SCRITTI OPERAI
Friedrich Engels
Come si determinano il salario “ giusto” e il “ giusto ” lavoro
Friedrich Engels
Un salario giusto per un giusto lavoro (da “The Labour Standard ”, 7 maggio 1881)
Questo è dunque stato negli ultimi cinquant’anni lo slogan del movimento operaio inglese. Esso ha reso ottimo servizio durante lo sviluppo dei sindacati dopo la ribellione alle vergognose leggi contro le coalizioni del 1884;[1] e ha dato risultati ancora migliori all’epoca del glorioso movimento cartista, quando gli operai inglesi marciavano alla testa di tutta la classe lavoratrice europea. Ma il tempo non si arresta, e, ciò che era desiderabile o addirittura necessario cinquanta o anche solo trent’anni fa, è diventato caduco, completamente fuori luogo. Fa forse parte di ciò anche la vecchia e rispettabile parola d’ordine?
Un salario giusto per un giusto lavoro? Ma che cosa è un salario giusto, e che cosa un giusto lavoro? In che modo essi vengono determinati dalle leggi mediante le quali esiste e si sviluppa la società moderna? Per dare una risposta a questa domanda, non dobbiamo invocare la scienza della morale, del diritto della giustizia, né qualsiasi sentimento di umanità, giustizia o addirittura bontà. Ciò che riguarda la giustizia o l’ingiustizia sociale viene deciso con una sola scienza, con quella scienza che si occupa dei fatti materiali della produzione e dello scambio, la scienza dell’economia politica.
Che cosa allora possiamo chiamare un salario giusto ed un lavoro giusto in base all’economia politica? Semplicemente il livello dei salari e la durata ed intensità della giornata lavorativa, come vengono determinati dalla concorrenza sul libero mercato degli imprenditori e dei lavoratori. E che cosa sono essi, quando vengono determinati in siffatta maniera?
Un salario giusto è, in condizioni normali, la somma necessaria per procurare al lavoratore i mezzi di sussistenza, di cui egli ha bisogno, in relazione al livello di vita medio del suo ambiente e del suo paese, per mantenersi in condizioni di lavorare e perpetrare la sua stirpe. Il livello reale dei salari potrà oscillare, a seconda dell’andamento degli affari, talvolta al di sopra e talvolta al di sotto della cifra così definita; ma in condizioni adeguate, questa dovrebbe essere la media di tutte le oscillazioni.
Un lavoro giusto non è altro che quella durata della giornata lavorativa e quella intensità del lavoro reale, per la quale nel corso di una giornata viene impiegata l’intera forza-lavoro dell’operaio, senza pregiudicare le sue capacità di fornire una uguale quantità di lavoro nei giorni successivi.
La transazione può essere descritta nel modo seguente: il lavoratore dà al capitalista la sua piena forza-lavoro per un giorno, il che è quanto egli può dare senza pregiudicare la continuazione ininterrotta della transazione. Nello scambio egli ottiene esattamente quella quantità di mezzi di sussistenza, e non di più, che gli è necessaria per rendere possibile la ripetizione dello scambio ogni giorno. Il lavoratore dà tanto, ed il capitalista tanto poco, quanto è nella natura dell’affare. Si tratta senza dubbio di un tipo molto particolare di giustizia.
Ma esaminiamo un po’ meglio il problema. Poiché in base all’economia politica, il salario ed il lavoro sono determinati dalla concorrenza, l’equità sembrerebbe richiedere che ad ambedue le parti vengano date eguali possibilità ed eguali condizioni. Ma non è questo il nostro caso. Se il capitalista non riesce a trovare un accordo con l’operaio, egli può permettersi di aspettare a vivere del suo capitale; il lavoratore invece non ha questa possibilità; per vivere ha solo il suo salario, e deve quindi accettare il lavoro dove è, e alle condizioni in cui lo trova. L’operaio non ha possibilità eque; la fame lo pone in condizioni di netto svantaggio; eppure questo, secondo l’economia politica della classe capitalista, è l’apice della giustizia.
Ma questo è ancora il meno. L’introduzione della forza meccanica e delle macchine in nuovi rami d’attività, i1 progresso e la estensione attiva della meccanizzazione in attività, la’ dove già si era affermata, espellono continuamente e in misura sempre maggiore “braccia” dal loro posto di lavoro, e ciò avviene ad un ritmo più rapido di quanto le “ braccia ” superflue possano essere assorbire ed occupate nelle altre fabbriche del paese.
Queste “ braccia ” superflue mettono a disposizione del capitalista un vero e proprio esercito industriale di riserva. Se gli affari vanno male possono soffrire la fame, chiedere la carità, rubare o andare all’ospizio; se gli affari vanno bene sono lì pronti per lo sviluppo della produzione; e, fino a quando l’ultimo uomo, l’ultima donna e l’ultimo bambino di questo esercito di riserva non avrà trovato lavoro (cosa che accade soltanto in momenti eccezionali di sovrapproduzione), la sola esistenza dell’esercito di riserva, a causa della concorrenza tra gli operai che essa comporta manterrà bassi i salari e rafforzerà, nella sua lotta contro il lavoro, il potere del capitale.
Nella gara con il capitale, il lavoro non solo parte svantaggiato, ma deve anche trascinarsi una palla al piede costituita dall’esercito di riserva! E questa, secondo l’economia politica capitalistica, sarebbe giustizia.
Cerchiamo ora di scoprire la natura dei fondi mediante i quali il capitale paga questi salari cosi eccezionalmente giusti. Si tratta naturalmente di capitale; ma il capitale non produce valore; a parte la terra, il valore è l’unica fonte della ricchezza; il capitale stesso non è altro che prodotto accumulato del lavoro. Ne consegue che il salario viene rimunerato con il prodotto stesso del suo lavoro. In base a quello che normalmente si chiama giustizia, il salario del lavoratore dovrebbe consistere nel prodotto del suo lavoro. Ma, secondo l’economia politica, ciò non sarebbe giusto. Anzi, il prodotto del lavoro dell’operaio va al capitalista, e l’operaio non ne riceve più dello stretto necessario per la sopravvivenza. Il risultato finale di questa gara straordinariamente “giusta” della concorrenza è quindi che il prodotto del lavoro di coloro che lavorano si accumula inevitabilmente nelle mani di coloro che non lavorano, e nelle loro mani diventa il mezzo più potente per ridurre in schiavitù proprio quegli uomini che lo hanno prodotto.
Un salario giusto per un giusto lavoro! Ci sarebbe ancora molto da dire sul giusto lavoro, la cui giustizia ha esattamente le stesse dimensioni del salario. Ma dobbiamo rimandare ciò ad un’altra occasione. Da quanto abbiamo detto risulta chiaramente che la vecchia parola d’ordine è superata e oggi non più utilizzabile. L’imparzialità dell’economia politica, come viene stabilita nella realtà dalle leggi che governano la società esistente, tale imparzialità è totalmente di parte, dalla parte del capitale. Seppellite quindi per sempre il vecchio slogan, e sostituitelo con un’altro: trasferimento dei mezzi di produzione (materie prime, fabbriche, macchine) nelle mani stesse del popolo che lavora.
Per l’abolizione del sistema del salario
Friedrich Engels
(Il sistema dal salario, da e The Labour
Standard”, 21 maggio 1881)
In un precedente articolo abbiamo analizzato la vecchia parola d’ordine “un salario giusto per un giusto lavoro” giungendo al risultato che nelle attuali condizioni sociali il salario più “ giusto” coincide necessariamente con la ripartizione più ingiusta del prodotto del lavoro dell’operaio, in quanto la maggior parte di questo prodotto va nelle tasche del capitalista, mentre l’operaio si deve accontentare appena di quello che gli è necessario per mantenersi in grado di lavorare e di procreare.
Questa è una legge economica, in altre parole una legge dell’attuale organizzazione economica della società, che è più potente di tutte le leggi scritte e non scritte inglesi messe insieme, incluso anche il giudizio del Lord Cancelliere[2]. Finché la società è divisa in due classi opposte e nemiche, da una parte i capitalisti, che detengono il monopolio di tutti i mezzi di produzione (terra, materie prime, macchine), dall’altra parte le masse degli operai, il popolo lavoratore, a cui è negata ogni proprietà dei mezzi di produzione, che nulla possiede all’infuori della propria forza-lavoro, finché esiste una tale organizzazione sociale il sistema del salario resterà onnipossente e ogni giorno forgerà di nuovo le catene che fanno dell’operaio uno schiavo del prodotto stesso del proprio lavoro, monopolizzato dal capitalista.
Le Trade Unions[3] inglesi hanno lottato per quasi 60 anni contro questa legge, con quale risultato? Sono forse riuscite a liberare la classe operaia dalla schiavitù in cui li costringe il capitale, prodotto dalle loro stesse mani? Hanno forse reso possibile, anche a un solo singolo gruppo della classe operaia di elevarsi al di sopra della condizione dello schiavo salariato, e diventare proprietario dei propri mezzi di produzione, delle materie prime, degli strumenti, delle macchine necessarie per la propria attività, e quindi anche proprietario del prodotto del proprio lavoro? E’ sufficientemente noto che non solo non lo hanno fatto, ma che non l’hanno neanche mai tentato.
Non vogliamo certo sostenere che, malgrado non abbiano raggiunto tale risultato, le Trade Unions non servano a nulla. Al contrario, in Inghilterra come in ogni altro paese industrializzato, le Trade Unions sono per la classe operaia una necessità nella sua lotta contro il capitale. Il livello medio dei salari è pari alla somma dei beni necessari per il mantenimento dei lavoratori in un determinato paese, in relazione col livello di vita abituale di tale paese. Tale livello di vita può variare notevolmente per i diversi strati di lavoratori. Bisogna riconoscere che le Trade Unions nella loro lotta per il mantenimento di un buon livello dei salari e per la diminuzione della giornata lavorativa, in conformità al loro scopo, hanno il grande merito di cercare di mantenere elevato il livello di vita.
Vi sono, nell’East End[4] di Londra, molti rami d’attività in cui il lavoro non è meno pesante e meno qualificato di quello dei muratori e dei loro manovali, e nonostante ciò i salari sono poco più della metà rispetto a quelli degli altri. Quale è la ragione di ciò? Semplicemente perché una potente organizzazione permette a un gruppo di mantenere alto il livello di vita in base al quale si determina il loro salario, mentre l’altro gruppo, debole e disorganizzato, è esposto non soltanto agli inevitabili soprusi, ma anche a quelli gratuiti degli imprenditori; peggiora sempre più il suo livello di vita, sempre più costretto a vivere con salari inferiori, e i salari scendono naturalmente fino al livello che il gruppo stesso ha ormai accettato come possibile.
La legge del salario non è quindi tale da fissare una linea rigida ed immobile. Entro certi limiti non è assolutamente inflessibile. Sempre (salvo nei periodi di grave depressione) e in ogni ramo d’attività, esiste un certo margine all’interno del quale il livello dei salari può essere modificato. in base al risultato della lotta condotta dalle due parti nemiche. In ogni caso, i salari vengono fissati mediante una trattativa, durante la quale, chi resiste meglio e più a lungo ha maggiori speranze di ottenere qualcosa di più di quanto gli spetterebbe. Se il singolo lavoratore ricerca un accordo con il capitalista, è facile che egli si faccia ingannare e si consegni mani e piedi all’altro; ma se i lavoratori di tutta una categoria costituiscono una potente organizzazione, raccolgono fondi per essere in grado, in caso di necessità, di sostenere il braccio di ferro con gli imprenditori, ponendosi così’ in grado di contrapporsi come una potenza ai padroni, allora, e soltanto allora, gli operai possono sperare di ottenere quel poco, che con la struttura economica della società attuale può essere definito un salario giusto per un giusto lavoro.
La legge del salario non viene eliminata dalla lotta sindacale. Al contrario, è proprio con questa lotta che essa si afferma nella sua pienezza. Senza gli strumenti della resistenza sindacale l’operaio non riceverebbe neanche quello che gli spetta in base alle regole del sistema del salario. Solo il timore delle Trade Unions può costringere il capitalista a concedere agli operai l’intero valore di mercato della forza-lavoro. Volete averne delle prove? Guardate i salari che vengono pagati ai membri delle grandi Trade Unions, e confrontateli con i salari delle innumerevoli piccole fabbriche dell’East End londinese, di quella palude di miseria senza speranza.
Le Trade Unions non portano quindi alcun attacco al sistema del salario. Ma il maggiore o minore livello dei salari non è il fattore determinante per la degradazione economica della classe operaia. Tale degradazione deriva dal fatto che la classe operaia, invece di ricevere per il proprio lavoro l’intero prodotto, deve accontentarsi di quella parte del prodotto che è chiamata salario. Il capitalista intasca l’intero prodotto (e con quello paga l’operaio) perché è il proprietario dei mezzi di produzione. Ed è per questo che non può esserci vera liberazione della classe operaia, finché essa non sarà proprietaria di tutti i mezzi di produzione (terra, materie prime, macchine, ecc.) e di conseguenza proprietaria anche dell’intero prodotto del proprio lavoro.
[1] Le leggi contro le coalizioni vietavano la fondazione e ogni attività di associazioni operaie di qualsiasi tipo. In seguito a vaste ribellioni delle masse lavoratrici e anche dei settori progressisti dell’opinione pubblica. furono abrogate con un decreto del Parlamento nel 1824. L’anno successivo veniva però votata dallo stesso parlamento un’altra legge fortemente limitativa dell’attività delle associazioni operaie, che in pratica tendeva a renderle del tutto innocue. Ad esempio, per tale legge, la propaganda che invitava gli operai ad aderire alle associazioni veniva considerata reato, e l’agitazione per gli scioperi addirittura equiparata all’istigazione a delinquere.
[2] Nell’ordinamento giudiziario inglese, il Lord Cancelliere dirigeva uno dei massimi tribunali civili. Nel 1873 tale tribunale fu aggregato alla corte suprema, ma nell’uso popolare conservò il nome tradizionale
[3] Struttura sindacale inglese
[4] L’East End di Londra era un quartiere di lavoratori estremamente disgregati, con solo piccole fabbriche o addirittura laboratori a domicilio, che era stato sempre trascurato dalle Trade Union.