Un vecchio palazzo nel cuore della tua città...
“Un vecchio palazzo nel cuore della tua città, si lotta col tempo si muore nessuno lo sa"....così recitava una canzone sul carcere di qualche anno fa.
Per la verità oggi non esistono più galere all'interno dei centri urbani, tutte o quasi sono state trasferite nel corso degli anni ottanta e novanta nelle nuove moderne strutture costruite nelle periferie metropolitane, veri e propri bunker dove l'isolamento (sia all'interno del carcere che dall'esterno) è la condizione oggettiva necessaria all'applicazione di un regolamento penitenziario basato sul trattamento differenziato.
Un imponente processo di ristrutturazione che inizia alla fine degli anni ’70 con la costruzione delle carceri speciali dove viene attuato un primo circuito differenziato nel quale vengono isolati tutti i compagni e tutti quei proletari che sono in prima fila nel susseguirsi di lotte, rivolte, evasioni..... Privare i proletari prigionieri della socialità necessaria all'organizzazione delle lotte passa attraverso la costruzione di nuove strutture dove è possibile attuare l'isolamento e quindi l'annientamento psico-fisico dei detenuti, cosa che diventava impraticabile finché le carceri rimanevano ospitate in vecchi edifici ormai fatiscenti spesso vecchi conventi riadattati all'uso, antiche fortezze di epoca Borbonica ecc.
Isolati i compagni e i proletari più combattivi dal resto della popolazione prigioniera, ci si poteva finalmente dedicare alla pacificazione di questa, così dopo la costruzione del primo circuito speciale la ristrutturazione investe l'intero sistema carcerario, decine e decine di nuove strutture sostituiscono i vecchi edifici e oggi quasi la totalità delle carceri dispongono di sistemi di controllo e sicurezza prima impossibili.
Si pensi , per fare un esempio, alla Dozza la cui costruzione viene accelerata dopo che all'inizio del 1985 avviene l'ultima evasione in massa dal vecchio carcere di S.Giovanni in Monte con la fuga di una decina di giovani proletari.
Sono questi gli anni delle politiche dell'emergenza, di un feroce attacco repressivo contro qualsiasi forma di espressione autonoma di organizzazione operaia e proletaria, che trovano nel carcere il suo massimo elemento di deterrenza.
Per far capire fin da subito l'aria che si respirerà in futuro l'inaugurazione di ogni nuovo carcere avviene con pestaggi indiscriminati e generalizzati e con un clima di terrore che in alcuni casi supera anche quello degli speciali.
L'obbiettivo era quello di annientare il potenziale eversivo della nuova figura di proletario extralegale e spezzare definitivamente il rapporto contagioso con i comunisti prigionieri.
Questi nuovi "malavitosi "erano i figli giovani e giovanissimi degli immigrati meridionali che negli anni ‘60 erano stati reclutati in massa dalle industrie del nord, in maggioranza figli di operai e operai loro stessi anche se in modo sempre più precario a causa della fine del boom economico e l'avanzare della crisi.
Il lavoro extralegale diventava il mezzo per integrare un salario misero se non inesistente e si alternava con il lavoro in fabbrica, nei cantieri ecc.
Se guardiamo a Bologna in quegli anni esistevano in ogni quartiere proletario (Barca, Pilastro, San Donato) bande di giovani proletari che per lungo tempo sono stati protagonisti della cronaca cittadina.
I reati più praticati erano il furto e le rapine con gli assalti armati alle banche, uffici postali ecc.
La combattività di questi nuovi "banditi" si esprimeva anche all'interno delle carceri facendo di questo terreno una scuola di lotta e di presa di coscienza di classe, e l'incontro con i comunisti arrestati ne moltiplicava le potenzialità.
Nel vecchio carcere di S.Giovanni in Monte le lotte per la difesa e l'allargamento degli spazi di socialità all'interno e con l'esterno erano continue e si alternavano ai continui tentativi di evasione.
Fuori dal carcere la ribellione al sistema di sfruttamento portava interi settori del proletariato nato nei quartieri ghetto delle periferie metropolitane sul terreno della extralegalità e dell'attacco alla proprietà privata con forme e mezzi che creavano un "allarme sociale" senza precedenti.
La risposta dei padroni è stata l'innalzamento del livello della militarizzazione del territorio e della repressione che non si è più interrotto fino ad oggi.
La continua e martellante campagna sull'allarme criminalità, se si vanno a guardare le statistiche sui reati degli ultimi anni, è quanto meno sproporzionata, e al di là del fine elettoralistico serve soltanto ad aumentare a dismisura i sistemi di controllo e sicurezza a difesa della proprietà privata e del potere dei padroni. La difesa del potere di sfruttamento dei padroni comporta una polarizzazione sociale che ai suoi estremi si manifesta da un lato con emarginazione, immiserimento, precarizzazione per sempre più vasti settori proletari e dall'altro con la formazione di un sistema di protezione dei padroni e delle loro ricchezze che va dal controllo e uso dei mezzi di comunicazione, dei partiti, dei sindacati e di ogni mezzo tecnologico, militare e repressivo in funzione antiproletaria.
Nonostante il pugno di ferro della repressione comunque anche la scorsa estate nella quasi totalità delle carceri italiane, compresa la "Dozza " di Bologna, si è sviluppato un ciclo di lotte che ancora una volta , oltre alla richiesta di un provvedimento di amnistia e indulto, vede la denuncia dei pestaggi e degli abusi quotidiani, la questione della assistenza sanitaria, la socialità interna e con l'esterno, il lavoro, il sovraffollamento ecc.
Negli ultimi anni si è verificato un cambiamento nella composizione del proletariato prigioniero come diretta conseguenza dei flussi di nuova immigrazione.
Partecipando, come rete operaia, alle azioni di solidarietà nei pressi della Dozza abbiamo diffuso un volantino nel quale dicevamo "è più facile per molti lavoratori scagliarsi contro gli zingari, diventare razzisti, farsi promotori dell'ordine pubblico e del perbenismo contro chi" non ha voglia di lavorare "che ribellarsi contro i padroni che effettivamente li costringono per un salario da fame, a lavorare per più di otto ore al giorno!"
Comitato Askatasuna di Bologna