La continua crisi dell'economia giapponese

Makoto Itoh

I mitici anni in cui il Giappone cresceva ad un tasso doppio rispetto alla media ocidentale e si conquistava un primato in tutti i settori industriali di punta sono finiti da tempo. L’ultimo decennio ha visto l’economia giapponese immersa in una stagnazione quasi assoluta, prodotto dell’esplosione della immane bolla speculativa degli anni 80. Le contradditorie politiche neoliberiste applicate dagli ultimi governi a tutto servono tranne che a rimettere in moto il regolare meccaniusmo della crescita.

  1. Un passaggio dialettico dalla posizione di numero uno a quella di peggiore

L’economia giapponese aveva attirato su di sé l’attenzione del mondo intero per la sua potenza e per la sua relativa stabilità, durate fino alla fine degli anni 80. Il paese si è regolarmente ripreso dai danni provocati dalle crisi petrolifere del 1973-75 e del 1979-83, mantenendo un tasso di crescita (3,9% annuo nel periodo dal 1974 al 1990) più elevato rispetto alla maggior parte delle economie più avanzate (circa il 2.8% nello stesso periodo nell’area OCSE) benché si trattasse di un ritmo pari a meno della metà di quello raggiunto durante la fase del boom economico del sol levante, dalla fine della II guerra mondiale alla metà degli anni 70. È fuori discussione che il metodo giapponese di gestione aziendale, caratterizzato dalla garanzia dell’impiego a vita per i lavoratori, da aumenti salariali fondati sul criterio dell’anzianità e da un sindacalismo su base aziendale, abbia dimostraro efficacia nel garantire la compartecipazione dei lavoratori ai destini delle aziende e perció, nonostante la notevole rivalutazione dello yen nel corso del tempo, nel rafforzare la competitività sul mercato mondiale che ha consentito un costante saldo attivo della bilancia dei pagamenti. Nel 1987 il reddito nazionale pro capite del Giappone si trovò a superare quello degli Stati Uniti, fornendo la forte impressione che il Giappone fosse ormai diventato “il numero uno” nel mondo.

Negli anni 90 l’economia giapponese è tuttavia drammaticamente peggiorata. Il tasso di crescita è diminuito in media sino all’1% annuo, in alcuni anni cadendo anche al di sotto dello zero, ciò che fatto definire gli anni 90 come il “decennio perduto dell’economia giapponese”. Decennio perduto che però non é ancora terminato come testimonia la crescita negativa dello 0,5 % registrata nel 2001 ed il timore generale, espresso anche dal governo, di non riuscire a raggiungere il 2002 il pur infimo livello di crescita dello 0,2 %. All’opposto dei suoi bei giorni d’antan, l’economia giapponese presenta ormai la peggiore performance fra tutte le economie più avanzate.

Nella lunga storia del capitalismo, i passaggi dialettici dal successo al fallimento, o dalla prosperità alle crisi autodistruttive ed alla depressione si sono ripetuti spesso, in vari periodi e con aspetti diversi. Lo spettacolare peggioramento dell’economia giapponese negli anni 90 è paradossalmente derivato anche dal successo che essa aveva conseguito nelle ristrutturazioni effettuate negli anni 80. Grazie alla compartecipazione dei lavoratori e dei sindacati, le grandi imprese hanno accresciuto la loro capacità competitiva sul mercato mondiale attraverso l’introduzione di tecnologie informatiche e di un’automazione sempre più sofisticata da una parte e l’uso di numero sempre maggiore di lavoratori irregolari, a part time e di ogni genere possibile di lavoro segmentato ai costi più bassi dall’altra. I salari reali (in termini di potere d’acquisto) sono così rimasti invariati a partire dalla metà degli anni 70 in poi. La maggior parte delle imprese giapponesi sono poi riuscite a cancellare i debiti contratti con le banche e a cominciare ad accumulare riserve interne di capitale monetario, lasciato inattivo perché non esistevano progetti di investimento. Oltre a ciò, le grandi aziende hanno aumentato il loro intervento diretto sui mercati finanziari interni ed esteri per ottenere ulteriore capitale monetario attraverso l’emissione di azioni, di obbligazioni convertibili (ossia trasformabili in azioni) e di titoli di vario genere. Le grandi banche giapponesi dipendevano tradizionalmente dalla comodità di un tasso di risparmio delle famiglie relativamente elevato (negli anni 80 pari a più del 20% secondo un indagine sulle famiglie svolta dall’agenzia di ricerche della presidenza del governo) che poi impiegavano per effettuare prestiti alle grandi imprese. Quando le banche hanno perso questi sicuri clienti tradizionali tra le grandi imprese, divenute relativamente più autonome, hanno iniziato ad esplorare nuove possibilità di fare affari attraverso prestiti alle piccole e medie aziende, la concessione di crediti al consumo, specialmente per finanziare l’acquisto della casa, e prestiti alle compagnie immobiliari e al settore delle costruzioni.

Nel 1985, in seguito agli accordi dell’Hotel Plaza fra le grandi economie occidentali  per ridurre i tassi di interesse col fine di stimolare la domanda interna, moderare le frizioni commerciali con gli Stati Uniti e fermare l’eccessiva rivalutazione del dollaro, il capitale delle grandi imprese giapponesi accumulato come denaro prese a venire riversato nelle attività speculative del mercato degli immobili e nella borsa di Tokyo. Anche le banche giapponesi e le altre istituzioni finanziarie spostarono, direttamente o indirettamente, le loro capacità di concedere crediti in maniera flessibile verso la speculazione sui mercati immobiliare e azionario. Così, a partire dal 1986 fino alla fine degli anni 80 si assistette allo sviluppo di una enorme bolla sia nel settore immobiliare giapponese sia nel mercato finanziario, bolla collassata proprio all’inizio degli anni 90. L’ammontare complessivo di valori patrimoniali dissolti per la perdita di capitale nel settore immobiliare e nel mercato finanziario raggiunse l’ammontare di un milione di miliardi di yen verso la metà degli anni ‘90, cifra che corrisponde a 2,4 volte il PIL. Si tratta di un valore enormemente grande e devastante, se si pensa che la distruzione di capitale avvenuta negli Stati Uniti durante la Grande Crisi dopo il 1929 fu pari a “solo” 1,9 volte il PIL.

  1. Un circolo vizioso dell’economia giapponese

Poiché verso la fine degli anni 80 la prosperità economica del Giappone si trovava a dipendere dalla continua crescita della bolla speculativa che forniva la base dell’espansione della domanda di beni di consumo e di investimento, l’esplosione della bolla stessa ha provocato un calo della domanda effettiva attraverso la dissoluzione dei valori dei patrimoni azionari, obbligazionari e fondiari. L’indice Nikkei relativo a 225 titoli della Borsa di Tokyo scese dal suo picco massimo di 38915 yen alla fine del 1989 al livello di circa 15000 yen verso la fine del 1992, corrispondenti ad una perdita di capitale pari a 430 mila miliardi di yen, e dopo svariati alti e bassi, ha continuato il suo scivolamento fino al presente valore di 8300 yen. Anche i prezzi dei terreni e degli immobili sono continuamente scesi fino a raggiungere un livello posto fra la metà ad un terzo dei valori massimi.

Le banche e le altre corporation finanziarie vennero colpite da una distruzione dei valori patrimoniali così persistente e gigantesca poiché avevano prestato enormi quantità di denaro al mercato speculativo di immobili e di azioni, soffrendo per il deterioramento dei prestiti ipotecari, cattivi prestiti dai quali non ci si potevano attendere rendimenti vista la fase di caduta dei valori dei patrimoni. L’accordo di Basilea del 1987 presso la Banca dei Regolamenti Internazionali di Basilea (l’ente di coordinamente delle Banche Centrali) imponeva alle banche impegnate in affari a livello internazionale di mantenere, dopo l’aprile 1993, un rapporto tra il capitale proprio e il totale delle attività di bilancio ad un livello non inferiore all’8%. Quando venne stipulato l’accordo, le banche giapponesi credevano che  tale livello si potesse raggiungere dal momento che nel capitale proprio si conteggiava il 45 % delle plusvalenze latenti sul prezzo delle azioni (l’eccedenza dei prezzi correnti delle azioni rispetto ai loro valori iscritti a bilancio al momento dell’acquisto). Al momento dell’accordo sulla regola dell’8% non si prevedeva che nelle banche sarebbero poi sparite le plusvalenze e si convertissero anzi in minusvalenze, come sta ora accadendo da tempo…

Per stimolare la domanda interna e alleviare le difficoltà del sistema bancario, la Banca del Giappone ha via via ridotto il tasso di interesse ufficiale dal 6% nel 1990 all’1,75 nel 1993, continuando ad abbassarlo ulteriormente fino al minimo storico dello 0,5% nel settembre del 1995, superato poi dallo 0,1% del settembre 2001. Ma le banche non sono riuscite ad usare le facilitazioni di credito offerte della Banca del Giappone per espandere le capacità di prestito dato che il valore del loro capitale continuava a diminuire. Gli accordi di Basilea costringevano le banche a diminuire le attività detenute come prestiti per conformarsi alle regole della BRI; le  banche naturalmente erano anche preda della paura che l’allargamento del credito potesse fare aumentare la quota di cattivi prestiti, quindi sempre più spesso hanno cominciato a rifiutare il rinnovo dei prestiti alle imprese loro clienti. Dato che negli anni precedenti i clienti più importanti delle banche giapponesi erano diventate le medie e piccole imprese, le agenzie immobiliari e le imprese di costruzioni, le continue difficoltà delle banche  e la conseguente restrizione del credito hanno trasmesso una forte tendenza depressiva a tutte queste attivitá, tanto che il numero dei fallimenti annuali delle imprese è rimasto sempre elevato attorno ai 14.000 nel periodo 1992-1995 per superare i 19.000 nel 2000.

Essendo più dei due terzi dei lavoratori giapponesi occupati nelle piccole e medie imprese, le tendenze depressive  con l’alto numero di fallimenti sono diventate la causa principale dell’aggravamento delle condizioni del mercato del lavoro, caratterizzato da una disoccupazione costantemente in crescita. Inoltre dopo il 1992, quando le grandi imprese giapponesi hanno accelerato la propria internazionalizzazione spostando fabbriche nei paesi asiatici vicini, è cominciata a diminuire anche l’occupazione nelle grandi industrie manifatturiere. Così il tasso di disoccupazione del paese è passato dal 2% del 1990 al 3% del 1994, a più del 4 % nel 1998 per arrivare al 5,7 % nel marzo del 2002 (percentuale che corrisponde alla cifra di 3.750.000 persone senza lavoro). Occorre considerare che in Giappone la definizione di disoccupazione è estremamente ristretta e viene generalmente riconosciuto che le statistiche ufficiali dovrebbero essere  raddoppiate per essere paragonabili con i dati ufficiali dei paesi avanzati dell’Occidente. Se le cifre menzionate dovessero appunto venire raddoppiate, il livello del tasso di disoccupazione del Giappone sarebbe peggiore di quello dei paesi occidentali più depressi. I redditi familiari dei lavoratori si sono ridotti non solo per l’incremento del tasso di disoccupazione ma anche per i tagli alle gratifiche e agli straordinari e per i salari inferiori pagati al crescente lavoro part-time.

È perciò del tutto logico che la domanda di beni di consumo sia calata pressoché continuamente nel corso degli anni 90 e degli anni seguenti, come del resto la domanda di investimenti è rimasta stagnante a causa della pressione verso il basso esercitata dall’elevata quota di capacità produttiva inutilizzata. Tutto ciò ha impedito alle banche di eliminare i cattivi prestiti, che si sono anzi trovati riprodotti si scala allargata in una spirale di deflazione economica. Le stime sull’ammontare dei prestiti insolvibili nel 1992, riportate dal Financial Times di Londra, lo comprendevano tra i 42.000 ed i 56.000 miliardi di yen; nel 1998, secondo il Ministero delle Finanze, era salito a 76.000 miliardi di yen (pari al 12% del totale dei prestiti effettuati dalle banche) e nel 2002 sembra attestarsi sui 43.000 miliardi di yen. Alcuni esperti temono tuttavia che il valore rilevato per l’ultimo anno sia frutto di una sottostima e ritengono più vicino al vero un valore di 100.000 miliardi di yen. La fusione degli istituti di credito a formare quattro grandi banche non è riuscita a fornire una soluzione alle principali difficoltà finanziarie dell’economia giapponese.

L’essenza della faccenda é che si é venuto ad innescare un circolo vizioso costituito da difficoltà delle banche, violento restringimento del credito per le piccole e medie imprese, peggioramento dell’occupazione e delle entrate dei lavoratori, calo della domanda di consumo, diminuzione continua del valore dei patrimoni immobiliari e dei titoli.

  1. Politiche economiche confuse

L’attuale governo giapponese retto dal Primo Ministro J. Koizumi si è insidiato nel maggio del 2001. La posizione fondamentale del ministero di Koizumi è il neo-liberismo, in voga ormai dagli anni 80, che prevede la rimozione delle restrizioni statali e del controllo burocratico riponendo fiducia nel funzionamento efficiente dei principî del mercato competitivo. All’uopo, Koizumi ha dichiarato che è necessario privatizzare anche il sistema postale, dopo la privatizzazione, avvenuta nel 1985, di tre enti statali come le ferrovie nazionali, la compagnia di telecomunicazioni e quella del tabacco. Agli inizi, il suo ministero promise di ridurre entro i 30.000 miliardi di yen l’ammontare di nuove emissioni annuali di titoli di stato nel 2002 e di risolvere entro due o tre anni il problema dei prestiti insolvibili delle banche, in attesa della ripresa economica guidata dagli Stati Uniti.

Non si tratta di politiche fondate su un’analisi adeguata del circolo vizioso in cui è caduta l’economia giapponese. Viene completamente trascurato il fatto che lo sviluppo e l’esplosione dell’enorme bolla sono strettamente legati alle privatizzazioni neo-liberiste, alla deregulation del mercato finanziario ed alla ristrutturazione del mercato del lavoro verso forme individualiste, tendenti a riformare l’intera società come un’azienda  fortemente centralizzata soggetta alla tendenza verso un costante incremento della disuguaglianza tra le persone. Aderendo al punto di vista neoliberista, il governo non si preoccupa molto degli aspetti più importanti che hanno reso così difficile la ripresa dell’economia giapponese, come la continua erosione delle industrie giapponesi a causa dell’aumento della pressione competitiva dei paesi asiatici circostanti, il declino della domanda di beni di consumo dovuta alla riduzione delle entrate familiari dei lavoratori con una crescente instabilità della loro condizione economica. Finché i circoli d’ affari e la gente comune continueranno a temere un futuro instabile prigioniero della persistente spirale di una depressione deflazionista, i patrimoni finanziari accumulati dalle famiglie, che ammontano a 1.400.000 miliardi di yen, saranno difficili da convertire in domanda effettiva di beni, ma seguiteranno ad essere prigionieri, secondo la terminologia keynesiana, in una “trappola della liquidità”.

Le politiche neo-liberiste sono contradditiorie. Per ridurre il deficit del bilancio statale, il governo ha accresciuto il carico che pesa sulla popolazione introducendo nel 1989 una tassa sui consumi del 3% che è passata al 5% nel 1997. Ponendo l’accento sui principi di mercato della responsabilità individuale, il governo ha operato tagli al sostegno statale all’istruzione ed ai servizi sanitari. Le pensioni sono a loro volta pronte ad essere trasformate in piani privati del tipo dei fondi pensione americani denominati 401K o in fondi di investimento a responsabilità individuale. D’altra parte, però, il credo neoliberista è stato abbandonato con le politiche economiche di emergenza, reiterate soprattutto a favore delle imprese capitaliste e delle banche, come gli investimenti statali per la costruzione di autostrade e di edifici pubblici con lo scopo di mitigare le difficoltà delle compagnie di costruzioni e la  caduta dei prezzi dei terreni. Tra il 1992 ed il 2000 le spese statali per la ripresa economica sono ammontate a 120.000 miliardi di yen, a parte l’iniezione di denaro pubblico nelle banche che ha totalizzato 30.000 miliardi di yen dal 1998. Nel frattempo l’imposta sulle società veniva gradualmente ridotta dal 42% al 30% e l’altissima aliquota massima sui redditi personali dei più ricchi veniva ridotta dal 75% al 37% parallelamente ad una sostanziale riduzione della tassa di successione. Così, in una fase di depressione continua, il gettito fiscale avrebbe potuto far tutto tranne che riprendere. Il risultato è stato che, in contrasto con l’obiettivo della politica neo-liberista di riduzione del deficit statale, l’emissione di titoli di stato giapponesi é notevolmente aumentata passando dai 70.500 miliardi di yen nel 1980 a 166.000 miliardi di yen nel 1990 fino ai 389.000 miliardi del 2001. Il debito pubblico complessivo, incluso quello delle amministrazioni locali, ha cosí raggiunto alla fine del 2001 i 666.000 miliardi di yen corrispondenti al 134% del PIL.

E’ paradossale osservare che a partire dagli anni 80 sotto i governi neo-liberisti è stata adottata una politica di deficit fiscale su larga scala che di fatto é di tipo keynesiano. Gli effetti tuttavia non sono poi così scontati. Si potrebbe sostenere che, proprio grazie a questo tipo di politica, accompagnata da bassissimi tassi di interesse e dall’iniezione di denaro pubblico nel salvataggio delle grandi banche, nonostante i danni devastanti prodotti dal collasso della gigantesca bolla finanziaria, finora è stato evitata una crisi economica acuta e si è avuto soltanto un lieve graduale aumento della disoccupazione. Ed è stata anche evitata la possibilità di una grave crisi globale che prendesse avvio dal Giappone. D’altro canto, la spirale deflazionaria depressiva invece è stata tanto più prolungata al posto di una possibile crisi acuta seguita dal rimbalzo della ripresa a forma di V. L’enorme aumento della spesa pubblica non è stato efficace nell’accrescere la domanda effettiva e la relativa ripresa economica. In Giappone la costruzione di autostrade, per esempio, non ha favorito di molto l’aumento della vendita di automobili ed ha avuto un effetto limitato sull’occupazione locale per via del largo uso di sofisticate macchine pesanti che richiedono poco lavoro, ma grazie alle quali sono state certamente alleviate le difficoltà delle compagnie di costruzione e delle banche ad esse legate.

La spesa pubblica è stata indirizzata in maniera inappropriata ed inefficace al fine di cancellare l’ansia e la paura dei lavoratori per le proprie condizioni di vita. I costi privati per la crescita dei figli, per l’istruzione, per i servizi sanitari e per le cure dei familiari più anziani sono stati largamente lasciati fuori dagli interessi della spesa pubblica e sono piuttosto aumentati per l’aggravarsi della crisi delle entrate dello Stato. Ne è risultata una brusca diminuzione del tasso di natalità da un valore superiore a 2 agli inizi degli anni 90 a 1,33 per ogni donna giapponese nel 2001, con la rapida formazione di una società con una bassa percentuale di generazioni più giovani. Nel prossimo futuro la politica statale ha probabilmente in programma un ulteriore incremento della tassa sui consumi e l’imposizione di nuovi carichi  per i piani pensionistici e le assicurazioni sanitarie. Si vede quindi come la crisi fiscale dello Stato è al tempo stesso il prodotto e la causa dell’allargamento delle ineguaglianze economiche all’interno del popolo giapponese e danneggia pesantemente la sicurezza ed il benessere economico della massa di lavoratori e delle persone più deboli. In una situazione di questo genere il risparmio delle famiglie, che è piuttosto elevato, non può ovviamente essere trasformato in liquidi e utilizzato per riprendere i consumi.

Il piano congegnato dal Ministro delle Finanze H.Takenaka per risolvere la questione dei prestiti insolvibili delle banche, consistente nel taglio di tali prestiti in questo anno, comporterebbe un aumento dei fallimenti delle imprese e della disoccupazione e un peggioramento generale delle attività economiche e della depressione. Non stupisce perciò che misure di questo genere abbiano provocato una forte resistenza e l’opposizione da parte dei circoli economici e dello stesso partito al governo (LDP) tanto da essere ridimensionate di molto. Allo stesso tempo assistiamo al fallimento del premier Koizumi rispetto alle promesse di porre un limite alle nuove emissioni di titoli di Stato al di sotto dei 30.000 miliardi di yen e di risolvere il problema delle banche relativo ai prestiti insolvibili in due o tre anni. Il suo gabinetto comincia a perdere la legittimità ed il sostegno anche all’interno dello stesso partito di governo oltre che fra i circoli economici, dato che le sue politiche economiche non solo sono inefficaci ma stanno peggiorando ulteriormente la situazione di crisi, come capitò con la politica restrittiva del governo Hashimoto nel 1997 con l’ aumento della tassa sui consumi.

Tuttavia la tragedia del Giappone di oggi sta nella mancanza di un forte partito di opposizione che rappresenti gli interessi della classe dei lavoratori e sia in grado di criticare chiaramente le politiche governative per cercare di modificarle efficacemente, a parte il piccolo Partito Comunista ed il Partito Socialdemocratico (il vecchio Partito Socialista) ormai fortemente indebolito. La collaborazione internazionale e l’influenza della sinistra europea è tutto ciò che si può attualmente desiderare per un futuro migliore dei lavoratori e della società giapponesi.

Tokyo, 19/11/2002

Makoto Itoh é docente di economia presso l’Universitá Kokugakuin di Tokyo nonché Professor Emeritus dell’Universitá di Tokyo. È nato a Tokyo nel 1936 e ha insegnato in svariate università estere. Fra le altre opere é autore di The Japanese Economy Reconsidered (2000), Political Economy of Money and Finance (1999), Political Economy for Socialism (1995), e The Basic Theory of Capitalism (1988).