Stato sociale contro la crisi, crisi dello stato sociale

da Precari nati n.5

Un autunno tiepido

Il ritorno dalle ferie, ci prepara immediatamente ad affrontare i risultati di un'estate intensa di dichiarazioni d'intenti e scambi di opinioni fra il governo, sindacati confederali e padronato, che si preparano a gestire "l'emergenza pensioni". Fin dai primi di settembre il governo ha cominciato a incontrare le "parti sociali" (sindacati confederali e organizzazioni padronali) per mettere mano agli ammortizzatori sociali (cassa integrazione ordinaria e straordinaria, prepensionamenti, assegno di disoccupazione) affermando che occorre rendere più equo il welfare italiano per passare successivamente a discutere del capitolo pensioni. Ci sembra utile cercare di fare un ragionamento complessivo su questo tipo di riforme che sono legate fra loro da molti punti di vista.

Salario, stato sociale e flessibilità del lavoro

Possiamo considerare i salari (soldi in diretto scambio di lavoro) le pensioni, e sussidi vari (cassa integrazione, mobilità, sussidi alla disoccupazione, assegni familiari eccetera) il reddito complessivo, ricevuto durante l'intera esistenza, da chi ha come unica fonte di sopravvivenza il proprio lavoro.

L’interposizione dello stato fra lavoratore e impresa nella gestione delle pensioni e del welfare in genere, fa perdere di vista l’evidente realtà che questi soldi altro non sono che un salario pagato indirettamente tramite lo stato. L’impresa infatti versa i contributi allo stato (l’INPS) che si occuperà di erogarli sotto forma di pensioni, cassa integrazione o altro  in un secondo momento, sottoponendo l’effettiva erogazione del “salario” ad una serie di requisiti (età anagrafica, anni di contributi versati, non schiattare al lavoro, essere disoccupati ecc..).

Le riforme dello “stato sociale” dunque, non sono generiche riforme di politica economica, che indirettamente possono avere un effetto sui salari o sulla qualità della vita dei lavoratori salariati (come ad esempio una svalutazione o l’aumento dei tassi di interesse). Non si tratta neanche di misure che hanno lo scopo di ridurre il disavanzo del bilancio dello stato e il debito pubblico. Queste riforme hanno lo scopo di incidere direttamente nel prezzo che le imprese pagano per la “forza lavoro”: i soldi che riceviamo per stare una vita in una fabbrica, un supermercato, in un ufficio o un altro di questi “simpatici” luoghi.

Così inteso lo stato sociale nega una serie di luoghi comuni e di opinioni, diffuse anche da certi ambiti della sinistra, che vedono nell’intervento dello stato nell’economia uno strumento utile a creare una redistribuzione fra salari e profitti, e il taglio delle pensioni nella necessità di far fronte alla crescita del debito pubblico.

Lo stato sociale come distributore di sfighe

In realtà se si considerano i contributi che tutti i mesi ci vengono tolti dalla busta paga, le tasse, le imposte indirette sul consumo, e dall’altro lato tutti gli sgravi fiscali di cui usufruiscono le imprese, compresa la cassa integrazione, ci si rende immediatamente conto di come dallo “stato sociale” non viene regalato nulla ai lavoratori dipendenti. L’unica forma di redistribuzione che si crea è fra lavoratori occupati e disoccupati, fra lavoratori più vecchi e più giovani, senza intaccare minimamente i profitti delle imprese al di là dei contributi che incidono sul costo del lavoro che fanno parte a tutti gli effetti del salario. A maggior ragione si deve negare l’effetto di distribuzione degli interventi statali se, a queste considerazioni, si aggiungono le inefficienze della pubblica amministrazione nell’istruzione, nella sanità e nei diversi ambiti, dove comitati d’affari si arricchiscono grazie alla gestione del denaro pubblico (Tangentopoli è solo un esempio eclatante); inefficienze che ricadono direttamente sui lavoratori statali e pubblici e sui lavoratori utenti.

Queste considerazioni dovrebbero far riflettere chi ha visto e continua a vedere nello stato un possibile strumento da utilizzare per eliminare le storture e “ingiustizie” sociali create dal mercato ultra liberale. Chi auspica l’intervento dello stato per avere un salario di disoccupazione (o reddito di cittadinanza), o per dei servizi pubblici accessibili a tutti, si limita a constatare una certa capacità di spesa dello stato e invoca la clemenza del politico illuminato di turno affinché destini la spesa pubblica non solo per spese militari e gettate di cemento, ma anche per una equa redistribuzione del reddito. Lo stato come Robin Hood dovrebbe levare ai ricchi per dare ai poveri, magari costretto da “lotte sociali” di disoccupati, di senza casa o altri gruppi sociali svantaggiati che reclamando per un diritto nei confronti della collettività riescano a piegare lo stato a una politica di spesa più corretta. Ma occorre chiedersi, questi soldi da dove li prenderebbe lo stato? La distribuzione creata dallo “stato sociale” rappresenterebbe un miglioramento effettivo di tutta la classe o si  limiterebbe a una guerra fra poveri? Perché un operaio costretto a lavorare otto ore e passa in fabbrica dovrebbe essere soddisfatto dalla ideologizzazione statalista di un reddito di cittadinanza e di spese statali utili alla collettività, visto che la spesa sociale viene pagata con i salari? C’è da aggiungere, che la capacità dello stato e delle imprese di usare la politica economica a vantaggio delle imprese, anche quando le lotte operaie siano riuscite a strappare qualche vantaggio, è stata finora una costante, mentre la rivendicazione di uno stato sociale più equo sembra negare questo dato.

E’ noto il fatto di come l’inflazione della prima metà degli anni settanta, associata a una svalutazione della lira, abbia permesso alle imprese di recuperare i profitti persi a causa delle lotte operaie, che avevano sganciato le rivendicazioni in fabbrica dalla produttività, senza che la  crescita dei prezzi si trasformasse per le imprese in una perdita di competitività rispetto la concorrenza estera.

La stessa introduzione della cassa integrazione guadagni che era stata pensata per ridimensionare le tensioni sociali causate dalla riduzione occupazionale, necessaria alla ristrutturazione del capitale, negli stessi anni ha permesso una ristrutturazione ancora più veloce e indolore alle imprese. Infatti grazie a questo strumento dello “stato sociale” si è potuto:

Questi e altri esempi svuotano ancora di più di un effettivo significato qualsiasi ipotesi di ottenere uno stato sociale che non abbia come principale obiettivo l’assecondare le esigenze delle imprese.

Lo stato sociale e il debito pubblico: due strumenti per la produttività

Se non è sbagliato ritenere che il debito pubblico in fin dei conti viene pagato dai salari regolarmente tagliati nel valore reale dall’inflazione, e da tutte le manovre di tagli alla spesa che uno stato indebitato è costretto presto o tardi a intraprendere (per cui ci vengono tolti i servizi che abbiamo finanziato), non è corretto inquadrare la manovra in studio dal governo per le pensioni e lo stato sociale come una necessità dettata da una politica di risanamento del bilancio pubblico.

Una prova immediata la si può avere considerando che mentre si discute di “risanare” il sistema pensionistico e cambiare il walfare all’italiana, si constata che l’Italia è riuscita in pieno a raggiungere gli obiettivi di riduzione del debito pubblico previsti dall’Unione Europea. Il saldo di agosto dei conti pubblici ha visto un attivo di 7mila miliardi, che saranno regalati con tutta probabilità alle imprese come sgravi fiscali. Eppure in agosto sia il governo che la corte dei conti hanno cominciato a discutere di tagliare le pensioni.

L’obiettivo del governo nel ridisegnare il sistema previdenziale italiano è duplice, far pagare la crisi economica di questi anni ai lavoratori con il taglio delle pensioni e contemporaneamente creare un walfare che risulti essere più congeniale alle caratteristiche del mercato del lavoro, così come si sono determinate con l’introduzione della “flessibilità” e la crescita della disoccupazione.

Per difendere i profitti delle imprese (il che equivale a dire salvaguardare la competitività), il governo d’Alema deve proseguire la strada tracciata da Dini e Amato nelle riforme degli ultimi governi di centrosinistra.

Le riforme adesso proposte sono il semplice completamento o l’accelerazione del cambiamento introdotto nella previdenza sociale dai precedenti governi. Il passaggio sostanziale si è avuto nel passaggio da un sistema pensionistico basato su un metodo retributivo, cioè la pensione commisurata alle ultime retribuzioni, a uno basato sul sistema contributivo, cioè le pensioni commisurate ai contributi. Contemporaneamente si sono aumentati gli anni necessari sia come contributi che come età anagrafica prima di potere andare in pensione. Questo, equivalendo ad un taglio delle pensioni ha permesso un risparmio per le casse dell’INPS. Ma come mai un sistema che ha retto per anni si dice oggi essere insostenibile? Da un lato è evidente la mistificazione dei dati che viene creata esclusivamente per fare accettare supinamente il taglio delle pensioni, dall’altro è vero che alcune caratteristiche del mercato del lavoro e della situazione economica, non solo italiana, spingono le imprese e i governi a ripensare al livello e alle modalità con cui viene corrisposto il salario, compreso il salario differito, cioè le pensioni.

Sono due i fenomeni del mercato de lavoro che rendono difficile se non impossibile mantenere il livello attuale delle pensioni senza intaccare i profitti:

Per quanto riguarda il primo punto è stato stimato un tasso di dipendenza (rapporto tra popolazione con età superiore a 59 anni e popolazione attiva, età compresa tra 15 e 59 anni) crescente. In particolare mentre durante gli anni novanta il tasso di dipendenza si è mantenuto sotto il 30% con l’inizio del nuovo secolo dovrebbe crescere fino ad arrivare nel 2030 ad un valore del 60% circa. Questo vuol dire che un maggior numero di pensionati e disoccupati graveranno sui contributi dei lavoratori occupati (dieci anni fa il rapporto medio fra attivi e pensionati era 3,2, oggi è 1,3). Inoltre la crescita della produttività che associata a una costante crescita degli investimenti aveva caratterizzato gli anni dalla seconda guerra ai primi anni settanta, ha avuto dei rallentamenti da allora fino ad oggi. Il metodo contributivo ha permesso al governo di ristabilire un rapporto fra contributi e pensioni che risultasse nel lungo periodo più compatibile con la situazione su descritta. In altre parole visto che il capitale per fare profitti ha bisogno di disoccupazione, i problemi che questa genera in assenza di una adeguata risposta operaia vengono fatti pagare ai lavoratori salariati. Non esiste alcuna compatibilità fra i profitti delle imprese e il nostro interesse ad avere livelli “adeguati” di salari e pensioni.

Per quanto riguarda il secondo punto è ormai noto come la flessibilità sia ormai stata introdotta grazie agli ultimi contratti nazionali di categoria (metalmeccanici, chimici, alimentari), dalle nuove tipologie contrattuali di lavoro a tempo determinato, e dai diversi contratti aziendali. Nel 98 i contratti “atipici”, non a tempo indeterminato, sono stati stimati pari all’11,7% di tutta l’occupazione. Il lavoro interinale introdotto dal governo Prodi con il “pacchetto Treu”, ha avuto e continuerà ad avere un forte sviluppo. Dati dell’Assointerim (associazione delle agenzie interinali, il moderno caporalato) prevedono una espansione dell’interinale nel 1999 quattro volte superiore a quella del 98. Nel primo semestre del 99 i lavoratori interinali sono stati in Italia 75525, nel corso di tutto il 98 erano stati 52000. Le ore lavorate dagli interinali sempre durante il primo semestre 99 sono state 12,5 milioni con una media di 167 ore ciascuno, nel 98 le ore lavorate dagli interinali sono state 9 milioni, con una media di 174 ore ciascuno. Sono aumentati gli interinali ma la durata dei contratti è sempre la stessa (vedi i valori medi).

Il lavoro flessibile genera una situazione febbrile del mercato del lavoro, non si ha più una occupazione fissa, ma si alternano periodi di disoccupazione a periodi di lavoro. Si alternano quindi periodi in cui si lavora e si versano i contributi a periodi in cui non si lavora e non si versano i contributi. Da qui le possibili difficoltà a reperire i fondi per pagare le pensioni. Una disoccupazione media del 12% con la presenza di un lavoro flessibile rende ancora più difficile per lo stato garantire le pensioni, rispetto ad una ipotetica situazione in cui non esistesse il lavoro “flessibile”.

A questo proposito la parte più “interessante” della riforma in studio dal governo è proprio quello di assecondare le esigenze delle imprese di disporre di lavoro flessibile, così come si è visto sopra nei primi anni settanta con l’utilizzo della cassa integrazione.

Sintetizzando le modifiche in discussione riguardano:

a) trasformare la cassa integrazione estendendola a tutti i casi dove adesso non è applicabile (piccole imprese, artigianato, commercio, settore pubblico); 

b) bloccare i prepensionamenti a partire dal 2001; 

c) aumentare la durata dell'indennità di disoccupazione dagli attuali 6 mesi a 9 o 12; 

d) Dare un sussidio ai disoccupati di lunga durata cosiddetto minimo vitale, ma questo argomento è momentaneamente "congelato";

Come si vede la novità sostanziale non è tanto quella del taglio alle pensioni, a quello si era già provveduto con Amato e Dini, quanto la trasformazione del Walfare, e le misure per lo sviluppo dei fondi di previdenza privata.

L’utilizzo del tfr diventa indispensabile per assecondare lo sviluppo della pensioni gestite da fondi privati (sindacati confederali a cerca di finanziamenti facili, cartelli di imprese industriali e finanziarie avide di poter gestire una grossa fetta del “risparmio”, cioè dei nostri salari). Se si lasciasse liberi i lavoratori di scegliere di destinare i contributi versati oggi obbligatoriamente all’INPS anche ai fondi privati, visto che il privato non attua la redistribuzione fra sfigati spiegata sopra, ci sarebbe un abbandono del sistema pubblico spinto dai maggiori rendimenti dati dai privati, questo equivarrebbe a un vero collasso dell’INPS. L’ipotesi di usare il tfr per una pensione non sostitutiva ma “integrativa” permette al governo di mantenere vivo il sistema pubblico e contemporaneamente far decollare il sistema privato senza chiedere maggiori contributi alle imprese (ricordiamoci che i contributi e i salari sono costi per i padroni che si opporrebbero quindi a qualsiasi ipotesi di aumento dei contributi). Alla fine dell’operazione visto che le pensioni private danno a Cesare ciò che è di Cesare, cioè danno a chi ha pagato i contributi una pensione a chi non li ha pagati non deve nulla, le pensioni che riusciranno a pagare i privati saranno maggiori del pubblico che potrà essere smantellato. Sorge però un problemino:  chi non riesce a versare i contributi in maniera sufficiente nell’arco di una vita? E tutte le forme di sussidio non pensionistico, gestite dall’INPS o altri istituti, ma pagate sempre dai contributi versati dai lavoratori dipendenti chi li pagherebbe?

Il governo sa benissimo che non può introdurre un capitalismo ultra liberale in cui gli “esclusi” dalla produzione possono sperare solo nella carità di un familiare o della chiesa e si appresta a trovare misure di Welfare, nuove per l’Italia ma ampiamente sperimentate all’estero, che gravino anziché sull’INPS sulla fiscalità in generale e che in ogni caso distribuisca qualche spicciolo a disoccupati, lavoratori precari, inabili al lavoro, vecchi “pelandroni” che non hanno versato i contributi. Alla fine di questo bel quadretto che si preparano a dipingere governo, sindacati confederali e padroni, un lavoratore precario che riceve un salario basso e non in maniera continua, che alterna periodi di lavoro mal pagato a periodi di disoccupazione con un sussidio da fame, sempre costretto dalla necessità al lavoro, nell’arco di una vita, ha ricevuto un taglio nel salario inimmaginabile nell’arco di un anno senza reintrodurre lo schiavismo. I “garantiti”, cioè chi riuscirà ad avere un contratto a tempo indeterminato, saranno ben contenti di avere una pensione che dipende dagli umori del mercato finanziario e dalla bravura di un manager di fare fruttare un fondo pensioni. Di trovarsi di fronte padroni ancora più arroganti e rafforzati dall’ennesima vittoria messa a segno senza che noi si riesca a dare una risposta di classe efficace. Di subire cassa integrazione, licenziamenti collettivi, disoccupazione e taglieggiamenti dei salari quando le cose si mettono un po’ male per i profitti dei padroni, mentre si aspetta il successivo taglio della pensione (cosa non improbabile visto che il padronato dice che per rilanciare la competitività non basta tagliare le pensioni ma occorre ridurre il costo del lavoro, cioè i contributi che paghiamo per avere una pensione).

Note storiche sullo stato sociale

Il forte ruolo dello stato nell’economia, a partire dalla crisi economica mondiale di fine anni venti, ha avuto e continua ad avere lo scopo di far fronte ai limiti dimostrati dall’economia capitalista nel superare le crisi in cui periodicamente incorre, grazie ai semplici meccanismi di mercato.

Le misure introdotte negli Stati Uniti da Roosvelt che presero il nome di New Deal, ebbero lo scopo di porre rimedio alla disoccupazione di massa che si era creata a causa della crisi economica iniziata nel 1929. Si pensava che grazie a uno sviluppo della domanda indotto dalla spesa pubblica si potessero far ripartire gli investimenti privati. Inoltre viste le conseguenze sociali della disoccupazione si cercava di mettere freno a possibili tensioni sociali. Al di là della capacità o meno di queste misure di recuperare l’economia a un più adeguato sviluppo della produzione, lo scopo principale dell’introduzione del  Walfare era esclusivamente un porre rimedio al fallimento del mercato. Una tale politica tuttavia portava ad un cortocircuito, insito nella politica keniesiana di cui oggi sono maggiormente chiari gli effetti. Si riteneva infatti che grazie ad un intervento dello stato nell’economia la crisi attribuita ad un eccesso di offerta potesse essere superata. Tuttavia questo tipo di “politiche economiche” non prendono in considerazione il fatto che affinché il processo di produzione capitalista avvenga non è sufficiente la presenza di una domanda insoddisfatta a cui vendere la produzione, ma necessita di una creazione del profitto una volta che la produzione venga venduta sul mercato. Le politiche di indebitamento dello stato per rilanciare l’economia, a cui si può ricondurre la teoria Keynesiana, allargano la domanda a cui corrisponde una effettiva maggiore produzione del settore privato, ma questo ciclo conduce necessariamente ad una ulteriore crescita del debito pubblico che potrà essere recuperato solo con altro debito pubblico o con imposte. In entrambi i casi la crescita del debito pubblico ipoteca i profitti e il denaro (capitale liquido) a disposizione del capitale privato. Ancora più inefficaci quindi risultano essere le politiche di crescita del debito pubblico in situazioni come quelle attuali con alti livelli di indebitamento, profitti e crescita della produttività bassi, per cui è facile che una crescita della spesa pubblica innesti solo dei fenomeni inflativi. Da qui la necessità di ridurre i “costi” del lavoro e lo sfruttamento della manodopera, con cui il capitale spera possano essere ristabiliti sufficienti saggi di profitto. Nel caso degli Stati Uniti negli anni 30 è stato necessario produrre una “distruzione di capitale” produttivo trasferendo risorse, recuperate con la crescita del debito pubblico, dal settore privato al settore pubblico degli armamenti necessari al secondo conflitto mondiale.

In Europa si adottarono misure simili a quelle sopra descritte. In Inghilterra si adottarono dei “programmi di sviluppo” che usavano il credito e le agevolazioni fiscali per orientare la produzione verso gli obiettivi fissati dal governo. In Germania e in Italia con regimi politici diversi si seguiva un controllo anche maggiore dello stato sull’economia arrivando alla nazionalizzazione di alcune industrie ritenute “strategiche”.

E’ con questo spirito che in Italia il regime fascista istituì il sistema di previdenza sociale pubblico anche se in forma limitata rispetto all’attuale: il 22 aprile del 1927 veniva emanata la “Carta del Lavoro”. Il punto XXVI istituisce la previdenza definendola “un’alta manifestazione del principio di collaborazione”, ai cui oneri devono “concorrere proporzionalmente il datore di lavoro e il prestatore d’opera”.

Dietro l’idea che lo stato sociale sia un miglioramento delle condizioni dei lavoratori salariati si nasconde il pregiudizio di uno stato che riesca a conciliare i diversi interessi di classe, in una società “corporativa” e dittatoriale un tempo, democratica oggi.

Tale visione è ampiamente confermata se si analizza il caso francese, durante il Fronte Popolare, che rimane per l’immaginario della sinistra uno dei punti più alti della strategia e pratica socialdemocratica, tesa all’ampliamento delle sicurezze sociali. Nel 1936 sotto la spinta di un forte movimento operaio, lo stato francese e l’autoctono padronato scelse una politica tesa a distruggere tale movimento, favorendo un allargamento dello stato nell’economia. Esattamente come in Germania e in Italia nell’immediato dopoguerra, in Francia, avendo una classe operaia all’attacco, il capitale ha dovuto rinunciare temporaneamente a perseguire l’aumento del saggio di profitto, limitandosi a mantenere lo sfruttamento operaio. Il capitale poteva affidare al governo del Fronte Popolare francese il compito essenziale di spezzare le basi della lotta operaia e di mobilitare le masse verso la guerra imperialista (compito che toccò al fascismo in Italia e al nazismo in Germania), perché possedeva una potente massa di manovra (plusvalore nazionale e coloniale) che gli permetteva di non subordinare più la vita economica del regime alla trasformazione immediata del profitto in capitale. Era questo il pieno significato dello slogan del frontismo francese rispetto alla sua politica “cambiale sull’avvenire” che attingeva dai  miliardi di plusvalore accumulati nelle banche, mentre i capitali se ne andavano all’estero per profittare di condizioni più favorevoli, per tornare sul suolo francese solo dopo l’indebolimento della classe operaia che avverrà nel suo inquadramento attraverso il sindacato e l’appoggio all’economia di guerra.

Quindi anche dove l’introduzione dello stato sociale nell’economia è stato spinto da un intensificarsi delle lotte operaie (non è superfluo ricordare che non ovunque è stato così, vedi ad esempio la Germania dove il padronato si è orientato ad una redistribuzione creata grazie alla crescita della produttività con semplici politiche di concertazioni fra sindacati, organizzazioni padronali e governo, senza che si sia dovuto fare un’ora di sciopero), esso è principalmente servito a frenare le richiste operaie e a riportarle in ambiti sindacali, dove ad un “cedimento” da parte dei padroni corrisponde un ritorno alla “normalità” dei rapporti sociali.

Chi crede di potere riunire sotto la bandiera della difesa dello stato sociale (o di un suo semplice strumento quale il reddito di cittadinanza) una forza sociale capace di contrapporsi con successo alle aggrssioni padronali, non fa che invertire il rapporto delle cose, cioè non si rende conto che l’esistenza di una unione fra lavoratori salariati, disoccupati e proletari in genere pur essendo auspicbile non la si crea con semplici campagne politiche ma le deve precedere perchè è la base necessaria di qualsiasi rivendicazione. Inoltre le campagne per uno stato sociale più equo non sono neanche il risultato di una lotta o di chissà quale diffuso sentire della classe oggi (che anche se assopita esprime ancora nei luoghi di lavoro in maniera organizzata o meno elementi di conflittualità), ma sono frutto della elaborazione “teorica” di gruppi politici, partiti o intellettuali smpre pronti a tirare fuori dal cappello la proposta “politicamente più conveniente” per la totalità dei lavoratori salariati.

Così come nel passato, anche se può sembrare scontato, finché non riusciamo a invertire i rapporti di forza con i padroni a partire dai singoli posti di lavoro, non si intravede neanche la possibilità di salvare pensioni, casa, e quant’altro di cui ci  sentiamo malvolentieri depredati. Questa forza potrà nascere solo dalla collettività dei proletari non da un singolo gruppo politico. Oggi questa collettività è frantumata in singole lotte, sottoposta alle aggressioni padronali, tuttavia nei singoli luoghi di lavoro dove si innesta la “naturale” reazione allo sfruttamento siamo convinti che l’attuale classe proletaria potenzialmete possa trovare il terreno per plasmare una forma d’azione incisiva, sfruttando l’attuale crisi in cui versa il sistama di produzione capitalista e la sua forza oggettiva, essendo la forza sociale più importante di questo fine millenio.

Precari Nati-Bologna

Bibliografia:

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