Le
guerre della crisi
E’
immediatamente percepibile come le tensioni che hanno portato allo sviluppo di
quest’ultima guerra provengono univocamente dalla politica economico-militare
degli Stati Uniti come la guerra del golfo o i vari interventi e ingerenze negli
“affari” di almeno un quarto di mondo. Si fatica a vedere nell’Afghanistan
o nel mondo arabo un capitalismo e un potere economico che contrastano quello
occidentale in generale e statunitense in particolare. L’Afghanistan è uno di
quei cosiddetti paesi sottosviluppati dove l’impossibilità del capitale di
svilupparsi, per vari motivi che possono andare da una forma sociale ancora
quasi feudale, dove lo scontro tra i diversi clan di possidenti protoborghesie
impedisce al capitale di svilupparsi, cosa che può avvenire solo alla presa del
potere da parte di una borghesia i cui interessi comuni avviano una fase di
sviluppo del capitale nazionale, ad una instabilità geopolitica che frena gli
investimenti esteri direttamente produttivi ( capitali e infrastrutture ) con
gli embarghi, diventa terreno fertile di speculazioni belliche dirette come una
guerra, una per tutte quella del golfo, o indirette sotto forma di vendite di
armi.
C’è
un profondo legame tra la crisi economica, ovvero la difficoltà del capitale di
ottenere profitti, e l’avvio, la prosecuzione
e l’inasprimento delle guerre in tutto il pianeta.
Questa
guerra, proprio perchè diretta, permette al capitale in crisi di rigenerarsi
accellerando ed aumentando la realizzazione dei profitti sia con
l’intensificazione della produzione bellica per la domanda interna, che con il
compattamento sociale derivante dall’aggressione plateale subita, un vero
colpo di fortuna per il capitalismo americano in difficoltà che ha così una
vittima sacrificale bell’e pronta a ricevere su di se le tonnellate di rifiuti
di piombo, uranio o cos’altro che la crisi americana ha da smaltire.
Il capitale cerca così di imporre ai proletari americani, ma anche a quelli europei e di altri paesi del mondo, di farsi sfruttare più estesamente ed intensamente, accettando licenziamenti, tagli e inasprimento delle condizioni di vita per sconfiggere il ferocissimo e sanguinario saladino e ed i suoi profeti che si scagliano contro i palazzi delle città con il tappeto volante di casa loro. Anche in Italia dove i primi segni li vediamo con i tagli del personale non solo nei servizi, ferrovie e aeroporti, ma anche nelle industrie dove vengono “ purgati ” centinaia di operai, e dove la borghesia cercherà di far passare, “vista la situazione” i suoi “disegni politici” per incrementare lo sviluppo: libertà di licenziamento, maggiori finanziamenti alle imprese, pressione più intensa sui proletari, maggiore controllo e militarizzazione del territorio come nelle strade dove centinaia di punkabbestia vengono forzatamente condotti al “reinserimento” e i loro cani tenuti in grossi recinti per evitare che mordano i vigili urbani.
Questa
è una guerra della crisi, ma questa volta il “nemico” impostoci dai padroni
non se ne sta come un cretino a migliaia di kilometri a sparare petardi ai
caccia che gli passano sopra la testa, o a gettare missili fallati che cadono
stanchi a due miglia dall’obbiettivo, ma lavorano con loro facendoci volare in
ufficio, in metrò, o a fare la spesa. L’attacco portato al cuore degli Stati
Uniti non è un semplice spostamento di territorio, ma rappresenta proprio
l’internazionalità della guerra, che questa colpisce i proletari in ogni
luogo del mondo poichè è lo stesso capitale che opera e si impone in tutto il
pianeta, il capitale non può, per rigenerarsi, che colpire nel proprio centro.
Inoltre, come nel caso delle passate guerre mondiali, c’è un rapporto diretto
tra l’intensità e ampiezza del capitale e della crisi, ed intensità della
guerra che ne consegue.
Il
nemico è il capitale, che porti il turbante o il doppiopetto,
che tagli mani negli stadi o uccida con le siringhe nei lettini, che
copra le donne o le spogli del tutto, che si getti con gli aerei contro i
palazzi o che li abbatta con missili intelligenti, a Kabul e a New York, nel sud
del Libano e a Milano.
Il capitalismo è in crisi e la democrazia o la società civile non possono arginare la caduta dei profitti dei padroni, vera essenza della crisi, in quanto esse stesse sono una parte dello stesso capitale ed in quanto tali partecipano con esso alle guerre che gli sono necessarie.
La pace per i proletari non vuol dire la tranquillità dello sfruttamento e della repressione dei bisogni di chi, in nome del diffuso benessere di pochi, lascia la sua vita nelle tasche dei padroni. La pace per i proletari non vuol dire tranquillità di sognare un “mondo migliore” seduti in veranda o illudendosi di andare in piazza a cambiarlo con sfilate arrendevoli sotto il manganello dello stato democratico, ogni tanto fascista e repressivo, e, quando serve, guerrafondaio.
Il
pacifismo è il peggior prodotto della guerra, l’unica risorsa per i proletari
non è la pace, ma la guerra di classe.