Capitale finanziario
“Il vecchio capitalismo, il capitalismo della libera concorrenza, con la borsa suo regolatore indispensabile, se ne va a gambe all’aria, soppiantato da un nuovo capitalismo, nel suo stadio imperialistico, che presenta tutti i segni di un fenomeno di transizione, una miscela di libera concorrenza e di monopolio. L’ultima parola dello sviluppo del sistema bancario è sempre il monopolio. Nell’intimo nesso tra le banche e l’industria appare, nel modo più evidente, la nuova funzione delle banche. Allo stesso tempo si sviluppa, per così dire, un’unione personale della banca con le maggiori imprese industriali e commerciali, una loro fusione mediante il possesso di azioni o l’entrata dei direttori di banche nei consigli d’amministrazione delle imprese e viceversa. Pertanto si giunge a una sempre maggior fusione, a una simbiosi (Bukharin), del capitale bancario col capitale industriale. L’imperialismo è l’epoca del capitale finanziario e dei monopoli, che sviluppano dappertutto la tendenza al dominio, anziché alla libertà” [Lenin].
Marx ha mostrato che una parte, e una parte in assoluto crescente, del capitale sociale complessivo deve sempre rimanere nella forma di denaro, come capitale monetario, per la continuità del processo di riproduzione. Accanto a ciò egli distingue ancora il capitale merce e il capitale produttivo, e parla di tre forme, tre cicli, tre figure del processo ciclico. Tutte e tre le forme del capitale sono necessarie e si condizionano reciprocamente. Poiché la grandezza del capitale monetario, come anche del capitale merce e del capitale produttivo, non è determinabile arbitrariamente, il capitale sociale complessivo deve essere ripartito in proporzioni determinate in tutte e tre le forme di capitale. “La grandezza del capitale esistente condiziona il volume del processo di produzione, e questo condiziona il volume del capitale merce e del capitale monetario, in quanto essi operano accanto al processo di produzione” [Marx].
Il limite per l’accumulazione di capitale subentrerebbe, secondo Marx, “non appena il capitale fosse accresciuto in una proporzione tale, rispetto alla popolazione lavoratrice, che né il tempo di lavoro assoluto fornito da questa popolazione possa essere prolungato, né il tempo di pluslavoro relativo possa essere esteso, quando dunque il capitale accresciuto producesse una massa di plusvalore soltanto equivalente o anche inferiore a quella prodotta prima del suo accrescimento”. Sotto questi presupposti è dato per l’accumulazione un limite massimo determinabile esattamente. L’ulteriore prosecuzione dell’accumulazione non avrebbe alcun senso, poiché il capitale più grande offrirebbe la stessa massa di plusvalore che in precedenza. La prosecuzione dell’accumulazione dovrebbe condurre a una svalutazione del capitale e a una forte caduta del tasso di profitto. “Nella realtà le cose si svolgerebbero in modo tale che una parte del capitale resterebbe interamente o parzialmente inattiva, mentre l’altra parte verrebbe valorizzata a un tasso di profitto ridotto in séguito alla pressione del capitale totalmente o parzialmente inattivo” [Marx].
Non il capitale monetario, ma il capitale merce è emerso dal ciclo del capitale industriale, il che non significa nient’altro se non l’esistenza di una sovraproduzione del capitale merce che è invendibile e non può perciò ritrovare la via della sfera della produzione. Ben presto dal meccanismo interno dell’accumulazione deve necessariamente originarsi una sovraccumulazione, e perciò la svolta verso la crisi. Ciò non significa altro se non che, durante la crisi, la funzione di valorizzazione del capitale è messa a dura prova; un capitale che non viene valorizzato è però un capitale eccedente, sovraprodotto. Sovraproduzione di merci e sovraproduzione di capitale sono “il medesimo fenomeno. In che consiste la bella distinzione tra sovrabbondanza di capitale e sovraproduzione di merci? I produttori non si contrappongono come semplici possessori di merci, ma come capitalisti. Sovraproduzione di capitale, non di singole merci, è perciò semplicemente sovraccumulazione di capitale, una sovraproduzione che non colpisce l’una o l’altra, o solo alcune importanti sfere della produzione, ma diviene assoluta nella sua portata, in quanto si estende a tutti i rami della produzione” [Marx]. Una sovraccumulazione di capitale per la quale manca la possibilità di valorizzazione. La valorizzazione diviene insufficiente per essere portata avanti col ritmo fino ad allora sostenuto. Diventando sempre più esteso il capitale costante, la massa del plusvalore non può essere accresciuta. Subentra qui il momento che Marx ha presente quando dice “che viene accumulato più capitale di quel che si può investire nella produzione, donde il prestito all’estero, ecc.”. Da questo momento in poi l’accumulazione, cioè la ritrasformazione di una parte del profitto in capitale addizionale, trova ostacoli. “Se mancano le sfere di investimento, e si ha di conseguenza una saturazione dei rami di produzione e un’eccessiva offerta di capitale da prestito, questa pletora di capitale monetario da prestito attesta semplicemente i limiti della produzione capitalistica” [Marx].
L’accumulazione si arresta necessariamente. Dunque, invece di accumulare il plusvalore, cioè di accrescere il capitale, questo viene reso disponibile per l’esportazione. La dimostrazione della necessità dell’esportazione di capitale e delle condizioni sotto le quali essa si origina costituisce il nucleo vero e proprio del problema (aver mostrato questo è il merito della ricerca marxiana). Da questo momento in poi si attua gradualmente una trasformazione strutturale del capitalismo. Quanto più la classe imprenditoriale non ha altra risorsa che l’esportazione di capitale, tanto più la borghesia “si allontana dall’attività produttiva, diventa sempre più, come ai suoi tempi la nobiltà, una classe che semplicemente intasca rendite” [Engels]. Il pensiero di fondo di questa concezione è la contraddizione immanente tra la capacità illimitata di espansione della forza produttiva e la limitata possibilità di valorizzazione del capitale sovraccumulato, un limite immanente della produzione – osserva Marx – che viene costantemente spezzato dal sistema creditizio. Il limite della sovraccumulazione, della valorizzazione insufficiente, viene rotto dal credito, ossia dall’esportazione di capitale e dal plusvalore addizionale che viene conseguito in questo modo. In questo senso l’esportazione di capitale è necessaria e caratteristica della fase avanzata dell’accumulazione di capitale – la fase imperialistica del capitale monopolistico finanziario. “Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci. Per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l’esportazione di capitale” [Lenin]. Prendendo le mosse da qui, non si presenta alcuna difficoltà per spiegare le situazioni alterne e i movimenti ondulatori, periodicamente ricorrenti all’interno della sfera produttiva, anche sugli altri due “mercati” (mercato monetario e speculazione di borsa). Infatti i movimenti su questi mercati dipendono da ciò che avviene nella sfera della produzione.
A partire dalla sfera della produzione, grazie al funzionamento immanente dell’accumulazione capitalistica, e per la necessità del suo andamento ciclico, questo stesso movimento si propaga poi dalla sfera della produzione alla sfera della circolazione (mercato finanziario, borsa, titoli). Quella rappresenta una variabile indipendente, questa una variabile dipendente. In questo modo si è chiusa la catena delle cause. I capitali inattivi nella depressione devono trovare un investimento redditizio proprio in un periodo di ristagno. Da qui si deduce l’importanza della speculazione per il capitalismo. Con il progredire dell’accumulazione di capitale e con la crescita del numero dei grandi e piccoli capitalisti, la necessità dell’estensione della speculazione in borsa si presenta a grandi masse di capitalisti, dato che la massa del capitale inattivo che cerca investimento nella crisi e nella depressione diventa sempre più grande. La speculazione è un mezzo per supplire all’insufficiente valorizzazione dell’attività produttiva con profitti che affluiscono dalle perdite sul corso delle azioni di estese masse di piccoli capitalisti – la cosiddetta “mano debole” – ed è quindi un potente mezzo per la concentrazione del capitale monetario. Fa parte dell’essenza della speculazione di borsa che debbano esistere due gruppi di persone, i membri di borsa, adepti e competenti, e la gran massa di coloro che sono fuori, il “pubblico”, che ha bisogno di parecchio tempo prima di attuare le sue operazioni sul mercato.
La speculazione può festeggiare le sue grandi orge laddove, con il passaggio della proprietà dalla forma individuale alla forma della società per azioni, vengono gettati sul mercato immensi patrimoni accumulati da molti decenni che cadono vittime della borsa. I titoli industriali si svalorizzano poiché è anche possibile che, con la perturbazione del processo di riproduzione, “la valorizzazione del capitale reale che essi rappresentano subisca eventualmente un contraccolpo” [Marx]. La caduta del corso dei titoli però è il pretesto per il loro acquisto in massa da parte degli speculatori di borsa. Così la speculazione, il fermento della borsa, comincia con la depressione, quando si origina una sovraccumulazione, una mancanza di occasioni d’investimento, in breve un capitale disponibile. L’“investimento” in borsa, però, non crea né valore né plusvalore. Esso ha per scopo soltanto un aumento delle quotazioni e il trasferimento di capitali (quando il corso dei titoli comincia di nuovo ad aumentare). Appena la tempesta è passata questi titoli crescono di nuovo al loro livello di un tempo – dice Marx – cosicché il loro deprezzamento ha agito durante la crisi come mezzo efficace per l’accentramento dei patrimoni monetari. La centralizzazione del patrimonio finanziario attraverso l’aumento delle quotazioni di questi titoli viene ancora accelerata dal fatto che, mostrando alla lunga una tendenza all’aumento, “questa ricchezza immaginaria cresce nel processo di sviluppo della produzione capitalistica in conseguenza dell’aumento di ciascuna delle sue parti aliquote, aventi un determinato valore nominale originario” [Marx].
Il capitale privo di investimento si procura così una serie di canali di deflusso, sia all’estero con l’esportazione di capitale, sia all’interno con la speculazione di borsa, canali appropriati ad assicurarne la valorizzazione. Questi sforzi non si limitano esclusivamente al periodo di depressione. Se subentrano le controtendenze, se viene ricostituita nel processo di produzione la valorizzazione degli investimenti di capitale, si avrà di nuovo un’ulteriore accumulazione. Sulla base di questa concezione teorica si può giudicare la correttezza della caratterizzazione del capitalismo monopolistico finanziario data da Lenin con la sua acuta formulazione. Esiste infatti una grande differenza tra l’esportazione di capitale dell’odierno capitalismo di monopolio e quello dei suoi inizî, quando il fenomeno dell’esportazione di capitali era già noto. Però, dato lo scarso livello dell’accumulazione, esso rappresentava per il capitalismo di allora qualcosa di non caratteristico, era soltanto un fenomeno transitorio che sorgeva periodicamente. Ben altrimenti stanno le cose oggi. I paesi più importanti hanno già raggiunto un alto livello dell’accumulazione, in cui la valorizzazione del capitale accumulato incontra sempre maggiori difficoltà. La pletora di capitale cessa di essere un fenomeno transitorio e comincia sempre di più a dominare tutta la vita economica. In queste circostanze la sovrabbondanza di capitale può essere superata soltanto ricorrendo all’esportazione di capitale che, per tutti i paesi di avanzato sviluppo capitalistico, è divenuta un fenomeno tipico e necessario.
L’esportazione di capitale verso l’estero e la speculazione all’interno sono fenomeni paralleli e scaturiscono da una radice comune. Dato che nella sfera della produzione non è possibile alcun impiego, si ha l’esportazione verso l’estero o l’“esportazione di capitale all’interno”, cioè l’affluire nell’attività di speculazione delle somme non impiegate. Dalla legge dell’accumulazione di capitale esposta risulta senz’altro, nel corso del processo storico, un mutamento necessario nel rapporto tra capitale industriale e capitale bancario. Ai livelli inferiori dell’accumulazione, la formazione di capitale proprio dell’industria è insufficiente. L’industria è perciò costretta a far affluire credito dall’esterno, e le banche come mediatrici e dispensatrici del credito acquistano grande potere nei confronti dell’industria. Ma a un più elevato grado dell’accumulazione, l’industria si rende indipendente in misura crescente, poiché essa progredisce nell’autofinanziamento. In una terza fase, l’industria incontra sempre maggiori difficoltà per investire in modo redditizio anche soltanto i proprî utili all’interno delle aziende originarie, utilizzandoli per far rientrare altre aziende nella loro sfere d’influenza. Non si può più parlare qui, in effetti, di una dipendenza dell’industria dalle banche; è piuttosto l’industria che domina le banche, mantenendo grandi somme presso di esse o creando persino proprî istituti bancari. La tendenza del bilancio tipico della grande industria (capitale monopolistico finanziario) va nella direzione di un ingrandimento del capitale di proprietà e di una diminuzione degli obblighi verso le banche o persino di un possesso di grandi crediti bancari. Questo è anche il motivo per cui le banche stesse ricorrono in misura crescente all’investimento dei loro capitali in borsa, sostituendo il credito bancario attraverso anticipazioni su titoli. Fino alla crisi successiva, alla stretta successiva sul mercato finanziario, il gioco si ripete; però, su base mutata: la centralizzazione del patrimonio finanziario è sempre più grande, spiegando così il potere crescente del capitale finanziario. [h.g.]
(da Henryk Grossmann, La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalistico, Leipzig 1929 - 2.14; 3.II.3.a,b,d)