Multiculturalismo o cultura mondiale?

Su una risposta di “sinistra” all’attuale declino sociale.

di Loren Goldner (1991).

 

Una Rosa Luxemburg del 21° secolo che studiasse l’America dei decenni dopo il 1973 constaterebbe una caduta generale dei livelli di vita, di almeno il 20% per almeno l’80% della popolazione. Essa noterebbe che nel 1945 gli USA erano il leader delle esportazioni industriali mondiali con il tasso di produttività e con i salari più alti del mondo. Riferendosi alla fine degli anni ’50, essa noterebbe che un reddito operaio era in grado di sopperire ai bisogni, ossia di riprodurre una famiglia di quattro persone o più. Essa noterebbe che all’inizio degli anni ’60 la maggior parte, ma certamente non tutti i beneficiari di questi redditi erano bianchi, e noterebbe anche la forte crescita di un proletariato urbano nero del Nord nel corso di questo stesso periodo, che riproduce ugualmente le famiglie della classe operaia nera. D’altra parte, a partire dal 1992, per raggiungere il livello di riproduzione degli anni ’60, erano necessari due redditi operai o più, e sempre di più per i bambini della classe operaia nera viventi nelle rovine dell’industria americana, spinti nel sottoproletariato. Probabilmente essa piomberebbe su un sondaggio (dell’agosto 1991) che mostra come il reddito accumulato da una coppia tipo della classe operaia bianca, entrambi destinati a impieghi precari, era equivalente in termini reali al 44% del salario di un operaio qualificato della stessa percentuale, 30 anni prima. Per una coppia operaia di colore la caduta fu ancora più drammatica. La nostra Rosa Luxemburg constaterebbe che all’inizio degli anni ’50 una famiglia media della classe operaia spendeva il 15% del suo reddito per l’alloggio, mentre nel 1992 questa cifra raggiungeva quasi il 50%. Non sarà dunque sorpresa di vedere che, 45 anni dopo la seconda guerra mondiale, la parte più grossa dei profitti capitalisti raggranellati negli USA si è radicalmente spostata dall’industria sulla finanza e i beni immobiliari. Nel 1992, gli articoli in cima alle esportazioni americane non erano più i beni industriali e tecnologici, ma i prodotti dell’agricoltura e la cultura popolare. La nostra storica del 21° secolo si chiederà del tutto naturalmente come un cambiamento così drammatico sia potuto apparire così presto, e troverà facilmente la risposta nell’enorme fuga di capitali destinati all’investimento produttivo, inizialmente in direzione del Canada e dell’Europa, dalla fine degli anni ’50, e progressivamente, a partire dalla metà degli anni ’60, in direzione delle regioni del Terzo Mondo. Capirà che i 35 anni di deindustrializzazione sono la controparte di questa “delocalizzazione” della produzione di massa, dell’aumento costante della competizione europea, e giapponese soprattutto, e della rivoluzione mondiale della “alta tecnologia” che espelle lavoro vivo dal processo produttivo. Applicando il concetto di salario sociale complessivo della prima Rosa Luxemburg a questo processo, essa constaterà senza grande difficoltà che il principale bersaglio di questa accumulazione (e disaccumulazione) era, precisamente, la forza-lavoro americana altamente qualificata e ben pagata dell’immediato dopoguerra. Essa stabilirà un parallelo con il declino dell’Inghilterra, dal 1870 al 1945, salvo a tener conto dell’abilità con cui i governanti americani frodarono, ingannarono e rosicchiarono, dalla fine degli anni ’50, i proprietari europei, giapponesi e arabi di riserve in dollari sempre in salita, per reinvestirli in buoni del tesoro e nel mercato di capitali americani, riuscendo in questo modo a dissimulare la gravità del declino alla maggioranza degli Americani, nonché alla maggioranza dei membri dell’alta amministrazione. Rileggendo le teorie di Marx sul plusvalore o quelle dei suoi inizi sull’accumulazione del capitale, la nostra storica sorriderà forse dell’intestardirsi delle élites nelle loro miserabili idee keynesiane e monetariste che vantano come “crescita” l’aumento del PNL di un anno sull’altro, mentre le città americane si riempivano di fabbriche chiuse, di strade dissestate, di tossicodipendenti, di catene di fast food, di agenti di sicurezza e di senzatetto. Spingendo più lontano il nostro studio sperimentale, l’attenzione della nostra storica sarà forse attratta dal fatto che, alla fine degli anni ’80, gli studenti delle università americane che sostengono esami di livello internazionale erano per ogni materia precisamente al 20° posto dei 20 paesi cosiddetti “industriali avanzati” . Essa potrà notare che nello stesso periodo più del 50% dei diplomi universitari americani nelle materie scientifiche e tecniche erano accordati a stranieri e che, di conseguenza, quel che restava dei R&D (research and development, ricerca e sviluppo) americani dipendeva sempre di più dal mantenimento di questi stranieri negli USA (Sorriderebbe probabilmente per una inversione così inattesa della “teoria della dipendenza”). Interessandosi alla riproduzione dell’insieme della forza-lavoro, non sarà sorpresa  di vedere che i dirigenti, di quel che restava dei settori industriali qualificati, non sapevano cosa fare nel momento in cui la vecchia generazione di operai partiva in ritirata perché scuole e licei non sostituivano più i loro tecnici.  Ma, familiare con i primi concetti marxisti e luxemburghiani della riproduzione della forza-lavoro, e vedendo come i capitalisti americani si sono scaricati dei costi di questa riproduzione per 35 anni, nulla di tutto questo la sorprenderà. Alla fine, la nostra Rosa non sarà maggiormente sorpresa d’apprendere che, a partire dalla fine degli anni ’50, questa incapacità dell’America a riprodursi materialmente da sé stessa era appena menzionata nella corrente istituzionale fittizia dell’ideologia, nei media, negli istituti di ricerca altamente specializzati, all’accademia, nell’editoria o nelle scuole, e che raramente si è discusso della gravità del problema con un po’ di responsabilità o di serietà. Passando in rassegna gli alfieri dell’ideologia dominante, essa noterà che i John Kenneth Galbraith e i Milton Friedman degli anni ’60, gli E. F. Schumacher e gli Ivan Ilych degli anni ’70, o i “teorici dell’offerta” e i “teorici specialisti della flessibilità” degli anni ’80, facevano la loro fortuna restando concentrati su falsi problemi e false soluzioni. Ricordandosi della polemica che oppose la prima Rosa Luxemburg , Lenin e gli altri rivoluzionari , alla vigilia della prima guerra mondiale, sul senso della riproduzione materiale allargata della società, la nostra storica del 21° secolo si volgerà appassionatamente  verso l’opposizione radicale al capitalismo americano in declino, sperando di trovarvi finalmente una seria discussione su queste questioni per sostenervi le soluzioni programmatiche e strategiche che s’impongono. ‘Come sono state poste – si chiederà – le “questioni cruciali” nell’ambiente sedicente radicale dell’America, all’interno e all’esterno dell’accademia, quando il paese piombava in una crisi economica e sociale più grave di quella degli anni ’30?’  Essa doveva certamente trovare là un dibattito su tali questioni con la necessaria serietà.

In effetti, come possiamo constatare gettando uno sguardo sulla grande maggioranza  degli ambienti  o delle pubblicazioni largamente associate alla sinistra, che sia attivista o accademica, in America, oggi (1991), la nostra storica troverà ben poca discussione su questi problemi, e ancor meno iniziative programmatiche organizzate attorno ad esse.

Essa scoprirà forse una brillante teorica letteraria che spiega che la classe sociale, l’economia e – perché no? – la deindustrializzazione sono essenzialmente dei “testi”. Pensando forse che un tale concetto di classe emerga, tuttavia,  dalla ricerca di una nuova base per l’unità della classe, in questo nuovo periodo di crisi e di declino post 1973, sarà forse sorpresa di apprendere che il gran dibattito della sinistra americana, alla fine degli anni ’80 e all’inizio degli anno ’90, riguardava la “differenza identitaria” di tutti i gruppi oppressi, con la notevole eccezione della classe operaia nel suo insieme, e che questa differenza non era, in effetti, che una…differenza. Approfondendo la sua lettura, essa scoprirà che la parola “riproduzione” non voleva dire nel 1992 quel che significava negli scritti di Marx  - la capacità di riproduzione materiale allargata di una classe sociale o di una società – ma che un dibattito sui diritti della riproduzione, nel senso strettamente biologico del termine, l’ha innanzitutto svuotata del suo senso, e che queste questioni, niente affatto futili, l’hanno banalizzata isolandola dalla nozione di riproduzione in un senso sociale più largo. Si stupirà scoprendo l’opinione largamente diffusa secondo cui le identità affiliate alla razza , al sesso e alla classe non si sono costituite in relazione alla produzione e riproduzione sociale, ma piuttosto in funzione delle “aspirazioni” dei gruppi e degli individui considerati. Essa sarà ancora più stupita di sentire prendere in giro gli antichi partigiani della visione, apparentemente più prosaica, della classe operaia in quanto classe universale la cui emancipazione è la condizione necessaria (ma non sufficiente) per ogni emancipazione, per la loro interpretazione di un “discorso di principio” decaduto. Ma, a mio parere, nulla sorprenderà maggiormente la nostra Rosa Luxemburg del 21° secolo quanto lo scoprire che, nel corso dei due decenni di polverizzazione della forza-lavoro dell’America nel processo sopra descritto, la maggioranza della sinistra americana sempre più si avvicinava alla conclusione di definire i numerosi processi reali associati alla riproduzione materiale della società, come l’industria, la tecnologia, l’infrastruttura sociale, la scienza, l’educazione, le formazioni tecniche e la loro trasmissione da una generazione all’altra, come la letteratura e le tradizioni culturali rivelatesi inseparabili da questi fenomeni nella prima storia del capitalismo, come altrettante espressioni dei valori e dell’ideologia del “modello bianco”. Tanto più sarà imbarazzata quanto più realizzerà che questa identificazione della riproduzione materiale allargata della società con un fenomeno “di uomo bianco” si è consolidata, propriamente, nei decenni in cui il Giappone e le nuove potenze capitalistiche dell’Asia diventavano i centri motori dell’economia capitalistica mondiale e contribuivano probabilmente allo smantellamento dei mezzi di esistenza della classe operaia americana.  Essa noterebbe, forse, la convergenza fra la circolazione crescente nella economia americana di tutte le specie di capitali fittizi e la preoccupazione crescente di larghi segmenti della sinistra americana per delle identità simbolicamente definite e per una visione generale della realtà compresa come “testuale”. Forse stabilirebbe un parallelo fra la tendenza economica alla deindustrializzazione e la mania accademica della “decostruzione”. Potrebbe concludere che la maggioranza della sinistra americana si è lasciata colonizzare dall’ideologia dominante, e distrarre da questi problemi per decenni. 

Essa potrebbe notare che la maniera in cui la sinistra americana, storicamente confinata nei suoi ghetti sociali e accademici, ha posto le importantissime questioni della razza, del sesso, della preferenza sessuale e della classe, non era condivisa, di fatto, che da pochissimi lavoratori ordinari, per i quali tali questioni non sono testuali e che si preoccupavano, pertanto, anch’essi delle loro risoluzioni. La nostra Rosa Luxemburg potrebbe finalmente concludere che l’insieme della sinistra americana, attraversando la grande crisi sociale ed economica degli anni ’90 senza prestare attenzione alla questione della riproduzione materiale allargata della società, l’unico quadro che permetta un approccio serio ai problemi della razza, del sesso e della classe, non solo era abbagliata dalla propria ideologia, ma contribuiva positivamente, e spesso clamorosamente, all’ideologia dominante del momento.

La nostra Rosa Luxemburg avrà scoperto il grande dibattito sul multiculturalismo.

Il multiculturalismo è di moda. Ma, per essere esatti, il multiculturalismo non significa la stessa cosa per tutti. Per i tromboni teorici più in voga della destra, per gli interpreti autodesignati della “cultura letteraria”, gli Allon Bloom e i William Bennett, il multiculturalismo è un eufemismo sovversivo che segna la fine della supremazia bianca nell’educazione, e nell’insieme della società americana. 

Per la corrente pseudo-radicale  dell’intellighenzia accademica, che ha trasformato la classe sociale in “testo”, il multiculturalismo è la liberazione da una “molteplicità di discorsi”, la dissoluzione del preteso “fallogocentrismo” della pretesa tradizione culturale “occidentale”. (La connivenza sconcertante delle parti opposte, per definire quel che è esattamente la cultura occidentale, è un indicatore importante della sterilità del dibattito, così come è posto correntemente).

La situazione è così estrema che dei critici neoconservatori, come Hilton Kramer, si permettono di presentarsi in qualità di garanti dell’integrità postuma dell’avanguardia “altamente” modernista dell’inizio del 20° secolo, come Joyce, Proust, o Kafka, come se uomini dalla sensibilità di Kramer non avessero insultato questi rivoluzionari, 70 anni fa, e come se fossero capaci, oggi, di riconoscere ed apprezzare un nuovo Joyce, un nuovo Proust o un nuovo Kafka.

All’altra estremità dello spettro, nel momento in cui l’insieme della popolazione americana piombava al 49° posto mondiale per livello di alfabetizzazione, i sostenitori del “mal francese” postmoderno s’accanivano a produrre i loro libri autoreferenziali e le loro eleganti riviste accademiche che veicolano innanzitutto l’ignoranza basilare della storia reale e la patetica credenza che la decostruzione di testi letterari discende da una seria attività politica radicale.

Non discuteremo, in questo articolo, dell’assalto mediatico della corrente di destra contro i multi-culturalisti, ritenuti come principali responsabili dello sprofondamento tangibile dell’educazione liberale negli Stati Uniti. L’inezia di questi propositi emananti dal campo politico che per più di 30 anni, ha smantellato la riproduzione della forza-lavoro a tutti i livelli della società americana, potrebbe costituire l’oggetto di un altro dibattito. Rivolgeremo piuttosto l’attenzione sulle pretese radicali dei multiculturalisti stessi o su ogni definizione essenzialmente culturale degli esseri umani in società. A partire da questo campo d’osservazione, svilupperemo una critica dei conservatori eurocentrici e dei multiculturalisti, privilegiando la visione di una cultura mondiale emergente.

Si può dire, senza esagerazione, che il dibattito contemporaneo sulla cultura è approdato a un dibattito sullo statuto della Grecia antica nella storia mondiale. Per un Allan Bloom e per molti altri dello stesso calibro, tutto quel che ha valore negli ultimi 2500 anni di storia corrisponde letteralmente a una gamma di note a piè di pagina di Platone e di Aristotele. Per i multiculturalisti, inclini alla logica della relatività, la Grecia antica non può essere altro che una cultura “ugualmente valida” fra numerose altre. Ma, data la sua centralità nel canone classico occidentale, la Grecia antica non può essere che questo, perché è anche la vera fonte del fallogocentrismo.

Tuttavia, quando si vengono a precisare maggiormente i termini di questo dibattito, gli anti-eurocentrici in veste multiculturalista manifestano in modo veramente stupefacente di intrattenere, senza saperlo, una notevole versione eurocentrica di quella che è realmente la tradizione occidentale.

Le fonti teoriche fondamentali dell’odierno multiculturalismo sono due uomini europei, del tutto bianchi e morti da tempo, Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger. Per i non iniziati, la continuità tra questi filosofi e le dichiarazioni rivoluzionarie di oggi a favore della musica rap può  sembrare  molto strana. Sono tuttavia molto rivelatrici. Anche se Nietzsche e Heidegger alla fine devono essere rigettati (e devono esserlo), non li si volgarizza senza rischio. Nietzsche, scrivendo negli ultimi decenni del secolo passato, e Heidegger, il cui lavoro più importante è stato scritto nel secondo quarto di questo, potevano ben poco immaginare l’attuale “fine secolo” a cui i loro nomi sono associati, allo stesso titolo di 2 Live Crew, Los Lobos e i Sex Pistols. Questi due uomini erano ossessionati dalla visione di un mondo, dalla schiacciante uniformità, che essi vedevano prender forma attorno a sé e di cui il movimento socialista della classe operaia del secolo passato rappresentava il punto culminante. Per essi, il processo livellatore trovava l’origine nella più lontana tradizione culturale occidentale, quella della Grecia antica e dei filosofi presocratici innanzitutto. Quella che oggi è chiamata “la differenza” con un’insistenza distintamente populista è, ironicamente, quella che Nietzsche formulò per primo nella veste di un rifiuto aristocratico della trasformazione definitiva della storia in un “sistema chiuso” di egualitarismo, di liberalismo, di democrazia, di scienza, di tecnologia o di socialismo, rappresentante ai suoi occhi le molteplici manifestazioni della “moralità dello schiavo”, la tentazione egualizzatrice fino alla similitudine che il “debole” cerca di imporre al “forte”. Che una tale idea divenga, un centinaio d’anni più tardi, la base di rivendicazione della “differenza” radicale di una donna nera omosessuale del sottoproletariato non poteva, in tutta evidenza, venire in mente a Nietzsche. Nietzsche aspirava piuttosto all’emergere di una nuova élite di esteti legislatori che chiamava superuomini che avrebbero la forza e il coraggio di modellare la realtà, come grandi artisti, senza aver bisogno di invocare verità universali debilitanti e valide per tutti. La soluzione specifica di Nietzsche che spesso (e a torto) è stata considerata come una fonte importante di fascismo (era una fonte minore di fascismo), interessa molto meno i suoi partigiani contemporanei che la sua diagnosi; ma l’idea che ogni individuo possa, in quanto “volontà di potenza” estetica, modellare un mondo senza riferimento a ciò che oltrepassa l’individuo, senza riferimento alle leggi universali, e senza limiti a parte quelli imposti dalle altre volontà simili, è la fonte indiretta della “microfisica del potere” di Michel Foucault e prefigura incontestabilmente una parte della realtà contemporanea di un Donald Trump o di un Ivan Boesky, esattamente come essa proietta la sua ombra sulla realtà di un teorico della letteratura postmoderna che postula per la propria titolarizzazione il campus di’Ivy League.

Nietzsche e Heidegger vedevano l’origine dell’uniformità e del livellamento planetari nella concezione occidentale della ragione stessa, con le sue aspirazioni universali. Come i loro successori postmoderni, essi non si sono preoccupati dell’analisi delle condizioni materiali, dei modi di produzione e altri. Essi hanno sentito che, attaccando il problema a livello filosofico, sarebbero arrivati a soffocarlo. Benché il socialismo segnasse il culmine e il compimento della tendenza da essi denunciata, Nietzsche non conosceva quasi nulla di Marx o del marxismo (ha tuttavia brillantemente messo a nudo il carattere borghese dei socialdemocratici tedeschi, molto tempo prima della maggior parte dei marxisti). Heidegger era più familiare con Marx – soprattutto attraverso il suo allievo Herbert Marcuse- ma raramente ha trattato di Marx direttamente nella sua opera. Per entrambi, Hegel era l’interprete di una forma di razionalità storica che doveva approdare al socialismo. Il senso del termine contemporaneo di moda “decostruzione” sintetizza il loro tentativo di farla finita con questa razionalità dialettica. E quel che essi attaccavano in Hegel era quello che a più alto livello essi attribuivano a Marx.   (L’asserzione periodicamente ripetuta secondo cui il marxismo e le teorie della decostruzione sarebbero compatibili equivale a quella secondo cui il marxismo e le teorie monetarie sarebbero compatibili). Il loro bersaglio è una razionalità per mezzo della quale ogni alterità o differenza si troverà, presto o tardi, contenuta in una sintesi superiore o nel proprio superamento.  Una tale dialettica era per Nietzsche (come lo era per Hegel) una dialettica del padrone e dello schiavo, ma, a differenza di Hegel, una dialettica che si accresce del risentimento dello schiavo, una moralità da schiavo. Per Nietzsche, la critica della dialettica era una difesa della “differenza” del padrone aristocratico o dell’artista abbastanza elevato per trasmettere le leggi, che egli chiamava superuomo.

Detto questo, è importante notare che esistono dei falsi universali che dissimulano specifici interessi di classe, di razza, o elitismi sessuati che avanzano pretese su tutto. Tuttavia, l’errore dei teorici postmoderni della differenza è di concludere che, siccome esistono questi falsi universali, non possono esisterne altri di qualunque specie.  Per Nietzsche i valori universali ( o quel che i postmoderni chiamano “discorsi di  principio”) sono stati inventati dal debole per regnare sul forte; per i postmoderni che hanno scoperto Nietzsche attraverso Foucault, questi valori, ivi compreso il marxismo, sono “discorsi di potere” sulla povertà. Se il partito comunista francese, o lo stalinismo in generale, invoca il marxismo per giustificare la burocrazia totalitaria, la logica vuole che allora ogni marxismo conduca necessariamente alla burocrazia totalitaria. Se Ronald Reagan parla di moralità, ogni moralità dev’essere simile a quella di Ronald Reagan, e così via.

Heidegger porta la critica della dialettica molto più lontano. Qui non si ripercorreranno tutte le tappe della sua complessa evoluzione. Pur essendo profondamente influenzato da Nietzsche, Heidegger vedeva l’evoluzione di Nietzsche e la propria opera (nel suo primo periodo che è riassunto in Essere e Tempo) come lo sbocco della vera tradizione che egli si proponeva di distruggere. La soluzione di Nietzsche considerava ogni individuo, forte o debole, padrone o schiavo, come una “volontà di potenza”, e ogni prospettiva formulata dagli individui, in quanto “volontà di potenza”, come un tentativo estetico di modellare una realtà che non ha leggi al di fuori di queste volontà, perché queste volontà sono tutto ciò che esiste. In Essere e Tempo il giovane Heidegger riprendeva questa volontà di potenza trasponendola in modo complesso nella propria concezione dell’esistenza individuale. Ma l’esperienza del nazismo, che egli percepiva come una rivoluzione contro la metafisica occidentale, lo persuase che la volontà di potenza annunciava l’inevitabile dominio planetario della tecnologia ( nuovamente questo sistema chiuso di scienze e di tecniche, incubo di Nietzsche e di Heidegger), e che questo movimento era latente nel processo filosofico occidentale da Parmenide. (Heidegger doveva concludere più tardi che i nazisti erano rimasti prigionieri del “nichilismo tecnologico” generale dell’ occidente). Nell’ultima sua fase, che sarebbe stata decisiva per Michel Foucault, Heidegger decise che la storia dell’essere nella cultura occidentale era la storia di questa volontà di potenza, codificata in una concezione dell’essere in quanto presenza, che può ridursi ad un’immagine discreta. Nell’interpretazione heideggeriana, ciò che nella cultura occidentale non può ridursi a questa immagine non ha essere. Ma il livello ontologico dell’essere, come lo concepisce Heidegger, è precisamente quel che sfida una tale riduzione.  In questa critica, il progetto planetario occidentale di dominio tecnologico è un’escrescenza diretta della visione greca presocratica dell’essere, dopo Parmenide, che era in realtà un “oblio” dell’essere. Nell’ultima fase del lavoro di Heidegger, la sola soluzione era di attendere l’emergere di un nuovo senso dell’essere, qualcosa di così fondamentalmente nuovo come lo era il senso parmenideo 2500 anni fa. Tutto ciò che non rovescia (ossia non decostruisce) la metafisica di presenza non può essere che una nuova tappa del “nichilismo tecnologico” planetario.

Ma la teoria culturale postmoderna che ha rovesciato l’accademia nordamericana questi ultimi due decenni non è venuta direttamente dalla filosofia tedesca: essa non si è preoccupata della diagnosi Nietzsche-Heidegger di dominio planetario delle tecniche né della metafisica di presenza. Non si può capire la corrente nordamericana senza i Nietzsche e Heidegger parigini come furono sviluppati dopo il 1945, perché è soprattutto in Francia che i filosofi hanno acquisito una credibilità di sinistra. I due mediatori importanti della “differenza” nietzschiana-heideggeriana verso l’accademia postmoderna nordamericana sono Michel Foucault e Jacques Derrida. Nel loro lavoro, la “differenza” si trova radicalmente trasformata. Non è più, come per Nietzsche, la differenza radicale dell’uomo nobile di fronte ai risentimento di massa, né come con Heidegger, la critica del progetto planetario di dominio tecnico, del “nichilismo tecnologico”, né il trionfo dello “stesso” nel cuore della metafisica di presenza. In Francia, la “differenza” è diventata con Foucault le differenze di “desiderio”, e con Derrida  delle “altre voci”; all’apparenza pseudo-radicale, in America, è diventata il contrappunto ideologico della polverizzazione del sociale nell’epoca del neoliberalismo  high-tech, l’ultima truffa intellettuale. Alle correnti di sinistra rimaste ostili o scettiche verso il postmodernismo d’ispirazione francese è andata male questa lotta a causa della propria confusione a diversi livelli. I teorici della “razza/del sesso/della classe” apparivano abbastanza radicali e poche persone di formazione marxista sono abbastanza attrezzate filosoficamente per combattere la teoria alla sua radice (difatti pochi teorici della “razza/sesso/classe” sanno dove sono le radici). Inoltre, la maggior parte delle varianti della tradizione marxista si sono indebolite esse stesse nell’attacco ai postmoderni, a causa di certe convinzioni condivise con essi, derivanti dalla Rivoluzione Francese e dalla posizione centrale della Francia nella tradizione rivoluzionaria. Il cachet internazionale dei postmoderni è la French connection  e le convinzioni che ora si utilizzano sulla posizione della Francia nel capitalismo e nella storia socialista creano loro sempre uno spazio fra i detriti. E’ per questa ragione che il recente dibattito sulla Rivoluzione francese, con l’ascesa della scuola revisionista capeggiata da François Furet, deve essere compresa come un contesto più largo dell’impatto internazionale dei postmoderni.  All’inizio di Les Mots et les Choses (1966), che consacra M. Foucault come una figura maggiore in Francia, si trova un’analisi affascinante della pittura di Velasques, Las Meninas che, in certo modo, riassume l’insieme del progetto foucauldiano. In questa analisi, Foucault rivela la posizione centrale del Re nel gioco globale di rappresentazione, che è il vero soggetto del quadro.  In tutta l’opera iniziale di Foucault, e soprattutto nei suoi primi studi innovativi (ma problematici) sulla medicina e la follia, il progetto consiste nell’identificare la ragione occidentale con la posizione vantaggiosa, di rappresentazione e di potere, del re ostensibilmente onnisciente. Questo progetto prelude alla concezione di Foucault secondo la quale tutti i discorsi rappresentativi del sapere – apparentemente universale – ivi compreso il marxismo, dissimulano in realtà i discorsi di un potere separato. Per Foucault, ogni approccio a un tale “discorso” universale, e, per tale stessa via, a una classe universale che tenterebbe di riunire i diversi frammenti della realtà sociale o i diversi gruppi oppressi della società capitalista (in particolare quello che privilegia la classe operaia) è necessariamente un discorso separato di potere, un gioco di rappresentazione centrato sul “re” – un discorso magistrale. Se si tenta di sondare la fase francese del postmodernismo, non bisogna dimenticare che l’esperienza pesante del “marxismo” in questo paese corrisponde all’esperienza dell’ultrastaliniano PCF a cui Foucault appartenne per qualche tempo, agli inizi degli anni ’50. Ma molto più rivelatrice di questi dettagli biografici (abbastanza caratteristici dell’intellighenzia francese postbellica) è l’equazione foucauldiana della razionalità con il principio del re, con la monarchia assoluta francese dei secoli XVII e XVIII, il rovesciamento dello Stato (poi il suo rafforzamento) da parte della Rivoluzione francese. Per Foucault e i Foucauldiani la ragione è la ragione dell’ “età classica”, dell’assolutismo francese dei lumi, non ce n’è altre. Il formalismo estetizzato della tradizione intellettuale francese, di cui Foucault è un genuino prodotto, è profondamente radicato nel cattolicesimo gallicano aristocratico, e trova la sua forma definitiva nel grand siècle francese, il XVII secolo che vede l’apogeo della monarchia assoluta, prototipo dei Lumi di Luigi XIV. Foucault non aveva più gran che a vedere con la tradizione cartesiana di “clarté” di questo stato, ma è significativo che per lui questa razionalità è la sola che esista. Foucault era, certamente, del tutto cosciente dei propri debiti verso la filosofia tedesca, da Kant, via Hegel e Marx, fino a Nietzsche e Heidegger. Ma, al pari della filosofia francese, la filosofia tedesca è il prodotto di un altro stato assoluto illuminato, la Prussia, che è facile smascherare come un altro discorso di potere. La tradizione che resta oscura a Foucault, è quella inglese, allo stesso modo che la rivoluzione inglese è rimasta oscura, a lui e a tutti i partecipanti al dibattito postmoderno, in particolare alle sue correnti radicali. Ma la cecità di Foucault è anche, sfortunatamente, la cecità di tutta la tradizione marxista, ivi compreso Marx per il quale la rivoluzione francese è stata, da lungi, più importante della rivoluzione inglese. In ragione di questa cecità, l’attuale dissoluzione dello stato, dalla Francia alla Russia, di cui Foucault è in qualche modo il maggiore teorico, lascia la maggior parte della sinistra internazionale teoricamente e politicamente disarmata con i propri problemi di statalismo. Prima di approfondire questa affermazione, è necessario interessarsi al fondo comune esistente tra Foucault e la rinascita neoliberale degli anni’70, per la quale Foucault a prima vista non aveva particolare predilezione. E’ questo fondo comune che ci permette di vedere in che cosa i postmoderni sono i teorici pseudo-radicali taciti dell’era Reagan-Tathcher, portando il loro pennacchio radicale all’atomizzazione della società in un nuovo periodo.

Come abbiamo indicato, l’ideologia della “differenza” ha preso forma con l’offensiva di Nietzsche e Heidegger contro le aspirazioni universali occidentali, contro la ragione dialettica innanzitutto, e la sua tendenza a integrare l’ “altro” in un momento delle “stesso”. In Francia, attraverso Foucault e Derrida, questa “decostruzione” del soggetto unitario della filosofia occidentale (la cui forma compiuta è il soggetto storico-mondiale di Hegel, spesso trattato come sostituto del soggetto proletario di Marx) ci conduce a una visione della “pluralità dei discorsi”, delle “voci molteplici”, comprese come illusorie per definizione, poiché non approdano mai ad un’unità più alta. In America, queste correnti divennero, finalmente, la vernice straordinariamente esoterica di ciò che non è mai altro che una riformulazione radicale del pluralismo americano, radicale soltanto a causa della sua radicale insistenza nell’affermare che i popoli di razze, di etnie e di preferenze sessuali differenti non condividono, in effetti, nulla d’importante gli uni con gli altri. In questo punto di vista opposto a Marx, la “classe” stessa  diventa una differenza in più, non è più l’elemento unificatore la cui emancipazione sarebbe l’emancipazione sine qua non. (Si può richiamare l’affermazione del preambolo di Wobbly secondo la quale “la classe operaia e la classe degli impiegati non hanno nulla in comune” dal momento che la classe operaia porta in sé il germe di un’unità più alta). Per Hegel e per Marx, la differenza è una contraddizione che suppone una sintesi più alta; per i postmoderni la differenza è una differenza irriducibile, e una sintesi più alta non può essere che un nuovo discorso di potere, un nuovo “racconto magistrale”. La grande ironia è che per Heidegger qualità come la classe, la razza, l’etnia e la preferenza sessuale discendono precisamente dal campo della “metafisica di presenza”, sono immagini al di sotto delle quali la reale autenticità si rivela essere sempre totalmente individuale e sempre distrutta da una tale “manifestazione di presenza”. I teorici contemporanei dell’ “identità” che si fondano su queste stesse categorie collettive, e per i quali l’individualità offre poco interesse, hanno completamente rovesciato la fonte. Ma è in questo modo che le idee emigrano, soprattutto, in America.

Ma c’è di più. Raramente negli Stati Uniti si è compresa la misura dell’anticipazione di Foucault in Francia, non soltanto sull’avvenimento mediatico dei “nuovi filosofi” (André Glucksmann, Bernard Henry Lévy, ecc.) nel 1977, ma anche sul neoliberalismo che si è dapprima accreditato sotto Giscard d’Estaig per diventare in seguito quel maremoto internazionale degli anni ’80, ardentemente abbracciato dal governo “socialista” di Mitterand. Dove sta il legame?

Come indicato qui sopra, in ragione dell’influenza della rivoluzione francese (che supera lungamente quella della rivoluzione inglese), la Francia ha conservato una posizione centrale nella mitologia della sinistra marxista. Se all’inizio del XX secolo la classe operaia francese era ancora rappresentata da un sindacalismo rivoluzionario energico e da correnti anarchiche, dopo la seconda guerra mondiale, il partito comunista dominante, il partito socialista in disordine, e i sindacati gravitanti attorno ad essi, erano massicciamente statalisti. Questo statalismo ci rinvia allo statalismo della prima tradizione economica francese, il mercantilismo, le cui origini risalgono all’antico regime, prima del 1789. Questo statalismo era in tutto simile alle versioni ulteriori del XX secolo che le ideologie sociale, socialista, comunista e fascista, radicate anch’esse nel mercantilismo dei secoli 17° e 18°  dell’Europa continentale, diffusero quasi dappertutto. Avendo la Francia partecipato con l’Inghilterra, l’Olanda e gli Stati Uniti alla prima ondata di rivoluzioni borghesi preindustriali, si è sempre supposto che essa fosse una società capitalistica di identica maturità e che il nazionalismo burocratico della sinistra francese fosse la forma degenerata di un movimento che si annunciava “al di là del capitalismo”.  

Di fatto, la Francia del 1945 era ancora una società profondamente rurale, il 50% della sua popolazione viveva ancora in campagna, impiegata in un’agricoltura artigianale. E’ solo a partire dagli anni ’70, quando il contadiname francese non rappresentava più dell’8% della popolazione, che si è potuto generalmente constatare che il nazionalismo della sinistra francese, come il nazionalismo di sinistra dappertutto, non era un’espressione di maturità, ma un’espressione di arretratezza, e che la cultura parigina che aveva affascinato gli intellettuali di sinistra nel mondo intero rifletteva piuttosto l’assenza di un capitalismo maturo che un suo preteso superamento. E’ lo statalismo francese, di cui lo statalismo di sinistra rappresenta una parte importante, che ha controllato la rapida trasformazione del paese dal 1945 al 1975. Di conseguenza, la Francia si allineò sul modello pioniere (sul continente) della Germania, dove i produttori agricoli formavano ugualmente meno del 10% della popolazione. Perciò, come per tutti i paesi che superavano questa soglia, la burocrazia statale cominciava a rappresentare un ostacolo per lo sviluppo economico ulteriore. Da qui il balzo in avanti, a partire dalla metà degli anni ’70, di un’ondata ideologica, poi programmatica, di decentralizzazione neoliberale, in cui la sinistra francese scoprì di non essere meno accalappiata dallo statalismo dei gollisti. Il “discentramento” del soggetto hegeliano di Foucault, rispetto al marxismo “occidentale” degli anni ’50 e ’60 e, al di là, al marxismo in generale, portò a compimento ideologicamente quel che Giscard, e Mitterand in seguito, compirono praticamente, lo smantellamento della tradizione francese di sviluppo mercantile.

Popolarizzando abilmente Foucault nei loro libri tascabili e avvenimenti mediatici, i “nuovi filosofi” hanno stabilito il nesso finale. Le figure più decisive di questo sviluppo sono Glucksmann e Henri-Lévy che, nella Francia post 1968, erano entrambi ultra-stalinisti militanti del movimento maoista. L’uscita dell’Arcipelago Gulag di Soljienitsin, nel 1974, fu un momento di verità per il loro primo ostentato “ marxismo”. Dopo aver glorificato lo stato elefantiaco più totalitario della storia moderna, la Cina di Mao, i “nuovi filosofi” si resero celebri dichiarando, in un nuovo clima d’ascolto neoliberale, che tutti i marxisti, ivi compresi quelli che avevano combattuto lo stalinismo 50 anni prima di loro, erano necessariamente totalitari anch’essi. Hanno ripreso da Foucault la nozione di “maîtres à penser”, per designare la filosofia di tipo hegeliano o marxista che tenta, o ha la pretesa, di unificare delle realtà frammentarie in una sintesi più alta. La diffidenza verso i “maîtres à penser” universalizzatori ha imperversato in seno all’accademia americana per un decennio, mostrandosi crudelmente parallela al reaganismo ideologico dello smantellamento dello stato e della decentralizzazione della povertà e dell’austerità, affidate agli stati e alle città.

Il postmodernismo contemporaneo resta tuttavia radicato nella problematica originale di Nietzsche e di Heidegger, nella difesa della differenza. Per questa stessa via, esso mantiene la visione nietzschiana-heideggeriana del pensiero occidentale che è, paradossalmente, altamente eurocentrica, perché indissociabile dalla versione altamente eurocentrica della storia che ha strutturato questo progetto filosofico. Nietzsche e Heidegger erano infatti i prodotti genuini di quello che chiameremo, per il momento, la romanza greca della filosofia tedesca. I postmoderni sono dunque stati accalappiati dalla loro presentazione e “decostruzione” di una versione curiosamente “occidentale” della “tradizione” occidentale, che ha occultato un momento fondamentale e non-occidentale della storia, il contributo dell’Egitto antico, e la sua elaborazione ulteriore, ad Alessandria e nell’Islam.

Come appare da recenti e seri approcci all’eurocentrismo contemporaneo, quelli di Samir Amin e di Martin Bernal, in particolare, uno dei grandi crimini dell’eurocentrismo occidentale dal 18° secolo è di aver riscritto la propria storia escludendo il Mediterraneo orientale e il mondo musulmano, non solo dalle conquiste musulmane del 7° secolo, ma anche dal periodo precedente la nascita dell’antico Israele e della Grecia antica, pavoneggiandosi forse ancor più con l’occultazione dell’importanza storica della civiltà dell’antico Egitto. A dispetto degli altri suoi problemi, l’opera in più volumi di Bernal, l’Atene Nera, ha il merito di aver chiaramente affermato l’importanza dell’antico Egitto nella formazione della tradizione occidentale.  La scomparsa dell’antico Egitto dal cielo originale della cultura occidentale è un fenomeno relativamente recente nella storia, vecchio di appena due secoli. Come Bernal e altri han fatto notare, gli antichi greci riconoscevano francamente l’Egitto (la cui civiltà precede la loro di oltre due millenni) come fonte principale del loro mondo. All’altro polo delle origini occidentali, l’antico Israele, il soggiorno in Egitto e l’esodo successivo dalla terra dei faraoni  segnano un momento fondamentale della cultura. Le province egiziane dell’impero romano, centralizzate ad Alessandria, sono all’origine dell’ultimo movimento filosofico importante dell’antichità, il neoplatonismo, da cui la dialettica hegeliana e marxista discende direttamente. Il neoplatonismo alessandrino svolse più tardi il ruolo di un fermento internazionale in cui ogni sorta di filosofia vicino orientale e di religione segreta, come il buddismo, mescolandosi alle vestigia del classicismo greco-romano, segnarono in modo decisivo gli inizi dell’era cristiana. E’ di questa eredità alessandrina che le conquiste musulmane del 7° secolo si sono appropriate, perfezionandola nell’XI secolo, nel periodo di apogeo della civiltà arabo-persiana, in cui essa si associa allo splendore delle città di Baghdad, di Damasco e di Cordova. Nella stessa epoca, i cavalieri della corte di Carlo Magno si sforzavano validamente di imparare a scrivere i loro nomi. Quando le opere di Avicenna, di Averroè, di al-Ghazali e di al-Farabi furono tradotte in latino, nei secoli XII e XIII, l’eredità culturale dell’antichità attraversò “l’Occidente”, allora sprovveduto ma, questa volta, interamente rinnovato dalle sue fasi alessandrina e musulmana. (I multiculturalisti di oggi non ci hanno mai detto che la civiltà musulmana “d’Oriente” rivendica allo stesso modo le sue fonti ebraiche e greche e che, per conseguenza, queste eredità “logocentriche” non sono le fonti del solo “Occidente” , non ci hanno detto neppure che l’Islam ha diffuso lo studio di Platone e di Aristotele, dal Marocco alla Malesia. Nell’Italia del XV secolo, dove queste radici arabo-persiane contribuirono fortemente al Rinascimento, gli scritti di un certo “Hermes Trismegisto” rendevano omaggio all’antico Egitto, ultima fonte di saggezza neoplatonica, ma sotto una forma più mistificata di quella degli antichi greci. Finalmente, durante l’assolutismo illuminato dei secoli 17° e 18°, “la saggezza egiziana” di a Dante fonte alessandrina si armonizzava totalmente con le ideologie delle società segrete e delle sette della classe media radicale, come i Rosacroce e i Frammassoni, che svolsero un ruolo importante nella rivoluzione francese. (Non bisogna dimenticare che prima della decifrazione dei geroglifici egiziani, nel 1822, l’egittofilia occidentale era essenzialmente speculativa e stravagante. Quel che importa per questa discussione è la continuità del mito egiziano, a dispetto della realtà e del fatto che la tradizione “occidentale” non aveva difficoltà a riconoscerlo). La più grande ironia è che ogni figura maggiore del “canone occidentale” fra il 12° e l’inizio del 19° secolo, come gli eurocentristi contemporanei lo difendono, dai trovadori francesi fino a Dante, passando per i neoplatonici fiorentini, Pico e Ficino, Rabelais, Shakespeare, Cervantes, Spencer, Milton, Leibnitz, Spinoza, Goethe e Hegel (per non scegliere che un momento delle correnti filosofiche e letterarie) era virtualmente, come lo hanno giustificato gli eurocentristi contemporanei, influenzato profondamente da questa “saggezza egiziana” o eredità “alessandrina”, nella sua forma neoplatonica, ermetica, o mistica ebraica (kabbalistica), che era più o meno riconosciuta come tale. Di fatto gli eurocentristi avrebbero non poca difficoltà a citare una figura maggiore precedente il periodo illuministico che non sia stata influenzata da tali correnti. Dopo il 1800, queste stesse tradizioni circolavano ancora nei bagagli culturali del romanticismo e, più tardi, dell’avanguardia scapigliata per imprimere alla fine il suo vigore al surrealismo.  Tuttavia, malgrado la tendenza crescente degli ellenofili occidentali del 19° secolo a considerare la Grecia antica come un fenomeno sui generis, ermeticamente separato da ogni influenza semita o africana (egiziana), figure del vigore di Melville, di Hawthorne e di Poe (per citare solo gli esempi americani) conservano ancora le tracce delle “rinascite egiziane” successive. Verso la fine del 18° secolo e all’inizio del 19°, un cambiamento ideologico eclissò poco alla volta la tradizione “egiziana”. Questo cambiamento segna l’idillio anglo-tedesco con la Grecia antica che raggiunge la sua apoteosi, in Germania, dopo il 1760. Le cause di questo cambiamento sono complesse e non possono essere trattate qui. L’intrusione anglo-francese nel Mediterraneo orientale, dopo il 1798, segnò l’inizio della “questione d’Oriente” – il conflitto per la spartizione delle spoglie dell’impero ottomano agonizzante- massima questione di politica estere per l’Europa, prima del 1918, che influenzò incontestabilmente il desiderio occidentale di elaborare una nuova visione della storia espurgata dall’eredità millenaria del Vicino Oriente, dalla quale sarebbe emersa solo l’antica Atene, quasi senza legame con il proprio ambiente storico. Bernal ha certamente ragione di vedere un nuovo antisemitismo e un nuovo razzismo all’opera in questa trasformazione. Ci sono tuttavia numerosi altri fattori. Con l’assolutismo illuminato la tradizione “egiziana” viveva la sua ultima fase nella cultura dominante europea che stava per essere distrutta o interamente riformata durante la rivoluzione francese e le guerre napoleoniche. Il rovesciamento dello stato assolutista illuminato permise alla razionalità secolare di staccarsi dall’antica mistica “egiziana”. Di fatto, le nuove visioni militanti del mondo illuminato non avevano bisogno, e avevano tutte le ragioni di fare a meno, dell’oscurantismo apparente del rituale frammassone. Questo “distacco” della razionalità del Lumi dal suo quadro istituzionale pre-rivoluzionario ha spinto la tradizione “egiziana” nei confini, romantico e scapigliato, della nova società borghese in ascesa.

Il nuovo idillio anglo-tedesco, soprattutto tedesco, per la Grecia antica, affermava, fin dalla partenza, la sua rottura con le visioni precedenti dell’antichità greco-romana, così come furono sviluppate dopo il Rinascimento. La rinascita dell’antichità nel 15° secolo era innanzitutto una rinascita della cultura civica romana, e i modelli storici e letterari dell’Italia del 15° secolo riflettevano, innanzitutto, i modelli della virtù civica romana e della retorica civile. Come si è precisato più sopra, la rinascita filosofica di Platone aveva attraversato le fonti arabe e bizantine prima di apparire in Europa, velata del mistero di una religione egiziana; si scoprì, solo più tardi, che essa non aveva niente a che vedere con l’antico Egitto. Quando lo Stato assolutista illuminato, modellato nella Francia di Luigi XIV, estese la sua egemonia da Parigi a S. Pietroburgo, via S. Domingo e Rio De Janeiro, il tono decisivo di questa cultura era sempre latino, e l’eredità romana della Grecia antica, prima del 18° secolo (quando l’uso del latino era da lungo tempo più diffuso del greco) era sempre filtrata da questo abbigliamento romano: ci si ricordava dell’impero, dello stato, della legge, delle virtù civiche dei cittadini, ma non della dimensione comunitaria della “polis” ateniese, della città-stato greca. Spettava alla Germania disunita, frammentata, dove l’unità nazionale restava un sogno lontano, condurre una rivolta culturale contro il modo imperiale della civiltà romano-latina-francese dell’assolutismo illuminato. Questa rivolta, e la romanza greca a cui essa diede i natali, resta associata a figure come Herder, Winckelmann, Goethe, e, più tardi, Hoelderlin e Hegel; non si può spiegarla solo con il razzismo e l’imperialismo, ma è l’ellenofilia tedesca che ha seppellito la tradizione “egiziana” e che  l ’ha occultata alla memoria storica delle origini occidentali. Uno sviluppo simile è apparso in Inghilterra, emergendo dalla confusione del romanticismo inglese con la guerra d’indipendenza del 1823  (dunque ancora una volta con la “questione d’Oriente”), ma figure come Keats, Shelley e Byron non hanno avuto l’influenza internazionale degli ellenofili tedeschi che furono, tra l’altro, i precursori diretti di un altro ellenofilo, Karl Marx. La scomparsa dell’antico Egitto, o del mito dell’antico Egitto, dal cielo originale della cultura occidentale, dove conservò influenza fino alla fine del 18° secolo, era indispensabile all’elaborazione di una visione “modernista” della storia occidentale, che la grande maggioranza della sinistra occidentale ha sfortunatamente accettato senza contestazione fino a questi ultimi tempi. Questa visione, che predispose la sinistra ad assecondare il postmodernismo, seguiva il tracciato di una storia occidentale particolare, che va da Atene al Rinascimento fiorentino, a Londra e alla Parigi dei Lumi, per approdare alla cultura della grande borghesia occidentale che si completa con la morte di Beethoven, di Goethe e di Hegel, nel 1830. Questa storia è stata scritta con l’occhio fisso sul progresso di un certo tipo di razionalità classica che riconosce appena i profeti ebrei come precursori lontani di questa razionalità (per il loro ruolo di demistificatori). In questa concezione della storia occidentale, profondamente segnata dalla tradizione francese dei Lumi e dalla Rivoluzione francese che, con il suo positivismo, criticava fortemente la religione, non è accaduto gran che in due millenni, dal Socrate di Atene alla Firenze dei Medici. Per un tale senso della storia, i momenti alessandrino e musulmano delineati più sopra non esistevano, in ragione della loro dimensione religiosa e per molte altre ragioni, se non come possibili trasmettitori, ma certamente non come forze creatrici. Tale fu il lascito dell’idillio anglo-tedesco con la Grecia antica, la visione mondiale in cui il Vicino Oriente piombò nei confini della storia occidentale, durante e dopo l’antichità greco-romana. La scomparsa dell’Egitto antico, divenuta inseparabile dalla scomparsa di Alessandria e dell’Islam, permise di isolare totalmente l’antica Atene dal suo ambiente mediterraneo orientale, prima e dopo l’età d’oro. Tale è il vero punto di vista eurocentrico.  E cosa ci hanno raccontato i multiculturalisti di facciata radicale postmoderna di tutto questo? Precisamente, nulla! E perché? Perché, attraverso Nietzsche e Heidegger, Foucault e Derrida, essi hanno avallato d’un tratto  la romanza ellenofila, non cambiandovi che alcuni segni più e meno. Ignorando le fonti arabopersiane del Rinascimento, essi occultarono le mediazioni alessandrina e musulmana e lo sviluppo successivo dell’eredità greca.  In più, essi sono d’accordo con gli eurocentristi su un punto, la cultura “occidentale”, come tutte le “culture”, è un fenomeno autonomo. Ci hanno forse detto che la poesia provenzale francese, che diede i natali alla letteratura occidentale, era molto improntata alla poesia araba, e in particolare alla poesia mistica erotica della Spagna musulmana? Ci hanno forse detto che Dante era imbevuto dell’opera del Soufi andaluso Ibn Arabi ? Che alcuni dei più grandi scrittori spagnoli del siglo de oro del 16° secolo, come St. Jean de la Croix e Cervantes, si ispiravano fortemente alle fonti musulmana ed ebraica? Ci hanno parlato degli eretici francescani che, nel Messico del 16° secolo, tentarono di costruire con gli indigeni un’utopia comunista cristiana sfidando il cattolicesimo europeo disperatamente corrotto? Ci hanno detto che la credenza della civiltà occidentale nelle sue fonti egiziane si è mantenuta, dagli antichi Greci, per via dell’Accademia fiorentina, fino ai Frammassoni del 18° secolo? Non ci hanno detto nulla del genere perché questa fertilizzazione sincretica delle culture si scontra con la loro concezione relativistica secondo cui le culture si confrontano le une con le altre, come tanti “testi” ermeticamente stagnanti che si alterano invariabilmente. Tanti “uomini bianchi europei morti” si rivelano fortemente debitori degli uomini (e, nel caso della poesia araba, alle donne) di colore che li hanno preceduti! 

I postmoderni sono talmente occupati a presentare il “canone” come una litania razzista, sessista e imperialista, che, al pari degli eurocentrici espliciti, essi sono incapaci di notare che alcune grandi opere del canone sono radicate in quelle stesse culture che essi sono considerati  di aver “cancellate”. L’incontornabile libro di Edward Said, Orientalismo, ha praticamente innovato in materia. Said ci dice come le percezioni occidentali del mondo del Mediterraneo orientale erano  un discorso di potere falsificatore, particolarmente dopo l’ascesa in potenza della rivalità degli imperialismi moderni (chiamata “questione d’Oriente”), e che essenzialmente esse non potevano essere che questo. (La sua discussione su Dante, per esempio, non menziona Ibn Arabi). Ma Said non ci dice assolutamente nulla del “discorso” occidentale sull’Oriente quando l’equilibrio delle forze era esattamente l’inverso, notoriamente fra i secoli 8° e 13°, quando la civiltà musulmana dominava l’Occidente culturalmente e militarmente. Come lo espresse uno scrittore: “Se gli Esquimesi diventassero improvvisamente gli artisti e sapienti dominanti del mondo, se le officine del Groenland mettessero quelle del Giappone alla cassa, se degli invasori del grande Nord venissero a conquistare gli Stati Uniti e l’Unione sovietica, noi saremmo appena più sorpresi di quanto lo furono i musulmani, duecento anni fa, quando caddero bruscamente sotto il controllo dell’Europa occidentale”.  Secoli di egemonia araba e ottomana nel Mediterraneo, esercitando una minaccia militare reale al cuore della nazione europea, fino alla fine del 17° secolo, hanno accecato i musulmani che, centinaia d’anni dopo aver perduto la loro reale ascendenza, non vedevano sempre il Nord evolvere in potenza mondiale. Said non scrive sull’ “occidentalismo”, certamente, non riferisce neppure un “discorso” musulmano sull’Occidente, non gli si può rimproverare di omettere esempi come questa affermazione dell’arabo Ibn Sa’id che descrive i Franchi, nel mezzo dell’XI secolo: “Essi sembrano animali più che uomini… L’aria fredda e i cieli brumosi (danno loro) un temperamento glaciale e umori crudeli; sono grandi, hanno il colorito pallido e i capelli troppo lunghi. Essi mancano di finezza di spirito e di perspicacia, sono dominati dall’ignoranza e dalla stupidità e vivono correntemente senza progetto”.

Non si tratta di moltiplicare le citazioni attestanti questo punto banale, il mondo musulmano, al suo apogeo, era altrettanto etnocentrico degli europei a loro volta; si tratta piuttosto di dimostrare che, nel periodo di egemonia mondiale dell’Islam, i musulmani pensavano che gli abitanti dell’occidente cristiano erano barbari abitanti un luogo perduto, e che essi vi si interessavano altrettanto poco di quanto l’élite culturale romana del II secolo prima dell’era cristiana s’interessava agli abitanti dipinti di blu dell’Inghilterra.

Ma noi possiamo rimproverare a Said di non parlarci maggiormente dell’“orientalismo” dell’Occidente, fra i secoli 8° e 13°, quando la superiorità culturale del mondo musulmano sull’Europa era un fatto e una realtà stabilita. Egli non ci parla dell’arcivescovo di Saragozza che deplorava, nel 9° secolo, la decadenza della gioventù cristiana e la sua propensione per la brillante cultura araba del sud della Spagna che l’Europa intera ammirava:

“Essi sono incapaci di scrivere una frase corretta in latino, ma sorpassano i musulmani nella conoscenza dei punti più sottili della grammatica e della retorica araba. Abbandonano le sacre Scritture dei padri della Chiesa ma si affannano a leggere e a tradurre l’ultimo manoscritto di Cordova”

Said e gli altri analisti del “discorso” occidentale non discutono spesso di queste realtà perché queste sfidano una delle loro tesi più sacrosante, tanto esplicita che implicita, che afferma la totale relatività delle culture. E’ a malincuore che essi ammettono che in certi momenti, nel contesto della storia mondiale, certe culture sono più dinamiche, nei fatti, superiori alle altre, e che la cultura araba della Spagna musulmana dominava la cultura di Saragozza o di Parigi, nell’XI secolo. Riconoscere questo li condurrebbe, inevitabilmente, a riconoscere l’inaccettabile, l’idea non relativista che nel 17° secolo la situazione si è rovesciata e che un momento decisivo per l’influenza e la superiorità storica mondiale passava all’Ovest. Un semplice sguardo sul senso delle traduzioni permette di apprezzare il cambiamento, come fu vissuto dai due lati. Fra l’XI e il XIII secolo, migliaia di opere filosofiche, scientifiche, di matematica e di poesia, arabe, sono state tradotte in latino, e lette con avidità in tutta l’Europa, allorché quasi nulla fu tradotto nell’altro senso. A partire dall’invasione francese in Egitto, nel 1798 (evento che rese percepibile al mondo musulmano la nuova situazione mondiale, molto tempo dopo che l’occidente ebbe stabilito la sua egemonia), la traduzione di numerosi testi francesi in arabo cominciò, e continuò durante tutto il 19° secolo.

Donald Leach comincia la sua opera in molti volumi, L’Asia nella formazione dell’Europa, con la dichiarazione seguente: “Si è spesso riconosciuto che la polvere da sparo, la stampa e la bussola erano indispensabili al progresso dell’Europa. Meno sovente si riconosce che nessuna di queste invenzioni era europea”.

Questa realtà non è riconosciuta né dagli eurocentristi  né dai relativisti del multiculturalismo contemporaneo. Ancora una volta, per farlo, occorrerebbe loro riconoscere un processo storico mondiale più largo di una cultura unica, e riconoscere alla storia mondiale un dinamismo nel quale, progresso e sincretismo interculturale sono cose che esistono.

Interessarsi seriamente alla storia mondiale, prima dell’ascesa occidentale, significa ugualmente minare un altro dogma accarezzato dal relativismo multiculturalista , notoriamente quello che vuole che l’egemonia globale della cultura occidentale, nella storia moderna, riposa esclusivamente  sulla forza militare. Per Said, il discorso orientalista è, soprattutto, un discorso di “potere” di questo tipo. Ma la storia ci ha mille volte ammonito che la conquista culturale del vincitore succede invariabilmente alla conquista militare, e che l’egemonia culturale evolve spesso in un senso opposto alla superiorità militare. Le molteplici invasioni turche e mongole della Cina e del Medio Oriente, fino al XV secolo, così devastatrici per le civiltà cinese e musulmana (e causa non trascurabile della loro vulnerabilità ulteriore in rapporto all’Occidente), sfociarono, in due sole generazioni, nell’integrazione dei mongoli e dei turchi nelle culture che essi hanno attraversate. Le invasioni della Spagna musulmana da parte degli Almoravidi e degli Almoadi del nord Africa, nei secoli 11° e 12°, culminarono in modo analogo nell’integrazione degli invasori nella cultura urbana sofisticata che essi avevano conquistata; di fatto, il grande storico arabo Ibn Khaldun ha costruito tutta la sua teoria della storia universale su questo ciclo della conquista nomade e del suo assorbimento da parte dei conquistatori. La convergenza, piuttosto singolare, della supremazia militare e dell’egemonia culturale dell’Occidente, tra i secoli 16° e 19°, costituisce una “differenza” rispetto alla storia mondiale di cui i multiculturalisti avrebbero dovuto parlarci di più. Per farlo, non è mancato loro, come ai loro soci, gli eurocentristi, che una nozione e alcune conoscenze della storia mondiale.

Allo stesso modo, uno sguardo sulla storia mondiale, nel contesto attuale, avrebbe dovuto porre i multiculturalisti  davanti alla questione della supremazia economica e tecnologica attuale del Giappone, e porre loro, come ci si potrebbe aspettare, alcuni problemi per attaccare l’ideologia degli “uomini bianchi europei morti” eretta a ideologia dominante del nostro tempo. Il fatto che l’Asia rappresenti, in maniera indiscutibile, la zona capitalista più dinamica del mondo nel corso di questi ultimi tre decenni non li turba minimamente, se non che fra le altre cose essi sono profondamente annoiati dalle questioni economiche e tecniche che non si possono collegare alla differenza culturale. In assenza di esplicitazione, l’ordine del giorno implicito dei multiculturalisti è di presentarci i valori associati all’accumulazione capitalista intensiva come un fenomeno “da uomo bianco”, di tale sorta che i “non bianchi”, i Giapponesi o i Coreani, per esempio, che incarnano oggi questi valori con più fervore della gran parte dei “bianchi”, avrebbero, da qualche parte, perduto la loro differenza e, per ciò stesso, ogni interesse. I quadri e PDG delle firme asiatiche che erodono quotidianamente le industrie americana e europea con i loro prodotti innovativi sarebbero certamente sorpresi  di apprendere che i loro valori sono “bianchi”. (L’associazione delle qualità culturali con il colore della pelle è quel che si chiama comunemente …razzismo). I multiculturalisti commentano in dettaglio le lotte delle donne andine o eritree contro l’imperialismo e l’oppressione sessista, ma passano sotto silenzio i movimenti di scioperi a ripetizione dei lavoratori coreani che registrano il sollevamento più importante dell’ultimo decennio. In qualche modo, da che un paese del Terzo mondo si industrializza, esso cessa di essere “differente”.

Per concludere questo rapporto, è necessario interessarsi alle “condizioni materiali” che hanno permesso al multiculturalismo postmoderno di tenere la scena. E’ appena esagerato dire, come si è precisato più sopra, che è un effetto del crollo del modello di accumulazione capitalista occidentale basato sulla catena di montaggio, di cui l’automobile rappresentava, per la produzione-consumo, il simbolo per eccellenza. La visione della “modernità” qui analizzata aveva per teleologia implicita o esplicita la trasformazione del pianeta in un mondo di produzione operaia di massa, e questa trasformazione la Francia, iniziatrice di questa teoria, l’ha conosciuta, come alcuni altri paesi, dopo il 1945. La fine di questo modello di accumulazione nella crisi economica mondiale post 1973 ha dissolto il clima che avrebbe permesso di prevedere che ogni sorta di “arcaismi” era al limite dell’estinzione. Non si tratta di presentare un’analisi strettamente economica delle tendenze ideologiche dell’identità multiculturale, né di insinuare che c’era qualcosa di fondamentalmente sano nel modello di accumulazione dal 1945 al 1973, più di quanto  non è questione di suggerire che una nuova espansione basata su un nuovo modello di accumulazione avrebbe restaurato le vecchie nozioni di modernità e di razionalità che erano condivise, in fondo, dal capitalismo occidentale, il blocco dell’Est e i regimi di sviluppo dei paesi del terzo mondo.