i
non/luoghi della repressione...
N° 2. IL CARCERE
NEL CARCERE: I C.D.T.
N° 3. OSPEDALE PSICHIATRICO
GIUDIZIARIO
Diffusione capillare sul
territorio, crescita esponenziale del controllo sociale "a misura
d'uomo": questo e' il meccanismo con cui le istituzioni totali continuano,
oggi, ad esercitare il loro potere invasivo che non ammette repliche.
Le riforme e le leggi che si sono
susseguite negli anni, per tentare di rendere più umane strutture detentive
come il carcere e il manicomio, non hanno, infatti, minimamente scalfito il loro
carattere repressivo e totalitario. Sia la legge 180 (legge Basaglia) relativa
alla chiusura dei manicomi, che la legge Gozzini dell'86 sul carcere, solo in un
primo momento sono sembrate capaci di apportare mutamenti significativi in senso
democratico e di estensione dei diritti. In realtà entrambe hanno aperto la
strada alla creazione di luoghi alternativi in cui la coercizione e il sopruso
si mascherano dietro termini più rassicuranti come trattamenti e terapie. La
creazione di servizi territoriali decisa dalla 180 (centri di salute mentale,
case famiglie ecc..) e i vari regimi di detenzione attenuata come la semilibertà
e l'affidamento ai servizi sociali, non sono in realtà una vera e propria
alternativa all'istituzione totale (carcere e manicomi).
Al contrario tali innovazioni non servono ad altro che a potenziare e ad
allargare, al di là delle mura di questi ghetti, le funzioni punitive e
detentive dell'istituzione stessa. Il principio di esclusione arriva ovunque, in
ogni ambito della quotidianità ed è affidato a strutture sociali il cui
compito si riduce sempre più al controllo e al contenimento.
Ma la continuità tra psichiatria
e carcere non si esaurisce qui: entrambe fondano i loro giudizi e le loro
decisioni sull'imperativo sorvegliare-punire-premiare e sulla più completa
arbitrarietà con cui si stabilisce chi è conforme e quindi "libero"
e chi, invece, rifiuta di "normalizzarsi" e, dunque, va rinchiuso.
E non e' tutto! Con le nuove
proposte di legge in materia psichiatrica elaborate dell'attuale governo di
centro-destra la situazione si avvia verso un sostanziale peggioramento: per
quanto riguarda i T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio) si eliminano le,
seppur formali, garanzie che permettevano di limitare, per quanto possibile, lo
strapotere degli psichiatri.
Si torna a parlare di cronicità
della malattia per giustificare l'inevitabilità di trattamenti e cure che
durano tutta la vita, ma soprattutto si riaprono i manicomi attraverso nuove
strutture, dette S.R.A. (Strutture
Residenziali ad Assistenza continuata), che ripropongono i modi e i criteri dei
vecchi istituti di contenzione. Queste nuove istituzioni, inoltre,
"ospiteranno" non solo pazienti psichiatrizzati, ma anche ex detenuti
degli O.P.G (Ospedali Psichiatrici Giudiziari), oltre che alcolisti e
tossicodipendenti, ai quali si applicherà la famosa "doppia
diagnosi". Tossici e alcolisti si
drogano e bevono semplicemente perchè "malati di mente": ogni
motivazione sociale o interpersonale viene completamente cancellata. E questa
colpa individuale giustifica sempre più il fatto che essi vengano considerati
non solo malati ma anche criminali, la cui presa in carico non viene più
gestita dal sociale ma dalle forze dell'ordine. Ci sembra necessario mettere in discussione le pratiche di
esclusione e reclusione indirizzate a tutti quelli che non accettano il sistema
di valori imposto dalla società capitalistica. Ci sembra necessario rompere il
silenzio che permette il perpetuarsi della brutalità di tutte le istituzioni
totali.
NON/LUOGHI
Una breve e parziale riflessione
sul carcere diventa necessaria, come collettivo antipsichiatrico per l'evidente
continuità che lega carcere e psichiatria, galere e manicomi vecchi e nuovi,
per la sempre più forte ed evidente adozione di criteri repressivi e punitivi
nella gestione di problematiche sociali, quali la tossicodipendenza e la così
detta "malattia mentale".
Problematiche queste che come per
la commissione di crimini non si danno spiegazioni se non quella della colpa
individuale, a cui si può rimediare solo attraverso la punizione, alle quali si
fa fronte solo mediante una sorta di redenzione, e quando non è possibile,
tramite l'esclusione completa dell'individuo dalla società e da se stesso.
Istituzione psichiatrica e
istituzione carceraria hanno per noi la stessa valenza, lo stesso potere, lo
stesso fine, cioè quello di annientare qualsiasi forma di dissenso, qualsiasi
tentativo di esprimere un mondo altro, un'alternativa rispetto alle gabbie
omologanti di cui tutti, ovunque e sempre possiamo rimanere vittime.
Trattando le nuove proposte di
legge in materia psichiatrica e relative alla tossicodipendenza, è apparso
evidente il tentativo del centro-destra di improntare le sua politiche a-sociali
sui principi della 'tolleranza zero' e sulla sempre maggiore criminalizzazione
di particolari gruppi o individui.
Del carcere non si parla mai.
Anzi, se ne tace molto volentieri, così come da sempre accade per tutte le
istituzioni totali, cioè quei non/luoghi di cui il potere si serve per
allontanare tutti coloro che rappresentano un cattivo esempio per gli altri
membri della società e che rappresentano un pericolo per la sopravvivenza del
sistema stesso. Parlandone, o facendo
luce su quello che veramente è il carcere e come si vive al suo interno,
potrebbe infatti svelare la tremenda violenza quotidiana su cui le democrazie si
reggono, potrebbe farci capire i paradossi di questa società, potrebbe mettere
in evidenza che nel carcere vigono gli stessi principi di controllo e
repressione che regolano la vita degli individui in 'apparente' stato di libertà.
Anche per noi, come per tutti
coloro che in carcere non ci sono mai stati, non è facile affrontare il
discorso, perché riteniamo che solo chi ha vissuto all'interno di una
istituzione che fonda la sua ragione d'essere sulla totale e a volte definitiva
privazione della libertà, posso capire che cosa significhi la segregazione, la
chiusura, l'espulsione forzata dal sociale e quindi la marginalizzazione.
E come noi neppure i così detti
operatori carcerari, i tecnici del diritto, i sociologi, e la stessa custodia,
non conoscono in realtà il carcere perché non hanno mai vissuto la privazione
anche di quei feticci di libertà che il potere ci concede come tranquillante
sociale.
Nostra volontà non è quella
trovare alternative che possano migliorare la vita dei detenuti all'interno del
carcere né di analizzare il sistema carcerario o le leggi e i regolamenti che
normano il suo funzionamento per chiedere leggi più umane, vista l'arbitrarietà
totale di valutazione sul comportamento del recluso che in carcere viene prima
di qualsiasi codice legislativo. Nonostante questo, dato che di carcere si
muore, riteniamo giusto prestare attenzione alle modifiche in atto all'interno
dell'istituzione carceraria.
La direzione che va prendendo il
sistema penitenziario si orienta su due livelli: il primo livello, consiste
nella sua funzione classica, quella di contenimento di tutta quella fascia,
sempre più numerosa, di persone che rimane strozzata dagli squilibri che questo
sistema economico produce. Un esempio lampante dell'inasprimento di questa
funzione è l'istituzione di lager per immigrati, dove si viene rinchiusi senza
aver commesso alcun reato, ma semplicemente per il fatto di essere sprovvisti
del permesso di soggiorno o più semplicemente per essere nati nel posto
sbagliato... Il secondo livello
concerne, invece, la progressiva conversione della struttura carceraria alle
regole del mercato globale. L'obiettivo è quello di rendere la galera sempre più
produttiva e redditizia, affiancando al carcere pubblico altre strutture
private, gestite da e come aziende, all'interno delle quali sfruttare il lavoro
a costo zero dei detenuti, che pagano così oltre che con la reclusione, la loro
prigionia.
Come per i manicomi, siamo
convinti che non esista nessuno modo per riformare il carcere e nessun'altra
istituzione chiusa basata su principi brutali e inumani come la segregazione e
la separazione. Quella che gli individui vivono all'interno delle galere, dei
manicomi civili e giudiziari, dei reparti psichiatrici, ecc., è una
non-esistenza, una condizione inumana che niente può giustificare.
Non vogliamo criticare a priori il
lavoro di tutti coloro che quotidianamente lavorano nel carcere cercando così
di alleviare ai detenuti e agli internati la sofferenza che deriva da questa
loro condizione, ma vogliamo però sottolineare la parzialità di questo tipo di
intervento, che finisce per trasformare gli operatori sociali o i volontari
animati da buoni propositi, in conniventi del sistema carcerario stesso.
Questo accade ad esempio, per le pene attenuate (previste dai regolamenti
o dalla legge Gozzini che dall'86 determina il funzionamento delle patrie
galere), come la semilibertà o l'affidamento ai servizi sociali, che finiscono
per trasformarsi da misure alternative a misure che si affiancano alla
reclusione vera e propria, portando così in altri ambiti i principi e i
meccanismi su cui si basa il carcere stesso.
I compiti di educatori e
assistenti sociali sono sempre più simili a quelli dei secondini: vigilare
sulla condotta dei detenuti, sul rispetto delle regole che altri hanno definito
per loro, sull'esatto svolgimento del trattamento. Il tanto paventato
reinserimento si realizza solo se gli individui pentiti dei loro gesti,
dell'oltraggio compiuto verso le indiscutibili regole imposte dalla società,
mettono da parte se stessi, il loro libero arbitrio, la loro capacità critica
per omologarsi ed accettare senza replica il sistema di valori imposto dalla
società capitalistica. Muovere una
critica al carcere deve significare una messa in discussione della società
tutta, dei suoi valori, dei suoi principi, dei suoi rapporti di potere.
Significa comprendere che il crimine è arbitrariamente creato dalle stesse
persone che poi lo puniscono, che sono poi le stesse che creano quelle
disuguaglianze e quelle ingiustizie che conducono una sempre più ampia fascia
di popolazione a compiere certi atti. Il
carcere sarà riformato solo quando esisterà un sistema, una società che
liberi dalla necessità del carcere, che liberi dal carcere tutti e tutte.
Per questo, parlando di carcere il nostro obiettivo è quello di mettere
in luce come galera e società non siano poi molto diverse l'una dall'altra, ma
che al contrario, il sistema penitenziario nel suo insieme e i meccanismi che lo
regolano non sono altro che lo specchio e il riflesso della società in cui da
pseudo liberi viviamo.
Certo che vivere reclusi non è
come stare fuori. Ma altrettanto certo è che questo fuori non è poi così
diverso dal dentro. Qui infatti si ricreano e si radicalizzano inevitabilmente i
processi che regolano l'intera società. Come
la società capitalistica, il carcere non è una struttura egualitaria, e come
la prima funziona sul principio di premio/punizione in base al quale solo chi
accetta passivamente regole, imposizioni, tempi e valori potrà godere di
diritti e privilegi, preclusi invece a chi osa esprimere il proprio dissenso, il
proprio senso di ingiustizia e di sopraffazione. Per questi ultimi non resta che
l'allontanamento dalla società, un'esclusione che se non si compie direttamente
attraverso il carcere si realizza mediante altri espedienti più o meno subdoli.
Se non è possibile definirci criminali, diventeremo malati di mente, disagiati,
folli, fanatici... comunque diversi e pericolosi, comunque etichettati e in
qualche modo punibili e puniti. La macchina del controllo che dentro alla prigione si concretizza
nell'incessante presenza del secondino e nella porta chiusa a chiave, è
onnipresente anche all'esterno, non solo attraverso le forze dell'ordine, la
militarizzazione degli spazi urbani, ma anche mediante altri strumenti
invisibili e spesso irriconoscibili, ma capillarmente diffusi.
Il carcere è ovunque, negli occhi delle telecamere che ci controllano
qualsiasi cosa facciamo, nella possibilità di ascoltare tutte le nostre
conversazioni telefoniche o telematiche, ma anche nel consumo passivo di merci,
nell'alienazione del lavoro, nel bombardamento mediatico.
Il carcere è ovunque perché scopo del potere è comunque quello di
limitare gli spazi di libertà e dell'espressione della propria individualità,
a favore di una sempre omologazione capace di cancellare l'alterità.
Le società complesse dell'era della globalizzazione sono sempre più
improntate su questi meccanismi di controllo e di repressione dei quali è
opportuno prendere coscienza, dei quali è essenziale scoprire il vero volto.
Le telecamere non servono alla sicurezza dei cittadini, gli psichiatri
non aiutano i malati, le galere non servono a riabilitare egli individui che
hanno commesso degli errori.
Tutte queste istituzioni, che
sempre più persone oggi subiscono, sono funzionali solo ed esclusivamente a
proteggere interessi di poteri alti, a difendere i loschi affari di chi si
arricchisce sulla pelle degli altri, dei più deboli, degli stati più poveri.
Sono funzionali all'eliminazione di qualsiasi tipo di conflitto che possa in
qualche modo scalfire questo stato di cose, alla socializzazione di idee di
cambiamento radicale che conduca alla fine di questo sistema basato sul sopruso.
ALCUNI DATI GENERALI SULLE
CARCERI ITALIANE
NUMERO DELLE CARCERI SUL
TERRITORIO ITALIANO: 200
CAPACITA' TOTALE: 35.000 POSTI
50.000 DETENUTI/E:
47.000 UOMINI
3.000 DONNE
13.000 IMMIGRATI
15.000 TOSSICODIPENDENTI
4.000 SOFFERENTI DI 'TURBE
PSICHICHE'
2.500 SIEROPOSITIVI
(in media però ogni carcere
contiene il doppio dei detenuti rispetto alla sua capienza effettiva)
NON/LUOGHI
N° 2. IL CARCERE NEL
CARCERE: I C.D.T.
Se non c'è niente di più brutale
e irrispettoso della dignità umana di una istituzione come il carcere, è vero
anche che non c'è limite al peggio. C'è chi, infatti, all'interno delle
prigioni subisce una segregazione e una ancora più drastica riduzione della
propria libertà e della propria individualità. Questi sono i così detti
malati di mente, semi infermi di mente totali e parziali, o che dir si voglia,
persone che una volta in carcere subiscono un trattamento ancora peggiore degli
altri perché sottoposti a una doppia pena, quella della privazione della libertà
e quella dell'intervento psichiatrico.
Chiusi all'interno di reparti
separati, i detenuti psichiatrizzati vedono i loro già logori diritti ridursi
ancora più drasticamente, vedono la loro dignità di essere umani calpestata
definitivamente: i loro colloqui sono ridotti rispetto a quelli degli altri
detenuti, la loro corrispondenza e le loro telefonate sono costantemente
sottoposte a controlli. Non solo
criminali ma anche folli, incapaci di intendere e di volere, non-persone a cui
non vale neanche la pena riconoscere un benché minimo diritto, a cui non si
riconosce nessuna sensatezza, di cui non si può e non ci si deve minimamente
fidare.
Ovviamente come il carcere
peggiora per intervento della psichiatria, lo stesso vale per la psichiatria
stessa, che all'interno di tale contesto mostra tutto il suo carattere
repressivo e coercitivo, nascondendolo però dietro la maschera della terapia e
della riabilitazione. Non a caso la
psichiatria è nata in carcere, prima del XIX secolo, da un accordo tra potere
ecclesiastico, medico e giuridico di cui la psichiatria somma in se tutti gli
aspetti più aberranti e repressivi. I
Centri Diagnostici e Terapeutici, cioè i reparti psichiatrici interni alle
prigioni sono poi tristemente noti per gli elevati numeri di suicidi che al loro
interno si sono compiuti. Negli ultimi mesi, nel C.D.T. del carcere di Marassi,
a Genova, tre detenuti si sono suicidati perché probabilmente incapaci di
sopravvivere in quest'inferno che alle sbarre fisiche della cella unisce quelle
mentali degli psicofarmaci, dei trattamenti, e delle violenze che questa falsa
scienza impone per riconvertire gli individui ai dictat che la società impone.
Non c'è luogo come il carcere in
cui la somministrazione di droghe sempre nuove sia sperimentata da psichiatri su
persone ridotte allo stato di cavie vere e proprie. L'uso di contenimenti
chimici sono costituiti essenzialmente da sostanze psicotrope come
antidepressivi, sedativi e tranquillanti spesso con potere ipnotico, che
funzionano come nuove e invisibili camice di forza.
Facendoli passare come 'cure' il potere psichiatrico e giudiziario
riescono così a raggiungere il loro scopo fondamentale, cioè la modificazione
del comportamento e la sua omologazione in base a schemi prestabiliti e
socialmente accettati.
E l'obiettivo di questi
trattamenti diventa evidente se si fa riferimento ad alcune in particolare delle
droghe somministrate ai detenuti 'trattati', come l'Acnetine, (un derivato del
curaro), che producendo paura e panico è utilizzata in terapie di avversione al
sistema dominante..
Riportiamo un'intervista ad un
ex-detenuto nel carcere fiorentino di Sollicciano, dove, come molti, ha subito
la doppia condanna al carcere e alla psichiatria.
Come avviene il passaggio
dalla sezione in infermeria?
Premettiamo una cosa: Sollicciano
è composto da 13 sezioni separate fra di loro, delle quali 8 stanno al
giudiziario, le altre 5 al penale. Poi c'è l'infermeria centrale, che altro non
è che un centro clinico, semplicemente più carente di mezzi dei normali centri
clinici. Il fatto che si chiami infermeria centrale serve alla direzione del
penitenziario per giustificare le carenze strutturali. Esistono diversi modi per
passare da una normale sezione all'infermeria centrale: puoi farti male ad un
piede e vieni portato lì, più generalmente viene utilizzata come reparto
psichiatrico, tant'è che i lungodegenti, di media, sono sempre pochissimi
rispetto agli altri che sono considerati pazienti psichiatrici.
Io vi posso raccontare come ho
fatto a finire in questo posto. Quando
fui arrestato bevevo parecchio e fui portato nella prima sezione, che è quella
dei tossicodipendenti, causa mancanza di spazio. Precedentemente avevo passato
la visita generale dal medico di guardia; le raccontai che bevevo e lei mi
prescrisse 7 milligrammi di Alcover, una specie di placebo.
Mi presi questi 7 milligrammi e andai in sezione. Mi iniziarono a tremare
le mani, mi sentii male e svenni in cella, rompendomi il naso. Cadendo da
seduto, andai a sbattere. Mi risvegliai in ospedale, a Ponte a Niccheri (forse,
ero troppo confuso, non ricordo), sono stato a lungo incosciente.
Lì mi hanno fatto una serie di
analisi e poi mi hanno rimandato in carcere, ma appena arrivato la dottoressa mi
disse che dovevo ritornare al centro clinico, perché non si riusciva a capire
se la causa fosse l'astinenza dall'alcool o altro. Arrivato, mi chiamò il dott.
Iannucci perchè pensavano che questo svenimento potesse essere stato causato da
una qualche sindrome psichiatrica. E lì, sono rimasto per tre anni e non mi
hanno più mollato. Iannucci, dopo un pò
mi consigliò di prendere qualcosa per l'umore e mi prescrisse il Prozac, uno di
mattina e uno di sera. Ma il Prozac, non ti lascia dormire, così mi dette anche
il Tavor da prendere la sera (30 gocce).
Io sono sempre stato convinto di
non aver mai avuto bisogno del Prozac e, conseguentemente del Tavor. Stavo bene,
a parte qualche attacco di panico ogni tanto e un pò di disturbi al campo
visivo. Poi mi fu "aggiustata" la terapia di nuovo con l'Alcover. Il
problema però era che questi Prozac che prendevo, mi facevano l'effetto di
anfetamine, mi rendevano schizzato.. Avevo
quasi disimparato a parlare, nel senso che parlavo così veloce, che le labbra
non seguivano la mente. Questo processo mi separava dalle persone, che non
riuscivano a seguire i miei passaggi logici e, automaticamente, ciò diventò
diagnosi.
Dopo un po' smisi la
"cura" di Prozac, ma con il Tavor, non ci sono riuscito, perché la
dipendenza fisica che mi dava era troppo forte..
Malessere fisico, allucinazioni.. come una crisi d'astinenza da oppiacei.
Poi cambiò qualcosa e nel reparto non lo passavano più: e me lo dovevo
comprare con i miei soldi e, chiaramente, non l'ho acquistato.
Ogni volta che chiedevo di tornare in sezione non mi ci mandavano perchè
dicevano che c'era il vino e tutta una serie di cose che poteva nuocermi. Sono riuscito ad uscire da questa situazione perchè una
volta andai da una dottoressa e le chiesi di aiutarmi ad uscire dalle grinfie di
questi signori.
Fece in modo di non farmi parlare
più con Iannucci.
Com'è la quotidianità in
un reparto psichiatrico del carcere?
Non si può cucinare perchè
fornelli e bombole sono ritenuti pericolosi. Ti svegli, prendi la terapia e ti
riaddormenti subito, poi scendi a passeggio un'ora. Sempre di mattina, ci sono
le visite mediche; il pranzo e' alle 11-11,30 e non è previsto nessun vitto
speciale, né diete mediche specifiche, esclusi rarissimi casi di diabete, perchè
l'amministrazione penitenziaria risparmia sulla salute dei detenuti.
C'è un'altra ora e mezzo di
pomeriggio e poi niente, televisione, solo quella. Sei degente, non puoi
lavorare, non puoi andare a scuola, non puoi fare niente, tranne quella volta
ogni sei mesi in cui organizzano uno spettacolino.
Ho saputo che i detenuti in
un reparto psichiatrico del carcere non possono lavorare all'interno, è vero?
Macchè, è una bugia grossa come
una casa: ad esempio sono stato utilizzato come operatore di computer a scuola,
un'altra volta ho fatto un corso di disegno per extracomunitari con
un'insegnante che poi e' stata buttata fuori perchè era troppo brava coi
detenuti. Poi ho fatto teatro perchè serviva un'altra persona a recitare nel
gruppo, però quando c'era lo spettacolo, io non potevo andare.
Sei addormentato dalla mattina
alla sera, la giornata è scandita dai tre turni di terapia.
E la terapia e' uguale per
tutti?
No, per esempio, l'Aspirina non c'è,
per il mal di testa non si trova niente, ma di psicofarmaci, ne trovi quanti ne
vuoi: Minias, Tavor, Valium, Prozac, etc.. Poi ci sono i farmaci a lungo
assorbimento. Se Iannucci decide che tu ne hai bisogno, ti portano a Montelupo (O.P.G),
dove ti fanno una prima iniezione di questa roba.
Come funziona il passaggio
clinico a Montelupo?
Iannucci decide e tu parti. Ci
sono delle cose che nel reparto non possono fare, come il dosaggio di questi
farmaci a lungo assorbimento, praticato solo a Montelupo. L'infermeria di
Sollicciano non è che la dependance di Montelupo. Tanto per spiegare: un
ragazzo, ritenuto dal giudice, incapace di intendere e di volere è stato
mandato a Montelupo per essere curato. Altri perchè ha dato in escandescenza o
perchè ha un tipo di comportamento che non rientra nei loro canoni. Ad esempio
un ragazzo nigeriano che aveva serie preoccupazioni per la sua famiglia,
ovviamente ha iniziato a stare male, ma non riusciva a spiegarlo, parlando solo
inglese. Non sopportando più le derisioni di tutti e l'isolamento che viveva è
"sbroccato", si è spogliato nudo ed ha iniziato a prendere a morsi
tutti. È stato mandato direttamente a Montelupo. Inizialmente, la degenza a
Montelupo dura una quarantina di giorni.
Iannucci e i suoi collaboratori
mandano continuamente avanti e indietro, da Sollicciano a Montelupo, i detenuti.
Lui si occupa solo di urgenze, così, anzichè prendere 30.000 lire a visita, ne
prende 150.000 perché è una urgenza.
E le visite, come
funzionano?
Niente, ti chiamano, vai là e ti
chiedono come stai. Tu gli rispondi, "bene" e loro scrivono che sei
agitato, che non hai ancora accettato la tua malattia, il tuo disagio e ti
ridanno la terapia.
Quando hanno tempo da perdere,
parlano solo loro e ti raccontano aneddoti sui pazienti, non gli interessa
sapere come stai perchè tu sei 70-100.000 lire a settimana. Chiesi le fotocopie
delle mie cartelle cliniche e c'era scritto sempre che ero agitato e che avevo
bisogno di cure, non riuscivo a capire perchè non riuscivo ad andarmene, è
puramente una questione economica.
Poi c'è un'altra cosa, che il
carcere è invivibile, e non stanno tanto bene neppure i secondini, che se la
rifanno con i detenuti che stanno in una situazione ancora peggiore. Tutto
questo, porta tutti a desiderare di dormire, di estraniarsi il più possibile da
questa situazione. Gli psicofarmaci sono l'unico modo per il potere di gestire
il carcere. Su circa 1.050 detenuti, 800 prendono psicofarmaci. Esiste anche un
pronto soccorso psichiatrico a Sollicciano, gestito da uno psichiatra di turno.
Ormai fuori posso parlare male degli psicofarmaci, ma se facessi questo
discorso davanti ai miei ex-colleghi detenuti litigherei con tutti, perchè
togliere queste sostanze a chi si vive l'orrore del carcere significa togliergli
il sonno, gli unici momenti di incoscienza, di stordimento in cui rifugiarsi.
Gli psicofarmaci sono la droga ufficiale di Sollicciano.
E il pronto soccorso
psichiatrico, come funziona?
Non funziona! se hai una crisi lo
psichiatra di turno arriva dopo quattro-cinque ore e ti fa un T.S.O; dopo
qualche giorno, vai a Montelupo. La
seconda volta che sono finito in infermeria centrale è stato dopo che sono
rimasto vedovo, mia moglie è morta in un incidente stradale. Non avevo voglia
di parlare più con la gente, mi dicevano tutti le stesse cose e mi scocciavo.
Mi riportarono subito nel reparto, fu proprio Iannucci a farlo con la scusa di
monitorarmi. Se non era per una questione di spazio sarei rimasto lì chissà
quanto tempo.
Il cibo poi è immangiabile. Se ti
prende il mal di testa il giorno in cui non è fissata la visita medica, sei
fregato. Ci sarebbe il medico di guardia, ma non ci sta mai. L'infermiere, poi,
ti dice di non rompere i coglioni al medico, a meno che non sia una cosa
importante, quindi, chiama il medico per telefono e si fa prescrivere qualcosa
per te. Una volta, mi è venuto un dolore
ai reni che mi sembrava di morire, allora l'infermiere telefona al medico che
sottovaluta il caso nonostante il racconto dicendo che ero una persona in
terapia e che quindi ero inattendibile. Alla fine, convinto dall'infermiere, mi
diede il Buscpoan, che non mi fece niente. Il dottore non mi voleva più sentire
perchè visitare due volte la stessa persona gli viene pagata come fosse una
sola visita, e quindi preferiva visitare un altro. Fortunatamente, alle 10 di
sera cambiò il turno e il nuovo medico, mi fece due iniezioni di
antidolorifico. Avevo un blocco renale, cosa che non capita raramente alle
persone in terapia.
Ma la posta e i colloqui
hanno una regolamentazione uguale a quella degli altri detenuti fuori dal
reparto?
Si e' uguale, a meno che tu non
sia legato....
Perché, legano ancora?
Di solito no, ma per esempio, nei
casi di autolesionismo continuato ti spogliano nudo e rimani in questa cella con
una branda d'acciaio, come stare in terra, senza materasso, né coperta. Non hai
nulla, non puoi fare nulla, solo battere la testa nel muro. Quando ci sono le
visite, si inventano qualcosa per non mostrarti ai parenti completamente
rintontito dagli psicofarmaci.
L'infermeria centrale è composta
da 12 celle, 5 nel lato corto e 7 nel lato lungo. La prima cella e' per due
persone, anche la seconda e la terza. Tutte per due, a parte la quinta che è
per tre. In tutto ci sono più o meno 40 persone; ora, fortunatamente, hanno
riaperto la "socialità" dalle cinque di sera, prima impedivano ai
pazienti di vedersi e minacciavano di chiamare lo psichiatra in caso di litigio.
Come sono i rapporti con gli
altri detenuti?
Ovviamente, dipende dal carattere, c'è chi ti piace e chi no, normale.
Ma quelli che sono in
infermeria, vengono visti come gli altri oppure discriminati?
Se stai in infermeria, come fuori, sei il matto. L'avvocato d'ufficio e' una pura formalità, non serve a niente, non gliene frega niente.
Volevo capire meglio come
funziona il fatto che tu ti debba pagare la terapia.
Se ti prescrivono un farmaco che non tengono in infermeria centrale, se hai soldi lo puoi ottenere pagando, altrimenti te lo sostituiscono con i farmaci che hanno. Anche i farmaci mutuabili spesso non si trovano.
Se vuoi dire ancora qualcosa
su questo carcere nel carcere...
E' una doppia punizione, se uno può,
cerca sempre di ritornare in sezione. Ci va volentieri solo qualche omosessuale
in vena di fidanzamento perchè lì vicino c'è il reparto D (diversi), dove
sono rinchiusi i travestiti!!!.....
Quello che fa male pensare e' che
ti hanno prima rinchiuso nel reparto psichiatrico, tralasciando completamente il
fatto che le tue crisi fossero dovute all'astinenza da alcool, pur sapendolo
benissimo...
NON/LUOGHI
N° 3. OSPEDALE PSICHIATRICO
GIUDIZIARIO
La costruzione teorica che
giustifica l'esistenza di strutture aberranti come l'O.P.G. è da ricercarsi
nell'associazione lombrosiana fra malattia mentale e violenza.
Essa si è talmente radicata nella
cultura che, nonostante sia passato molto tempo dalle teorizzazioni di Lombroso,
permane ai nostri giorni la sostanziale diffidenza nei confronti del
comportamento e della parola di chi è considerato malato di mente.
In parole povere l'O.P.G ha avuto
così tanto successo perché permetteva la segregazione di chi ha come unica
colpa quella di esprimersi diversamente, di vivere in condizioni disagiate, di
essere quello meno forte in un conflitto o di essere non conformi all'ordine
costituito. Ed è sempre stato
l'irrazionale terrore che il diverso suscita negli omologati al sistema a
giustificare le forme di contenzione fisica e farmacologica che hanno il solo
scopo di annientare la persona. Chi ha la
sfortuna di essere intrappolato nella maglia della psichiatria, sia a livello
manicomiale che carcerario, viene automaticamente considerato una non/persona,
priva quindi di qualsiasi sentimento o diritto. La
segregazione in O.P.G, come nei reparti psichiatrici all'interno delle carceri,
infatti, può essere considerata una "doppia pena". La restrizione
della libertà, già di per sé violenta e disumana, sembra non essere una pena
sufficiente.
Essa deve essere accompagnata da
una terapia farmacologica che garantisce la totale non pericolosità del
soggetto in questione. La storia e
il quotidiano ci insegnano come sia molto più semplice tenere lontano,
reprimere tutto ciò che mette in discussione la nostra cara normalità. Molto
più difficile sembra essere accettare la diversità, confrontarsi con essa;
mettersi in discussione, capire, richiede uno sforzo sicuramente maggiore di
quello necessario per la negazione dell'altro. Non
scardinare questo meccanismo significa alimentare l'intolleranza nei confronti
dell'immigrato, del detenuto, del tossicodipendente, dello zingaro, del malato
mentale.
Uno dei concetti chiave che
giustificano l'applicazione di misure di sicurezza1, come ad esempio
all'interno dell'O.P.G., è quello di imputabilità.
L'imputabilità è l'insieme delle
condizioni previste dal diritto penale, in particolare la capacità di intendere
e volere, necessarie affinché un soggetto possa essere ritenuto responsabile
delle proprie azioni e possa essere chiamato a risponderne.
Durante il processo il giudice può
comminare2 o meno una misura di sicurezza a seconda della capacità
di intendere e volere attribuita al soggetto giudicato.
Il codice penale prevede tre
possibilità. Nel caso in cui il soggetto è dichiarato capace di intendere e di
volere egli è considerato imputabile e quindi verrà sottoposto ad un processo
che stabilirà la sua colpevolezza o innocenza. L'incapacità di intendere e di
volere è correlata al proscioglimento dell'accusa, quindi all'applicazione di
una misura di sicurezza. In questo caso il processo viene interrotto.
Non si riconosce il diritto alla difesa e il soggetto è giudicato e
rinchiuso.
L'attestazione di una infermità
è correlata all'applicazione di una pena diminuita da sommare ad una misura di
sicurezza in casa di cura o O.P.G.; solo quando si riterrà venuta meno la
pericolosità sociale il soggetto sarà pronto per scontare la propria pena in
carcere. Dichiarare che un soggetto
è incapace di intendere e di volere significa quindi non solo negare le ragioni
per cui un individuo, in un particolare momento della sua vita, ha deciso di
compiere un determinato atto, ma anche condannarlo senza che egli abbia mai più
la possibilità di difendersi dalle accuse che gli sono rivolte.
Chi da quel momento in poi darà
ascolto alle parole di un "pazzo criminale"?
Il soggetto che si accolla la responsabilità di stabilire la capacità
di intendere e di volere di qualcuno è lo psichiatra. La perizia che egli, su
richiesta del giudice, è chiamato a stilare deve rispondere a tre quesiti
fondamentali:
- se al momento del fatto il
soggetto era capace di intendere e di volere
- se questa capacità è
temporanea o permanente
- se ciò fosse dovuto da infermità
mentale o cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, e se sia
attualmente persona socialmente pericolosa.
Nonostante non esista nessun
fondamento scientifico si persiste a dare per scontato che dove c'è malattia
mentale c'è anche incapacità di intendere e di volere. La diagnosi risulta
funzionale all'incasellamento del soggetto all'interno di categorie che, a loro
volta, giustificano l'intervento terapeutico, cioè un massiccio bombardamento
farmacologico. Accolta la perizia
il giudice deve stabilire in via definitiva se il soggetto è da considerarsi o
meno capace di intendere e di volere, avvalendosi del suo ruolo istituzionale e
della sua autonomia. Egli, in
sostanza, potrebbe giungere a conclusioni che si discostano notevolmente da
quelle del perito.
Potrebbe, ma nella realtà dei
fatti il giudice finisce con l'attenersi puntualmente al risultato della
perizia, delegando al perito un potere straordinario: quello di essere allo
stesso tempo Pm e giudice. Ovviamente
anche nell'interrogatorio che precede la stesura della perizia vengono negati al
soggetto i diritti alla difesa. Infatti questa avviene senza la presenza di
altre persone, nemmeno dell'avvocato difensore, e l'imputato non viene avvertito
che le informazioni che fornisce al perito possono essere utilizzate per una sua
condanna.
"Tutte le misure di sicurezza
personale sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il
reato è persona socialmente pericolosa".
(art. 31, comma 2, n.663/86 legge Gozzini)
La legislazione italiana prevede
un diverso criterio a seconda che vengano comminate pene vere e proprie o misure
di sicurezza, durata predeterminata per le prime, indeterminata per le seconde.
Poiché per chi è considerato non
imputabile non è prevista una sanzione penale, si fa ricorso alle misure di
sicurezza a tempo non determinato, armi attraverso le quali il potere
giudiziario assicura comunque l'allontanamento di soggetti potenzialmente
pericolosi per l'ordine costituito. La
pericolosità sociale però è un concetto arbitrario che rispecchia la cultura
del tempo: così nei secoli pericoloso poteva essere l'omosessuale o chi si
masturbava, senza nessun fondamento di altro ordine.
Giuridicamente è considerato pericoloso il soggetto che abbia commesso
reato e che per lo stesso non sia considerato imputabile, ma a cui è attribuita
una capacità di commettere in futuro non necessariamente la stessa tipologia di
reato, ma qualsiasi altro reato previsto dal codice di procedura penale.
Inoltre questo risulta essere in contrasto con le tesi psichiatriche
stesse che non riescono a dimostrare la connessione fra malattia mentale e
reato.
Rapporti con i servizi
territoriali
Un ruolo importante è svolto dai
servizi psichiatrici territoriali come il CSM (Centri di Salute Mentale) e il
CIM (Centri d'Igiene Mentale), strutture che dovrebbero funzionare da cuscinetto
fra l'O.P.G. e la società. Infatti
per chi non esistono più le condizioni per l'internamento in O.P.G., dovrebbe
trascorrere un periodo di almeno sette giorni in una di queste strutture. Ma o
esse stesse non sono fisicamente presenti nel territorio, come invece era
previsto dalla legge 180/78, oppure quelle poche strutture esistenti
preferiscono delegare la responsabilità del folle reo agli operatori degli
O.P.G, chiedendo loro di prolungare il periodo della misura di sicurezza. A
questo si aggiunge il fatto che i familiari possono negare la firma per l'uscita
dell'internato e quindi una presa di responsabilità dello stesso.
Paradossalmente si è convinti che
all'interno di un'istituzione ancora più violenta del carcere il recluso possa
trovare una risposta adeguata al suo malessere, sottendendo il fatto che egli
non ha la facoltà di scegliere né se essere curato, né dove né da chi. Ma
come si può pensare che la privazione della libertà associata ad un
intorpidimento del cervello possa essere una condizione migliore a cui aspirare?
Il tentativo sia della psichiatria istituzionale che dell'O.P.G. di
conciliare la cura dell'individuo malato con la protezione della società
dall'individuo stesso, è un meccanismo su cui si basa qualsiasi istituzione
totale.
I danni che questa pratica
comportano smascherano la reale funzione sociale dei trattamenti farmacologici.
Nella pratica l'esigenza di
proteggere la società prende il sopravvento sull'intervento
"terapeutico" svelando la vera funzione delle terapie farmacologiche:
forme di controllo fisico e psicologico. La terapia farmacologia prolungata
oltre i limiti prestabiliti dalle stesse case farmaceutiche è funzionale ad un
ampliamento del controllo oltre le mura dell'O.P.G. stesso.
Con la mozione Volonté del
gennaio del 2002 il governo di centro destra propone le politiche da adottare in
materia di tossicodipendenza, con l'evidente volontà di estendere anche in
questo campo il principio di 'tolleranza zero'.
L'approccio più efficace per
eliminare il problema deve essere di carattere autoritario e repressivo: le
politiche sociali sulla droga verranno gestite da un superorgano poliziesco, il
D.N.A. (Dipartimento Nazionale Antidroga), capeggiato dall'ex prefetto Sotgiu e
alle dirette dipendenze della presidenza del consiglio.
L'imperativo da seguire è che la
droga è una sola e va combattuta con ogni mezzo necessario: basta con la
distinzione tra droghe pesanti e leggere, basta la terapia della riduzione del
danno e qualsiasi altro intervento simile, come quello dei centri di accoglienza
a "bassa soglia".
La nuova terapia farmacologica
sostitutiva, che può essere gestita da strutture private accreditate (esempio
comunità brevi), è molto simile all'astinenza: un periodo massimo di tre mesi
con il minimo delle dosi senza possibilità di cominciare, in questo arco di
tempo, un qualsiasi tipo di intervento riabilitativo. La riabilitazione è
possibile solo in uno stato di completa disintossicazione (drug-free) anche dai
farmaci sostitutivi e anche questa può essere gestita dal privato sociale.
In linea con questi principi la
cura e la riabilitazione verranno portate avanti con logiche 'custodialistiche'
e punitive, avvalendosi della collaborazione della psichiatria e delle strutture
carcerarie e lasciando sempre più spazio di intervento alle comunità
terapeutiche stile San Patrignano.
Insomma le parole d'ordine della
nuova crociata antidroga perdono quella connotazione buonista e funzionalmente
democratica propria del binomio 'curare-reinserire', per assumere contorni
fascio-cattolici del meccanismo 'esorcizzare/rinchiudere'.
La cura diventa un esorcismo perché
l'individuo viene spogliato di se stesso e ridotto ad essere un'anonima
appendice della malattia chiamata dipendenza: quella specie di virus che annulla
la sua capacità di intendere e di volere in modo irreversibile.
Come se la condizione della
tossicodipendenza lo avesse modificato definitivamente, per cui potrà riuscire
a disintossicarsi, ma non sarà mai guarito.
L'individuo resterà un malato a
vita, una non-persona a cui è negato l'accesso a una normalità che non gli può
più appartenere. Per questo la
riabilitazione viene portata avanti in luoghi che non convergono con il mondo
reale, di cui sono i surrogati, ma che dalla realtà proteggono chi ha per
sempre perso la capacità di gestire di se stesso. L'individuo non viene
reinserito, viene rinchiuso. Le
strutture dove sperimentare nuove forme detentive sono definite residenziali o
semi-residenziali. Queste sono le nuove carceri private, i luoghi alternativi
alla vita reale in cui l'individuo rimane come sospeso, in attesa di un
fantomatico reinserimento, così distante quanto il tessuto sociale da cui viene
inevitabilmente tagliato fuori. Lo
stesso discorso vale per comunità terapeutiche a cui adesso verrà affidata la
gestione di quelle carceri che saranno privatizzate e poi riconvertite in luoghi
di recupero per tossicodipendenti (il primo esempio dovrebbe essere il carcere
di Castelfranco in Emilia gestito dalla comunità di San Patrignano).
Le comunità di recupero sono i
luoghi dove impera il 'custodialismo' e il concetto di "cura" si
trasforma in quello del "prendersi cura".
In questi luoghi l'individuo viene responsabilizzato attraverso la
"pressione" del gruppo e le parole del leader carismatico di turno e
poi guarito mediante l'interiorizzazione dell'etica del lavoro.
Lavorare è la condizione comune alla maggior parte della società,
qualcosa che conforma e contemporaneamente conferisce una sorta di rispetto, di
dignità alla persona, perché la rende utile, o così la fa sentire.
In questo modo lo sfruttamento e la manodopera a basso costo, essendo
finanziati attraverso il fondo nazionale per la lotta alla droga, garantiscono
al datore di lavoro un periodo di manodopera quasi a costo zero: aziende come
Ikea ed Emmelunga, ad esempio, sfruttano queste 'categorie protette' di
lavoratori per incrementare i loro profitti elargendo salari da fame.
Ma non è tutto. Il privato
sociale entra, sotto forma di Ente ausiliare, anche nella gestione, a livello
operativo e decisionale, dei nuovi Dipartimenti Funzionali delle Dipendenze (uno
per ogni A.s.l.), con il compito di coordinare gli organi e le strutture con
competenze relative "al trattamento, reinserimento e prevenzione dei
problemi correlati all'uso di sostanze e comportamenti assimilabili".
Questi mega-dipartimenti sono
organizzati senza che nella mozione sia specificato dove vengono prese e come
devono essere utilizzate le risorse, né quali sono le competenze e gli ambiti
specifici di ogni realtà che ne fa parte.
Proprio in questo tipo di
strutture, sgravate dalla lentezza burocratica, il privato sociale si inserisce
facilmente portando avanti la sua politica aziendale, a-sociale e disumanizzante.
Gli enti privati concentreranno
sempre più potere nelle loro mani perché gestendo, tramite la loro presenza
nella Consulta Regionale delle Tossicodipendenze, l'accesso all'Albo degli Enti
Ausiliari decideranno chi andrà a dirigere e coordinare il Dipartimento
Funzionale delle Tossicodipendenze.
Ovviamente i criteri di
appartenenza/esclusione saranno gestiti con logiche clientelari, facilitando
quelle comunità terapeutiche già operanti nel territorio che cercheranno di
mantenere una sorta di monopolio sull'intervento residenziale e si prodigheranno
per imporre le loro politiche in campo terapeutico.
Di pari passo con queste tendenze
vanno le restrizioni poste ai SERT: apertura cinque giorni a settimana per
almeno cinque ore (in orari periferici) limitando così la possibilità di
accesso a chi è in trattamento e lavora.
Ci sembra evidente che il
tentativo di smantellare una parte dell'assistenza sanitaria pubblica per i
tossicodipendenti, creando una fascia di utenti privilegiata che usufruisce di
servizi a pagamento gestiti da associazioni profit e dal privato sociale, che
sono più flessibili e quindi capaci di creare strutture con assistenza
continuata 24/24h. Ci sembra di
poter leggere in tutto ciò un ruolo completamente nuovo offerto alla
psichiatria. Anche se da sempre i Servizi per le Tossicodipendenze hanno avuto
nel loro organico, e possibilmente alla guida, uno Psichiatra, oggi la tendenza
a considerare i comportamenti da abuso strettamente legati alle patologie
psichiatriche, porta ad un ulteriore avvicinamento delle due specializzazioni di
cura.
Da un paio d'anni è nato il
concetto di DOPPIA DIAGNOSI: difficile spiegare in poche frasi l'idiozia di un
concetto tanto funzionale alla crisi della Psichiatria.
Questo nuovo punto di vista
sostiene che dietro alla dipendenza da una sostanza si nasconde un malessere
dell'individuo, non un malessere determinato da condizioni materiali o sociali,
ma da vere e proprie cause organiche.
Contemporaneamente assistiamo alla
riforma dei servizi psichiatrici con un disegno di legge che prevede la
riapertura di manicomi privatizzati, immaginati come piccole comunità
terapeutiche gestite dalle associazioni di cui sopra, e che prevede inoltre
l'ampliamento della possibilità di effettuare Trattamenti Sanitari Obbligatori,
in poche parole ricoveri coatti, a coloro che soffrono di malattie psichiatriche
se per esempio rifiutano di farsi curare.
Attraverso l'artificio della
doppia diagnosi colui che inciampa nei servizi per le tossicodipendenze (anche
solo per essere stato sorpreso per un quantitativo minimo di hascisc), viene
etichettato come paziente DOPPIA DIAGNOSI.
In questo modo, egli rischia,
senza sapere come appellarsi, di ritrovarsi rinchiuso in uno di questi manicomi
privati e di entrare, quindi, nel vortice della medicalizzazione psichiatrica da
cui è estremamente difficile, per non dire impossibile, uscire.
Il tossicodipendente è
"malato mentale" e come tale deve essere affidato alle strutture di
competenza, in questo caso i reparti di Diagnosi e Cura Psichiatrica (previsto
almeno un posto letto per struttura) e sottoposto a T.S.O. (Trattamento Sanitario
Obbligatorio).
Un ultima è gustosa tessera del
mosaico ci viene regalata dal costo di questo progetto che vede le rette
giornaliere offerte dal servizio sanitario nazionale per i pazienti in DOPPIA
DIAGNOSI molto più cospicue di quelle attualmente offerte alle comunità
residenziali per i "semplici" tossicodipendenti. Rendendo quindi
ancora più interessante il business tossicodipendenza.
Confinare gli stili di vita, i
comportamenti e le scelte incomprensibili e comunque non condivise dalla maggior
parte degli onesti cittadini. Creare
un territorio protetto, per proteggere in realtà chi sta fuori, dove chiunque
può essere sottoposto a controllo-verifica-diagnosi. Il principio di 'manicomialità' si diffonde, portando con sé
la necessità delle rassicuranti diagnosi scientifiche, per spiegare un'alterità
altrimenti pericolosa perché non definibile.
Quell'alterità che i medicopsichiatri chiamano PATOLOGIA e i sociopsicologi etichettano come DISAGIO.
Collettivo Antipsichiatrico Violetta Van Gogh
www.inventati.org/antipsichiatria
Note:
1 Misura di sicurezza: qualsiasi
provvedimento preso dall'autorità giudiziaria nei confronti di chi viene
considerato o sospettato di essere socialmente pericoloso.
2 Comminare: stabilire una pena
per i trasgressori di una legge