L’arcano globale
L’economia
mondiale è da molto tempo globalizzata tanto nel campo del commercio quanto in
quello degli investimenti produttivi. Ciò che negli ultimi vent’anni ha reso
frenetici i tentativi di penetrare mercati esterni e attrarre investimenti esteri è la riduzione del tasso
mondiale di crescita rispetto ai primi decenni del dopoguerra. L’impressione
della sopravvenuta recente globalizzazione dell’economia è in realtá un
prodotto del poderoso emergere della finanza speculativa globale, soprattutto
attraverso l’impiego dei derivati, in grado di generare spostamenti istantanei
di capitali liquidi tali da mettere in ginocchio i singoli Paesi.
Paolo
Giussani
Un refrain
dei nostri giorni è l’idea che l’economia mondiale sia entrata in una fase
qualitativamente del tutto nuova, contrassegnata dalla prevalenza del mercato
internazionale – globale appunto –
sui mercati nazionali e locali. Con tale mutazione si tenta ormai di spiegare
qualsiasi processo ed evento della vita sociale contemporanea; gran parte della
polemica politica ruota attorno a essa, e perfino il più noto movimento di
protesta occidentale dei nostri giorni si è naturalmente
denominato movimento “no global”. Tuttavia, basta uscire solo un poco
dalla retorica per scoprire ben presto che ovunque regna una notevole confusione
e non esiste una definizione precisa di “globalizzazione” e di “economia
globalizzata” sulle quali poter ragionare. Tanto gli entusiasti che i
detrattori della globalizzazione non hanno finora compiuto alcun vero sforzo per
chiarire se per globalizzazione intendano il superamento di una determinata
soglia critica nel processo di internazionalizzazione dei rapporti economici
oppure una semplice tendenza in corso o uno stato ormai consolidato raggiunto
dall’economia mondiale. Meno che mai si sono preoccupati di delucidare se la
globalizzazione riguardi la produzione e il commercio di beni e servizi,
l’investimento di capitale produttivo oppure i movimenti a breve termine di
capitale finanziario a livello planetario. Tre meccanismi assai diversi fra
loro, che non sono affatto soggetti alla necessità di seguire un medesimo
andamento.
Commercio
Internazionale
La
prima e più diretta misura del grado di internazionalizzazione della vita
economica è sicuramente il rapporto fra i valori monetari oggetto del
quotidiano commercio internazionale di beni e servizi (quello che comporta lo
scambio di monete nazionali) e il valore monetario della produzione totale
mondiale. È banale che questo indice sia decisamente maggiore oggi (circa il
21%) di quanto non fosse subito dopo la fine della II guerra mondiale (5.5% nel
1948), ma la tendenza, ossia l’attuale velocità del moto verso un’ulteriore
internazionalizzazione della produzione, non è affatto così scontata. Il
Grafico 1 consente di esaminare i dati relativi a tutto il dopoguerra per i
Paesi sviluppati – quelli della cosiddetta area ocse
– e osservare che le tendenze all’estensione del commercio internazionale in
rapporto a tutta la produzione si sono concentrate quasi totalmente nel periodo
1967-1980, e in particolare nell’intervallo 1967-1975, quando l’indice passò
dall’8 al 14%. Gli altri periodi – 1948-1967 e 1975-2001 – appaiono un
po’ come periodi di relativa stagnazione o lenta regolare crescita.
Sicuramente gli ultimi anni, dal 1994 al 2001, segnano un nuovo considerevole
accrescimento, dal 15.5 al 21%, ma che non può costituire nulla di eclatante,
se messo a confronto con tutto l’andamento del dopoguerra.
Ma
perché il commercio internazionale cresce in rapporto alla produzione mondiale?
In realtà non cresce solo il commercio internazionale, ma anche quello
interregionale all’interno dei singoli Stati – per esempio quello
interstatale negli Stati Uniti. Si tratta di tendenze intrinseche del sistema
economico, dovute alla naturale crescente divisione internazionale del lavoro,
tendenze che esistono fin dalla rivoluzione industriale e che già raggiunsero
un apice intorno al 1913, quando furono arrestate e soppresse dal lungo periodo
di grossa turbolenza mondiale costituito da Prima guerra mondiale, fase
iperspeculativa degli anni 20, grande depressione degli anni 30 e Seconda guerra
mondiale, ma che ripresero normalmente con grande vigore nel boom economico del
nostro dopoguerra.
Grafico 1. Rapporto % fra
Esportazioni internazionali e prodotto mondiale lordo
1870-2000
Da quando è
entrato in funzione l’Euro, un altro problema è poi venuto fuori nella
valutazione del peso del commercio internazionale. Dato che l’uso di una
moneta unica interstatale rende nazionale ciò che prima era internazionale, il
commercio fra gli Stati appartenenti a Eurolandia non è più computabile come
commercio internazionale; tuttavia una fetta assai sostanziale e crescente del
commercio internazionale era appunto quella che si svolgeva fra i membri di
Eurolandia, col risultato che, se consideriamo ora retrospettivamente il
commercio fra questi Stati come nazionale, il rapporto fra commercio
internazionale e produzione mondiale appare non aumentare più dalla seconda metà
degli anni 80 in poi.
Anche negli
aspetti normativi e istituzionali il commercio internazionale non sembra ai
nostri giorni avere apportato significativi mutamenti qualitativi. Le guerre
commerciali e l’impiego di politiche protezionistiche su vasta scala sono
qualcosa che appartiene decisamente alle epoche pre-Seconda guerra mondiale;
malgrado l’enfasi che ancor oggi viene posta attorno all’eliminazione degli
ostacoli legali e politici al libero scambio, in realtà circa l’85% delle
barriere doganali e tariffarie esistenti nel 1945 era già sparito fin dall’epoca del Kennedy Round (1964-1967) dei colloqui internazionali sulla
regolamentazione del commercio mondiale.
Ma come
spiegarsi, dunque, l’impressione quotidiana di un enorme afflusso di
manufatti, soprattutto da Paesi extra-area ocse,
come Cina, Thailandia, Malaysia e così via? Non si tratta forse dell’evidente
sintomo di un’eccezionale accelerazione nella globalizzazione della
produzione? Non necessariamente. Le merci che arrivano dai Paesi di nuova
industrializzazione sono quasi tutte manufatti relativamente semplici, o, come
oggi si usa dire, low-tech. La loro
produzione richiede a sua volta l’importazione di mezzi di produzione e
prodotti intermedi che provengono dai Paesi sviluppati, i quali,
paradossalmente, se li vedono ritornare in forma di beni di consumo. Questo è
un primo motivo che fa apparire sovrastimata la dipendenza esterna
nell’approvvigionamento di beni di consumo. Il fatto è che si è sempre stati
eccessivamente abituati a ragionare in termini di Prodotto Interno Lordo –
categoria contabile che, malgrado la qualifica, è una grandezza netta che non
contiene i prodotti intermedi e le materie prime – e troppo poco in termini di
Prodotto Complessivo, che li contiene. Il secondo motivo discende dalla dinamica
generale del sistema economico, in cui la produzione di beni tende naturalmente
a diminuire rispetto a quella dei servizi. E i servizi non sono quasi per nulla
esportabili, dovendo in linea generale venire consumati al momento e in loco,
tant’è che il commercio internazionale è quasi totalmente scambio di beni
tangibili manufatti e non di servizi.
Investimenti
Internazionali
Un tempo
molte nazioni del cosiddetto Terzo mondo temevano e respingevano gli
investimenti produttivi dei Paesi
sviluppati come fonte di controllo economico-politico e causa di sottosviluppo
interno. Ma tutto è completamente cambiato, e oggi il panorama economico
internazionale assomiglia sempre di più a un quartiere a luci rosse di qualche
città del nord Europa, dove tutti fanno a gara sempre più freneticamente e
strenuamente nel cercare di attrarre con vantaggi, benefici e incentivi di ogni
genere il capitale straniero reputato indispensabile per cercare di sfuggire
dalla morsa del sottosviluppo potenziale. Le barriere all’ingresso e
all’uscita del capitale produttivo sono state rimosse e sostituite da calamite
di ogni tipo non a causa di mutamenti politici rispetto all’era del
nazionalismo statalista del Terzo mondo, ma del declino economico di buona parte
del globo. Sicuramente così si spiega in gran parte per esempio il boom della
piccola economia irlandese degli ultimi dieci anni, che ha impiegato la notevole
mole di aiuti e incentivi ottenuti dall’Unione Europea per procurare agli
investitori stranieri facilitazioni del tutto fuori dell’ordinario, ovviamente
vantaggi pagati dal resto dei Paesi
dell’Unione.
Grafico 2.
Rapporto % fra Investimenti Esteri e PIL per vari paesi OCSE
Ma
l’economia mondiale dipende davvero dagli investimenti produttivi esteri?
Assai poco. Il Grafico 2 mostra qual è stato l’andamento recente per i Paesi
più importanti dell’area ocse. Per
l’insieme di questi Paesi il rapporto fra investimenti produttivi e prodotto
interno si aggira intorno al 2%, meno di un decimo degli investimenti
complessivi. È aumentato nel corso degli ultimi decenni, ma resta una grandezza
relativamente trascurabile, e soprattutto una variabile soggetta a una notevole
volatilità, essendo cresciuta dai valori vicini allo zero della metà degli
anni 70 all’1,6% del 1990 per poi scendere velocemente di nuovo quasi a zero
nei cinque anni successivi, risalire verso il 2% sino al 2000 e calare di colpo
allo 0,5% nel 2001. Degli
investimenti esteri produttivi solo una piccola e, a quanto pare, declinante
parte viene indirizzata all’allargamento della capacità produttiva
disponibile; la quota maggiore serve ad acquisire aziende già esistenti: nel
1980 il rapporto fra i due tipi di investimento era di circa 1 a 2, nel 1990 era
salito a 1 a 5, attualmente supera il valore di 1 a 8.
Le analisi più
accurate rivelano che quello che in massima parte determina l’andamento degli
investimenti esteri dei Paesi sviluppati è il movimento di fusioni e
concentrazioni di capitale fra grosse società multinazionali. Infatti, i due
periodi di boom degli investimenti esteri – 1985-1990 e 1995-2000 –
coincidono con due immani ondate di fusioni fra grosse società di differenti
nazionalità. L’idea popolare che gli investimenti esteri procedano
unidirezionalmente dalle aree sviluppate verso aree sottosviluppate in quanto
attratti soprattutto dai minori costi della forza-lavoro non ha molto fondamento
empirico. Se così fosse, non si capirebbe proprio come le aree sottosviluppate
siano sempre tali, a parte alcuni casi di semisviluppo con qualche successo
(tipo Corea del Sud), pur continuando a ricevere dall’esterno enormi flussi di
investimenti. Ancor meno si potrebbe spiegare l’accrescimento nei
differenziali dei tassi di sviluppo fra Nord e Sud negli ultimi decenni; ma
soprattutto si urterebbe frontalmente contro le statistiche che dichiarano che
su 100 dollari investiti all’estero dai Paesi sviluppati nel periodo
1970-2000, in media quasi 90 sono finiti in altri Paesi sviluppati, e solo 10
hanno raggiunto le aree sottosviluppate. È verissimo che questo rapporto si è
considerevolmente modificato negli ultimi trent’anni, dato che la quota di
investimenti verso le aree povere era quasi nulla negli anni 60, ma è
altrettanto vero che la tendenza è assai lenta, incerta e volatile, e sinora
non ha quasi scalfito la prevalenza degli investimenti nei
Paesi ricchi.
L’impressione
di un massiccio trasferimento di capacità produttiva verso aree più povere, e
quindi con salari molto più bassi, è in gran parte generata dalla
deindustrializzazione pura e semplice, ossia dalla riduzione netta della capacità
produttiva industriale, che viene scambiata in buona misura (almeno per i due
terzi, secondo dettagliate stime) per spostamento degli impianti e dei
macchinari verso i Paesi poveri. Il fenomeno descritto dal bestseller No
Logo di Naomi Klein – un buon reportage giornalistico scambiato
da taluni per una trattazione
teorica –, quello di grosse corporation occidentali (classici esempi sono Adidas
e Nike) che con fabbriche relativamente obsolete in Asia sud-orientale
riescono a lucrare immani guadagni dalla differenza fra il prezzo di vendita dei
propri manufatti, reso alto dall’imposizione del marchio magico presso il
consumatore ricco, e i costi di produzione, quasi nulli per via della povertà
locale, non è ancora una generalizzazione applicabile al capitalismo
industriale di oggi. Interi settori cruciali della produzione si trovano ancora
al Nord, e la distanza tecnologica fra Nord e Sud si è perfino accresciuta
grazie al fatto che, mentre nel Sud si sviluppavano nuove fabbricazioni di beni
di consumo, il Nord approfondiva considerevolmente la sua già elevata
specializzazione nella produzione di beni produttivi strumentali e prodotti
intermedi, componentistica ecc.. Il fatto che questo non venga colto dal senso
comune recente è un’altra conseguenza dell’abitudine inveterata a ragionare
in termini di Prodotto Lordo e non di Prodotto Complessivo, che a sua volta è
una tendenza spontanea della vita quotidiana, la cui visuale è naturalmente
circoscritta ai beni di consumo come mezzi essenziali dell’esistenza e nulla
può osservare dei prodotti intermedi e degli strumenti di produzione.
Non c’è
dubbio che oggi i movimenti degli investimenti produttivi siano praticamente
privi di restrizioni, ma questo rende sicuramente la nostra epoca differente dai
primi trent’anni del dopoguerra soprattutto in riferimento ad alcune regioni
del Terzo mondo; all’interno dell’area ocse gli investimenti produttivi sono sempre stati più o
meno liberi, altrimenti si farebbe fatica a rendere conto della potente ascesa
delle imprese multinazionali nel corso del dopoguerra. Ma la libertà non basta,
occorre che i capitali produttivi la libertà teorica la sfruttino trasferendosi
a destra e a manca. Ma per questo movimento i prerequisiti non sono così
scontati. Occorre che i capitali siano sufficientemente grossi e che nello
spostamento si prospetti un buon differenziale di redditività, fattori che non
dipendono dall’assetto istituzionale o dalle convenzioni internazionali. Nel
campo degli investimenti diretti, per ora la globalizzazione riguarda più
quest'ultima sfera che non le tendenze economiche vere e proprie.
Finanza
Internazionale
Tutti sanno
che nel 1929 gli indici borsistici di tutto il mondo, cominciando da Wall
Street, subirono un violento e improvviso calo che, a quanto pare, fu l’atto
iniziale di un breve complicato processo che, passando qualche mese più tardi
per il fallimento di tutto il sistema creditizio americano e mondiale, condusse
alla più catastrofica e prolungata depressione economica moderna e, tramite
questa, nientemeno che alla Seconda guerra mondiale. Pochi tuttavia sanno che
gli anni Venti furono un periodo di eccezionale investimento speculativo e di
speculazione altamente internazionalizzata. Molti pensano che per avere una
finanza mondiale siano indispensabili le tecnologie telecomunicative che abbiamo
oggi, e ignorano che già verso la fine del secolo xix
i movimenti speculativi di capitale spaziavano su tutto il globo esattamente
come oggi. I lettori di Honoré de Balzac, il romanziere classico più esperto
di meccanismi economici, conoscono bene lo straordinario Baron Frédéric de
Nucingen, grande finanziere della Restaurazione che lucrava ovunque nel mondo i
suoi profitti, personaggio modellato sulla figura del fondatore della Maison
Rotschild di Parigi che Balzac conosceva bene. Per tacere, a maggior
ragione, degli anni Venti del secolo successivo, in cui un poco di
telecomunicazione c’era. Tornando ai nostri giorni, è stato lo sviluppo
smisurato della finanza nel corso degli ultimi vent’anni a generare una forte
domanda di strumenti informatici e telematici, e non quest’ultima a rendere
possibile lo sviluppo della finanza globale.
Nel campo
della spettacolare ascesa dell’investimento finanziario degli ultimi
vent’anni non solo il processo di globalizzazione è indiscutibile, ma
addirittura in larga misura è il
fenomeno stesso, perché per sua intima natura la finanza neppure sa cosa siano
i confini degli Stati. A meno che i movimenti globali non le vengano inibiti
dalla forza coercitiva delle leggi, come è stato dalla depressione degli anni
30 fino ai primi trentacinque anni dopo la fine della guerra. L’accrescimento
dei flussi annuali internazionali di capitale speculativo per l’acquisto di
titoli in rapporto al Prodotto Interno Lordo per l’area ocse è stato veramente notevole: dal 4% del 1975 all’ 80%
del 1994 al 160% del 2000 –vedi Tabella 1.
Tabella 1.
Investimenti finanziari internazionali in % dei rispettivi PIL
|
% |
1975-79 |
1980-89 |
1990-94 |
1996 |
1998 |
1999 |
2000 |
|
USA |
5.9 |
43.2 |
94.1 |
129.0 |
166.3 |
125.8 |
145.2 |
|
Giappone |
2.8 |
73.0 |
108.7 |
156.2 |
222.8 |
178.9 |
192.1 |
|
Europa |
4.6 |
6.2 |
27.7 |
82.1 |
148.1 |
168.7 |
175.3 |
A questo
vanno aggiunte molte altre forme di movimento a breve termine, di cui due sono
le principali: la speculazione sulle variazioni dei cambi monetari e l’impiego
di derivati internazionali. La prima attività, la forma speculativa originaria
emersa su larga scala dopo il 1945 verso la metà degli anni 70, ha ormai
raggiunto livelli che sono attorno a 100 volte il valore del commercio
internazionale; e la seconda, nata verso la fine degli anni 80, ha ormai
superato in valore complessivo la metà del Prodotto Lordo Mondiale, aumentando
di ben cinque volte negli ultimi otto anni.
Comprando o
vendendo un’opzione o un future che
dà la possibilità o impone l’obbligo di acquistare o vendere un titolo o
della moneta estera a valori predeterminati o di scambiare prestiti a tassi di
interesse nazionali diversi, si è in grado di intascare direttamente i guadagni
di queste variazioni con un esborso piccolissimo rispetto alle grandezze
coinvolte. Perché i guadagni siano potenzialmente elevati bisogna però
spaziare su un terreno in cui le variazioni dei prezzi degli oggetti della
speculazione siano assai ampie, e questo ambito non può essere nulla di meno
che il mondo stesso. Dietro a tutte la gravi crisi finanziarie locali degli
ultimi dieci anni – Brasile, Messico, Asia, Argentina – si trova
sistematicamente l’impiego massiccio di derivati. Alla base della sostituzione
delle monete di svariate economie del Terzo mondo con il dollaro, o perlomeno di
aggancio con la divisa americana –
la dollarization – vi è
il movimento di gigantesche quantità di derivati sui cambi e sui tassi di
interesse, che ovviamente si aggiungono ai movimenti tradizionali
di capitali e riescono a drenare nel giro di ore somme di grandezza tale
da mettere all’istante in crisi le finanze e i sistemi creditizi di Paesi
importanti e ricchi – figuriamoci l’effetto su quelli poveri e di scarso
peso delle aree meno sviluppate!
La globalisation
in larga misura coincide con il presente dominio del capitale finanziario. Sotto
l’aspetto istituzionale è nata con il processo di deregolamentazione
finanziaria e creditizia svoltosi fra la fine degli anni 70 e la prima metà
degli anni 80, che ha simultaneamente quasi annullato i limiti delle possibili
attività degli svariati tipi di azienda finanziaria e bancaria ed eliminato
quasi ovunque i controlli sui cambi e sui movimenti internazionali di capitale
monetario. Sotto l’aspetto economico è nata ancor prima, dalla fine del
sistema di cambi fissi fra le monete instaurato nel 1944 a Bretton Woods e
crollato all’inizio degli anni 70 e dalla successiva trasformazione di grosse corporation in entità finanziarie in cerca di profitti aggiuntivi a
quelli industriali. Non sappiamo tuttavia dove tutta la faccenda globale finirà.
Per ora possiamo constatare che, oltre alla visibile rovina di intere nazioni,
vedi l’esempio dell’Argentina, ha condotto a un livello di indebitamento
globale senza precedenti nella storia contemporanea. E’ difficile dunque
considerare ingiustificato il crescente senso di precarietà con cui le società
– occidentali e non – da tempo affrontano la vita di tutti i giorni.
Milano,
Novembre 2002