Gli
indici azionari sembrano contrarsi ovunque. La grande fase speculativa
degli anni 80 e 90 ha da tempo perso respiro, facendo emergere l’enorme
indebitamento dell’economia americana. Usa, Europa e Giappone lottano per
assicurarsi i capitali da investire, ma l’incombere di una nuova recessione
negli Stati Uniti potrebbe vanificare qualsiasi strategia.
Paolo
Giussani
Da
più di un ventennio il funzionamento dell’economia mondiale è condizionato e
alterato da un'onda lunga di investimenti speculativi, tuttora in pieno
svolgimento, che ha come epicentro gli Stati Uniti ed è semplicemente senza
precedenti nella storia contemporanea. Non si tratta si una semplice “bolla”
o di una mania, per quanto grande e inusuale, ma di una alterazione di tutta la
fisiologia del sistema economico in funzione della quotidiana alimentazione del
capitale investito speculativamente, che si occcupa non di creare nuovi rami
produttivi e commerciali ma solo di comperare e vendere senza interruzione pezzi
di carta chiamati titoli, azioni, obbligazioni e affini, con lo scopo non di
ricavare il reddito prodotto dalle attività cui questi titoli si riferiscono ma
di realizzare le differenze positive di prezzo dei pezzi di carta che
continuamente si manifestano in tutte le borse del mondo.
L’ affare ideale per il capitale speculativo sarebbe acquistare azioni, di Ibm
poniamo ma di qualsiasi societá fa esattamente lo stesso servizio, a 20.50
dollari l’una alla borsa di Chicago per rivenderle nello stesso istante
alla borsa di New York dove il caso vuole siano valutate in quel momento a 21.00
dollari, intascando un profitto senza investimento di 50 cents per
azione. Naturalmente si tratta di un esempio per assurdo, speculazioni del
genere non avvengono mai, ma che vale a illustrare l’intima natura del
capitale impiegato speculativamente.
Tutto
il denaro esistente è oggi in un modo o nell'altro connesso alla speculazione;
o perché viene automaticamente immesso nei fondi pensione dei lavoratori e nei
fondi comuni dei risparmiatori, o perché viene affidato alla gestione
patrimoniale delle banche, o perché le aziende maggiori del settore produttivo
e commerciale lasciano in gestione i fondi liquidi alle proprie sussidiare
finanziarie appositamente create affinché li investano speculativamente; in
questa o nell'altra forma nella nostra epoca il denaro cash sembra
sparito per essere inghiottito dal buco nero della finanza: cash is trash! è,
o meglio fino a poco tempo fa
era, - ora la musica ha mutato tonalità e ritmo -
l’imperativo dei nostri tempi, e il denaro che non venga continuamente
riconvertito in qualche strumento finanziario non sembra neppure più poter
aspirare all’esistenza.
Tutti
hanno più o meno qualche notizia sui processi di ristrutturazione aziendale,
divenuti il leitmotiv della vita economica da una ventina d’anni e che
consistono fondamentalmente di riorganizzazioni per conseguire un impiego più
intenso dei macchinari e della manodopera e un risparmio sull’uso dei
materiali. Questi processi di ristrutturazione societaria sono ormai diventati
un modo di vita, un processo unico permanente di downsizing e riduzioni
forzose dei costi le cui ragioni sono appunto fondamentalmente finanziarie e per
nulla tecnologiche. I valori dei titoli azionari reagiscono subito positivamente
al semplice annuncio delle ristrutturazioni (e negativamente alle notizie di
incremento dell’occupazione) che permettono sovente alle società
di vendere o affittare proprietà
immobiliari con extraprofitti immediati.
Questa
storia
non è cominciata ieri, bensì più o meno venticinque anni fa, alla metà degli
anni '70
nel settore della speculazione sui cambi,
con la fine del regime monetario internazionale creato nel 1944 in cui il
dollaro serviva come moneta di riferimento essendo l’unica direttamente
convertibile in oro a 35 dollari l’oncia mentre le altre monete erano
convertibili in dollari e fra loro mantenevano cambi fissi (ad es. per molto
tempo la lira rimase al valore di circa 1/625 di dollaro); quando al principio
degli anni ’70 il sistema crollò perché gli Stati Uniti non erano più in
grado di garantire la convertibilità del dollaro, al suo posto subentrò un
sistema senza moneta di riferimento in cui i cambi fra le monete nazionali
oscillavano continuamente creando così la possibilità di guadagni anche
fenomenali per chi avesse indovinato in anticipo la direzione delle
oscillazioni. L’epoca speculativa stava vedendo la luce. La stagnazione
economica mondiale degli anni 70 le mise quindi a disposizione capitali che non
si riusciva più a impiegare produttivamente, gli ineluttabili passi successivi
furono l’estensione delle attività speculative al mercato delle obbligazioni
e infine a quello azionario verso il principio del decennio successivo.
Dal
1980 a oggi l'indice Standard & Poor's Composite 500 della borsa di
New York, che ci dà una media assai generale dei mutamenti dei prezzi delle
azioni di circa l'85% del mercato, depurato del tasso di inflazione si è
accresciuto di circa dieci volte,
con un aumento medio annuo di quasi il 14%, salito al 25% nel periodo dal 1995
al 2000, come si osserva dal Grafico 1 che illustra
l’andamento dell’ indice dal gennaio 1947 al luglio 2002.
Grafico 1. Indice Azionario Standard and Poor’s – Gennaio 1947-Luglio 2002
Questa
ascesa fa del tutto impallidire
la pur formidabile performance del decennio speculativo per eccellenza
nella storia del capitalismo contemporaneo, i ruggenti anni '20 che,
che videro un incremento medio annuo dei prezzi azionari di poco
superiore al 12%, fino al grande crash dell'Ottobre 1929.
Simultaneamente, il volume annuo relativo del giro d'affari di Wall Street,
ossia la somma delle compravendite azionarie annue in rapporto al Prodotto
Interno Lordo americano, è passato da una media praticamente costante di circa
20% nel periodo 1933-1982, a valori di 150%, 220% e 330% per gli anni 1998, 1999
e 2000 rispettivamente; il che significa che attualmente il giro d’affari
annuale di Wall Street ammonta approssimativamente a poco meno di una trentina
di trilioni (migliaia di miliardi) di dollari. Un incremento assolutamente
incredibile-–
dal 25% al 330% del Pil significa più di sedici volte in circa vent'anni
–
dovuto al notevole accrescimento della velocità degli scambi –oggi un titolo
azionario in media rimane in mano a un possessore non più di tre giorni– a
sua volta provocato da un’eccezionale immissione netta di nuovo denaro
nel mercato azionario, più o meno stimabile a cinque-sei volte la quantità di
denaro in rapporto al Pil che veniva impiegata nella paciosa Wall Street di
prima degli anni '80.
Il
principio generale per cui la vita del capitale è regolata e dominata
totalmente dal guadagno monetario
che riesce a conseguire appare ancor più chiaramente nella finanza speculativa,
dato
che qui si tratta di puri numeri che aumentano da un giorno o
all'altro, anzi da un minuto all'altro come per virtù magica, senza dover
passare attraverso la tediosa intermediazione di nessun tipo di produzione. Naturalmente,
un conto sono i profitti puramente virtuali provenienti dal semplice aumento di
prezzo delle azioni o dei beni posseduti e una storia del tutto differente sono
gli effettivi profitti monetari. Se un
industriale che produce mattoni vede aumentare di prezzo il terreno su cui sorge
la sua fabbrica non può considerare questo aumento come un profitto puro e
semplice alla stessa stregua dei profitti che ricava dalla vendita dei mattoni;
dovrebbe prima vendere il terreno al nuovo prezzo e poi contabilizzarlo, ma così
facendo non avrebbe più un terreno su cui far poggiare i suoi mattoni. Nella
normale fisiologia economica i guadagni si realizzano perché le merci, seguendo
il loro corso, vengono prodotte e vendute, dopodiché finiscono nel consumo
produttivo o improduttivo,
dove perdono le loro caratteristiche materiali per diventare qualcos'altro. Il
loro prezzo o viene trasmesso come parte del prezzo di un'altra merce nella
produzione –come il prezzo della lana diviene parte del prezzo del golf–
oppure viene puramente e semplicemente distrutto nel consumo non produttivo
–come capita al bene di consumo golf quando è ormai così liso da essere del
tutto inservibile- mentre il denaro continua a circolare e a far cambiare di
padrone e destinazione le nuove merci prodotte.
Nella
vita del capitale speculativo le cose vanno diversamente. Qui non c’è
creazione/distruzione, vige l’eternità tanto cercata dai poeti. Dentro questo
circuito le stesse merci, i titoli azionari per esempio, seguitano ad esistere e
circolare in eterno scambiandosi continuamente con il denaro, il quale
altrettanto eternamente si scambia con esse. Se nel circuito speculativo entra nuovo
denaro i prezzi si innalzano, quelli che vendono azioni fanno profitti mentre
quelli che le azioni se le tengono possono ritenere di averci guadagnato perché
ora dispongono di un valore più grande. Tutto questo dura fino a che nel
circuito continua ad entrare denaro addizionale, quando l’afflusso si
prosciuga s’inizia il movimento opposto, come proprio adesso sta accadendo, e
prima poi si scopre che i profitti virtuali stimati ieri si sono oggi tramutati
in effettive perdite.
Le
origini
Una
delle più diffuse credenze del senso comune economico è l'idea che esista una
qualche sorta di opposizione fra speculatori e capitalisti produttivi. L'idea
stessa che esistano gli "speculatori” è una delle infinite leggende
metropolitane in circolazione, forse messa in giro da qualche buon moralista
calvinista amante delle sofferenze del duro lavoro manuale. L'emergere del
capitale speculativo nella nostra era ha precisamente origine nel settore
produttivo, e per essere più precisi nel settore delle grandi corporations
del Giappone, il maggior paese industrialista del globo. Queste
aziende ritrovandosi a metà degli anni '70
dotate di notevoli surplus liquidi, cominciarono a speculare sui cambi delle
divise sfruttando la forza crescente dello yen nel nuovo regime di cambi
flessibili seguito al crollo di Bretton Woods nonché a prestare soldi a destra
e a manca, anche all'estero. Di qui il movimento speculativo si estese alla
borsa, suo naturale centro, e agli Stati Uniti,
dove gradualmente assunse un'ampiezza e un movimento senza precedenti storici.
Attualmente,
le interconnessioni fra capitale speculativo e capitale produttivo sono tali e
tante che è impossibile dire quale dei due prevalga. Tutte le maggiori corporations
del mondo, soprattutto quelle americane, gestiscono in modo speculativo la
propria liquidità: creano proprie divisioni finanziarie che in breve diventano
le più importanti; impiegano una quota consistente del loro reddito per
ricomprare dal mercato proprie quote azionarie e farne salire il prezzo;
valutano alla stregua di profitti gli incrementi di prezzo del proprio capitale
azionario; retribuiscono in misura crescente il proprio top management con options
sulle proprie azioni; rimpiazzano gradualmente tecnici e managers di tipo
tradizionale con esperti in ingegneria finanziaria; alterano la propria
conformazione societaria spezzandosi in vari segmenti per emettere azioni a
scopo speculativo.
Quando il malaffare Enron è divenuto di pubblico dominio, si è di colpo
ammirato ciò che agli esperti era noto da molto, che molte delle corporation
americane a tutto assomigliano tranne che ad aziende di produzione.
Il
denaro
I
responsabili del grande movimento di ascesa del capitale speculativo sono gli
investitori detti istituzionali, cioè i fondi comuni e i fondi pensione;
circostanza che spiega anche la maggior ampiezza del mercato azionario americano
rispetto a quello europeo. Confrontati con questi immensi canali che,
mettendo insieme i soldi di molti creano un capitale speculativo socializzato,
gli investitori privati sono una frazione abbastanza piccola, a sua volta
dominata dalla attività delle banche, che sono un altro tipo di investitore
istituzionale. Gli operatori singoli che facendo affari da soli dal nulla
mettono insieme fortune sono giusto qualcosa che va bene per i rotocalchi.
Questo però non è certo tutto. La novità veramente grossa dei nostri tempi è
che una parte consistente, e sempre più consistente, del denaro impiegato
speculativamente viene dall’indebitamento spesso creato mediante istituzioni
finanziarie non bancarie che operano su livelli di rischio assai maggiori.
Allo
sviluppo del debito e quindi del rischio ha notevolmente contribuito
l'incredibile crescita dei derivatives nell'ultimo decennio, la vera
grande novità portata dal trionfo del capitale speculativo, che ne ha innalzato
il valore complessivo dai circa 600 miliardi di dollari nel 1986 ai circa 50mila
miliardi nel 2001, ossia di circa ottanta volte (vedi
Grafico 2).
Grafico
2. Volume complessivo di Derivati nell’economia USA
(trilioni di dollari). 1990-2001
Si
può tranquillamente asserire che i derivati sono la forma perfetta del capitale
speculativo,
dato che sono lo strumento che è per eccellenza adeguato a trarre
istantannemente profitto dalle differenze di prezzo che si creano
incessantemente nelle oscillazioni del mercato finanziario mondiale cioè ad
avvicinare la speculazione al tipo ideale di affare di compra (a poco) e vendita
(a tanto) simultanee che si è descritto all’inizio. Tuttavia la teoria
ufficiale sui derivati è differente. Vengono fatti passare per uno strumento
razionale di assicurazione contro il rischio, perciò il loro immane sviluppo
costituirebbe nel senso comune un indice di rischio generale meno elevato.rischio,
si afferma, Questo punto di vista è senz’altro molto ben visto
da quelli che i derivati li vendono ma
è in generale difficilmente sposabile se si considera che i derivatives assicurano
contro il rischio solo perché lo spostano su qualcun altro senza poter
minimamente eliminarlo dalla scena. Il rischio in realtà si accresce perché
coi derivati l’indebitamento teorico aumenta e lo si vede bene in molte società
finanziarie che si dedicano ai derivati che hanno un rapporto fra debito e
capitale proprio anche superiore a 100.
Qual
è allora
il normale andamento delle cose nella speculazione coi derivati? I derivati esistono
in un infinito numero di varietá, ma si suddividono in due fondamentali
categorie: options e futures. Comprando una option io entro in
possesso della possibilità (senza obbligo) di
acquistare o vendere qualcosa ad un certo prezzo ad una certa data, al
contrario vendendo la option mi sottometto all’obbligo imposto dal diritto del
suo compratore. I futures invece obbligano tutte e due i contraenti a rispettare
il contratto di compravendita futura. Non c’é via di scampo, la perdita
dell’uno è il guadagno dell’altro. Molte grosse corporation americane hanno
introdotto l’uso di retribuire il top management con opzioni sull’acquisto
di azioni proprie. Se nel frattempo le azioni sono salite oltre il prezzo
fissato sulla option, il manager eserciterà sicuramente il suo diritto a
ritirare le azioni per poterle rivendere all’istante con guadagno. Il rischio
viene ovviamente trasmesso alla società,
che si trova di fronte alla necessità di ricomprare le azioni sul mercato e
rivenderle sottocosto al dipendente-top manager,
oppure di girargli in contanti la differenza di prezzo maturata. È anche così
che il CEO medio americano è pervenuto ad un reddito che è di circa
cinquecento volte quello di un lavoratore medio americano, contro le undici
volte dei colleghi giapponesi e le tredici dei tedeschi.
In
definitiva, nell’uso che ne ha fatto il capitale speculativo, i derivati sono
divenuti un ibrido fra il credito e la scommessa, ossia una forma di
credito/debito aleatorio. Sottoscrivere un derivato è come entrare in una
scommessa di grandezza indeterminata con qualcuno che neppure si conosce. Ad
essere decisivo non è tanto il valore nominale complessivo dei contratti
derivati, che pure supera di svariate volte il PIL americano, ma le oscillazioni
potenziali di tale valore perché sono queste che dovranno venire pagate in
contanti. Per esempio,
una variazione in una certa direzione del 5% del valore dei titoli cui i
derivati fanno riferimento, potrebbe comportare la necessità di pagamenti
“sull’unghia” dell’ordine di 2 o 3 trilioni di dollari, cifre svariate
volte superiori a quelle sufficienti a far saltare il sistema finanziario
planetario. Un assaggio,
del resto, lo si è già avuto nel 1998, con il fallimento del
Long Term Capital Management, un fondo americano dedicato alla speculazione
con derivati, in cui anche la Banca d’Italia era coinvolta, che minacciò di
trascinare con sé tutta la finanza globale e per ció stesso costrinse la
Federal Reserve a organizzare con urgenza un piano di salvataggio basato sulla
partecipazione delle maggiori banche americane.
I
fondamenti
Dato
che la borsa può trasferire profitti da un settore all'altro e da un individuo
a un altro, ma non creare profitti aggiuntivi per l'insieme della società,
l'espansione finanziaria degli ultimi vent'anni ha dovuto basarsi su di un
accrescimento straordinario dei profitti realizzati fuori dalla finanza
nella cosiddetta economia reale, fenomeno che in effetti si manifesta in modo
chiarissimo attraverso le statistiche delle contabilità nazionali. Negli Stati
Uniti il rapporto fra profitti e salari complessivi come componenti del reddito
nazionale si è accresciuto dal 1981 alla fine del 2000 da 0.41 a circa 0.6, un
incremento di circa il 50% che annulla praticamente tutto l'avanzamento della
quota salariale nei confronti dei profitti avvenuto nel corso dei trent'anni
precedenti -da 0.62 del 1952 ad appunto 0.41 del 1981. Una diminuzione in queste
proporzioni della quota salariale nel reddito nazionale, causata dalla
stagnazione dei salari in termini di potere d’acquisto e dall'incredibile
aumento dell'intensità del processo lavorativo, è un fenomeno abbastanza
inedito nella storia contemporanea, e vale a spiegare la maggior parte
dell'aumento della redditivitá del capitale nell'economia americana negli
ultimi vent'anni.
Il
saggio del profitto, misurato come rapporto fra il flusso annuo di profitti
(lordi o netti) e l’ammontare di capitale fisso (impianti, macchinari,
strutture) del settore privato dell’economia, si è accresciuto dal livello di
circa l’8% nel 1981 al 15% nel
2000, ossia dell’ 87.5% in 19 anni. Si tratta di un consistente recupero del
declino del dopoguerra, spiegabile per il 75% mediante il peggioramento della
posizione relativa dei salariati,
e per il restante 25% con l'intensificazione del processo lavorativo che ha
consentito il risparmio e la maggior spremitura fisica di impianti, strutture e
macchinari. Tuttavia, a questi maggiori guadagni non è esattamente capitato di
venire reinvestiti; all’inversione della tendenza del saggio del profitto
industriale e commerciale non ha corrisposto una nuova parallela tendenza
all'innalzamento del tasso di investimento ma la prosecuzione della stagnazione,
già emersa negli anni '70
quando si invertì la tendenza all'aumento tipica degli anni del golden age postbellico.
Al posto della possibile restaurazione dell’elevato tasso di investimenti del
nostro boom giovanile è
sopravvenuta l’accumulazione cartacea in titoli di ogni tipo sostenuta dal
continuo accrescimento dei loro prezzi: qui sono finiti i maggiori profitti
degli anni 80 e 90.
È
vero che se si esaminano le statistiche nazionali americane si osserva un vero e
proprio boom di investimenti in macchinario nella seconda metà degli anni ’90
che sembra rovesciare il movimento declinante dei precedenti quindici anni. Ma
questa visione è abbastanza ingannevole. Se si
fa astrazione dagli acquisti di computer e altro equipaggiamento informatico il
boom svanisce; per tutta la restante tipologia di macchinario, apparecchiature,
impianti e strutture non vi é alcun boom,
ma la continuazione del precedente andamento. E anche il grande aumento degli
investimenti in apparecchiatura informatica e telecomunicativa si ridimensiona
decisamente se si continua ad usare la procedura tradizionale di stima
dell’inflazione dei prezzi invece della nuova, alquanto criticata, metodologia
introdotta negli anni 90 che dilata a dismisura il peso del settore informatico
nel PIL americano.
Perfettamente
parallelo è il discorso sulla produttività. Anche il tasso di incremento della
produttività del lavoro appare subire una violenta accelerazione nella seconda
metà degli anni ’90,
in concomitanza con il boom di investimenti in strumentazione informatica, ma
anche qui,
se usciamo dal settore che produce tali beni per esaminare i settori che li
usano produttivamente, il boom della produttività svanisce, e accade anche di
peggio se invece della nuova usiamo la vecchia metodologia di stima statistica
dei prezzi deflazionati. La fiaba metropolitana corrente narra tuttavia che più
informatica si usa più si può accrescere la produttività del lavoro: una
fiaba appunto.
Con
il processo di rigonfiamento del valore del capitale azionario dovuto al
continuo investimento di denaro nella borse deve naturalmente arrivare un
momento in cui il valore monetario del capitale fisso delle società e il valore
monetario del capitale azionario che è il proprietario teorico di questo stesso
capitale fisso hanno perduto qualsivoglia corrispondenza reciproca, per quanto
il capitale non possa ovviamente esistere due volte, una volta come impianti,
macchinario, uffici etc. e una seconda come certificati azionari, e il detentore
di un determinato pacchetto di azioni altro non sia che il detentore della
proporzionale quota di capitale fisso di una determinata società. Secondo
alcune stime lo stock complessivo di capitale azionario delle società comprese
nell'indice Standard & Poor's della borsa di New York vale attualmente circa due volte lo
stock complessivo corrispondente di capitale fisso delle medesime società, e
quello del molto più piccolo ma assai più noto Dow Jones Industrial Average
(circa il 21% del mercato) addirittura quattro volte, un'ascesa veramente
fantastica dai livelli di approssimativa parità della metà degli anni '70,
il che vuol dire che in teoria uno che possedesse l’intero indice Standard
& Poor's rivendendolo
potrebbe creare imprese identiche a quello dell’indice ma grandi il doppio, ed
il quadruplo l’ipotetico proprietario del Dow Jones, mentre il padrone
del Nasdaq sarebbe del tutto inarrivabile potendo innalzarsi fino a circa
venti volte. Visto da un altro punto di osservazione, tale fenomeno
significa solo che nell’ambiente iperspeculativo dell’economia dei nostri
tempi il reddito procurato dal possesso azionario, cioè il dividendo che è una
quota dei profitti generati da una certa azienda, non conta più quasi nulla.
Difatti, mentre il rapporto fra prezzi delle azioni e profitti è salito dal
valore di 6.7 volte del 1980 al valore di 37.2 volte alla metà del 2000 (indice
S&P), livello che è 2.6 volte maggiore del valore medio del
dopoguerra pari a circa 14, il rapporto fra dividendi e prezzi azionari, che ci
dice quanto reddito ricaveremo in proporzione del nostro investimento azionario,
è sceso a livelli infimi: dal 5% del 1975 all’1.2
% di fine 1999 risalendo solo lievemente all’1.5% di inizio 2002,
al punto che i dividendi sono diventati una componente praticamente trascurabile
dei guadagni complessivi di borsa (capital gains + dividendi) e quindi di
tutta l’attività di compravendita azionaria.
È
molto difficile compiere una stima accettabile dei capital gains ossia
dei profitti monetari derivanti dalla vendita delle azioni ad un prezzo
superiore a quello di acquisto negli ultimi vent'anni. In polemica coi teorici
del mercantilismo del secolo XVII, per i quali l’attività economica era una
specie di rapina organizzata che aveva la sua arena nel commercio
internazionale, gli economisti classici non a torto chiamavano questo tipo di
profitti profits upon expropriation o alienation per distinguerli
dai profitti della normale attività produttiva e commerciale. Una parte
di questi profitti è stata reinvestita nel settore stesso della finanza per
acquistare equipaggiamento informatico e telematico, approntare uffici,
ecc.; un'altra quota è finita in salari più alti e premi vari ai managers e
funzionari del settore finanziario e non, denari a loro volta spesi
nell'acquisto di beni e servizi di lusso, moltissimi dei quali importati; una
terza si è infine composta di maggiori imposte intascate dal governo,
che se ne è servito per riscattare una consistente parte del debito pubblico,
operazione intesa a creare spazio al debito privato e favorire lo spostamento
dell'investimento verso le obbligazioni private e le azioni. Dato che le azioni
e le obbligazioni sono state potentemente usate come garanzia per avere
prestiti, il notevole incremento dei profitti virtuali di cui si è detto in
precedenza sta invece alla base della grande espansione creditizia che ha
accompagnato e sostenuto il boom della seconda parte degli anni ’90.
Se poniamo assieme l'uso dei profits upon alienation,
l’allargamento del credito e l'effetto dei consistenti mutamenti nelle
procedure statistiche introdotti negli anni ‘90,
otteniamo praticamente tutti gli ingredienti del recente boom dell’economia
americana, una fase di espansione economica nettamente differente dalle altre
del secolo XX,
in particolare dalla grande crescita del nostro dopoguerra.
Il
boom Usa
Il
periodo dal 1995 al 2000 pareva avere riportato in auge negli Stati Uniti i
tassi di crescita economica e di incremento della produttivitá dell’età
dell’oro postbellica (1947-1973). Mentre dal 1947 al 1973 il tasso di crescita
annuo medio del Pil aveva superato il 4%, dal 1973 al 1982 era sceso di quasi la
metà al 2.3% per risalire un poco nel periodo fino al 1995 al 2.8%, ma dal 1996
al 2000 era balzato a quasi il 3.8%,
dando l’idea di prepararsi ad agganciare e forse superare il mitico passato
degli indimenticati decenni di Sinatra e Marylin. Nel 2001, tuttavia, il tasso
di incremento del Pil è precipitato allo 0.25%, per ritornare nel 2002 verso il
2%, in linea con la solita debole crescita del periodo seguito al boom
postbellico. Come sappiamo, la crescita accelerata del quinquennio 1996-2000 è
stata accompagnata da un assai più impressionante aumento dei valori degli
indici azionari e obbligazionari;
questo movimento ha trovato il suo apice precisamente verso la fine
dell’estate dell’anno 2000, allorché ha cominciato a invertirsi dando vita
ad una contrazione di circa il 13% annuo medio dell’indice borsistico Standard
& Poor’s dal settembre 2000 a oggi e una diminuzione molto maggiore
del Nasdaq. I due fenomeni sono connessi? Non vi è dubbio, dato che
dipendono entrambi dalla diminuzione verticale dei profitti delle società
americane; per essere precisi,
da quella che è la più consistente diminuzione congiunturale di profitti lordi
e netti
(-30% dal luglio 1999 al febbraio 2001) registrata dai tempi dalla depressione
degli anni ’30.
I minori profitti hanno simultaneamente ridotto quasi a zero gli investimenti in
capitale fisso e tolto alimento al processo di riacquisto di azioni da parte
delle corporations e alla partecipazione ai fondi comuni.
L’elevatissimo grado di indebitamento delle grandi aziende e dell’insieme
della società americana è improvvisamente emerso ponendo allo scoperto
l’intima fragilità della maggiore economia del mondo.
Dopo
essere rimasto più meno costante attorno al 150% del Pil dagli anni ’50
fino all’inizio degli anni ’80,
l’indebitamento interno totale dell’economia americana in vent’anni o poco
più è raddoppiato raggiungendo nel 2002 i 30 trilioni di dollari,
ossia il 300% del Pil. Di questo l’indebitamento pubblico è il più piccolo
(circa il 47% del Pil) nonché l’unico diminuito negli ultimi decenni; il
debito delle società non finanziarie è appena maggiore del debito pubblico, ma
è aumentato rapidamente negli ultimi otto anni; il debito delle famiglie ha
largamente superato ogni record,
toccando il 77% del Pil, vale a dire più che triplicando dagli anni ’50,
e producendo per la prima volta nella storia un tasso negativo di
risparmio rispetto al reddito; ultimo
ma non meno importante, il debito del settore finanziario – il più
elevato debito relativo settoriale e quello in cui l’indebitamento sostiene
direttamente lo sviluppo dell’attività speculativa – ha raggiunto un valore
pari al 95% del Pil, il che corrisponde a un incremento di 37 volte negli ultimi
cinquant’anni, del 100% negli ultimi otto anni, e del 27% negli ultimi venti
mesi (per
l’andamento di tutti questi debiti settoriali in rapporto al Pil, vedi il
Grafico 3).
Grafico
3. Debiti settoriali in percentual del PIL americano – 1952-2001
Malgrado
questo immane incremento dell’indebitamento assoluto e relativo, la situazione
delle casse delle corporations americane di per sé non sembra prospettare
rischi assoluti a breve termine. Quello che conta non é solo il livello del
debito oppure il suo rapporto con la produzione totale ma il rapporto fra
l’ammontare periodico del rimborso dei debiti e il reddito; fino a che i
profitti, nel caso delle aziende, e i redditi familiari per le famiglie sono in
grado di sostenere il carico dei rimborsi (pagamenti di interessi + capitale) si
può tirare avanti. Il ghiaccio però si sta assottigliano. Per il grossissimo
debito del settore finanziario, il cui rimborso dipende in gran misura dal buon
andamento della speculazione le cose stanno gia su terreno cedevole; per gli
altri debiti tanto una nuova recessione che un innalzamento dei tassi di
interesse possono assai facilmente dare il via alla frana. Il miracolo è stato
ed è tuttora prodotto dalla continua tendenza al declino dei tassi di
interesse, in corso ben dal 1981 pur fra varie oscillazioni, che hanno ormai
toccato i livelli fra i più bassi del secolo in termini reali (depurati
dell’inflazione) anche per l’effetto dell’afflusso quotidiano di capitali
dal resto del mondo, massimamente dal Giappone e dall’Europa, mantenuto
eccezionalmente elevato dalla continua stagnazione delle loro economie. Se i
tassi di interesse invertissero la tendenza presente riprendendo a salire, come
accaduto per esempio sino al 1981, il quadro complessivo muterebbe di colpo,
rendendo assai presto il carico del debito letteralmente insostenibile per tutto
l’insieme dell’economia americana; effetto per il quale sarebbe oggi
sufficiente un aumento dei tassi di interesse molto meno pronunciato di quello
materializzatosi nella seconda metà degli anni ’70.
Negli anni ’70 e ’80 non esistevano poi in pratica i derivati, che, come
forma di credito/debito aleatorio, vanno aggiunti alla massa di debito esistente
per rifinire con un tocco di temperamento schizoide la fisionomia della fragilità
finanziaria giá così pronunciata.
In
sostanza, il
destino a breve termine dell’economia mondiale dipende dalla stabilità del
suo sistema finanziario,
ossia dalla stabilità della finanza americana, che a sua volta oltre che dalla
produzione interna di profitti dipende, un po’ come l’impiccato dalla corda,
dall’influsso di capitali dal Giappone e dall’Europa. Questo movimento
tuttavia è tanto più intenso quanto più ristagnanti e prive di prospettive
sono le economie extra-americane,
ma per converso tanto più contribuisce all’approfondimento di tale
stagnazione, fino a minacciarle di portarle a un punto in cui le economie di
Giappone ed Europa non siano più nemmeno in grado di generare un flusso esterno
di capitali oppure siano costrette a interromperlo con la forza, con le
conseguenze che già si sono immaginate. In breve, il momento in cui
l’economia globale non sará più in grado di generare un reddito commisurato
con il carico del debito creato sembra approssimarsi. Anche stavolta, chi vivrá
vedrà.
Milano,
Novembre 2002