Cry
for yourself, Argentina!
Paolo
Giussani
Il
declino economico-sociale dell’Argentina ha dell’incredibile ed è senza
precedenti, caso russo a parte naturalmente. Ai tempi della Bélle
Époque l’Argentina era uno dei sei Paesi più prosperi del pianeta e solo
quarant’anni orsono la sua economia era più vasta di tutta la restante
economia latinoamericana, Brasile compreso. Ora la somma di disoccupati e
sottoccupati comprende il 48% della popolazione attiva (+132% rispetto al 1990),
il 52% della popolazione, (ossia 19 su 37 milioni) vive al di sotto della soglia
di povertà, e il 20% (7,5 milioni) non dispone di sufficiente nutrimento. Fra
bambini e anziani le morti per fame, freddo e malattie arcaiche si stanno
accrescendo a ritmi impressionanti. Un’intera nazione, grande quanto la
Spagna, è puramente e semplicemente precipitata in un abisso da cui non sembra
esserci uscita possibile.
Se
si osservano le cifre sulla crescita economica argentina degli ultimi
vent’anni si individua con estrema facilità il fattore che ha scatenato la
catastrofe: l’avvento del capitale speculativo che ha convertito la profonda
stagnazione economica degli anni 80 (in cui il settore industriale argentino si
era contratto di più del 20%) in una furibonda crisi distruttiva. Non solo i
governanti non hanno fatto assolutamente nulla per utilizzare la forza
dell’amministrazione pubblica allo scopo di contrastare le tendenze in atto,
ma hanno agito in senso esattamente opposto cavalcando cinicamente la
stagnazione economica dalla fine degli anni 70 e, soprattutto il conseguente
incremento del debito estero, per sfruttare a vantaggio proprio e dell’elite
le nuove tendenze eocnomiche. Soprattutto dalla prima presidenza di Carlos Menem
in poi, la politica è servita ad assecondare, moltiplicare e per certi versi
addirittura creare il predominio assoluto del capitale finanziario, interno ed
estero, che é esattamente il contenuto, spesso perfino dichiarato urbi
et orbi, delle misure economiche etichettate sotto la dizione di
“neoliberismo” e sempiternamente raccomandate dal Fondo Monetario
Internazionale, dalla Federal Reserve, dalla Banca Centrale Europea, dal
Ministero del Tesoro Americano e da quelli Europei, dalla World Bank, dall’OCSE,
in una parole da tutte le istituzioni economiche internazionali nessuna esclusa.
L’essenza
delle politiche praticate da Menem e dal suo celebre ministro dell’economia
Domingo Cavallo è costituita dal micidiale mix di privatizzazioni e dollarization,
cui, oltre alla solita riduzione delle spese pubbliche, va aggiunta
un’infinita serie di facilitazioni rese all’attività speculativa.
L’insieme delle aziende privatizzate
in Argentina (telecomunicazioni, ferrovie, estrazione, acqua, energia elettrica,
autostrade, sanità, etc.) è il più vasto del mondo se calcolato in relazione
al PIL nazionale; i prezzi cui sono stati venduti questo notevole corpo di
servizi e infrastrutture non ha superato il 10% del valore effettivo delle
aziende procurando guadagni stellari all’elite politico-finanziaria
concentrata attorno a Menem, e le multinazionali, soprattutto francesi e
spagnole, cui le risorse produttive sono andate, le hanno da subito usate come
vacche da mungere per estrarne fondi da impiegare sul mercato finanziario senza
degnarsi di effettuare il minimo serio investimento trascurando anche la normale
attività di mantenimento e ricostituzione de capitale fisso. La visione attuale
di quella che un tempo era la monumentale stazione centrale di Buenos Ayres,
appartenente a quelle che una volta erano le ferrovie argentine ora defunte (il
numero di occupati è diminuito in quindici anni da duecentomila a diecimila
unità), assurge a sconvolgente visione allegorica degli effetti delle
privatizzazioni dei servizi pubblici: un cumulo di rovine che qualsiasi
visitatore ignaro delle cose del nostro pianeta attribuirebbe a una guerra.
Contrariamente alla mitologia corrente (ormai in pezzi, tuttavia) secondo cui la
gestione privata porta a maggiore efficienza segnalata da prezzi inferiori per
servizi migliori, i prezzi dei servizi argentini sono diventati i più cari del
mondo proprio a causa delle privatizzazioni. E mano a mano che la spremitura di
fondi procedeva parallelamente all’assenza di manutenzione, di rinnovo e di
allargamento degli impianti, i servizi e le infrastrutture si andavano
semplicemente dissolvendo.
La
dollarization –che in Argentina ha
preso la forma della fissazione della parità fra dollaro e peso– è poi
essenziale se si vuole approntare un ambiente pienamente favorevole alla
speculazione. Entro questo assetto monetario i capitali a breve, anzi
istantaneo, termine sono liberi di muoversi senza problemi. Soprattutto di
uscire dal Paese debole, come è accaduto in misura assolutamente eclatante
negli ultimi sei anni, da quando cioè l’ultima violenta recessione ha messo
in pericolo gli investimenti esistenti sul suolo argentino. In una fase
recessiva la parità peso-dollaro ha reso assolutamente impossibili le
esportazioni argentine diventate troppo care, il che ha a sua volta reso
impossibile difendere il livello del peso trasformando la recessione in atto in
una caduta senza fine: dalla metà del 1998 alla mentá del 2002 il Pil è
calato del 4%, il Pil procapite del
6.5% e gli investimenti produttivi del 13% all’anno. Ma la gigantesca fuga di
capitali che ha innescato l’ultima fase acuta della catastrofe argentina è
impensabile senza il precedente processo di conversione di tutta l’economia in
un campo di saccheggio per il capitale finanziario, a sua volta impensabile
senza l’avvento del dominio del capitale speculativo su scala globale.
Milano,
Dicembre 2002