I difetti strutturali dell’Unione Europea stanno venendo a galla 

Marshall Auerback

L’Unione Europea e l’Euro non solo non hanno migliorato in nulla la situazione economica del continente ma sembrano addirittura associati ad un suo peggioramento. La politica monetaria restrittiva della Banca Centrale Europea e i limiti del Patto di Stabilità rendono impossibile rispondere con efficacia alle crescenti tensioni finanziarie, che pochi commentatori hanno colto, e al ristagno della crescita economica nel Vecchio Mondo. I politici europei si trovano dinnanzi a inevitabili scelte radicali.

Il dibattito diffusosi sulle disgrazie che gravano sull’ economia degli Stati Uniti e del Giappone ha messo decisamente in ombra l’intensificarsi delle pressioni deflazioniste e delle tensioni finanziarie Ció che preoccupa tiguardo al blocco di Eurolandia è che esso non soffre degli enormi eccessi legati alla grande bolla speculativa che si sono verificati negli Stati Uniti ed in Giappone. I risparmi delle famiglie sono per la più parte generalmente elevati, nel complesso i conti pubblici sono mantenuti in pareggio, ma per quest’anno la performance delle borse europee è stata un fallimento soprattutto per i disastri subiti dai titoli bancari e assicurativi. Appaiono all’orizzonte minacciosi segnali di deflazione, e gli interventi istituzionali orientati verso politiche di stabilizzazione che tendono  a peggiorare gli effetti del ciclo economico, come la fissazione sulle politiche anti-inflattive della Banca Centrale Europea e l’imposizione di un limite massimo al deficit pubblico, stanno nettamente peggiorando l’andamento dell’economia. Le cose stanno andando così male che da recenti sondaggi effettuati nell’Est europeo, ad es. nella Repubblica Ceca ed in Polonia, emerge un improvviso calo di consensi nei confronti del possibile ingresso nell’Unione Europea. Siamo al punto che le prospettive economiche in questi paesi vengono percepite come piu rosee restando fuori dai vincoli deflazionistici che attualmente Bruxelles rappresenta.

L’Unione, un fallimento ?

Abbiamo avuto per lungo tempo il timore che la struttura che sta alla base dell’Unione Monetaria Europea imponesse alle nazioni del blocco europeo inutili tendenze deflazioniste, che avrebbero esacerbato le attuali condizioni economiche del continente. L’improvviso declino registrato nel mese di settembre dell’attivitá economica in Germania ed in Francia sottolinea in modo elequente i rischi crescenti di una nuova recessione nei due maggiori paesi dell’area europea.

I polli monetaristi stanno finalmente rientrando nel pollaio. La politica monetaria  della Banca Centrale Europea (come disposto dal Trattato di Maastricht) è stata quella di definire con precisione la stabilità dei prezzi con un intervallo di aumento annuale tra lo 0 ed il 2% dell’Indice Armonico dei Prezzi al Consumo (IAPC) per l’area dell’Euro, e questo è l’unico mandato che sta alla base della costituzione della Banca Centrale Europea. Ma ciò è irrilevante nel contesto di una economia che soffre di improvvisi cali di crescita e dei primi sintomi di deflazione. Il fatto che la Banca Centrale Europea si concentri unilateralmente sul tasso di inflazione è particolarmente dannoso nell’attuale contesto economico. Le politiche che tengono elevati i tassi di interesse producono un’ampia serie di conseguenze, ad esempio sulla domanda co;plessiva di beni e servizi, sui tassi di cambio, e anche sulla distribuzione del reddito. Gli obiettivi di politica monetaria dovrebbero tenere conto di una realtà di questo tipo, e il mandato costituivo della BCE dovrebbero essere riformulato in modo da incorporare accanto al controllo del tasso di inflazione l’obiettivo della crescita economica e del conseguimento di alti livelli di occupazione, ma punti di vista di questo genere non hanno ancora guadagnato il sostegno tra i burocrati che governano l’economia di Eurolandia.

Oltre al sadico obiettivo monetarista della “stabilità dei prezzi” perseguito dalla BCE, negli  ultimi tempi si è imposta una completa separazione tra le autorità monetarie, rappresentate dalla BCE appunto, e le autorità in materia fiscale, rappresentate dai governi nazionali che fanno parte dell’Unione Monetaria Europea, separazione che ha prodotto scarsitá di azione di coordinamento delle politiche monetarie e fiscali. Infatti, anche se fosse promossa una azione di coordinamento, dovrebbe essere sostanzialmente circoscritta entro gli stretti limiti posti dal cosiddetto Patto di Crescita e di Stabilità che prevede oltre alla separazione tra le autorità monetarie e fiscali anche la norma che i deficit dei governi nazionali (e quindi delle autorità fiscali) non superino il 3% del PIL.

Dovendo avere a che fare con una banca centrale incompetente, che applica una politica monetaria troppo restrittiva, Eurolandia avrebbe decisamente bisogno di una spinta espansiva da parte della politica di bilancio pubblico, ma questa viene impedita dalle condizioni imposte dal patto di stabilità. Un certo numero di paesi europei presenta giá un deficit che si avvicina al 3% del PIL e potrebbe facilmente superarlo se dovesse persistere il trend di crescita limitata attualmente dominante (in effetti uno stato membro, il Portogallo, ha giá superato il limite del 3%, e per ridurlo sta accanitamente applicando una pervicace politica di austerità fiscale).

Come ha sottolineato l’analista inglese Andrew Smithers, finché le politiche monetarie e fiscali dell’area europea saranno così assurde, l’unica conseguenza che ne verrá sará il declino dei salari all’interno del blocco europeo, una tendenza che non potrá certo contribuire ad accrescere la domanda complessiva: la storia ci dimostra che un declino dei salari è normalmente il prodotto della disoccupazione di massa. Per citare Smithers: “Quando la Gran Bretagna, dopo la Prima Guerra Mondiale, ha cercato di provocare una deflazione, ne risultarono milioni di disoccupati e lo sciopero generale. Keynes analizzò con grande attenzione la situazione generatasi nel suo saggio Le Conseguenze Economiche di Mr. Churchil. Purtroppo il Tesoro britannico non volle ascoltarlo, proprio come fa oggi la Banca Centrale Europea, che si illude di conoscere le cose meglio di chiunque altro mentre è completamente nel torto”.

La Banca Centrale Europea e le banche centrali dei singoli paesi sono fra loro collegate attraverso il Sistema Europeo delle Banche Centrali nel quale vi è una netta distinzione di responsabilità. La Banca Centrale Europea è responsabile dei tassi di interesse con l’obiettivo di tenere sotto controllo l’inflazione, mentre le singole banche centrali sono responsabili in materia normativa. I protocolli istitutivi stabiliscono che la BCE possa fornire prestiti in ultima istanza alle banche che si trovano in stato di necessitá, ma non la obbligano a farlo. Questa infatti è una funzione generalmente lasciata alle banche centrali dei singoli paesi, in quanto è difficile individuare una politica di prestiti effettivi in ultima istanza in assenza di un coordinamento della politica monetaria, un argomento attualmente molto urgente visti i segnali di aumento delle tensione sui mercati finanziari europei.

Tensioni finanziarie in Eurolandia: Banche e Assicurazioni

Sintomo di questa tensione è stato ad esempio un intervento sul mercato dello scorso novembre in cui una e-mail della banca di investimenti Merrill Lynch alimentava i timori per un venerdì nero causato dalle difficoltà finanziarie della Commerzbank, una delle maggiori banche della  Germania. Durante la settimana successiva le azioni della Commerzbank persero un quarto del loro valore, riesumando lo spettro del Credit Anstalt, la banca austriaca che crollò nel 1931 scatenando la depressione mondiale. L’e-mail inviata all’agenzia di informazione finanziaria Standard & Poor’s ad opera di un membro della dipartimento che si occupa dei crediti alle corporations di Merrill Lynch, ha aumentato il già alto senso di ansia per la situazione del settore bancario europeo che vede gli analisti decisamente preoccupati dai livelli di tensione nel sistema finanziario. Alla notizia delle difficoltá di Commerzbank  i mercati azionari sono ovviamente calati. Visti i vincoli esistenti, si potrebbe ben sperare che le autorità politiche e finanziarie rivedano gli accordi ufficiali del blocco europeo. Per ora però nulla all’orizzonte, nonostante i segnali minacciosi provenienti dai mercati. Il mio collega analista finanziario e creditizio Doug Noland ha da poco riferito che il Credit Suisse, la seconda banca svizzera per importanza, ha subito recentemente un crollo dei titoli che ha riportato indietro di nove anni il valore del suo capitale azionario (con una diminuzione del 69% nell’ultimo anno). Questa banca sta soffrendo per le pesanti perdite del suo portafoglio di investimenti (e per quello della sussidiaria Credit Suisse First Boston) ed è stata obbligata, dopo averle già anticipato del contante, a trasferire 1,3 miliardi di dollari alla consociata compagnia di assicurazioni Wintherthur, una società che non fa profitti,  spingendo gli analisti di Standard & Poor’s ad affermare che ciò avrebbe potuto mettere in discussione per la seconda volta in quest’anno la posizione finanziaria del Credit Suisse.

Anche le banche tedesche stanno subendo pesanti pressioni di vendita sui propri titoli. La scorsa settimana la Deutsche Bank ha subito un crollo del 13% del valore azionario, aumentando ulteriormente le sue perdite fino al 42% per l’anno 2002. La Commerzbank, nonostante neghi di soffrire una crisi di liquidità, il mese scorso ha subito quasi un dimezzamento del valore dei suoi titoli. La BNP Paribas, la più grande agenzia creditizia della Francia, la scorsa settimana ha visto crollare il prezzo delle sue azioni del 20% (meno 44% nell’ultimo anno). La ABN Amro, la maggiore banca olandese, nell’anno ha subito una caduta di quasi il 40% del valore azionario, mentre il calo delle azioni della svizzera UBS corrisponde ad un terzo del loro valore. La scorsa settimana il prezzo delle azioni di  Abbey National, la seconda società di credito ipotecario della Gran Bretagna, è diminuito del 10% a causa di timori relativi all’obbligo da parte di Abbey di far fronte alle perdite della sua consociata compagnia assicurativa. Il valore azionario di Abbey ha subito una diminuzione di più del 50% rispetto al suo picco massimo registrato la primavera scorsa, nonostante sia stata soggetta ad un’offerta di fusione da parte della Banca d’Irlanda. Sintomatico del mutamento delle condizioni di mercato è il fatto che solo un anno fa Lloyds TSB offriva 12 sterline per ogni azione della  Abbey, offerta bloccata poi dall’organismo di controllo borsistico, la Competition Commission, come eccessivamente alta.

Rispetto al settore assicurativo, le azioni della Allianz, una conglomerata bancaria e assicurativa tedesca, sono crollate del 13% durante lo scorso Novembre, portando le perdite  nel 2002 ad uno sbalorditivo 70%. Il valore complessivo del capitale azionario della società è ora al di sotto del prezzo di mercato che solo 18 mesi fa essa aveva pagato per acquistare la società bancaria affiliata Dresdner. Per aggiungere altri guai, l’Allianz ha subito il declassamento, ad opera dell’agenzia di valutazione Moody’s, dell’affiliata Dresdner, che ha poi rischiato di provocare una riduzione della valutazione della casa madre, un gruppo che in Germania era in passato sinonimo di pratiche finanziarie sane quanto quelle della stessa Bundesbank.

Purtroppo sta diventando sempre più evidente che la strategia delle compagnie assicurative europee consistente nel risolvere i propri problemi attraverso emissioni di azioni è stata in gran parte autodistruttiva. Come ha sottolineato Rob Parenteau, analista della Dresdner RCM, la dinamica in gioco qui è piuttosto pericolosa. Le compagnie di assicurazioni si trovano attualmente in condizioni di carenza di capitale dopo aver visto improvvisamente aumentare gli obblighi di pagamento e diminuire i valori delle loro azioni e obbligazioni e dei titoli vari che formano i loro patrimoni finanziari. La regole sulla solvibilità e tutti gli annessi richiederebbero ora un aumento di capitale per le societá assicurative, ma questa esigenza contrasta fortemente col declino in corso  dei titoli azionari e obbligazionari. Questo e il riconoscimento tardivo della situazione di carenza di capitale rendono ora assai più costoso e arduo per le compagnie assicurative trovare fondi attraverso l’emissione di obbligazioni.

In una situazione di questo genere l’opzione meno svantaggiosa che si appare agli occhi delle compagnie assicurative è quella di aumentare il proprio capitale attraverso una nuova offerta di azioni, una strategia già adottata da alcune delle maggiori compagnie. Questo genera la spiacevole conseguenza di produrre un’offerta crescente di azioni in un mercato in calo dato che si allarga il numero di compagnie assicurative che intende sfruttare il vantaggio della prima mossa. Il processo diviene in questo modo autodistruttivo perché tende a ridurre il valore di mercato delle azioni, il che fa sí che, una dopo l’altra, le compagnie vedano pregiudicata la propria solvibilità  e ridotto il grado di qualità delle proprie obbligazioni. La possibile conseguenza é che le compagnie assicurative vengano spinte a ulteriori vendite forzate di parti dei propri patrimoni finanziari.

Che fare ?

Si tratta chiaramente di uno dei circoli viziosi che possono verificarsi quando i prezzi dei titoli finanziari vengono inizialmente proiettati verso livelli eccessivamente elevati rispetto ai valori di equilibrio per ricadere poi su valori eccessivamente bassi. Per restare in tema, una spirale viziosa dello stesso genere incombe sul mercato azionario degli Stati Uniti a causa delle consistententi carenze di finanziamento dei fondi pensione: ciò che stiamo osservando oggi in Europa può essere benissimo esteso domani all’America. Il commentatore finanziario Mathew Ingram ha ben osservato poco tempo fa sul giornale canadese Globe and Mail: “ Si suppone che le compagnie accumulino delle riserve finanziarie prontamente utilizzabili per pagare benefici pensionistici quando ve ne fosse bisogno -riserve che normalmente vengono investite in obbligazioni e azioni. Quando i valori di tali investimenti diminuiscono, la corporation deve immettere denaro nei suoi piani pensionistici per compensare il deficit del fondo pensione. Inutile dire che il declino delle borse più importanti negli ultimi due anni ha  provocato dei buchi in molti piani pensionistici.”

In Europa tuttavia, una crescita economica persistentemente al di sotto delle previsioni non potrá in ultima analisi mancare di generare implicazioni sull’insieme del sistema dell’Euro e dell’Unione Monetaria. La continua stagnazione della crescita economica costituisce la causa dell’aumento della disoccupazione e del malcontento degli elettori. Con i banchieri delle banche centrali di tutto il mondo impegnati a sostenere l’andamento deflazionista e a mostrarsi politicamente sordi, è lo stesso successo dell’Euro che potrebbe trovarsi a rischio. I politici europei hanno ancora qualche possibilità per correggere questa situazione prima che la mistura esplosiva costituita dal crollo dei mercati e dai fermenti sociali abbia esiti più destabilizzanti sul continente. La decisione di deferire il pareggio dei bilanci nazionali fino al 2006 potrebbe essere un punto di partenza, benché molto limitato. Ma i margini di errore e idinamica economica dell’Europa si assottigliano giorno dopo giorno.

Londra, Novembre 2002

Marshall Auerback è un’analista e commentatore finanziario e creditizio inglese esperto dell’economia europea. Pubblica in svariati giornai, riviste e siti eb, fra cui www.prudentbear.com