncia alla lotta per il diritto all’occupazione ( alla piena occupazione) ed alla riduzione massiccia del tempo di lavoro (...) 2°) a far saltare il paletto dello Smic salariando un’esclusione istituzionalizzata e costituisce paradossalmente allo stesso tempo una macchina da guerra contro il sistema della produzione sociale (...)” (Christophe Aguiton e Daniel Bensaid Le retour de la question sociale). Non considerando l’evidente mala fede, degna della peggiore pratica stalinista, di cui i due complici dell’LCR danno prova per demonizzare l’avversario, scaturisce da questi pochi enunciati che condividono con i loro nuovi amici del PCF gli obbiettivi della piena occupazione e della riduzione del tempo di lavoro, della difesa dello Smic e dei meccanismi di protezione sociale. Questo non assomiglia più al Programma di transizione ma dovrà aiutarli un giorno ad ottenere la tessera del Partito... Ostentando delle posizioni di una tale “audacia” anche il loro vecchio compagno Henri Weber, oggi senatore divenuto portaborse di Laurent Fabius, può loro ricordare che “sono in realtà divenuti dei riformisti di sinistra, appena più radicali di Jiulian Drey, Jean-Luc Mélechon o dell’ispettore del Lavoro Gérard Filoshe”. (Cfr. Le monde des livres del 2 maggio 1998)
[3] Toni Negri Exil op. cit.
[4] Al centro del dispositivo cristiano sociale è posta la famiglia, alla quale il lavoro viene subordinato affinché questa possa agire efficacemente da struttura portante dell’educazione di un credente. Accessoriamente il lavoro è anche il campo di verifica e di applicazione dell’educazione impartita dalla famiglia cattolica. “Il lavoro è, in un cero modo, la condizione che rende possibile la formazione di una famiglia, perché questa esige mezzi di sussistenza che l’uomo acquisisce normalmente attraverso il lavoro. Il lavoro e l’ardore al lavoro condizionano anche tutto il processo di educazione all’interno della famiglia, precisamente perché ciascuno “diviene uomo”, inoltre, attraverso il lavoro, e ciò che fa divenire uomo esprime giustamente il fine principale di tutto il processo educativo. E’ così che entrano in gioco, in un certo senso, due aspetti del lavoro: quello che assicura la vita e la sussistenza della famiglia, e quello per il quale si realizzano i fini della famiglia, soprattutto dell’educazione. Nondimeno questi due aspetti del lavoro sono uniti tra loro e si completano a vicenda.” (lettera enciclica Laborem exercens, Giovanni Paolo II, 14 settembre 1981)
[5] “Nel momento in cui l’offensiva liberale sostenuta in tutta Europa dal trattato di Maastricht e di Amsterdam, le lotte dei disoccupati e delle disoccupate si sviluppano, e portano con vigore la richiesta di una ridistribuzione delle ricchezze”(Piattaforma rivendicativa adottata dalla Seconda assise europea contro la disoccupazione e le esclusioni - Bruxelles, 18 e 19 aprile 1998)
[6] “Il lavoratore, al giorno d’oggi, non ha più bisogno di strumenti di lavoro (cioè di capitale fisso) che siano messi a disposizione del capitale. (...) il capitale fisso più importante, quello che determina i differenziali di produttività, si trova ormai nel cervello di coloro che lavorano: è la macchina-strumento che ciascuno di noi porta con sé (...) La macchina-strumento è stata strappata dal capitale all’operaio, affinché questa lo segua durante tutta la sua esistenza, che l’operaio ha incorporato questa forza produttiva all’interno del suo stesso cervello” (Toni Negri Exil op. cit.)
[7] “Il salario garantito è la condizione di riproduzione di una società nella quale gli uomini, grazie alla loro libertà, diventano produttivi” (Toni Negri Exil op. cit.)
[8] Toni Negri Exil p. 19, Editions Mille et une nuit, 1998
[9] In Francia, nel 1955 la metà dei giovani tra i 15 e i 25 anni erano disoccupati, tra gli occupati, il 20% svolgevano un lavoro “atipico” e il 16% erano occupati part-time. Nel 1997, circa il 35% delle persone tra i 50 e i 59 anni non esercitano più alcuna attività professionale, e quasi la metà delle persone tra i 55-59 anni si trovano in questa situazione.
[10] Dietro questo”concetto” molto alla moda si nascondono due dati di fatto. Da una parte in Francia, la produttività del lavoro è progredita molto di più che il mercato interno a differenza dei suoi compagni stranieri, i grandi gruppi francesi hanno rinforzatola loro internazionalizzazione e hanno impiantato delle nuove unità di produzione la dove i mercati si sviluppano a dei ritmi più rapidi rispetto a quelli dell’europa occidentale. In compenso, la peristente anemia del mercato interno molto meno assistito di prima dalle commesse statali (dal 1993 in Francia la parte della spesa pubblica sul PIL ha iniziato un lento movimento di diminuzione; nel 1997 si è stabilizzato al 54,7% del PIL, contro il 55,2% del 1996), li gli investimenti realizzati in Francia sono soprattutto mirati alla razionalizzazione e alla modernizzazione dell’apparato produttivo esistente che all’aumento delle capacità di produzione. D’altra parte, la meccanizzazione della gran parte del lavoro intellettuale e l’automazione accresciuta del lavoro manuale ottenute grazie all’introduzione massiccia dei nuovi strumenti elettronici, (informatica, telecomunicazioni), a definitivamente eliminato molti mestieri (come le dattilografe, i contabili, ecc..) e scartato dal mondo del lavoro degli interi settori della manodopera relativi a questa trasformazione. Oggi 40.000 posti di segretaria o di impiegati amministrativi scompaiono ogni anno. Risultato: in Francia tra il 1990 e il 1997, dopo un recente studio del direzione degli studi del ministero francese del lavoro, il lavoro è restato pressoché stabile (+0,1%). Solo i servizi a bassa composizione tecnica di capitale hanno aumentato i loro effettivi tra il 1990 e il 1997 (+8%). Mentre i posti di lavoro nell’industria e nell’edilizia sono diminuiti durante lo stesso periodo rispettivamente del 13,5% e del 17%. Il numero degli operai non qualificati di questi due settori si è abbassato in media di più che nei settori indicati. Così con il 23,6%, il tasso di disoccupazione degli operai non qualificati rappresenta quasi il doppio di quello della popolazione attiva
[11] In Francia e in Belgio: gli scioperi dei ferrovieri del 1986, gli operai della Peugeot-Sochaux nell’ottobre del 1989, gli operai della Renault-Cléon alla fine del 1991, le lotte degli operai belgi contro il Plan global dell’autunno 1993 e quello dei lavoratori dell’Air France nell’ottobre dello stesso anno, lo sciopero degli operia Gec-Alsthom di Belfort et Bourogne nel novembre-dicembre 1994, gli scioperi degli operai nella primavera del 1995 e quelli della funzione pubblica del novebre-dicembre dello stesso anno, i lunghi conflitti della Renault-Vilvoorde e delle Forges de Clabecq nel 1997)
[12] In Francia il 1997 è stato contrassegnato dal numero di ore annuali non lavorate a causa di scioperi il più basso dal 1935