L'enorme sopravvalutazione del mercato azionario USA 

La legge naturale dei mercati azionari: la soluzione del 10% 

L'analisi della passata esperienza e dei dati sull'andamento degli indici azionari, sui valori di bilancio delle imprese e sui profitti aziendali inducono a concludere razionalmente che Wall Street ha superato ogni record storico di sopravvalutazione. É probabile che la grande mania speculativa degli anni 90, uno dei maggiori segni di irragionevolezza dei nostri tempi, venga duramente pagata nel prossimo futuro.

Adam Barth

Nel Settembre 1999, l’ormai celebre ex-Presidente della Federal Riserve Paul Volcker, dichiarava : “il destino dell’economia mondiale è ora totalmente legato alla borsa americana, la cui crescita dipende da 50 titoli, metá dei quali non hanno ancora riportato alcun profitto”. Il fatto che l’economia mondiale sia diventata cosí dipendente da Wall Street è senz’altro una questione importante, ma non è la piú pressante del momento. Anche concedendo che Volcker abbia ragione, ció che ci interessa nell’immediato è lo stato di salute della borsa americana.

Peter Bernstein, nel suo libro di successo del 1998, Against the Gods, ha raccontato in modo brillante la storia di come l’era moderna sia stata  il prodotto della gestione del rischio. Sollecitata dalla “scoperta” della teoria delle probabilità di Pascal e Fermat poco meno di 350 anni fa, l’umanità si è dotata di strumenti matematici che le hanno condotto ai viaggi nello spazio, alla medicina moderna, al trasporto moderno e a un'infinità di altre cose. Tuttavia, nonostante tutti questi successi matematico-pratici, l’umanità, sorprendentemente, viene ancora influenzata dalla superstizione e tira ad indovinare nella sua attività matematica più cospicua: la finanza.

Ogni giorno i ribassisti ed i rialzisti di Wall Street difendono le proprie valutazioni, che ruotano ormai completamente attorno ad un punto: i guadagni delle aziende. Ma, stando dietro alle analisi sugli utili delle aziende diffuse da Wall Street e dai mezzi di comunicazione si è spinti a credere che un profitto realizzatp sia una nozione di tipo metafisico impossibile da penetrare e quindi soggetta a uno spettro assai vasto di differenti opinioni. Per tacere ovviamente dei profitti futuri, materia sicuramente inconoscibile a chiunque tranne alle divinitá.

L’impossibilitá di prevedere i profitti futuri è considerata una veritá universale dagli investitori di borsa, ma ad un certo punto l’anno scorso io ho cominciato a pensare esattamente il contrario. Qui desidero appunto mostrare che i profitti delle corporation non solo sono per propria natura prevedibili ma perfino altamente prevedibili. Una circostanza che ha vaste implicazioni per la finanza.

La scoperta

Lo stimolo che ha dato il via alla mia ricerca è stato un riesame storico della profittabilità delle aziende americane quotate in borsa. Negli anni 90 le aziende presenti nell’indice azionario Standard and Poor’s 500 (circa l'85% del mercato azionario americano)  hanno  registrato una profittabilità annuale in relazione al loro valore contabile (il valore dell'insieme delle loro attività che é iscritto nei bilanci) regolarmente superiore al 20%. Mi sono meravigliato del fatto che il guadagno in proporzione del valore contabile delle aziende fosse sempre piú alto del 20%, una circostanza che mi sembrava strana. Pensavo: come diavolo facevano le corporation nel loro complesso a guadagnare annualmente più del 20% sul proprio capitale investito senza innescare una concorrenza talmente intensa da distruggere tale profittabilità? Non è forse questa la vera essenza del capitalismo così come ci è stata tramandata da Adam Smith?

Il momento della verità arrivò riesaminando i numeri dei rendimenti sul valore nominale per le societá dell’indice S&P dal 1948 al 1971. Scorrendo i dati delle medie triennali della redditivitá delle aziende ho constatato una prevedibilità sconvolgente. Ad eccezione di due periodi (1956-58: 12% e 1961-63: 10,5%) la media triennale del rendimento delle aziende ha oscillato entro il piccolo intervallo che va dall’11,2% all’11,8%. Inoltre, questi regolari profitti in rapporto al valore contabile erano stati conseguiti in un periodo in cui i rendimenti delle obbligazioni private piú quotate e dei titoli di stato erano aumentati massicciamente dal 2,5% nel 1948 al 7,6% nel 1971.  

Successivamente, ho cercato di confrontare i profitti ottenuti dalle aziende nel corso della seconda parte degli anni 90 con il contesto della crescita del mercato borsistico del periodo 1948-1971, pensando che questo fosse un metodo di confronto appropriato, visto che il notevole aumento del PIL degli Stati Uniti nel periodo 1942-1966 (crescita media annua del 4,5%) è stato nettamente superiore alla crescita del periodo 1975-1999 (crescita media annua del 3.25%). Ho poi sviluppato un’analisi statistica abbastanza complicata che mi ha condotto alla conclusione che nel periodo 1996-2000 i profitti delle aziende quotate nell'indice S&P erano troppo elevati, addirittura statisticamente impossibili. Ma non é un risultato che debba sorprendere. Infatti, mentre l’indice dell'agenzia S&P per il periodo 1996-2000 riporta una crescita dei profitti aziendali del 96,1%, i dati sui profitti forniti dal Governo USA per lo stesso periodo affermano invece che l’aumento è stato solo del 36,1%.

Nelle settimane e nei mesi successivi a questo lavoro sono rimasto più impressionato dalla concordanza dei dati sulla media dei rendimenti relativa al periodo 1948 - 1971 con l'ascesa del mercato azionario nel medesimo periodo che non dall’ulteriore conferma ricevuta che i profitti riportati dalle societá per gli anni 90 fossero patentemente falsi. Pensavo che, essendo il rapporto tra i profitti e il valore contabile delle aziende piuttosto regolare (diciamo intorno all’11-12% usando i dati del periodo 1948-1971), la principale variante nella relazione avrebbe dovuto essere il valore contabile.

Il metodo più diffuso per valutare le azioni, utilizzato da Wall Street, dai mezzi di comunicazione e dalla gente comune, è il rapporto tra i prezzi delle azioni e gli utili delle società, il cui valore medio nel dopoguerra é attorno a 14 a 1. Quest’uso invalso deriva dall’idea secondo cui gli utili sono il barometro delle attività economiche in corso mentre il valore del capitale aziendale a bilancio é considerato un po' come il valore a cui una certa attivitá potrá venire liquidata ossia ceduta (un punto di vista decisamente errato). Porre l’attenzione sui rendimenti è sicuramente parte di un punto di vista piú generale che deve incorporare anche il valore contabile delle aziende, tuttavia un’eccessiva attenzione sugli utili ha poco senso, dato che la parte piú grossa dei profitti viene trattenuta dalle imprese per essere nuovamente impiegata (presumibilmente per incrementare il valore contabile dell'impresa) e non viene distribuita agli azionisti. Ma sorge immediatamente la domanda: se non è importante il valore contabile delle societá, perché lo dovrebbero essere i rendimenti? Una logica ridicola e contorta che non ha alcun senso è divenuta la regola per stimare le azioni ordinarie.

Nel loro libro del 2000, assolutamente da leggere, Valuing Wall Street,  gli analisti inglesi Andrew Smithers e Stefen Wright hanno dimostrato che, contrariamente alle opinioni più diffuse, il rapporto tra i prezzi e i rendimenti delle azioni non puó servire a predire i futuri guadagni (secondo la teoria che i rendimenti sono elevati quando il rapporto tra prezzi e guadagni è più basso, e sono bassi nella situazione opposta). Utile é invece il noto indice Q, derivato da James Tobin dal valore contabile delle aziende, che ha permesso di prevedere in maniera precisa i guadagni di lungo periodo: nel corso di periodi di venti o trent’anni l'acquisto di azioni nel memento in cui si trovavano a buon mercato secondo i criteri di questo indice ha garantito guadagni estremamente elevati realizzati poi quando le azioni sono divenute costose.

L'indice Q è stato creato dal dott. James Tobin, premio Nobel per l’economia e professore all’università di Yale, basandosi su di una semplice idea circa i rapporti fra valore contabile e valore azionario delle imprese. Secondo la teoria di Tobin conviene comprare azioni quando il valore contabile delle aziende é superiore al valore delle loro azioni, mentre conviene vendere azioni quando il valore contabile é inferiore al valore del capitale azionario. Q è in definitiva una misura di valutazione delle azioni di tipo matematico, considerata da Tobin molto più raffinata della misurazione basata sulla semplici valori contabili dei bilanci.

Seguendo le indicazioni fornitemi dai dati ho verificato nuovamente se rendimenti rispetto al valore contabile del capitale del 10-11% fossero compatibile con la media storica del valore del capitale azinario delle societá come si trova dai bilanci. Questo riesame mi riporta ad un punto importante, che dovrebbe sembrare ovvio ma non lo é vista la strana epoca finanziaria in cui viviamom un punto che riguarda gli utili aziendali. I guadagni aziendali sono una faccenda alquanto chiara: si tratta di soldi che (a) vengono distribuiti agli azionisti sotto forma di dividendi oppure (b) vengono reimpiegati andando a incrementare il valore di bilancio delle societá.

Studiando nuovamente la cosa, ho scoperto che nel corso del tempo il valore di bilancio delle societá é aumentato regolarmente ad un tasso lievamente superiore al 4% annuo, e questo anche tra il 1982 e il 1999, periodo in cui le aziende hanno riportato profitti astronomici. Se associamo questa circostanza alla media storica del rapporto fra dividendi e livello del capitale azionario che é pari al 3,5%, si puó ricavare la previsione di un rendimento annuale delle azioni che debba aggirarsi attorno al 7-7,5%. Grazie a questo risultato ho potuto infine ricavare la semplice formula di quella che chiamo "la  soluzione basata sul 10%":  

 

RENDIMENTO DELLE IMPRESE SUL PROPRIO VALORE CONTABILE  (10-11%)

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=  RENDIMENTO DEGLI UTILI (7-7,5%)  

MEDIA DEL RAPPORTO PREZZI DELLE AZIONI/VALORE CONTABILE DELLE AZIENDE (1,5 volte)

Facendo riferimento ai dati relativi al rendimento in rapporto al valore di bilancio delle aziende americane nel periodo d’oro 1948-1971, livelli attorno all'11-12% potevano sembrare troppo elevati o sovrastimati (la possibilità di esagerare nei bilanci l'ammontare dei profitti era allora giá presente, malgrado in giro si creda che sia un'innovazione degli anni 80 e 90). Ma i dati non mentono: il rendimento rispetto al valore di bilancio delle aziende si è mantenuto esattamente attorno al 10-11% nel corso di qualsiasi periodo di lungo termine ossia piu esteso di 15 anni.  

Il motivo per cui esiste una "soluzione del 10%"

Il fatto che le attività economiche negli Stati Uniti abbiano conseguiti rendimenti piuttosto regolari rispetto al valore contabile delle aziende attorno al 10-11% di per sé non ci fornisce alcuna spiegazione sul perché ció sia avvenuto. La ragione per cui si hanno rendimenti del 10%, che superano di molto la redditività media annua del 5% dei titoli di Stato a lungo termine, sta nel fatto che il titolo azionario costituisce la forma di investimento meno protetta dalla legge essendo subordinata a tutti gli altri titoli sui redditi delle imprese (lavoratori, detentori delle obbligazioni, creditori bancari) e comporta quindi un rischio maggiore cui deve naturalmente andare una maggiore ricompensa. Se l’investimento di capitale in azioni dovesse procurare dei guadagni pari a quelli degli altri tipi di titoli, bisognerebbe proprio essere dei folli per mettre soldi nelle azioni. Ciò viene confermato dalla pratica. Infatti la misura statistica della variabilitá dei rendimenti degli investimenti in azioni negli Stati Uniti nel periodo 1900-2000 è stata pari a 20,2 esattamente il doppio della variabilitá del rendimenti delle obbligazioni che é stata pari a 10. L’investimento in azioni implica il fatto che si accetta un rischio enorme e ci si aspetta un rendimento relitavemente assai piú elevato nel lungo termine. Il rendimento storico medio del 10-11% é nient'altro che il risultato delle richieste avanzate dagli investitori per sostenere la maggior quota di rischio di perdite e di volatilitá dei valori che le azioni recano con sé a confronto delle caratteristiche di titoli piú sicuri come le obbligazioni.

Coloro che hanno cercato di dare una spiegazione all’escalation senza precedenti che hanno subito nell’ultimo decennio i valori azionari negli USA, hanno tirato fuori l'idea che prezzi azionari cosí elevati stanno semplicemente scontando in anticipo i futuri straordinari rendimenti (dividendi) che le societá quotate garantiranno ai loro possessori. Si tratta di un'idea spaventosamente irrealisitica. La sua follia consiste nel fatto che essa ignora che quando i compratori fanno salire il prezzo delle azioni di una societá o di un settore al di sopra del suo valore di bilancio, vengono istantaneamente attratti nuovi concorrenti verso le attivitá di queste imprese provocando così un calo dei profitti. Si tratta di uno dei meccanismi di base del capitalismo nonché la vera ragione per cui i tracolli subiti nel passato dalle borse americane (ad es. nel 1929 e nel 1974) furono causati da livelli degli indici azionari che si trovavano a 2,5-3 volte il valore contabile delle societá. Attualmente l’indice di vendita delle azioni Dow Jones (piú meno attorno al valore di 2300) è ben 4 volte il valore contabile delle imprese che ne fanno parte. Questo vuol dire che chi compra azioni delle societá quotate nel Dow Jones è disposto a pagare ben quattro dollari per ogni dollaro di capitale investito. Come nel passato, una situazione di questo genere é destinata a modificarsi provocando perdite catastrofiche per i detentori di azioni.

Le manie speculative possiedono l’incredibile capacità di indurre masse di professionisti e accademici altamente istruiti a inventarsi ogni sorta di bizzarie per giustificare l'esistenza di queste stesse manie. Ciò che rende così storicamente importante negli USA la mania degli anni 90 per i titoli azionari è il suo essere diventata la formula magica per le masse. Con Greenspan la Federal Reserve si è trasformata nel rappresentante più rozzo di tali idee ridicole, convertendosi nella cassa di risonanza di un nuovo "paradigma economico" mentre stava semplicemente rinunciando alle leggi fondamentali del capitalismo, che Greenspan avrá pur appreso da giovane studiando Adam Smith.

Conclusione

Applicando la soluzione del 10%, il Dow Jones  presenta attualmente un rendimento del 2,5% (che si ottiene dividendo 10%, che é il rapporto fra profitti e valore contabile delle societá, per 4, che il rapporto fra prezzi delle azioni e valore contabile delle società). Ne consegue che il rapporto tra prezzi azionari e profitti delle societá si trova nientemeno che al livello di 40 a 1, incredibilmente alto se confrontato alla sua media storica di 14 a 1. Inutile rcordare che la natura intrinseca del capitalismo richiede che l'attuale sopravvalutazione dei valori azionari venga prima o poi del tutto cancellata. In passato negli USA i mercati al ribasso hanno giá visto vendite di azioni a valori pari o inferiori al valore di bilancio del capitale, il mercato di oggi non sará molto diverso. Purtroppo poche persone hanno imparato qualcosa dalle lezioni del passato storico, malgrado le molte volte in cui sono state ripetute.

Credo le durezze economiche che conseguiranno allo smantellamento della mania speculativa USA degli anni 90 per le azioni avrebbero potuto essere evitate se le persone coinvolte avessero capito la soluzione del 10%. In tal caso gli investitori non sarebbero stati ingannati da rendiconti sui profitti così evidentemente falsi. E ancora più importante, le autoritá preposte a mantenere la regolaritá funzionale delle economie USA e delle altre economie occidentali avrebbero percepito subito il nascere della bolla nei mercati azionari prima che diventasse cosí gigantesca.

Non c'é dubbio, la bolla degli USA è la piú grossa nel mondo ed ha avuto l’effetto epidemico di provocare la nascita di bolle analoghe virtualmente ovunque nel mondo. La storia economica dei prossimi dieci anni negli Stati Uniti e in Europa potrebbe facilmente essere quella della gestione dei danni provocati dal declino dei mercati azionari. Questa è una tragedia che non sarebbe dovuta accadere se non per la completa ignoranza dei limiti storici dei potenziali rendimenti rispetto ai valori contabili delle aziende. Possiamo sperare che nei prossimi decenni quando dovesse sorgere una nuova bolla nel mercato azionario, gli investitori e i politici si armino di maggiore rispetto verso i fenomeni storici e verso la vera intrinseca natura del capitalismo.            

Hoboken, Novembre 2002

Adam Barth é un'analista e scrittore finanziaro che vive e lavora ad Hoboken (New Jersey).