L’Argentina, dalla pauperizzazione alla rivolta

Una avanzata verso l’autonomia

 

Indice

 

Introduzione

 

La lotta di classe in Argentina nel periodo recente

I piqueteros: recupero ed esproprio

Le assemblee di quartiere e la democrazia di base

Il baratto

Pratica ed organizzazione nella lotta di classe

Il debito latino-americano, riflesso della crisi finanziaria internazionale

L’Argentina e il contesto internazionale

Il ruolo specifico dello stato nell’indebitamento

Il verdetto del 13 luglio 2000

L’indebitamento dello stato durante la dittatura militare

Il dopo-dittatura e l’impunità

La marcia forzata delle privatizzazioni

L’assunzione del debito privato da parte dello stato e l’indebitamento forzato delle imprese pubbliche

 

Il futuro di un’altra argentina

Storia politica


Allegati

I partiti e i sindacati argentini

Qualche cifra sull’Argentina

La fine del sogno operaio argentino

Motoqueros. I motociclisti al servizio del movimento

Potere e rapporti sociali nella provincia di Tucuim

Il debito: l’esempio dell’impero ottomano e dell’Egitto nel diciannovesimo secolo

Introduzione

 “Si è detto che io ero un nemico del capitale…voi vedrete che non c’è migliore difensore di me degli uomini d’affari…gli operai, perché lavorino, devono essere presi molto in considerazione…bisogna che coloro che hanno ai loro ordini degli operai arrivino a loro attraverso questa strada in modo tale da poterli tenere sotto controllo…” (Juan Peron, 1944)

All’epoca, affermazioni di questo genere, avrebbero potuto essere fatte in numerosi paesi in via di industrializzazione o sotto regimi più o meno dittatoriali che tentavano l’accumulazione primitiva servendosi dell’autarchia economica. Si trattava di progetti che si accompagnavano alla trasformazione del proletariato agricolo, che era tenuto in una condizione di miseria e di soggezione, in proletariato industriale la cui condizione, qualunque fossero le servitù che l’accompagnavano, tuttavia costituiva il più delle volte un progresso rispetto alla loro condizione anteriore. Questi progetti, inevitabilmente, si accompagnavano anche alla formazione concomitante di una borghesia industriale che si contendeva il potere con i proprietari fondiari.

Nella Russia sovietica, nella Cina popolare, si trova la medesima l’apologia dello sfruttamento del lavoro, all’interno della glorificazione del proletario.

Questa glorificazione del proletario non rimaneva soltanto al  livello del discorso, ma si traduceva nella realtà in un insieme di garanzie sociali significative rivolte a questi nuovi proletari industriali, l’innalzamento del livello di vita, insomma in un cambiamento di condizioni sociali. Queste considerazioni potrebbero essere estese anche ai paesi industrializzati, nei quali, sia pure in un contesto differente, dopo la grande crisi degli anni ’30 e la guerra mondiale che ne seguì, i capitalismi nazionali svilupperanno insieme alle teorie economiche del keynesismo, tutto un arsenale di misure sociali che permetteranno al capitale di riprendere fiato.

I tempi sono cambiati, tanto nei paesi in via di sviluppo che nei paesi industrializzati. Costretti ad una corsa inesorabile per arginare l’abbassamento dei tassi di profitto, che si traduce in una concorrenza spietata, questi stessi “vantaggi” concepiti per lo sviluppo e la salvezza del sistema, una forma di controrivoluzione che comportava un certo consenso dei lavoratori, divengono degli ostacoli nel corso attuale del capitale. La dinamica della “modernizzazione” tecnica e strutturale implica di restringere in un modo o nell’altro la parte di plusvalore concessa ai lavoratori. Nel mondo intero il capitale spazza via tutte le forme di protezione sociale che esso stesso aveva messo in piedi al fine della propria sopravvivenza, quasi sempre in un contesto di riemergente nazionalismo e sotto la pressione della lotta di classe.

Da questo punto di vista, il fallimento negli ultimi decenni del tentativo peronista di elevare l’Argentina al livello delle altre potenze capitalistiche ha un’analogia con quello che si è visto recentemente, sia pure sotto altre forme, nel sud-est asiatico, sotto una forma quasi simile nella Russia sovietica, e anche nella Cina popolare. L’Europa, invece sembra resistere meglio, sia pure al prezzo della concentrazione economica, finanziaria e politica che è in corso, e che si accompagna a tentativi di eliminare gli ostacoli nazionali a questo sviluppo capitalistico “moderno”.

Secondo uno dei più importanti economisti della Banca mondiale, J. Stiglitz, l’Argentina rappresenta il sesto fallimento del Fondo Monetario Internazionale in meno di dieci anni, dopo la Tailandia, l’Indonesia, il Brasile e la Russia. Il sistema capitalistico si distruggerà da se stesso, dal proprio interno, attraverso il gioco dei suoi propri meccanismi economici? In realtà ciò che è in discussione, non sono tanto le conseguenze dell’economia detta liberale e delle forze del mercato, quanto piuttosto lo scontro dell’insieme delle forze che agiscono all’interno stesso del sistema: lo scontro capitale-lavoro. Tutto ciò ricolloca la lotta di classe al suo giusto posto in queste crisi.

È in questo senso che la resistenza di classe in Argentina assume per noi tutto il suo significato, e che le forme di questa resistenza, per quanto particolari e imperfette possano essere, devono essere analizzate e discusse in quanto espressioni di un movimento autonomo di lotta per l’emancipazione.

Vogliamo dire che l’insieme dei testi che seguono, frutto di un lavoro collettivo dei compagni di Echanges, è imperfetto e incompleto: le informazioni che noi possiamo avere sulle lotte in Argentina sono molto frammentarie[1] e come abitualmente, su ciò che più ci interessa riusciamo ad avere meno informazioni;d’altra parte, ci si trova in presenza di una situazione in costante evoluzione che attualmente non si riesce a vedere come si possa risolvere, sia in termini capitalistici sia in termini rivoluzionari. In una nuova pubblicazione la rivista Echanges svilupperà ulteriormente questa analisi.

La lotta di classe in Argentina nel periodo recente

L’attuale rivolta sociale in Argentina non è caduta dal cielo. L’attacco globale del capitale internazionale, che noi peraltro qui analizziamo, risale alla caduta del peronismo, all’eliminazione fisica, da parte della dittatura militare, di ogni resistenza che fosse clandestina o no, alla sottomissione agli imperativi della liberalizzazione finanziaria. Una liberalizzazione perseguita dopo che la dittatura fu fatta cadere nel disastro sia economico che militare, da parte dei governi successivi, preoccupati anzitutto di soddisfare i loro interessi personali e gli imperativi dell’FMI, senza preoccuparsi minimamente del mondo, né degli interessi del capitale nazionale, né della condizione dei lavoratori argentini. Tuttavia, fu un’ondata dal fondo popolare (stimolata dalla resistenza eroica delle madri di plaza de Mayo durante la dittatura), che costrinse i militari ad abbandonare il potere in una relativa ignominia. Ma questa ondata si vide in qualche modo confiscare la vittoria (fino all’impossibilità di perseguire i torturatori, ai quali fu garantita una quasi impunità) dai brandelli sopravvissuti del peronismo, diviso in clan rivali che si disputavano il potere. Il risultato fu lo smantellamento dell’organizzazione economica, fortemente impregnata di capitalismo di stato, ereditata dal peronismo, così come lo smantellamento di tutta l’organizzazione sociale che ne garantiva l’accettazione. Per i salariati, questo rappresentò il lento degrado dell’insieme delle condizioni di sfruttamento, per arrivare sino alla situazione attuale nella quale vi è più del 25% di disoccupati, che condividono una miseria crescente con la massa dei lavoratori e dei pensionati che subiscono riduzioni di salario e di pensioni, un’inflazione che raggiunge talvolta le vette, e la quasi scomparsa del sistema sanitario e scolastico pubblico, un sistema che era stato invidiato da tutti i paesi dell’america latina.

Certo, questa discesa agli inferi non accadde senza lotte, ma incapaci di coordinarsi per estendersi aldilà delle disparità provinciali e/o professionali, di superare i condizionamenti politici e/o sindacali, impastoiati nelle loro relazioni claniche intorno al potere, queste lotte non supereranno mai questa forma di globalizzazione che si vede sorgere oggi attraverso una sorta di uniformizzazione crescente della povertà.

Prima di passare ad analizzare gli avvenimenti che marcano questa globalizzazione, ci sembra utile ricordare che solo negli ultimi anni, movimenti di grande ampiezza e spesso violenti, con la repressione che causa feriti e morti, appaiono in maniera ricorrente e il più delle volte nelle province più lontane, le più toccate dal marasma economico e sociale. Non ci è sembrato necessario risalire fino ad analizzare il peronismo (di cui peraltro parliamo alle pagg.58 e 59), alla sua caduta nel 1955, in seguito ad un complotto militare, al suo ritorno nel 1972, per tentare di risolvere una situazione sociale esplosiva che vedeva insieme le espressioni della resistenza operaia (una delle più significative ebbe per teatro la regione di Cordoba, nel maggio 1969) le lotte fra differenti fazioni del peronismo, e contemporaneamente la montata di gruppi clandestini; i più conosciuti saranno i montoneros che faranno numerosi rapimenti ed esecuzioni di dirigenti anche militari. Questo ritorno di Peron, e del resto neanche la sua morte e i tentativi di capitalizzarne l’eredità, non risolverà nulla, non sarà affatto un ritorno alla belle epoque del peronismo, poiché si perpetuava la situazione che aveva favorito questo ritorno. L’impotenza dei politici di mettere termine al caos economico causato in buona parte dalla resistenza sociale, si pensi agli scioperi e alle azioni clandestine, alimenterà il colpo di stato militare del 24 marzo 1976, e una repressione sanguinosa di cui oggi si sa che causò ben più di 30.000 vittime e quasi 100.000 arresti.

Nella primavera del 1989, dopo che il presidente in carica, Raul Alfonsin, nato nel 1927, ebbe annunciato una serie di misure economiche che miravano ad un rilevante aumento dei prezzi che coronava un’inflazione (che era già al 70%), dei moti della fame scossero una buona parte delle città argentine. Questi moti furono particolarmente violenti alla fine di maggio 1989, a Rosario, la terza città per importanza del paese, dove non si contarono i numerosi assalti ai supermercati (su cento soltanto due ne furono risparmiati) e attacchi ad altri negozi alimentari. La repressione della polizia provocò 5 morti e più di 800 arresti in tutto il paese. Per un intero mese fu proclamato lo stato di assedio, mentre i moti e i saccheggi si espandevano fino a Buenos Aires, città in cui più di 100 negozi e magazzini  vennero saccheggiati. Intanto, l’inflazione raggiungeva livelli fino al 5000%, e Domingo Cavallo instaurava la parità peso-dollaro, lanciava la vendita all’asta delle società nazionali, cosa che assicurò qualche anno di respiro all’economia, in ragione dell’afflusso di capitali stranieri, ma a tempo stesso produsse un’esplosione esponenziale della corruzione e uno slancio artificioso ingannevole dell’attività economica. Ma questo inganno durò solo qualche anno, fino al contraccolpo della crisi mondiale che colpì prevalentemente l’Asia, ma che si ripercosse anche su quelle che vengono dette economie in via di sviluppo, alle quali può essere assimilata l’Argentina. Nel dicembre 1993, a Santiago del Estero (nella provincia del nord-ovest) le restrizioni di bilancio imposte dal ministro Domingo Cavallo (già in attività sotto la dittatura militare), sostenitore del monetarismo, produssero delle manifestazioni dei funzionari locali che si trasformarono in una rivolta che durò diversi giorni, durante la quale le sedi amministrative e le case dei politici vennero incendiate. A quell’epoca, tutti coloro che avevano sostenuto il regime militare, cercavano di mantenere il dominio attraverso una repressione sia pure mascherata. Il numero del dicembre 1993 del giornale delle madres di Plaza de Mayo, pubblicava una lista di scomparsi non della dittatura ma della democrazia. Nell’agosto del 1994 dopo una manifestazione di più di 100.000 persone a Buenos Aires, degli scioperi sindacali, che tuttavia si inserivano all’interno di rivalità inter-sindacali, e delle manifestazioni cercarono di frenare le conseguenze già disastrose delle restrizioni imposte dal FMI, attraverso la mediazione del governo di Carlos Menem. Gli scioperi furono particolarmente forti nelle città industriali di Rosario e di Cordoba. Menem proclamò questi scioperi illegali e autorizzò le industrie a licenziare gli scioperanti.

Alla fine del 1994 il settimanale britannico The Economist scriveva: “il cambiamento sociale più sconvolgente non ha toccato i poveri, ma piuttosto le classi medie dell’Argentina, il paese più grande e più ricco di tutta l’America latina. Benché il livello di vita abbia subito una caduta durante decenni, rispetto ad altri paesi, le classi medie in Argentina hanno beneficiato di una certa solidarietà da parte della borghesia. Allora il lavoro lo si conservava per tutta la vita, e questo riguardava ogni genere di lavoro, perfino quello nella scuola o nella chiesa, le riforme di Menem hanno distrutto tutto questo; le privatizzazioni hanno espulso i quadri medi dal loro lavoro, i negozianti sono stati distrutti dagli ipermercati, i professori di scola media superiore hanno dovuto cercare lavoro altrove, gli psicanalisti adesso fanno i conduttori di taxi e le madri di famiglia rispettabili vendono delle polizze. Un sociologo sottolinea che le donne sono quelle che sono state particolarmente toccate, che devono spesso accettare dei lavori malpagati per poter sopravvivere. Il numero di famiglie che vive soltanto del reddito delle donne accresce rapidamente così come il numero di famiglie che devono assumere in carico i genitori anziani (…)”.

Nell’aprile del 1995 tutti i mali di cui soffrono gli argentini, tutte le reazioni degli sfruttati sono sempre più ricorrenti: quasi tutto discende dalle conseguenze sociali dell’apertura delle frontiere alla concorrenza straniera; i vari disordini che si hanno nelle province, in particolare in quelle più lontane, discendono essi stessi da questa rovina di stato che rende più acuti i problemi di favoritismo, corruzione e così via. Il periodo in cui il presidente peronista Menem cerca di farsi rieleggere, è un periodo agitato da movimenti che vanno dal nord-ovest fino all’estremo sud, spesso violenti e al tempo stesso violentemente repressi. Nella provincia di Salta, i lavoratori fanno degli scioperi ripetuti per il pagamento dei salari arretrati, nella provincia vicina a Jujuy, un leader sindacale carismatico, dopo uno sciopero della fame, ottiene concessioni per i lavoratori dei servizi pubblici; nella provincia di Chaco, i lavoratori dei servizi pubblici e i pensionati fanno scioperi di 24, 48 ore per protestare per mesi e mesi di ritardo del pagamento dei sussidi; la stessa situazione si ha nello stato di La Rioja e in quello di San Juan, più a sud, alla frontiera con il Cile, stato in cui gli insegnanti fanno uno sciopero che dura più di tre settimane; nella provincia di R’os, giusto a nord di Buenos Aires, si ha una giornata di sciopero generale che paralizza tutto; nella provincia di R’o Negro, i lavoratori del settore pubblico fanno la stessa cosa con scioperi e manifestazioni violente, alla fine di settembre 1995 per ottenere il pagamento dei salari; nella Terra del Fuoco, all’estremo sud, a Ushuaia, numerose centinaia di lavoratori occupano per dieci giorni un’officina di montaggio di televisori che era minacciata di chiusura, chiedendo anche loro il pagamento dei salari, e vengono attaccati da una polizia particolarmente violenta: un morto e venticinque feriti. Nel dicembre del 1995, le riforme fiscali e amministrative portate avanti da Menem, e appoggiate dal ministro della finanza Cavallo, accentuano ancora di più la recessione economica: dappertutto si annunciano licenziamenti di impiegati e nella gran parte delle province si accumulano gli arretrati di salari non pagati; in certe province, perfino le più ricche, le più sviluppate economicamente, come quella di Cordoba, le manifestazioni violente sono frequenti. Si constata già che la classe media si impoverisce sempre di più. Se il 2% degli argentini guadagnano allora l’equivalente di più di 60000 franchi al mese, il 44% delle famiglie vivono con meno di 4000 franchi, mentre il costo della vita è corrispondente a quello dell’Europa.

Le organizzazioni dei disoccupati, i “piqueteros”, diventano sempre più attive a partire da questo periodo e sviluppano delle tattiche specifiche suggerite dai bisogni elementari di sopravvivenza: nel giugno 1996, a Cutral Co, nella provincia di Neuquen (nell’estremo ovest vicino al Cile), e nella città  vicina di Plaza Huincul, la principale strada della regione è occupata per una settimana; dopo lo scontro con la gendarmeria locale, il governatore infine fa procedere alla distribuzione dei viveri. Da aggio a luglio del 1997, numerose province sono toccate dall’azione dei piqueteros, di nuovo a Central Co, a Tartagal (nella provincia di Salta, nell’estremo nord-ovest, alla frontiera con la Bolivia), a San Salvador de Jujuy (nella provincia di Jujuy, vicino la precedente, verso il Cile), a Cruz del Eje (nella provincia di Cordoba, vicino all’importante città di Cordoba, a nord-ovest di Buenos Aires), migliaia di piqueteros bloccano la strada principale per 45 giorni per il cibo e l'innalzamento dei costi dell'acqua e dell'elettricità. Ovunque, i disoccupati si scontrano con le forze della repressione.

Nel 1998, a Corrientes, nella provincia che porta lo stesso nome, al nord del paese, i lavoratori municipali bloccano i ponti sul fiume Parani, che assicurano il passaggio alla provincia vicina di Chaco Central; i piqueteros accorrono a sostenerli. Fernando De La Rua, successore di Menem, fa caricare i manifestanti e il bilancio di 10 morti e di numerosi feriti non calma una rivolta che si prolunga per più di una settimana. Di nuovo nella provincia di Salta (estremo nord-ovest), Tartagal, di già teatro di sommosse nel 1997, conobbe, nel dicembre 1999 e poi nel maggio 2000, dei movimenti molto importanti: questa città e Mosconi, nella stessa provincia, sono occupate per molti giorni, le force dell'ordine praticamente espulse. Nel maggio 2000, l'annuncio di De La Rua di ulteriori tagli alla spesa pubblica, getta più di 20.000 manifestanti nella strade. Il 6 ottobre, il vice-presidente, Carlos Alvarez, leader del Fronte per un paese solidale (Frepaso), si dimette per protestare contro l'insabbiamento di un'inchiesta di corruzione del Senato. Di nuovo a Tartagal, nel novembre 2000, la morte di un manifestante durante un'azione volta ad ottenere il pagamento dei salari arretrati provoca una sommossa: degli uffici pubblici sono incendiati e dei poliziotti sono presi in ostaggio. Tutta un'economia parallela di sussistenza si sviluppa, tessendo dei legami al di fuori di tutta la mediazione statale; torneremo più avanti su questo punto, evidenziamo soltanto questo, come il movimento dei disoccupati, questi legami ricostituiranno una solidarietà e dei contatti di base che formeranno le strutture attorno alle quali si svilupperà resistenza quando la pentola sarà piena.

È precisamente quello che accade durante l'ultimo trimestre del 2001. Ciò che si è dispiegato nel corso di questi anni e quello che andrà a seguire non sono che un solo e unico movimento, sempre più esasperato a causa della enorme disoccupazione e il sotto-impiego (l'insieme comprende più del 40% della popolazione), l'impantanamento dell'economia nella misura in cui non fa che accentuare i problemi che vorrebbe combattere, in un'atmosfera di corruzione e di repressione. Le ultime misure di una classe politica agli sgoccioli: la drastica riduzione dei salari e delle pensioni, il blocco dei conti bancari, i maneggi con le diverse monete in sostituzione del peso, la fuga di capitali, hanno reso possibile il costituirsi di una unità di lotta. Tutte le classi della società, ad esclusione delle classi dirigenti dell'economia, della politica e dell'apparato repressivo, vanno unendosi alla lotta, stemperando le divergenze che si erano manifestate in precedenza (per esempio, l'ostilità delle classi medie al movimento dei piqueteros). Dove la classe possidente e le sue servitù politiche detengono una insolente ricchezza, proveniente principalmente dal saccheggio dell'economia e dell'appropriazione indebita dei prestiti del FMI, il 20% degli abitanti vivono con meno di 2 pesos al giorno e l'84% di questi percepiscono ogni mese meno di 1.000 pesos (circa 1.000 euro al corso di allora). Il salario minimo, non sempre applicato, è fissato a 250 pesos al mese (250 euro), e il reddito medio è stimato intorno ai 500 pesos. Si può comprendere cosa significhi in queste condizioni il "corralito" (restrizioni dei prelievi e dei movimenti bancari), la riduzione delle pensioni e dei salari del 13%, e le misure di austerità imposte dal FMI.

Riprendiamo la cronologia degli avvenimenti, rimandando a poi i tentativi di analisi:

1999

 

- 24 ottobre: il capo dell’opposizione al peronismo, Fernando de la Roea (64 anni) viene eletto presidente.

- dicembre: rincaro delle imposte che tocca unicamente le classi medie.

 

2000

 

- 29 maggio: il governo de la Roea annuncia un’ importante riduzione delle spese statali, con un taglio dei salari tra il 12 e il 15% per 140.000 funzionari, estromissione dei sindacati dalla gestione delle opere sociali: 20.000 persone protestano per le strade di Buenos Aires.

- 6 ottobre: il vice presidente Carlos Alvarez, leader del Fronte per un paese solidale (FREPASO) si dimette per protesta contro il soffocamento da parte del Senato dello scandalo dei bicchieri di vino versati in occasione del voto per la riforma del diritto del lavoro, nell’aprile 2000.

- 28 dicembre: l’FMI assegna all’Argentina 40 miliardi di dollari (45miliardi di euro).

 

2001

 

-16 marzo: de la Roea, presidente d’una fragile alleanza politica tra il FREPASO, un’ amalgama di peronisti dissidenti, socialdemocratici e di centro-sinistri, e il centro-destra (Unione civile radicale), lancia un nuovo “piano di austerità” approvato dall’FMI.

-19 marzo: Domingo Cavallo, redivivo monetarista che operò sotto la dittatura militare e autore della catastrofica parità peso-dollaro, ministro dell’economia, ottiene poteri speciali per “risolvere la crisi”. Numerose manifestazioni contro le misure proposte, a Buenos Aires e in periferia.

- 27 aprile: un terzo piano d’austerità che prevede di “riorganizzare” il servizio pubblico.

- maggio: Maggio: alcune centinaia di figli di disoccupati manifestano a Buenos Aires dopo aver marciato durante due settimane attraverso la provincia lontana del nord-ovest di Jujuy.

-11 luglio: undicesimo piano di stabilizzazione che prevede un ribasso del 13% dei salari e delle pensioni che provoca numerose manifestazioni e giornate di sciopero.

-19 luglio: il paese è paralizzato da uno sciopero indetto dai sindacati che precede le manifestazioni contro il piano d’austerità in tutto il paese il 29 agosto.

-14 ottobre: elezioni parlamentari. Poiché i voto è obbligatorio e l’astensione passibile di ammenda, ci sono state più del 40% di schede bianche o nulle e all’incirca un 20% di astenuti. Disfatta dell’Alleanza di governo e “successo” dell’opposizione peronista.

- 1 dicembre: il governo con Cavallo decide di limitare il ritiro di contanti a 1000 dollari al mese (pesos) e di vietare i trasferimenti all’estero.

Dopo mesi, il governo presieduto da de la Roea dal dicembre 1999 non è ancora riuscito a contenere le manifestazioni e le sommosse ricorrenti nelle città di provincia, blocchi stradali e saccheggi ad opera di disoccupati organizzati, i piqueteros, azioni collettive o individuali, come la manomissione dei distributori di biglietti. Parallelamente, i più ricchi ritirano i loro soldi dalle banche per trasferirli all’estero o al sicuro: 1miliardo e 300 milioni di dollari se ne sono volati via così.

- 3 dicembre: per piegarsi agli imperativi dell’FMI, di cui una missione giunta a Buenos Aires detta le sue condizioni, vengono prese misure di stretto controllo delle banche che limitino l’uscita di soldi verso l’estero (la maggior parte  è già uscita) e il prelievo di contante dai conti bancari. Quest’ultima misura è particolarmente costrittiva, specialmente per i più poveri, giacché la maggior parte delle transazioni vengono fatte in liquidi.  La maggior parte delle transazioni devono riferirsi a delle monete di circostanza, emesse dalle organizzazioni di cambio ma anche dalle province, poi dallo stesso Stato (che ha anche confiscato gli averi delle casse pensionistiche convertiti in buoni cartacei cambiabili): il dollaro resta sovrano ma è soprattutto tesaurizzato, lasciando il posto non soltanto al peso ma a ai patacones, argentino, lecops e altri "buoni" di tutte le specie.

- 5 dicembre: l’FMI nega un nuovo credito all’argentina per non aver compiuto la riforma di tutto il sistema statale, riforma resa impossibile dall’opposizione simultanea dei governatori delle province e dall’avanzata della resistenza popolare contro tutte le misure già prese, ma giudicate insufficienti, dall’FMI.

- giovedì 13 dicembre: i tre sindacati organizzano uno sciopero generale di 48 ore (il dodicesimo in due anni) contro l’abbassamento dei salari e delle pensioni e la limitazione dei prelievi bancari. Sciopero tanto inefficace quanto i precedenti, nonostante la massiccia partecipazione (migliaia di persone per le strade e blocchi stradali paralizzanti).

Molte discussioni si susseguono al livello della classe dirigente per tentare di vedere quali restrizioni poter far subire alle classi medie e operaie affinché le classi possidenti possano fuoriuscire dal marasma economico, generatore di una enorme miseria sociale che da un momento all'altro può esplodere dando origine a movimenti pericolosi per l'ordine sociale capitalista. Si valuta che in sei mesi, più di 500.000 persone sono sprofondate nella miseria sociale, accrescendo le "città di miseria" dove sono comparse degli striscioni recanti la scritta ironica "benvenuto alle classi medie", causando la povertà generale di quasi la totalità della popolazione (escluse le limitate frange della classe dominante e dei suoi più zelanti servitori). Si è stimato che in questo periodo ogni giorno 2.000 appartenenti alle "classi medie" sono scese di un gradino nella scala sociale. Un economista argentino sottolinea che "la classe media si vede in mezzo alla strada. Quella attuale è una situazione totalmente nuova". Un'altra manifestazione sindacale è prevista per il 21, ma i dirigenti sindacali saranno sorpresi in velocità da un'esplosione sociale che gli incidenti e le violenze, limitati ma frequenti, avrebbero potuto lasciare prevedere: le passeggiate sindacali punteranno a neutralizzare tutto per aggiungere maggior peso ai burocrati nei loro intrighi attorno al potere.

 

- Il 14: nuove manifestazioni.

 

- Sabato 15 dicembre: i saccheggi dei supermercati e dei magazzini prendono una grande ampiezza nelle città delle province, quelle maggiormente toccate dalla miseria. Tali azioni non sono affatto nuove, anche se nel recente passato sono state più sporadiche. Spesso sono praticate da organizzazioni di disoccupati (il tasso dei disoccupati è in media del 25%, molti di più in certe regioni o quartieri della Grande Buenos Aires), i piqueteros organizzano anche per alcuni mesi dei blocchi stradali, non solo per ottenere una maggiore efficacia nella paralisi del sistema economico, ma anche per saccheggiare i camions di rifornimenti, corrispettivo dei saccheggi dei supermercati o di altri centri di distribuzione. Come sempre, di fronte all'estensione di questi disordini, delle voci insinuano che questo sviluppo della violenza sociale può essere in parte dovuto ai conflitti di potere in seno al peronismo. Certe fazioni tentano sia di prendere il potere a favore dei disordini esistenti, e sia di consolidare questo potere verso una repressione violenta inviando delle quadre di provocatori per creare dei focolai di violenza. Una campagna di intossicazione cerca anche di indirizzare la classe media contro i "saccheggiatori" mettendo in giro la voce che delle "bande" starebbero attaccando le case nei quartieri delle classi medie; ciò sarà comunque smentito quando dei gruppi di autodifesa avranno atteso invano questi saccheggiatori inesistenti.

 

- 17 dicembre: è in queste condizioni che il governo annuncia che il nuovo bilancio prevede dei tagli alle spese del 20%, che implica una nuova caduta generalizzata del livello dei servizi, dei salari e delle pensioni. Una consultazione popolare, lanciata dal Fronte nazionale contro la povertà per il lavoro e la produzione (Frenapo, organizzazione che riunisce il sindacato CTA, la Chiesa e diversi gruppi umanitari o civici) e che rivendica in particolare una assicurazione-disoccupazione, ha raccolto 2.700.000 voti in favore della creazione di un "salario di cittadinanza" per combattere la disoccupazione, la povertà e la recessione. Questa votazione, organizzata al di fuori di tutte le mediazioni governative o politiche, sembra essere stata una sorta di ritorno di fiamma riformista nei confronti di un movimento che, iniziato dai piqueteros, è sfuggito loro totalmente in un'ondata di marea furiosa.

 

Domenica 16, lunedì 17, martedì 18: i saccheggi e le sommosse sconfinano nella regione di Buenos Aires e la repressione diviene più dura con dei morti fra gli attivisti. È impossibile contarli tutti: sono centinaia, migliaia, principalmente poveri e disoccupati, ma anche membri proletarizzati delle classi medie che si scagliano su tutti i centri di distribuzione (supermercati, magazzini, negozi, etc.) e i palazzi pubblici. Per esempio, più di 2.000 manifestanti riuniti davanti a un supermercato Auchan a Quilmes, nella regione di Buenos Aires, non si disperdono che dopo aver ricevuto la promessa di una distribuzione di 3.000 sacchi da 20 Kg di prodotti alimentari e del pagamento degli stanziamenti che avrebbero dovuto essere versati a sostegno delle politiche di occupazione.

 

La giornata di mercoledì 19 dicembre e la notte tra il 19 e il 20 sono particolarmente confuse. Il movimento si estende, quasi spontaneamente, quando il governo De La Rua denunciò "l'anarchia" e minacciò di "ristabilire l'ordine", ciò che successe in ogni caso nel corso della giornata del 19 con la decretazione dello stato di assedio (tutte le riunioni pubbliche di più di 10 persone sono considerate sovversive, i media sono censurati e le forse di repressione sono mobilitate al massimo grado). I primi "concerti di casseruole" (caserolazos) non fanno che riprendere una pratica che avevano accompagnato la fine della dittatura militare nel 1976. Le manifestazioni, sommosse e saccheggi si diffondono così in tutti i sobborghi di Buenos Aires e in più di una dozzina di città in tutto il paese. Il presidente è assalito dalla folla quando esce da una riunione con il governatore della provincia. Molti poliziotti vengono disarmati ed alcuni pestati.

 

Nella serata del 19, una manifestazione enorme di almeno 1 milione di persone converge spontaneamente verso Plaza de Majo (celebre per le manifestazioni delle madri dei desaparecidos,  sotto la dittatura militare, manifestazioni che si sono susseguite fino ad oggi per richiedere delle condanne contro i responsabili dei massacri perpetrati allora), davanti al Palazzo Presidenziale, e, al grido di "dimissioni!", fischiano i dirigenti politici e sindacali. Alle una del mattino, la polizia carica per liberare la piazza: la folla disperata (vecchi, donne, bambini) si disperde ma gli elementi più combattivi si riorganizzano e ingaggia una battaglia cruenta nelle vie del centro di Buenos Aires. Dei poliziotti saranno fatti prigionieri e disarmati; altri saranno pestati. Su molti chilometri, tutte le banche sono incendiate, lo stesso ai locali di Mac Donald's.

 

Così commenta gli eventi un testimone dell'esplosione del 19 dicembre: "...a dispetto della loro violenza, le rivolte della fame di mercoledì 19 dicembre, che toccheranno diversi sobborghi di Buenos Aires e una dozzina di altre città in tutto il paese, sono state largamente prevedibili... I controlli bancari imposti questo mese per bloccare la strada verso i depositi bancari ha ugualmente prosciugato la circolazione monetaria nell'economia e ha danneggiato i poveri che sopravvivono con lavori irregolari. La sorpresa viene da quello che succede in seguito. Al termine della notte, intere famiglie dei quartieri della classe media come Belgrano, lasciarono le loro case e cominciarono a picchiare sulle pentole in un movimento di protesta contro il governo e la sua politica economica. Le automobili claxonanti e tutta questa gente canteranno fino alla mattina come se il paese avesse vinto la coppa del mondo. Migliaia fra questi, conversero in Plaza De Majo dove si trova il Palazzo Presidenziale, con i figli, i cani e tutta la famiglia. La protesta spontanea era apparentemente provocata dal rifiuto che aveva causato l'annuncio alla nazione di De La Rua, mercoledì sera... Nella giornata di giovedì 20, l'atmosfera era drammaticamente cambiata. Barricate sorgevano in molte strade di Buenos Aires; i giovani sono i più determinati e i più efficaci poiché hanno acquisito esperienza affrontando la polizia nella confusione che segue i concerti rock o le partite. Folle di giovani uomini, col viso coperto, ergono barricate di protezione, attaccano gettando pietre alla polizia che risponde con lanci di lacrimogeni e proiettili di gomma. Altri manifestanti sono attaccati dalla polizia che è riuscita a superare le barricate, alcuni sono trascinati nelle camionette della polizia".

 

Un'altra testimonianza di uno studente dimostra come un simile movimento è nato spontaneamente; egli descrive subito il suo viaggio del pomeriggio del 19 dicembre, in una città quasi deserta dove i supermercati sono stati chiusi per la paura dei saccheggi, dato che altri erano già stati presi di mira; tornato a casa, ascolta il discorso di De La Rua alla televisione: "...qualche cosa che io non posso spiegare mi spinge a mettermi di corsa scarpe e maglietta; ho preso una grande pentola e, a torso nudo, ho camminato fino all'angolo della via e ho cominciato a sbattere la vecchia pentola con un fondo di bottiglia... Noi ci rendiamo conto di non essere solo dei pazzi isolati e dopo qualche minuto, all'angolo della via, siamo già diverse dozzine con le nostre pentole. Il movimento di protesta si generalizza, anche se non sapevamo dove andare. Fino a quando un gruppo di musicisti ambulanti affascinati dalla cosa, si unisce a noi. Qualche minuto più tardi, ce ne andiamo in Plaza De Majo. Senza cambiarci, ci andiamo senza documenti, senza soldi, soltanto con i nostri cellulari per poter restare in contatto. Non sappiamo perché ci stiamo andando ma qualcosa ci dice che ci dobbiamo andare... Vediamo una marea umana che si dirige li, ci rendiamo conto che qualcosa di nuovo sta nascendo... Milioni di persone incominciano a cantare "coglioni, coglioni, il vostro stato di assedio potete mettervelo in culo" oppure "il popolo non sarà mai vinto"... Nessuno comanda la marcia, nessuno la dirige ma ci muoviamo tutti lo stesso..."

 

- Descrivendo gli avvenimenti di questi giorni e dei seguenti, il quotidiano britannico Finacial Times poteva scrivere: "una volta che la miccia è stata accesa, sembrava che non ci fosse alcun mezzo per fermare l'incendio. Quello che era cominciato con qualche incidente isolato di saccheggio di supermercati nelle lontane province si è esteso come un incendio in tutti i paesi durante il fine settimana". Le immagini  della repressione diffuse dalla televisione e i racconti dei manifestanti tornati nei loro quartieri, amplificano la rivolta.

 

- Nelle province, la situazione non è più calma. A Còrdoba, seconda città dell'Argentina, sede dell'industria dell'automobile, la rottura dei negoziati con il Comune per i salari dei dipendenti comunali sfocia nell'occupazione del Comune per tenere un'assemblea. Sgomberati dalla polizia, tentano di incendiarlo ed erigono barricate nelle strade, raggiunti dagli operai di molte fabbriche che entrano in sciopero. Questo giorno e i seguenti, manifestazioni ed altre diverse azioni (saccheggi dei supermercati) riproducono la stessa dinamica crescente in una unità di tutte le diverse azioni simili a quelle che si sviluppano nella capitale. Ma anche qui la repressione fu dura con pallottole vere e proprie.

 

- Giovedì 20, dalla mattina, migliaia di manifestanti si uniscono alla periodica manifestazione settimanale delle Madri di Plaza De Mayo e il Ministro delle Finanze Cavallo, apologo del monetarismo e del libero mercato, si dimette. Un testimone descriverà così questa ondata interamente spontanea: "la gente andava e veniva, i cortei si trasformano, i viali si svuotano e si riempiono di nuovi uomini, di donne, di famiglie con i loro cani... È stato qualche cosa di impressionante perché totalmente spontaneo..." I manifestanti si riuniscono di nuovo davanti al Parlamento, davanti alla residenza del Primo Ministro, davanti al Ministero delle Finanze. La casa di Cavallo è assediata quando egli pensa di mettersi al sicuro con la sua famiglia all'estero. I divieti imposto dallo stato di assedio restano lettera morta ed è sulle strade che "l'ordine deve farsi rispettare". Degli scioperi a sorpresa si sviluppano nei trasporti locali. Alcuni gruppi tentano di entrare nel Palazzo Presidenziale, il Ministero dell'Economia viene incendiato. Le forze dell'ordine entrano in azione, sparando proiettili veri. Gli scontri di strada dureranno più di nove ore. Nel distretto operaio della periferia di Buenos Aires, bande di giovani attaccano i negozi di alimentari, i supermercati, travolgendo i poliziotti che stavano a presidiarli. Delle squadre di assassini in borghese si nascondono in mezzo ai manifestanti e un certo numero di manifestanti saranno abbattuti con una pallottola nella nuca.

 

Quello stesso giovedì, i sindacati organizzano una giornata di sciopero generale per protestare contro lo stato di assedio... per un giorno soltanto, ordinando la ripresa del lavoro per il giorno dopo, ripresa che comunque è avvenuta molto parzialmente.

 

- Da queste giornate di scontri, si conteranno più di 35 assassinati (24 a Buenos Aires, 5 a Santa Fe, 1 a Cordoba, 1 a Tucumin, 1 a Corrientes, 1 a Rio Negro), centinaia di feriti (185 a Buenos Aires) e migliaia di arresti (cifre ufficiali 3.273, di cui 2.400 a Buenos Aires). Le dimissioni del presidente del governo De La Rua nella serata di giovedì 20 dicembre (dovrà essere prelevato in elicottero per poter tornare a casa sua) mostra che le autorità non sapevano come arginare il movimento che non è disposto a cedere nonostante la brutale repressione. Pertanto la repressione, congiunta alle manovre politiche, è servita ai dirigenti del sistema per prendere fiato. Ma non sarà che una interruzione parziale.

 

- Il 23 dicembre, per tentare di placare la rivolta, il nuovo presidente, Adolfo Rodriguez Sai, annuncia delle misure demagogiche: la sospensione del debito estero, un milione di posti di lavoro, ecc. Senza effetto.

 

- Il 24, promette alle Madri di Plaza de Majo, l'annullamento del decreto che impedisce l'estradizione dei torturatori della dittatura militare.

 

- Ma il 25, l'ex presidente Carlos Menem è liberato dalla prigione dove era detenuto per corruzione, e annuncia la sua candidatura per il 2003: misure destinate a calmare una frazione del clan peronista.

 

Nella notte fra il 28 e il 29 dicembre, a causa della carenza di politici in grado di rispondere alle rivendicazioni dei manifestanti, e nonostante le dimissioni di tutto il governo, nuove manifestazioni si radunano in Plaza de Majo. Nella mattinata, i Mac Donald's, delle banche e degli uffici pubblici sono attaccati e incendiati. Migliaia di membri delle classi medie convergono, in un concerto di pentole, verso la piazza, unendosi alle Madri di Plaza de Majo in un sit-in subito dispero dall'azione della polizia. La manifestazione vorrebbe essere pacifica ma a causa dell'azione poliziesca, dei gruppi di giovani tentano di assaltare il palazzo del governo. In un bar, un poliziotto in pensione abbatte, a sangue freddo, tre giovani che manifestavano troppo apertamente il loro appoggio ai manifestanti. 12 poliziotti sono feriti, 33 gli arresti.

 

- Il 30 dicembre, il presidente in interim Saa, appena nominato, si dimette, preso fra tutto il movimento di resistenza e l'abbandono da parte dei suoi pari negli scontri di clan in seno al movimento peronista. È rimpiazzato, nella notte fra l'1 e il 2 gennaio, da un peronista di un altro clan, Eduardo Duhalde (avvocato di 60 anni da un passato molto dubbioso di corruzione quando era governatore della provincia di Buenos Aires ed anche di trafficante di droga, che ha lasciato le casse della più grande provincia argentina, quella di Buenos Aires, completamente vuota con un debito più consistente di quello messo insieme delle altre 14). Egli rappresenta una sorta di unione politica (alleanza dei peronisti, del Frepaso e dei radicali, con il sostegno della Chiesa cattolica) compresa una parte di quella che si chiama sinistra. Dichiara al padronato radunato: "la prossima tappa della nostra decadenza sarà un bagno di sangue". Dei militanti peronisti manifestano davanti l'assemblea per sostenere questo candidato di "unione nazionale". Duhalde annuncia nello stesso tempo l'abbandono della parità peso-dollaro e la sospensione del pagamento del debito. Nuove manifestazioni che non indeboliscono il presidente. Un generale può dichiarare: "è la prima volta che la società argentona depone un presidente senza la partecipazione delle forze armate".

 

2002

 

- Durante tutto gennaio, le manifestazioni si ripetono ma si può pensare che il miscuglio di promesse politiche, di rinforzo della presenza poliziesca e militare fanno si che, pur mantenendo una grande ampiezza per la partecipazione e l'estensione geografica, si mantengano tuttavia in un certo quadro istituzionale.

 

- 11 gennaio: il concerto abituale delle pentole in una manifestazione pacifica si trasforma di nuovo in rivolta nel centro di Buenos Aires, con degli attacchi alle banche e l'assedio a società straniere.

 

- 14 gennaio: nuove manifestazioni, solitamente davanti al Palazzo Presidenziale, quando nelle province di Santa Fe e di Jujuy, migliaia di manifestanti attaccano le banche. Nel mercato centrale di Buenos Aires, 500 piqueteros che pretendono dei viveri sono caricati dagli sbirri dei padroni e dai lavoratori del mercato; alcune banche sono attaccate.

 

- 25 gennaio: una nuova manifestazione mostra nel centro di Buenos Aires, mobilitata dai comitato di quartiere, si scontra con uno schieramento di polizia senza precedenti. In provincia, delle manifestazioni simili si originano nello stesso tempo; a Junin, 600 manifestanti bruciano la casa di un deputato peronista.

 

- 28 gennaio: più di 15.000 piqueteros sostenuti dall'assemblea popolare, convergono sulla Piazza de Majo, accolti quasi come dei liberatori, ai quali viene offerto da mangiare e da bere. Per tentare di indebolire il movimento dei disoccupati, Duhalde riceve una delegazione di piqueteros, ai quali annuncia egli stesso un programma per la creazione di posti di lavoro retributiti con 200 pesos (116 euro).

 

- All'inizio di febbraio, la stanchezza di fronte al temporeggiamento dei politici sembra indurre a una nuova radicalità. Il 1° febbraio, la Corte di Giustizia dichiara "incostituzionale" il "corralito" (provvedimento di restrizione dei prelievi e dei movimenti bancari deciso all'inizio della crisi argentina e mai ritirato); ma questa misura presa da un tribunale composto da una maggioranza di giudici favorevoli alle tendenze peroniste fedeli a Carlos Menem è più una manovra politica destinata ad imbarazzare il presidente Duhalde, che si trova costretto ad annullare il piano economico che aveva appena annunciato. La Banca Centrale decide il blocco di tutti i conti bancari e dei marcati dei cambi per evitare le fughe di capitali. In realtà, i capitali e le fortune private sono già uscite da alcuni mesi (l'ammontare totale dei depositi all'estero è uguale ai tre quarti dei 150 miliardi del debito estero) e queste misure toccano, come tutte le misure precedenti, i piccoli risparmiatori delle classi medie. Le manifestazioni si susseguono e si indirizzano in particolare contro le banche, compresa la Banca Centrale. Decine di migliaia di persone si riuniscono su Plaza de Majo, convocate dalle assemblee di quartiere, e delle manifestazioni simili si sviluppano in più di 100 città del paese.

 

- Sabato 2 e domenica 3 febbraio: le ragioni del blocco divengono chiare con l'abbandono della parità peso-dollaro, il fluttuare del peso e una conversione complessa dei conti bancari che danneggiano tutti quelli che non hanno potuto fare dei trasferimenti all'estero o conservare dei dollari. Il progetto di bilancio annunciato non trova l'accordo che della metà di quello che rivendicavano i disoccupati; non è previsto alcun aumento dei salari se si tiene conto che l'inflazione che deriverà dalle misure monetarie è valutata al 15%. Alcune stime lasciano pensare che il numero dei poveri passerà da 15 a 17 milioni. Nello stesso tempo, il governo annuncia che "bisogna ricostituire l'apparato produttivo" (sottointendendo con dei "sacrifici" imposti ai lavoratori e ai pensionati) e aggiunge che il paese era "ai margini dell'anarchia", che bisogna "mantenere la pace sociale"; Duhalde aggiunge anche che egli "non è un presidente debole". Si sa cosa vuole dire.

 

- 5 febbraio: la risposta arriva. I piqueteros si riuniscono sulla Plaza de Majo e le strade sono bloccate con degli sbarramenti un po' dappertutto. Il loro slogan è "pane e lavoro". Le classi medie, ostili in altre occasioni, non lo sono più del tutto, tanto meno per quelle i cui membri sono decaduti nella scala sociale, spesso nella condizione di disoccupati. Come giungono dai quartieri periferici, i manifestanti sono accolti con cibo e bevande.

 

- 6 febbraio: le rivolte si dislocano davanti alle banche.

 

- 7 febbraio: i concerti delle pentole riprendono con rinnovato vigore. Migliaia di manifestanti si riuniscono davanti al Palazzo di Giustizia di Buenos Aires, richiedendo le dimissioni dei giudici corrotti, e promettono di ritornare ogni giovedì finché non sarà avviata un processo di destituzione (i giudici sono accusati specialmente di aver coperto il traffico di armi di cui è accusato Carlos Menem). Buenos Aires assume l'aspetto di una città assediata, testimonianza dei frequenti incidenti che avvengono con le forze dell'ordine: le cabine del telefono e le fermate dell'autobus sono pressoché distrutte e le banche e gli uffici delle società sono blindate con pannelli di ferro.

 

- È una situazione che si riproduce quasi quotidianamente con gli stessi obiettivi: uffici giudiziari, ministeriali, bancari, ecc. Gli uomini politici più famosi per la loro corruzione sono particolarmente attaccati: manifesti recanti il loro volto sono diffusi su internet ed anche su un canale televisivo, con il loro indirizzo e le coordinate personali, le loro foto sono attacchinate nella città con le stesse informazioni; questi praticamente non possono più uscire di casa poiché, se riconosciuti, sono immediatamente chiamati, spintonati e perfino maltrattati. I piqueteros non solo continuano i loro blocchi ma tentano sempre con la persuasione o con la violenza di farsi regalare del cibo; i saccheggi diventano più difficoltosi perché i supermercati e i magazzini sono chiusi e blindati e/o controllati da milizie o poliziotti. In tutto questo periodo, dopo gennaio, i comitati di quartiere, federate in assemblee di quartiere e in collettivi più ampi, sono con i piqueteros al centro delle azioni più importanti, agendo in piazza come gruppi di pressione sul potere. Al punto che uno dei dirigenti politici crede di dover ricordare che, ai termini della Costituzione, "il popolo non delibera e non governa che attraverso l'intermediazione dei suoi rappresentanti... Bisogna arrestare la fantasia della gente nelle strade che decidono di quello che si deve o non si deve fare... Bisogna indirizzare le richieste alle autorità... in modo ordinato e sensato invece di darle in pasto agli agitatori abituali..."

 

 - Febbraio. Per sostenere il presidente Duhalde e un progetto di bilancio capace di soddisfare gli imperativi del FMI, il finanziamento delle province (i governatori hanno ottenuto che il 30% dei nuovi prelievi fiscali siano loro attribuite in cambio della promessa di ridurre del 60% il loro deficit) e che prevede delle nuove tasse sulle esportazioni congiunte con una riduzione del 14% dei dipendenti statali, in una sorta di contro-manifestazione peronista, si radunano migliaia di militanti davanti al Parlamento, sventolando bandiere argentine.

Una trasmissione del canale televisivo America, "Dietro le informazioni", mostra come i quadri del partito peronista reclutino manifestanti per 25 pesos o mediante una promessa di impiego.

 

Nel momento in cui stiamo ultimando questo opuscolo (15 maggio 2002) la situazione in Argentina è lontana dall'essere risolta. Il Finacial Times del 14 maggio 2002 può titolare: "Piano di salvataggio, ritorno al punto di partenza". Praticamente dopo il colpo di arresto brutale della repressione sanguinosa del 19 e 20 dicembre, le forze di resistenza si sono in qualche modo ricostituite e riorganizzate al di fuori dai circuiti economici, sociali e politici ufficiali ma evitando fino ad oggi di scontrarsi direttamente e globalmente il sistema. Pertanto, dietro a questo apparente immobilismo (in parte dovuto al silenzio mediatico) che potrebbe far pensare ad un'impasse, queste forze sono sempre vigorose e delle trasformazioni, anche più radicali nelle pratiche della vita quotidiana, si delineano.

 

Dal lato del capitale, gli avvenimenti recenti non contribuiscono affatto ad una maggiore chiarezza. Senza dubbio il governo Duhalde dispone sempre della sua "legittimità costituzionale" ma, garantito da un apparato poliziesco e militare onnipresente, la sua autorità non sembra quasi sorpassare le porte del Palazzo Presidenziale. Il timore di una esplosione sociale radicale fa si che non possa piegarsi direttamente alle esigenze del FMI, che tiene i cordoni della borsa. Un nuovo aiuto finanziario, nei fatti, non risolverebbe un granché tanto l'economia argentina, in termini capitalistici, naviga nel marasma. Diamo qui di seguito gli ultimi sviluppi di aprile e di maggio.

 

- 16 aprile: il Ministro dell'economia Leninev, accusato di essere troppo accomodante con il FMI, ribatte agli apostoli dell'economia liberale che ha rovinato l'Argentina: "non domandateci di fare in aprile quello che non abbiamo potuto fare in sette anni".

 

Il peso ha perduto dopo dicembre in rapporto al dollaro i due terzi del suo valore, rovinando ancora di più quelli che avevano dei pesos o altre monete parallele e accrescendo considerevolmente i rischi di inflazione. La pressione del FMI serve unicamente a preservare gli interessi del capitale, prevalentemente straniero. Riguardo alla riforma dello Stato, le misure promosse dal FMI implicano il licenziamento di 500.000 impiegati delle province e dello Stato; ciò avrà, nelle circostanze attuali, delle conseguenze drammatiche per il sistema. Le province continuano ad emettere dei "buoni" che servono a pagare questi impiegati, più o meno fittizi, buoni che circolano come moneta parallela. Una delle condizioni del FMI è l'arresto di queste emissioni, che equivale al licenziamento degli impiegati occupati, le province non detengono affatto risorse in moneta legale, peso o dollaro.

 

- 24 aprile: il Ministro dell'Economia, ripudiato dal FMI, si dimette (il quinto in un anno) quando i detentori dei conti bancari di cui il totale è stato convertito in buoni a pagamento ritardato, hanno manifestato davanti al Parlamento protetto da un impressionante schieramento di forze di polizia e militari. I manifestanti sono riusciti a distruggere le automobili dei parlamentari.

 

Per calmare le conseguenze di una decisione della Corte Suprema che sospendeva il blocco dei conti bancari (decisione che avrebbe determinato il fallimento delle banche poiché queste non posseggono di liquidità), il governo ha quindi decretato dei "giorni di vacanza illimitata", durante i quali le banche sono chiuse. Tuttavia deve ritornare su questa decisione sotto la pressione della strada e di una parte dell'apparato politico, per ristabilire il blocco per via legislativa.

 

Dappertutto, in particolare nelle province, i lavoratori del settore pubblico non pagati manifestano violentemente. A San Juan (nord-ovest), la polizia spara sui manifestanti per proteggere gli uffici pubblici. La classe politica cerca in tutti i modi di evitare le elezioni per la paura di una disastro totale del sistema rappresentativo. La povertà minaccia la metà della popolazione, cioè 18 milioni di abitanti, e si scontra quotidianamente con l'oscillazione dei prezzi.

 

- 26 aprile: discussione su 14 punti di misure diverse imposte dal FMI. Il peggioramento delle difficoltà quotidiane pone le condizioni per un rifiuto. Gli ospedali non hanno praticamente più medicine nè farmaci, bisogna fare delle interminabili code per ottenere un appuntamento con un medico uno o due mesi più tardi. Un argentino su due non ha più diritto all'assistenza sociale.

 

- 9 maggio: annuncio del fallimento totale dei negoziati con il FMI.

I piqueteros: recupero ed esproprio

L’estensione della disoccupazione nel 1996 ha favorito non solo lo sviluppo di organizzazioni specifiche di disoccupati, ma anche la comparsa di nuovi metodi di lotta. Questi rompevano con ciò che le organizzazioni di disoccupati non erano riuscite a realizzare in altri paesi, in cui esse pervenivano solo a timidi tentativi, per ragioni ogni volta specifiche e facilmente spiegabili.

È quasi un luogo comune constatare che in generale i disoccupati non interessano affatto, salvo nel caso che la loro proporzione divenga preoccupante per il potere pubblico, in quanto minaccia il difficile equilibrio fra il finanziamento volto a garantire la pace sociale e la pace sociale stessa, o quando, per gli occupati, la paura della disoccupazione può modificare i comportamenti sia nei rapporti di lavoro sia nelle scelte politiche. Nel corso di un certo numero di anni i piqueteros, disoccupati organizzati su base essenzialmente locale, per far valere quelli che ritenevano loro diritti, avevano fatto ricorso a blocchi stradali che riuscivano momentaneamente a bloccare il processo economico. Essi recuperavano così una tattica universalmente conosciuta (praticata anche qui in Europa, fino alla Russia – una tattica di larga scala), ma che non preoccupava e non coinvolgeva più di tanto gli occupati e la “classe media” nella loro situazione. Pur essendo violentemente represse, le loro lotte restavano isolate, localizzate, e non riuscivano a trascinare altri settori della popolazione, lavoratori o non, che pure cominciavano ad essere presi nelle difficoltà della crisi economica, il che legittimava ancora di più la repressione e un certo ostracismo da parte del potere. Le cose tuttavia cominciarono a cambiare proprio a causa della crisi economica: poiché il numero di disoccupati aumentava e dei settori sociali fino allora non coinvolti cominciavano a subire il peso della crisi, la repressione diventava più difficile a causa del coinvolgimento in queste azioni di un numero maggiore di persone e di un certo sostegno indiretto ad esse, laddove prima queste azioni incontravano solo indifferenza o addirittura ostilità.    

Questa tattica era quella di un gruppo sociale che non aveva altri mezzi di pressione sul potere politico, poiché totalmente impossibilitato al ricorso allo sciopero.

I disoccupati argentini erano senza sussidio e si dovevano organizzare per la loro sopravvivenza;in un certo senso queste pratiche di gruppo erano diventate un prolungamento di quelle individuali. Mentre quest’ultime diventavano sempre più difficili, con l’aumento dei disoccupati, le organizzazioni dei disoccupati divenivano più radicali. In un primo momento, i blocchi stradali, indipendentemente o meno dai giorni di sciopero e dalle manifestazioni ricorrenti organizzate dai sindacati, tendevano essenzialmente a fare pressione sul governo per ottenere subito cibo, medicine ed, eventualmente, lavoro. Sembra che questi blocchi stradali fossero, in questo primo periodo d’azione dei disoccupati,indipendenti da situazioni ugualmente ricorrenti nelle province povere lontane dal Nord-Ovest dell’Argentina, colpite prima dalla crisi economica. In queste regioni era diventato impossibile mantenere un sistema clientelare dopo che erano stati moltiplicati gli impieghi locali per assorbire una povertà endemica. Le rivolte locali e gli attacchi agli edifici pubblici erano divenuti frequenti. Non si può escludere che queste rivolte abbiano fornito sia un modello che un contribuito a trasformare i rapporti di forza nelle province urbane quando l’estensione della disoccupazione e della povertà conseguente, erano prodotte da situazioni simili. Le organizzazioni dei disoccupati formarono così dei coordinamenti prima provinciali e poi nazionali.

I metodi di lotta poterono modificarsi anche grazie alla diversa origine dei disoccupati: sempre di più questi erano operai dell’industria estromessi dal ciclo produttivo dall’ingresso di massa di capitali e prodotti stranieri, risultato delle politiche liberiste dei governi militari, come di quelli successivi, dopo la breve sbornia provocata dall’afflusso di capitali stranieri che approfittarono della messa in liquidazione delle industrie nazionalizzate e del settore pubblico. Il movimento poté così allargare la sua composizione sociale su una base locale attiva, non solamente con questi operai dell’industria, ma anche con le famiglie (segnatamente le donne, forse influenzate dal ruolo avuto dalle Madres de plaza de Mayo nell’insistente rivendicazione di giustizia) e con i giovani che non avevano mai avuto un’occupazione (quando l’industria gira al 40% della sua capacità e più della metà del 20% dei disoccupati censiti sono ex operai dell’industria recentemente licenziati, è difficile per un giovane trovare un’occupazione).

Le pratiche “illegali” proliferarono con la moltiplicazione delle pratiche individuali di recupero, ad esempio, il “furto” dell’elettricità. Se all’origine di questi movimenti c’erano soprattutto le banlieu delle città, le bidonvilles, il progressivo declassamento accelerava le mutazioni sociali e faceva si che altri strati sociali si aggregassero in un doppio fenomeno: sociale,i declassati s’installavano nei quartieri poveri, e geografico,attraverso la pauperizzazione dei quartieri operai e della classe media tradizionale. Questa situazione produceva un cambiamento di atteggiamento nei confronti dei piqueteros, visti prima come dei “marginali pericolosi”, poi sempre più ammirati per le loro azioni radicali. Si vedrà che, a partire dagli eventi di Dicembre, questa situazione servirà in un qualche modo da detonatore per un movimento come quello dei piqueteros che diventerà un’avanguardia seguita e non più isolata.

Il movimento piquetero ha visto la luce nella provincia di Jujuy, nell’estremo Nord-ovest argentino. Il periodo peronista vi aveva portato una relativa prosperità dal 1946 al 1955, con lo sviluppo di un’agricoltura industriale (tabacco e zucchero) e l’insediamento al fianco delle miniere locali, di un’industria siderurgica (Acerso Zapla), dove la maggior delle imprese erano nazionalizzate. Nel 1980, la privatizzazione e l’abbassamento delle tariffe doganali, in nome del libero mercato, manderanno in rovina tutte queste industrie. Aceros Zapla, acquisita da un gruppo americano, ridusse i suoi effettivi da 5000 a 700 persone per poi consacrarsi ad una produzione altamente specializzata. In una provincia di 600000 abitanti, i disoccupati si sono moltiplicati e, nel periodo recente, si è passati dal 35% di disoccupati nel 1991, al 55% nel 1999. Le organizzazioni locali di difesa dei disoccupati perseguirono le vie legali e pacifiche per tentare di far cessare questa situazione ed ottenere almeno dei sussidi. È stato allora che la guerra di logoramento ha portato, il 7 maggio 1997, al blocco del ponte che convoglia il traffico verso la vicina Bolivia. Questo blocco fece scuola e, spontaneamente, in quattro giorni, il loro movimento si estese a tutta la provincia. Il governo inviò le truppe il 20 maggio per ristabilire l’ordine: due morti e decine di feriti. Furono creati 12.500 posti pubblici e concessi aiuti ai disoccupati.

L’esempio era stato dato, e il movimento si era esteso poco a poco in tutte le regioni dove l’industria statale era in caduta libera, come a Cordoba, Rosario, Neuquen e Buenos Aires; organizzazioni autonome si costituirono e finirono per coordinarsi; così era nato il movimento piqueteros con la sua composizione di classe e i suoi estremismi.

Il movimento si caratterizza per la totale assenza di gerarchie. Tutte le decisioni sono prese dalle assemblee e tutto è deciso in comune. Altre regioni rivendicano la nascita del movimento piqueteros, come Central Co, una località petrolifera del sud, dove la privatizzazione ha prodotto una situazione tale che il blocco della via principale verso il sud del paese era inevitabile. In realtà, il movimento è sorto in differenti punti del paese, a partire dalle medesime cause e nelle stesse situazioni.

Il 2000 testimonia l’importanza assunta da questo movimento: è l’allargamento dei blocchi stradali che diviene massiccio. Il blocco di La Matanza nella provincia di Buenos Aires (2 milioni di abitanti in questo distretto che fu industriale) o un altro a La Plata, che raggrupparono migliaia di piqueteros, non furono tolti che dopo dieci giorni. All’inizio le rivendicazioni  erano molto concrete: liberazione di militanti imprigionati, ritiro della polizia, distribuzione di cibo, creazione di impieghi, indennità di disoccupazione, assistenza sanitaria.

Una strategia si andava delineando: una volta scelto il luogo del blocco dai piqueteros locali, vengono presi contatti con i gruppi locali vicini e si tengono assemblee nei luoghi dell’occupazione. Tende e cucine da campo assicurano la permanenza del blocco e, se la polizia interviene, una pronta mobilitazione moltiplica gli occupanti. Talvolta le cose si spingono oltre. Nella città del Generale Mosconi, nella provincia di Salta, nel nord-ovest del paese, i piqueteros diedero vita a 300 progetti di un’economia parallela, alcuni tuttora funzionanti.

Ma l’accelerazione della discesa all’inferno dell’economia e le difficoltà sempre maggiori produssero un’estensione del movimento in due direzioni. Da una parte, si strutturò: in settembre, un’assemblea nella regione di Buenos Aires che vide la partecipazione di più di 2000 delegati ad un’assemblea regionale; il 3 dicembre 2000, i piqueteros di Tartagal convocarono un’assemblea locale e poi un’assemblea nazionale provvisoria. Dall’altra, gli obbiettivi cambiarono: le rivendicazioni non furono più indirizzate ad un potere che non voleva concdere più nulla, ma si prende o si “recupera” senza alcun negoziato; i camions non furono più solamente bloccati ma saccheggiati, lo stesso i magazzini e i supermercati, e la collera portò all’assalto degli edifici pubblici. Il 17 giugno, le sommosse nella città del Generale Mosconi furono represse violentemente, il bilancio fu di due morti e più di 40 feriti. Ciò provocò un movimento di protesta dei piqueteros in tutta l’Argentina con più di 300 occupazioni. In un certo senso fu la prova generale di ciò che scoppierà su scala maggiore nel dicembre 2001.

Sino ad allora, le azioni non avevano oltrepassato, pur nella loro violenza, il quadro di rivendicazioni negoziate con le autorità. Pertanto, un elemento di novità si è così inserito sistematicamente nella politica dei piqueteros: i blocchi stradali vedono di fronte disoccupati determinati e polizia, quest’ultima impiegata dal potere più per contenere che per reprimere (repressione che ci sarà quando, recentemente, gli scontri con la polizia durante i blocchi stradali, provocheranno 6 morti). La strategia usata presenta tutte le caratteristiche di un’azione operaia; la tattica è quella di paralizzare l’economia attraverso il blocco dei trasporti e la circolazione delle merci. Niente di nuovo, sicuramente, e niente di “rivoluzionario”, ma ciò che vi è di nuovo è in un qualche modo l’espressione di una sfida alla classe politica e a tutte le forme di rappresentanza, che sfocerà più tardi nel rifiuto della delega e nella rinuncia ad avvalersi di rappresentanti (tutto ciò si concretizza anche nella diffidenza nei confronti dei portavoce politici e sindacali infiltratisi nel movimento).

Una sorta di democrazia diretta prende forma: i rappresentanti dell’autorità devono andare sul posto a discutere con tutti i partecipanti all’azione, e un accordo deve essere raggiunto perché l’occupazione sia rimossa (non sappiamo però se questi accordi dovessero essere raggiunti all’unanimità o attraverso la semplice maggioranza o sotto quale altra forma).

Così, molto prima che prendano vita le assemblee nei quartieri delle classi medie dopo il 19 Dicembre, la pratica delle assemblee locali e la loro federazione sul piano nazionale sono già un fenomeno diffuso, così come i tentativi di esproprio.

Di natura diversa appaiono le lotte per gli alloggi e per la terra. I “locali” sembrano aver organizzato il recupero delle terre (non sappiamo se per costuirvi o per coltivarle), dato vita ad alloggi di fortuna, messo all’ordine del giorno il recupero e la distribuzione dell’elettricità, dell’acqua potabile e costruito le fogne; hanno dato vita cioè, a tutto un processo di auto-organizzazione della sopravvivenza.

L’estensione e l’efficienza delle reti di baratto, le espone però a tentativi di integrazione, tentativi che mirano a trasformarle in “gestori ausiliari” della miseria, in un sistema che cerca capacità di sfruttamento e di miglioramento del degrado sociale. I piqueteros, inquietanti per la loro origine sociale, lo divengono ancora di più per la loro strutturazione, la loro diffusione e la loro radicalità. Non sono le amministrazioni provinciali, ma i sindacati e i partiti politici, principalmente peronisti, che tentano l’integrazione (anche i gruppi di sinistra, ma il loro peso è modesto). Sembra che questi tentativi non abbiano avuto gli effetti di integrazione e di spostamento desiderati, benché non si possano escludere totalmente. Secondo diverse testimonianze, pare che differenti clans peronisti politici e/o sindacali abbiano tentato di manipolare l’azione dei piqueteros nelle manifestazioni che hanno portato alla caduta dei presidenti.

Ciò che si può sicuramente affermare, in tutti questi tentativi di recupero, è l’esistenza di una base attiva che, spinta dalle necessità della sopravvivenza, è progressivamente giunta a forme d’azione sempre più radicali che sfoceranno il 19 e 20 Dicembre 2001.

Nel settembre 2001 si tengono due incontri nazionali e un comitato di coordinamento dell’azione dei disoccupati nelle città e nelle regioni. È difficile dire che ruolo abbiano avuto partiti e sindacati in questi tentativi di strutturazione di un movimento che effettivamente era rimasto fino ad allora frammentato e localizzato, la cui organizzazione su un’altra scala avrebbe potuto senz’altro rinforzare l’efficacia del movimento, ma che avrebbe potuto, allo stesso tempo, produrre uno scollamento con la base ed esporre il movimento a molteplici strumentalizzazioni. È per questo che alcuni distinguono tre diverse tendenze “capitalizzabili” da partiti e sindacati all’interno del movimento: il sindacato Centrale dei lavoratori argentini(CTA), che lotta con il Frente national contra la proveza(Frenapo), precisamente nella banlieu di Buenos Aires; il CCC (Corriente clasista combativa) nel quale si ritrova l’influenza del PCR(ml), organizzazione maoista che predica l’unità popolare, una sorta di fronte interclassista; il coordinamento Anibal Veron, un cartello di movimenti diversi, che manifesta le posizioni più radicali.

Qualcuno ha sottolineato che il principale agente d’organizzazione dei disoccupati argentini è stato ed è ancora la miseria. È ciò che determinerà, senza alcun piano prestabilito, la deflagrazione di Dicembre. In altre parti di questo documento si mostrerà, nell’esposizione dei fatti, come il movimento si sia ancor più radicalizzato con l’estensione della crisi e l’impossibilità di trovare una soluzione immediata ai bisogni più elementari, sia attraverso i metodi precedenti sia per l’incapacità delle autorità di portare una qualsiasi proposta di negoziazione. Sarà la pratica sistematica del “recupero”, dell’esproprio di massa, laddove è possibile, che costringerà le popolazioni delle province più colpite dalla miseria a scendere verso i centri urbani e verso la capitale, Buenos Aires. Verso il 3 dicembre, il movimento, che innanzitutto controlla il “recupero”, sfugge totalmente ai suoi promotori. I piqueteros vogliono diventare, per il semplice effetto dell’estensione incontrollata di una pratica illegale incontenibile (la volontà di sopravvivenza), di cui si possono misurare le ripercussioni ideologiche, non solo i promotori, ma anche l’avanguardia di un movimento di massa. Questo si esprimerà in manifestazioni che sfoceranno negli assalti contro gli edifici del potere politico, nella rottura con la classe politica, anzi con tutti gli attori di un sistema che ha provocato la loro miseria.

Ne risulterà un’alleanza di fatto dei disoccupati con gli altri lavoratori, con gli elementi di quella che viene comunemente definita una “classe media” dai contorni sfumati e poco definiti, ma che si trova colpita in pieno dalle ultime misure economiche, dopo un lento e progressivo slittamento verso la proletarizzazione e precarizzazione negli ultimi anni. Si svilupperà ciò che può apparire come la formalizzazione dell’alleanza, di fatto, nelle assemblee dei quartieri e la loro federazione, nelle quali si ritroveranno membri delle differenti classi sociali (ma non si può precisare, per mancanza d’informazione, sia il numero che la qualità dei partecipanti, né l’origine dei promotori). Senza dubbio i piqueteros avevano già mostrato una solidarietà attiva con iniziative negli scioperi, come ad esempio in una fabbrica di ceramiche di Neuquen, dove il loro intervento fu decisivo, proprio come era successo nei giorni di sciopero decisi dai sindacati. Una delle prove dell’importanza di questo movimento è testimoniato dal tributo pagato dopo le manifestazioni del 19 e 20 dicembre: i 35 morti, più le centinaia di feriti e i 2000 arrestati, che miravano evidentemente a castrare il movimento nei suoi elementi più radicali, i piqueteros.

Le minacce rivolte a più riprese dai vari presidenti nel loro breve interim e dal presidente ancora in carica, non sono senza dubbio casuali. Abbiamo potuto vedere i coordinamenti delle assemblee dei quartieri organizzare servizi d’ordine nelle manifestazioni, senza che si possa precisare se queste fossero sagge precauzioni per evitare il bagno di sangue promesso da Duhalde o una strategia per rimanere in un quadro di legalità da altri disatteso. È evidente che la repressione brutale (immaginate una tale repressione in un paese europeo) ha modificato radicalmente il campo d’azione e la natura del movimento. Ne parliamo più avanti a proposito delle assemblee di quartiere,ma sembra che questa repressione brutale abbia donato alle azioni dei piqueteros, se non una battuta d’arresto, almeno un orientamento differente, forse momentaneo, del loro intervento. D’altra parte, anche se un certo black-out dell’informazione sembra eliminare tutto ciò che potrebbe sussistere di queste azioni illegali dal 20 dicembre e nelle settimane precedenti, sembra che non abbiano cessato di produrre effetti. Ma, da una parte, l’elemento sorpresa gioca un ruolo meno decisivo, tanto che i bersagli prendono precauzioni contro eventuali attacchi. Lo testimonia lo scontro nel mercato centrale di Buenos Aires, il 14 gennaio, dove i piqueteros che chiedevano la consegna delle merci, si sono scontrati, secondo alcuni con il servizio d’ordine dei commercianti, secondo altri con i lavoratori del mercato. Il 15 gennaio, a Jujuy un movimento prende vita sotto una nuova bandiera, non più quella dei piqueteros ma quella del “Movimento per la lotta di classe”. Nella banlieue di Buenos Aires, in Marzo, un camion che trasportava bestiame è coinvolto in un incidente: gli abitanti del quartiere abbattono le bestie e saccheggiano tutto ciò che possono.

La situazione, dopo un certo immobilismo, nell’attesa di “soluzioni”, sembra improvvisamente conoscere una brusca accelerazione con la nuova crisi economica. È difficile prevedere ciò che potrà avvenire, anche se è facile ipotizzare nuove manifestazioni radicali, con degli obiettivi differenti ma in continuità con le esperienze degli ultimi mesi.

 

Sulla base di una prima analisi della situazione argentina, si possono individuare tre livelli possibili di sviluppo della lotta:

È evidente che un tale schema non tiene conto delle possibili manipolazioni politiche, ma soprattutto della repressione nazionale e/o internazionale, che cercherà di impedire con tutti i mezzi che il movimento attuale possa minacciare l’ordine capistalistico.

Le assemblee di quartiere e la democrazia di base

 “Nessuno sa se avrà un lavoro domani o quando sarà pagato. Tutti sono paralizzati dalla paura.” Questa dichiarazione poteva effettivamente applicarsi alla maggioranza della classe media sottoposta da anni al degrado economico ed a una proletarizzazione accelerata negli ultimi mesi del 2001. Ma, improvvisamente, per effetto delle ultime misure finanziarie prese da una classe politica corrotta che aveva approfittato della debacle economica più o meno organizzata da loro e che aveva condotto a nuovi “sacrifici” coloro che avevano ormai perduto ciò che consideravano segni distintivi del loro status sociale, la paura lasciava il posto alla rivolta che esplodeva proprio tra chi, in passato, poteva apparire la base sociale del regime prima dittatoriale e poi democratico.

È chiaro che a partire dal Dicembre 2001 la classe media era scivolata verso forme di protesta che rompevano con le loro tradizionali forme legalitarie. La causa immediata era l’aver messo a repentaglio l’ultimo dei loro privilegi, la loro fortuna personale, principalmente la possibilità di garantirsi la sopravvivenza attraverso i propri conti bancari, e questo dopo mesi, anzi anni, di riduzione o addirittura di perdita completa dei privilegi goduti dalla loro posizione nella gerarchia sociale. È questa reazione di difesa del proprio patrimonio che ha creato una forma spontanea di protesta e organizzazione di cui vogliamo sottolineare sia la radicalità che l’ambiguità (secondo le statistiche, la classe media raggruppava il 65% della popolazione nel 1970 contro il 45% di oggi; tra il 1999 e il 2001 più di 2 milioni di appartenenti alla classe media avevano perso uno o più gradini nella gerarchia sociale).

Nel passato, e precisamente al momento della caduta del regime militare nel giugno del 1982, le imponenti manifestazioni di Buenos Aires, che annoveravano una buona parte delle classi medie, avevano portato all’instaurazione di un regime civile democratico, sia per reazione patriottica dopo il disastro dei Malouines, che per opposizione risoluta alla dittatura (la classe politica continuerà praticamente ad operare come sotto la ferocia dei militari e questi ultimi rimanevano i garanti di un ordine sociale che gli garantiva l’impunità dei loro crimini).

Ma, nel dicembre 2001, tutto sarà differente, non tanto per il carattere delle manifestazioni quanto per l’autorganizzazione spontanea che in un certo modo giungerà a riprodurre forme di protesta e d’organizzazione sociale esistenti. Le assemblee popolari saranno l’elemento caratteristico di queste manifestazioni. Sarebbe possibile misurare la rottura dell’insieme della popolazione se non con il sistema sociale, almeno con la classe politica considerata incapace di risolvere la situazione economica e sociale dell’Argentina: le elezioni parlamentari del 14 ottobre hanno visto, malgrado il voto obbligatorio, un tasso d’astensione record (più del 20%) e un maremoto di schede bianche o nulle (40%).

In cosa consistono queste “assemblee popolari” che, dopo le manifestazioni spontanee del 19 e 20 dicembre, vogliono guidare l’opposizione politica?

 

Come sono nate le assemblee popolari?

Nessuno ne può rivendicare la creazione, perché esse sono sorte spontaneamente da iniziative locali ed hanno risposto immediatamente al bisogno di conservare la spontaneità delle prime manifestazioni. Qualche racconto testimonia della diversità della loro origine, ma anche delle caratteristiche comuni derivate dal rifiuto delle organizzazioni esistenti, quali partiti e sindacati, e dal rifiuto della politica tradizionale. Questo rifiuto della “politica” sarà una delle caratteristiche non solamente delle assemblee ma anche delle manifestazioni che, fino ad oggi, rifiutano attraverso cartelli e striscioni ogni appartenenza ad un’organizzazione.

Nel quartiere di Caballito, i manifestanti fecero togliere tutti i manifesti del Partito operaio (trotzskista) al grido “Tutti i politici sono uguali”. Anche gli Hijos (associazione dei bambini scomparsi sotto la dittatura militare tra il 1976 al 1983) dovettero ritirare i loro striscioni da plaza de Mayo. Solitamente le cose vanno così: un gruppo di militanti affigge manifesti nel quartiere che invita gli abitanti del quartiere stesso ad un prima assemblea; alla prima intervengono una cinquantina di persone, poi più di 100, infine 300. Alcune raggiungono anche più di 1000 partecipanti, ma è difficile dire cosa rappresentino queste cifre in rapporto alla popolazione del quartiere. Le assemblee sembrano essersi sviluppate nei quartieri abitati dalle classi medie, ma si deve sottolineare che i quartieri più poveri erano già organizzati intorno a gruppi di disoccupati, i piqueteros.

 

Chi vi partecipa?

Anche a questa domanda è difficile rispondere, tanto sono contraddittorie le informazioni e le analisi. Per alcuni, la classe media era praticamente scomparsa e vedono nelle assemblee un processo nel quale i lavoratori escono dalle fabbriche per lottare su un terreno sociale. Altri si spingono più lontano. Anche se non si produce praticamente più nulla nei luoghi di produzione (a quanto pare, le fabbriche continuano a girare e i servizi di base continuano ad essere assicurati come in condizioni “normali”, anche attraverso forme di autogestione), l’influenza dei leaders sindacali, tutti più o meno impregnati di peronismo, che sostengono questo o l’altro clan politico, impedisce alla base operaia di mobilitarsi come tale e di unirsi collettivamente alle assemblee. Gli appelli lanciati da qualche gruppo di sinistra che invitava i lavoratori ad organizzarsi in coordinamenti dimostra che non esistevano più forme di organizzazione dei lavoratori in quanto tali. È verosimile che le assemblee dovessero essere un miscuglio sociale dove avveniva una sorta di ricongiungimento di tutte le classi degli sfruttati vecchi e nuovi. Alcuni esempi mostrano che talvolta la “base operaia” raggiunge se non direttamente le assemblee, almeno le manifestazioni che esse organizzano a Cordoba, dove i comitati di fabbrica si aggiungono all’organizzazione dei manifestanti; a Santa Fé anche migliaia di insegnanti si uniscono ai manifestanti.

 

Come si organizzano le assemblee?

Si riuniscono regolarmente, almeno una volta alla settimana e, per un certo periodo, tutte le sere si ritrovano nelle piazze dei quartieri. Tutti possono prendere la parola, ma gli interventi sono limitati a tre minuti ciascuno. Nessuno può parlare come rappresentante di qualche organizzazione e non è tollerata alcuna propaganda (per paura di infiltrazioni e spionaggio da parte della polizia). Le decisioni o approvazioni di rivendicazioni sono prese per alzata di mano. Si tengono assemblee di diversi quartieri e tutte le Domeniche, a Buenos Aires, si tengono gli Stati generali delle assemblee nel parco Cenetenario (solamente per i grandi quartieri di Buenos Aires). Solo i delegati eletti possono prendere la parola, ma queste assemblee generali sono aperte a tutti (e possono raggruppare più di migliaia di persone); i delegati, designati a rotazione, informano sul lavoro nei quartieri ed espongono le proposte dei loro quartieri per decidere nuove forme di lotta; essi poi riportano nei loro rispettivi quartieri le decisioni prese.

L’informazione circola diffusamente non solamente attraverso il canale di questi delegati ma anche su Internet (15 siti sono dedicati alle assemblee, indicano ore e luoghi delle riunioni e le decisioni prese), attraverso i media (la radio e la televisione vi dedicano una parte delle loro informazioni) e tramite i giornali di quartiere e manifesti. Le posizioni sono particolarmente precise su questa forma di organizzazione, come dichiara uno dei loro membri: “le assemblee di quartiere ci appartengono; non appartengono ai militanti politici che guardiamo con diffidenza e che cercano di imporci un’esperienza di cui non abbiamo bisogno”.

Oltre all’attività politica vera e propria, si è organizzato un lavoro in profondità che si avvicina a quello che i piqueteros hanno intessuto per la loro sopravvivenza. Si danno vita a commissioni che cercano di risolvere problemi concreti rimasti insoluti dagli organismi ufficiali. È così che sono sorte nei quartieri le commissioni sulla disoccupazione, sulla sanità (per trovare le medicine più urgenti in collaborazione con gli ospedali più vicini), di scambio, d’inchiesta (per esempio sulla morte di un giovane), di propaganda, sui media e di riflessione politica. L’organizzazione delle mense, distribuzione di abiti e cibo. Un esempio recente di una pratica che risponde ai bisogni immediati: in un quartiere di Buenos Aires, centinaia di persone si riuniscono davanti ad un ospedale pubblico il cui funzionamento lascia molto a desiderare; entrati con la forza hanno convocato la direzione e tutto lo staff medico ed hanno imposto loro un’assemblea permanente che, da allora, controlla il budget e gli approvvigionamenti dei medicinali. In un altro quartiere, una commissione si occupa di “progetti produttivi”; quando vengono approvati nuovi lavori nel quartiere, l’assemblea impone, per eseguire i lavori al minor costo, di impiegare ingegneri e professionisti disoccupati.

L’attività politica rimane essenziale. Essa si esprime in tre modi diversi: la discussione delle questioni legate alla vita dei quartieri e la ricerca di soluzioni con mezzi di fortuna. Questa attività, deve essere considerata un’attività politica vera e propria, anzi forse più radicale delle rivendicazioni espresse in altre decisioni di carattere generale, poiché implica una riorganizzazione della vita sociale su basi comunitarie. In tali circostanze, è normale che l’autonomia e la spontaneità facciano oscillare il movimento un po’ in tutte le direzioni e che le parole e le azioni assumano ora una connotazione riformista ora una più radicale, senza che gli interessi e i bisogni immediati consentano loro di coglierne appieno le implicazioni.

Così, quando lo slogan più diffuso è “che se ne vadano tutti, che non ne rimanga uno solo”, che ha alla base un rifiuto totale dell’intervento dei partiti politici, allo stesso tempo le assemblee esprimono delle rivendicazioni nei confronti del potere che così tornano a legittimare, pur rigettandolo altrove come corrotto, impotente, sottomesso al capitale internazionale e agli Stati Uniti attraverso l’intermediazione del FMI.

È in queste rivendicazioni, che si ritrovano pressoché in tutte le assemblee, che si rivelano le origini sociali dei partecipanti:

Tutto questo è lontano dalle rivendicazioni dei disoccupati piqueteros che chiedevano “ pane e impieghi”. Ancora, queste rivendicazioni traducono delle tendenze nazionaliste che si esprimono nelle manifestazioni dove si canta l’inno nazionale e dove alcuni manifestanti sono avvolti nella bandiera nazionale.

Azioni spontanee contro l’insieme della classe politica, appaiono come il seguito spontaneo delle denunce fatte dai media o diffuse spontaneamente di bocca in bocca. Ecco come un giornalista descrive queste azioni:

“.... un sociologo disoccupato con un gruppo di una decina di persone, il 14 Marzo, affigge, su un muro del quartiere degli affari, dei manifesti che ritraggono degli uomini politici accompagnati dalla scritta “wanted”.... uova, sputi, anatemi urlati nelle strade, nei negozi, nei cinema, nei bar contro gli uomini politici di tutti gli orientamenti, obbligano talvolta la polizia ad intervenire per sottrarre quegli stessi politici al linciaggio. “Ladri” è l’insulto più comune. Quando escono in strada, gli uomini politici si camuffano con occhiali neri e parrucche per non farsi riconoscere. Accompagnati da guardie del corpo, si muovono preferibilmente in macchine con vetri oscurati.”

La situazione che abbiamo descritto sembra essersi modificata nel corso dei tre mesi successivi ai moti di Dicembre. La base delle assemblee si è allargata grazie ai rapporti di solidarietà e d’azione con i piqueteros. Il 13 gennaio 2002, un’assemblea nazionale delle assemblee di quartiere, che vede la partecipazione di rappresentanti dei piqueteros e dei lavoratori, annuncia di aver preso una serie di decisioni (più di 1000 rappresentanti vi hanno preso parte). Ritroviamo la dichiarazione seguente:

 “riconosciamo soltanto due schieramenti o parti, e i risparmiatori stanno dalla stessa parte dei lavoratori, dei disoccupati, dei piqueteros e di tutte le vittime del sistema”.

È evidente che sotto diversi aspetti tra le differenti componenti sociali si instaurano rapporti di solidarietà. Delle vere e proprie comunità si concretizzano per assolvere compiti  che possono essere assimilati a funzioni sociali. Questa solidarietà e queste comunità sono state descritte nella cronologia degli eventi dei moti per fame di Rosario alla fine del 1989. Allora avevamo parlato solo di piqueteros. Il governo dell’epoca aveva sfruttato il panico della classe media e aveva potuto mobilitare parte di loro in gruppi armati di autodifesa, che avevano aiutato la polizia in una repressione particolarmente dura (5 morti e più di 800 arresti). È senza dubbio questo precedente che ha portato il potere attuale a tentare di sfruttare il panico della classe media per rompere la solidarietà già ben dispiegata. Ma non era possibile riprodurre la situazione del 1989: le classi medie non avevano più nulla da perdere, al contrario potevano soltanto lottare a fianco di tutti gli altri miserabili.

Un giornale argentino, la Nacìon, analizzando il fenomeno delle assemblee popolari, individua “un meccanismo di discussione pieno di insidie che può sviluppare un modello sovietico pericoloso”. Questi commenti sono simili a quelli di certi gruppi politici che intravedono anche il pericolo di una rivoluzione sul modello dei soviet. È significativo che questi stessi gruppi od altri ancora continuino a pensare che la mancanza di dirigenti favorisca “la disorganizzazione e la frammentazione del movimento”(sic);alcuni attribuiscono questa assenza di leadership allo sterminio di più di 30000 attivisti o considerati tali da parte dei militari durante la dittatura; altri, all’incoraggiamento dei media verso l’esclusione dalle assemblee delle “organizzazioni popolari”.

Si possono, per tanto, di fronte alle esitazioni e alle ambiguità, scorgere, nella misura in cui lo Stato è sempre attivo con tutti i suoi apparati di dominio e repressione, delle forme destinate a sopperire alle carenze di certe strutture che permettano al sistema di sopravvivere malgrado il caos economico, la cui soluzione potrebbe significare l’endemizzazione della miseria attuale e la ristrutturazione imposta con la forza, se necessario nel bagno di sangue delle classi sfruttate, come promesso dal presidente Duhalde.

Un altro tema è accarezzato dagli angeli custodi americani, nella più pura tradizione della fiducia accordata alle classi medie per garantire l’ordine sociale -alla cilena, potremmo dire. Un alto dirigente del Centro Internazionale di Studi Strategici di Washington ha dichiarato, il 5 Febbraio, che ciò che sta attraversando l’Argentina non è una crisi generale della società, aggiungendo che “ se il governo non è capace di far fronte al caos, la classe media richiederà l’intervento militare ... Si vedrà, allora, una militarizzazione della polizia e delle funzioni di base della sicurezza”. Ancora più chiaramente insiste un commentatore inglese: “ ... la sola cosa che resta è l’intervento militare... I militari non sono più disposti a guardare alla televisione ciò che succede...”.

A sostegno di questa visione politica, si possono ricordare le manovre militari che si sono svolte nel Settembre 2001 nell’estremo nord dell’ Argentina, nella provincia di Salta, dove più di migliaia di militari americani, argentini e di altri paesi dell’America Latina, hanno elaborato una strategia volta a contrastare tutte le azioni destabilizzanti nei paesi interessati.

Si può così vedere nella liberazione, il 2 Febbraio 2002, del torturatore Astiz e nel rifiuto della sua estradizione verso l’Europa, un segnale chiaro indirizzato alla casta militare, per un sostegno eventuale nel caso in cui il movimento delle assemblee e dei piqueteros si radicalizzassero ulteriormente.

È certo che sia i piqueteros che le assemblee sono degli organismi dal doppio potere (inconsapevoli di questo, potremmo dire). I dirigenti politici che ne sono invece consapevoli tentano in ogni modo di sfruttarlo, ma la l’”ingenuità” del movimento li sottrae a questa eventualità (i tentativi sono diversi: in Dicembre, per esempio, tentando di aizzare le classi medie contro i piqueteros, alimentando il panico per possibili saccheggi). L’alleanza, la convergenza o tutte le altre forme tattiche tra i piqueteros, il movimento proletario più radicale, e le “assemblee popolari” delle classi medie declassate o minacciate di esserlo, può essere considerata come un’alleanza contro natura che tende a castrare le componenti proletarie più radicali del movimento.

Ma questa alleanza può anche essere vista come un pericoloso rischio che minaccia il sistema sociale in quanto tale e che può  apparire come una sorta di rivoluzione, anche se la situazione non è propriamente tale. Precisamente, è questa situazione che può oscillare in un senso o nell’altro, che può far intravedere agli uni una prospettiva rivoluzionaria, agli altri una possibilità per il potere di rompere facilmente l’unità del fronte che sembra profilarsi. Alla fine si potrebbe essere indotti a pensare che questo fronte, in ogni modo, indichi un orientamento riformista imposto dalla visione politica e sociale delle classi medie.

Tutto è possibile nella situazione attuale dell’Argentina, perché quando tutti sono impegnati nella crisi economica e sociale, quest’ultima può essere portatrice sia di un incancrenimento dell’esistente che di una soluzione violenta. In tutti i modi, queste sono le forze del capitale internazionale che determineranno la via d’uscita dalla crisi, salvo un’ improbabile esplosione dell’America latina.

Il baratto

Una delle questioni più importanti, che ci si deve porre in situazioni economiche come quelle della Russia di ieri o quella dell’Argentina di oggi, può essere: come può la maggioranza della popolazione sopravvivere con un’inflazione incredibile (attestata in Argentina fino al 5000 %), e/o con un tasso di disoccupazione così elevato da anni (che, per l’Argentina raggiunge ufficialmente il 20% della popolazione attiva, ma che tocca, in certe banlieue o province arretrate, più del 60%, cioè la quasi totalità della popolazione), e/o con ritardi importanti e ricorrenti nel pagamento dei salari o delle pensioni?

Si può pensare innanzitutto a sbrogliarsela individualmente attraverso il lavoro nero, o il mercato nero, o il furto, o, quando si può, attraverso lo sfruttamento delle relazioni familiari o di piccoli appezzamenti di terra. Evocare gli anni di miseria in Francia durante l’ultima guerra, può dare una chiave di lettura alla lotta per la sopravvivenza nell’ Argentina di questi ultimi anni. Tuttavia questa similitudine può rappresentare qualcosa solo per gli anziani. Le soluzioni individuali sono necessarie quando non esistono soluzioni collettive e sociali ad una miseria profonda.

Ignoriamo se questo stadio di risposta individuale sia stato superato nella Russia post-sovietica, ma nell’Argentina attuale una risposta collettiva sembra delinearsi al di fuori e contro il circuito organizzato dell’economia capitalistica garantita dallo Stato. Ci sembra che non si possano ignorare i caratteri delle azioni collettive in questo campo, anche se si devono prendere tutte le cautele possibili.

Da una parte (e ne parliamo separatamente a proposito dell’azione dei piqueteros, organizzazioni attive di disoccupati), un primo tentativo di risposta collettiva è il recupero su grande scala delle merci attraverso pressioni diverse più o meno radicali per farsi “donare” viveri (pacchi gratuiti dallo Stato, dalla collettività, dai supermercati e  dai commercianti); la forma collettiva d’azione garantisce efficacia e assicura, grazie ad un rapporto di forza più equilibrato, un’esposizione minore alla repressione giudiziaria. Questi recuperi sotto forma di racket si sono trasformati, laddove si sono rivelati inefficaci, in recupero per saccheggio, cioè attraverso “il furto organizzato in gruppo”, per riprendere la terminologia dello Stato braccio armato del capitale. Volenti o nolenti, espropri e saccheggi non potevano essere efficaci che con azioni di commando, dove sorpresa e rapidità costituivano gli elementi essenziali nell’arte di schivare una repressione che poteva esercitarsi più difficilmente, fin tanto che l'azione si estendeva inevitabilmente, con l’apporto di "clienti" che approfittavano di quelle merci piovute dal cielo.

Delle “red de trueque” (“reti di baratto”) non conosciamo altro che le loro dimensioni e altri pochi caratteri che cercheremo ora di esaminare. Non sappiamo come si siano formate e, soprattutto, come si siano diffuse, come siano gestite e che forme di relazioni si siano instaurate tra i partecipanti delle reti. Ma un aspetto essenziale riguarda lo scambio di merci contro merci, questo termine merce designa, come nelle società capitalistiche, non soltanto dei beni materiali, ma dei beni anche immateriali che dispongono sia di un valore di scambio che di un valore d’uso. Inoltre, lo scambio può avvenire sia su scala individuale che collettiva, sotto la forma di uno scambio immediato “negoziato” o  solidale (gli scambi possono avvenire per semplice “stretta di mano” e posticipati nel tempo; risulta difficile tracciare la linea di demarcazione tra quello che potremmo chiamare lo scambio tra vicini e una formalizzazione su una scala più o meno ampia). In tutti i casi, ma principalmente in quest’ultimo, la questione centrale è la fissazione del valore, dell’equivalenza tra i due valori scambiati. Questa equivalenza si può stabilire in tempo (di lavoro) o facendo riferimento ai valori delle merci scambiate sul mercato capitalistico, ma questo pone, allora, altre questioni.

Tutte le vicissitudini e le miserie che colpiscono da molto tempo l’Argentina hanno favorito la nascita di questa vasta organizzazione di baratto, le cui dimensioni hanno assunto negli anni una tale scala che si può guardare al fenomeno come ad una sorta di riorganizzazione parallela e spontanea dell’economia al di fuori dei circuiti capitalistici di produzione e distribuzione, anche se tutto questo si sviluppa all’interno di un sistema capitalistico, cioè a partire da merci vecchie e nuove, ma pur sempre prodotte attraverso questo sistema ( comprate o “recuperate”).

Prima di esaminare in cosa consista questo circuito del baratto, è necessario fare qualche osservazione che può condurci ad esprimere qualche riserva:

Riguardo a queste osservazioni, la questione che ci poniamo, è: cosa significa la nuova organizzazione della sopravvivenza in termini di trasformazione della società?

Le considerazioni fatte – lungi dall’essere trascurabili o secondarie - non possono che sottolineare l’importanza assunta dalle reti di baratto, tanto nel rendere marginale le strutture tradizionali dell’economia capitalistica, quanto nel sistema delle relazioni sociali, fenomeni che hanno giocato certamente un ruolo decisivo nel corso degli eventi.

Le reti di baratto sarebbero nate nel 1995 dall’azione di una ventina di persone, più preoccupate di questioni ideologiche ed ecologiche che di problemi legati al capitalismo argentino; hanno fondato dei “clubs” di scambio, sulla scorta delle esperienze europee dei SEL. Ma la formula corrispondeva ad un tale bisogno, nella crisi vertiginosa dell’economia argentina, che si è diffusa nel breve volgere di qualche anno in tutto il paese, sino a formare una rete nazionale con negozi e mercati a giorni fissi; tale diffusione ha portato persino ad emettere una moneta specifica, il credito, una sorta di buono di scambio che riporta un valore fittizio. Ognuno dispone di un cartello in cui scrive cosa offre e cosa domanda: può essere offerto e scambiato tutto. Oltre a questi luoghi tradizionali di scambio si è sviluppato anche un mercato virtuale su internet.

In Argentina si possono contare più di un migliaio di questi club, che raggruppano più di 2 milioni di partecipanti “scambisti”. I creditos in circolazione ammontano a circa 7 milioni di dollari (quasi 8 milioni di euro) e, nel 2000, sarebbero stati scambiati prodotti per un valore di 600/800 milioni di dollari americani (700/900 milioni di Euro). È poco se si considera il debito o il PIB argentino. Le reti di baratto si sarebbero diffuse anche nei paesi vicini e, negli ultimi mesi, ci sarebbe stato un balzo in avanti dell’80%, ciò che da la misura della catastrofe economica del paese. Ma la cosa più inquietante per il futuro di queste reti, è che molte collettività, municipali e provinciali, hanno in un certo senso riconosciuto questo modo di distribuzione delle merci, accettando il credito come moneta “legale”. È evidente che l’estensione delle reti ha reso inevitabile una certa formalizzazione, da qui tutta una serie di problemi di organizzazione, al di là del volontariato, del finanziamento, e dei prestiti, etc. Su questi temi disponiamo però di pochissime informazioni.

Questa forma di attività comunitaria non è d’altra parte la sola, senza che si possa precisare se si siano creati dei veri e propri coordinamenti tra attività simili. Una “red solidaria” (“rete solidale”) sarebbe più orientata verso la soluzione di problemi sociali; essa avrebbe 18 sedi nel paese ed opererebbe principalmente nel campo della salute e della cura, soprattutto cercando di risolvere le carenze di approvvigionamento di medicinali. Le assemblee di quartiere, così come le associazioni dei disoccupati che raggruppavano i piqueteros, avrebbero sviluppato delle organizzazioni comunitarie: giardini d’infanzia, mense. Ma anche per questi fenomeni sono poche le informazioni che hanno oltrepassato l’Atlantico.

Resta una questione alla quale è molto difficile rispondere: qual è l’incidenza di tutte queste forme d’attività comunitarie sui diversi movimenti di protesta (piqueteros, assemblee di quartiere, manifestazioni, etc.). Vi è senza dubbio una interdipendenza stretta nella quale cause ed effetti interagiscono e diventano indistinguibili. Si può pertanto affermare, senza eccessivi timori d’errore, che, quale che sia la loro origine o i loro caratteri, la risposta a situazioni di miseria e di evidenti segni di fallimento di un sistema e di una classe politica che ha condotto a questo fallimento, in ragione della dimensione di questa crisi e dell’allargamento a differenti parti o classi della popolazione, ha portato a forme di solidarietà e a comunità di azione in campi molto diversi tra loro, ma di cui non è possibile prevedere l’evoluzione.

Pratica ed organizzazione nella lotta di classe

La descrizione e l’analisi delle differenti tendenze nella lotta e nelle organizzazioni che cercano di fronteggiare il caos economico e sociale fanno emergere un insieme di particolarismi strettamente legati alle origini sociali dei loro promotori: i disoccupati ex-lavoratori con l’organizzazione e l’azione diretta dei piqueteros, le (ex) classi medie con le loro assemblee o la pratica crescente del baratto. Unici punti in comune nel dicembre 2001, malgrado le loro origini totalmente differenti, erano, da una parte, la risposta di base e diretta alle difficoltà economiche della vita quotidiana e alla lotta per la sopravvivenza, dall’altra, la rottura con tutte le organizzazioni “legali” della società capitalistica, anzi con le regole stesse di questa legalità. Al di là di queste similitudini, le divergenze potevano apparire decisive: i piqueteros, in principio disoccupati organizzati in maniera spontanea come gruppi di pressione e di azione diretta “per il pane e l’impiego” evolvono progressivamente verso le forme più radicali del recupero e dell’esproprio; le assemblee, che provenivano principalmente dalle classi medie, all’inizio gruppi di pressione per la garanzia dei salari e dell’accesso ai conti bancari, anch’esse evolvono verso l’azione diretta; il baratto si trasforma in un’organizzazione economica parallela (come del resto il lavoro nero dei piqueteros disoccupati).

La repressione brutale, nel sangue, del 19 e 20 Dicembre ha modificato la natura del rapporto con il potere. Nel momento in cui scriviamo questa strategia, che da cinque mesi continua con manifestazioni e azioni dirette, paralizza il potere politico, stretto com’è tra le condizioni drastiche del FMI, il sostegno critico delle strutture provinciali e la minaccia di una esplosione sociale che potrebbe portare ad un nuovo attacco frontale.

Per quanto statica possa apparire questa situazione, si può intravedere una possibile linea evolutiva. Se il potere non è solido (né internazionalmente né internamente) e può anche sembrare indebolito dai conflitti interni (che riflettono sicuramente i legami di certi gruppi con alcuni settori del capitalismo nazionale e/o straniero) è certo che, come risposta a queste contestazioni permanenti, potenzialmente esplosive e che minano alla base il sistema, sono state alzate delle barriere repressive:

i “recuperi” sono stati resi più difficili attraverso la protezione dei luoghi presi di mira (edifici istituzionali, banche, supermercati, negozi) che si sono trasformati in vere e proprie fortezze protette dalla polizia di Stato, o da polizie private e dai commercianti stessi che si sono armati fino ai denti. Recentemente, arresti e feriti da pallottole mostrano che il regine può, se le circostanze lo permettono, limitare gli assalti contro “l’ordine pubblico”; questo spiega perché si sia messo di nuovo l’accento sui blocchi stradali (che pure sono sempre continuati) quando i recuperi sono diventati sempre più difficili. Ma anche i rapporti di forza possono modificarsi rapidamente. Quando Duhalde “promise” ad uno dei leaders dei piqueteros un’ indennità di disoccupazione di 40 dollari mensili “44 euro”, venne lanciato un appello dall’organizzazione nazionale dei piqueteros per un “blocco permanente delle strade”. Allo stesso tempo l’azione diretta si estende attraverso gli assedi delle società petrolifere e dell’elettricità per ottenere una “tariffa sociale”. Contemporaneamente si moltiplicano nelle province le occupazioni degli edifici pubblici portate a compimento dai disoccupati e dai lavoratori senza salario;

È difficile dire se si tratti di un movimento di base che si allargherà e si approfondirà, passando per l’assunzione della responsabilità sociale dell’amministrazione diretta della sopravvivenza. Ma questo non ci deve impedire di corroborare questi fatti con altri, che sembrano isolati, ma di cui non si sa abbastanza a causa della carenza di informazione, né quale sia la loro ripercussione sul proletariato; questi fatti riguardano questa volta i luoghi stessi dello sfruttamento, le imprese.

Senza dubbio, scioperi o azioni dirette hanno avuto luogo o hanno luogo per il pagamento dei salari arretrati; ciò non è nuovo, ma questi movimenti non riguardano solo gli impiegati delle province in sovrannumero (spesso operai anziani delle industrie liquidati dopo le privatizzazioni) o, più recentemente, gli insegnanti di R’o Black.

Più significative sono le azioni nelle ferrovie, di cui sappiamo poco, se non che esse sono successive alla soppressione di 500 servizi, alla sospensione di 4000 impiegati e di piccoli scioperi dovuti alla chiusura di fabbriche.

Tre di questi ultimi scioperi sembrano servire non solo come esempio, ma assumono anche apparentemente un valore simbolico nel contesto attuale dell’Argentina:

Possiamo vedere in queste manifestazioni, che riguardano i rapporti di produzione, il segno di una sorta di fusione delle lotte nei diversi campi in un movimento capace di costituire dei comitati di base e dei gruppi politici di estrema sinistra?

L’appello alla costituzione di un “polo operaio” e alla convocazione di assemblee generali “per farla finita con le burocrazie sindacali e il governo capitalista” (sulla base di un delegato eletto ogni 20 partecipanti) può essere rappresentativo di una tale unità?

È difficile dirlo allo stadio attuale, ma il fatto che queste questioni vengano poste nella situazione che stiamo descrivendo può significare che questa unità, quale che sia il modo in cui avverrà, è ormai una necessità della lotta di classe in questo stadio. Rimane anche evidente che, da parte del potere, tutti gli sforzi verranno fatti per arginare e controllare questo movimento che tende all’unità, ed è possibile che questo appello sia uno di questi tentativi di controllo.

Il debito latino-americano, riflesso della crisi finanziaria internazionale.

Prima di affrontare la “crisi dell’Argentina”, crisi che è più del capitale mondiale che dell’Argentina stessa, dobbiamo fare un breve riassunto della situazione latino-americana (Messico compreso). È a partire dal 1982, data della “crisi messicana”, che i paesi latino-americani fortemente indebitati a livello internazionale entrano globalmente in una fase di recessione[2]. Per molti anni i governi di questa zona hanno confuso l’accumulazione di debiti con l’accumulazione di capitale.

Rapidamente questi governi (dittatoriali o democratici) si trovano di fronte al dilemma: non è più possibile accrescere il reddito disponibile attraverso l’indebitamento, le banche attendono con le armi spianate il rimborso degli interessi. Gli stati di questi paesi sono dunque costretti a procedere rapidamente a tagli della spesa pubblica, per liberare i fondi necessari al rimborso dei prestiti, secondo la formula adottata all’epoca “prestito forzato -rimborso obbligato”.

Tutti gli Stati e i governi intraprendono la via del grande salasso ai “cittadini”. Cinque anni dopo la crisi messicana, l’importo dei rimborsi dei paesi latino-americani è impressionante, nonostante una quota importante degli interessi dovuti sia stata rimborsata. La recessione del 1982-1983 e la grande svalutazione (20% in termini reali tra il 1981 e il 1985) sono stati il prezzo pagato dal proletariato. Queste misure furono accentuate da un’iperinflazione, segnatamente per l’Argentina (2000%) e per la Bolivia (30000%) nel 1985.

A seguito di questa crisi, le banche non hanno concesso più crediti ai paesi dell’America latina se non quelli necessari a garantire il flusso dei rimborsi degli interessi dovuti. La sfiducia regna, e, da allora, i mercati non credono più possibile che i paesi indebitati riescano a restituire tutti i loro debiti. Le banche cominciano a pensare che si debba abbandonare l’idea che “le nazioni non possano fallire, le banche non hanno protezioni contro le perdite”[3]. Il Brasile nel febbraio del 1987 sospende il pagamento degli interessi dovuti su 68 miliardi di prestiti privati stranieri.

A partire dal 1987, le banche cominciano a coprire i crediti incerti, pensando che tutti i paesi latino-americani sarebbero entrati in una recessione profonda e lunga, e che non sarebbe più stato possibile applicare la formula del 1982 “prestito forzato - rimborso obbligato” senza correre gravi rischi politici.

È allora che è stato messo in campo il piano Brady, che consiste nell’utilizzare le risorse del FMI e della banca mondiale e che proponeva di riscattare il loro debito con uno sconto che teneva conto delle pratiche sul mercato secondario oppure di scambiare il loro debito con nuove obbligazioni a tassi d’interesse più bassi. L’Argentina utilizzerà questo piano nel 1992, ciò non impedirà (nel 1993) il fallimento delle banche argentine - Banco Extrader, Banco Bases e Banco Multicredito - dopo la crisi del peso. In Brasile, il Banco economico di Bahia è tecnicamente fallito. Le principali banche private del Brasile hanno reso operativo un piano di 800 milioni di reaux per garantire i depositi di questa banca.

Nel 1994-1995, una nuova crisi messicana. Un’ondata di panico scuote i mercati finanziari. Questa crisi è tanto più importante, dichiara Michel Camdessus, direttore generale del FMI, perché è la “prima crisi del nuovo mondo, la crisi dei mercati finanziari globalizzati”. Il peso fu svalutato del 40% a metà dicembre 1994.

L’America latina si trova oggi nella situazione “del cappello di Balzac”; non è più possibile, senza rischio d’estensione delle sommosse, sottoporre ad ulteriori pressioni il proletariato (salariati, disoccupati e agricoltori). Le banche organizzano un mercato secondario per la liquidazione dei debiti e svendono i crediti che vantano nei confronti del terzo mondo. I topi lasciano la nave.

Nel 2001-2002, la crescita di tutti i grandi paesi latino-americani è rivista al ribasso[4]; quanto all’Argentina, viene dichiarato il “fallimento”. Ne risulta la situazione seguente: la diffidenza dei capitali privati nei confronti dell’America latina e l’aumento del loro costo costituisce un fattore di destabilizzazione finanziaria della zona, destabilizzazione già in corso in Argentina (ricontrattazione del debito pubblico) e in Venezuela (con il rischio di esportare la crisi). La crescita delle esportazioni in dollari della zona era del 22% nel 2000; è precipitato a l’1% nel 2001. Il bisogno d’indebitamento cresce di nuovo, tanto più gli investimenti diretti (IDE) rallentano e il debito corrente cresce. Il Cile e il Messico restano stabili: il valore del peso messicano è anche cresciuto. Questi due paesi contano sulla “ripresa americana e mondiale” per non precipitare nella recessione. I paesi andini e quelli dell’America centrale possono essere distinti da quelli del Mercosur [5]. I primi dipendono meno dalla finanza rispetto ai secondi, dunque più indipendenti dalla finanza mondiale; essi subiscono soprattutto gli effetti del ribasso dei prezzi delle materie prime (Perù, Colombia, Venezuela). I secondi si trovano trascinati nelle tormente dell’indebitamento: l’Argentina è in ginocchio; quanto al Brasile la sua base economica si è deteriorata a partire dall’inverno 2000-2001, e il FMI lo sostiene sempre più come la corda sostiene l’appeso.

L’Argentina e il contesto internazionale

La situazione catastrofica dell’Argentina non è un caso isolato, ma il prodotto della svalutazione finanziaria internazionale iniziata nel 1982 (con la crisi messicana), seguita nel 1985 dal crollo delle casse di risparmio americane: 500 miliardi di dollari di perdite (quasi la metà del debito del terzo mondo). Due anni dopo è la volta del crack storico del 1987 (2000 miliardi di dollari vanno in fumo). Da allora, le crisi finanziarie si sono succedute una dopo l’altra come mai nella storia del capitalismo ...

In definitiva la svalutazione del capitale-finanziario è un potente mezzo di concentrazione della ricchezza finanziaria ed un mezzo per depurare il sistema finanziario dal capitale fittizio.

È sufficiente prendere ad esempio la Citicorp, la prima holding bancaria americana. Quest’ultima decide, nel maggio 1987, di anticipare 3 miliardi di dollari sui crediti che detiene nel terzo mondo. Questa decisione mette in ginocchio le banche che non hanno la capacità finanziaria di anticipare a questi livelli i loro crediti incerti. Si trova in questa difficoltà la Bank of America o la Manufactures Hanover degli Stati-Uniti.

Tuttavia, vedremo che le svalutazioni finanziarie sono sempre più spesso l’espressione di una incapacità del capitale produttivo di realizzare plus-valore che permetterebbe di avere profitti dopo aver pagato gli interessi dovuti ai loro creditori. La crisi asiatica ha rivelato perfettamente il doppio movimento della svalutazione del capitale (capitale-circolante e capitale fisso).

Le crisi attuali, come possiamo osservare, sono principalmente crisi delle borse e monetarie ed esplodono a seguito di fenomeni speculativi “esagerati”. È necessario fare una distinzione tra l’epoca mercantile e industriale, dove le crisi si manifestano in generale come crisi da sovrapproduzione di mercato, mentre nella fase dell’egemonia finanziaria, il “fulcro” delle crisi è “ il capitale circolante e la loro sfera immediata, Banche, Borse e Finanza.” (Le Capital, ed. Moscou, t.I, p.140).

Se la crisi messicana del 1994 è rimasta nell’insieme circoscritta alla sfera finanziaria ed ha, dunque, solo sfiorato l’economia reale[6], il peso fu svalutato del 40% e l’ottava banca messicana entrò in una fase di insolvibilità tecnica. La crisi asiatica (1997-1998) di contro esce dalla sfera finanziaria e si dispiega nell’insieme dell’apparato produttivo. L’economia reale di tutta la zona asiatica è nel caos, il FMI esige lo smantellamento dei conglomerati (chaebols) della Corea del sud.

Infatti, gli Stati-Uniti e l’Unione Europea vogliono eliminare un concorrente temibile, di cui hanno saccheggiato l’industria acquisendo le loro imprese a basso costo, tanto più facilmente perché la moneta nazionale si era svalutata del 40%. Contrariamente al Messico che, dal 1995, aveva ripreso le sue esportazioni (+ 35% in volume + 30% in dollari), l’Asia continuerà a conoscere una crisi latente.

La crisi russa del 1998 non può essere separata da quella dell’URSS e dalla revisione semi pacifica degli accordi di Yalta.

La Russia contava di privatizzare rapidamente le sue imprese pubbliche, cedendole ai finanzieri internazionali, per rimborsare il proprio debito e ritrovare la propria indipendenza. La Russia contava su gli investimenti diretti dell’Occidente per uscire dal caos economico.. La privatizzazione abortita della compagnia petrolifera Rosneft provoca un tonfo della Borsa del 40%. La crisi  fin qui si era limitata alla sfera finanziaria e la falla aperta era stata chiusa dal FMI. La crisi attuale dell’Argentina è un vero e proprio laboratorio delle contraddizioni del capitalismo, che ora andremo ad analizzare in dettaglio.

Il ruolo specifico dello stato nell’indebitamento

“Se le democrazie esigono un debito pubblico sotto controllo, gli operai devono volere la bancarotta dello Stato”. (Karl Marx, 1re adresse du comité de la Ligue des communistes, 1850).

Ciò che domina nella crisi finanziaria (monetaria ed economica) dell’Argentina è il ruolo centrale avuto dallo Stato; l’indebitamento dello Stato è diventata l’arma più acuminata per portare un paese intero alla pauperizzazione e alla rovina. Come, dunque, non interrogarsi, sulla sorte del mondo intero, quando sappiamo che il capitale funziona sempre più sul debito pubblico?

Ora questo capitale fittizio - scrive Tom Thomas nell’”Egemonia del capitale finanziario e la sua critica” (ed. Albatroz) - costituisce l’elemento essenziale della massa del capitale finanziario mondiale. Lo stock dell’attivo finanziario mondiale è in effetti costituito dal 30% di titoli pubblici (e per un altro 30% di titoli e monete). Ciò mostra l’importanza dello Stato nel gonfiamento della remunerazione del capitale fittizio mondiale.

Lo stato garantisce titoli sicuri, investimenti fluidi, e rendimenti regolari. Così, “i mercati dei titoli di Stato sono diventati il settore più attivo del mercato finanziario internazionale... le operazioni sui titoli pubblici superano di gran lunga quelle su tutti gli altri mercati finanziari, ad eccezione dei mercati di cambio” (ma il mercato dei cambi è esso stesso largamente alimentato attraverso i deficit pubblici). Secondo il FMI, i mercati dei titoli obbligazionari pubblici sono diventati la “spina dorsale” dei mercati obbligazionari internazionali.

L’Argentina o, più esattamente, il suo popolo, sopravvive da più di tre anni nella recessione; la politica dissennata dell’indebitamento dello Stato ha portato il paese al fallimento. Questo vuol dire che l’Argentina non soltanto è incapace di rimborsare il suo debito (circa 147 milioni di dollari alla fine del 2000), capitale diventato fittizio poiché bruciato in maniera improduttiva, ma il popolo argentino è costretto a pagare gli interessi del debito (11 milioni di dollari), cioè il 22% della spesa pubblica.

Tra il marzo 1976, inizio della dittatura di Videla, e il 2001, il debito del popolo argentino si è moltiplicato di venti volte (è passato da 8000 milioni di dollari a 160000 milioni). Non stupisce che la maggioranza del popolo argentino viva peggio di 30 anni fa. Il popolo ha rimborsato, a partire dal 1976, 200000 milioni di dollari per un indebitamento che “è stato divorato dalla spesa dello Stato. Non esiste più...perché non è mai stato destinato ad essere speso come capitale in quanto tale” (Karl Marx)[7].

Vedremo più avanti come questo capitale sia stato speso; per il momento, cercheremo di esaminare l’evoluzione di questo paese verso la sua crisi generale. La dittatura argentina non sarebbe stata in grado di mantenere il suo regime di terrore tra il 1976 e il 1980, senza il sostegno attivo degli Stati-Uniti; la dittatura si è dunque posta sotto l’ala protettrice dello zio Sam, e lo zio Sam vedeva con occhio benevolo l’indebitamento argentino come il mezzo più sicuro per controllare questo paese, che durante gli anni del peronismo aveva conosciuto un certo benessere economico.

La dittatura di Videla, che ha sulle mani il sangue di 30000 morti, non aveva scelta; doveva collaborare con gli Stati-Uniti o scomparire. La collaborazione doveva portare progressivamente la dittatura a rinunciare completamente all’indipendenza del paese. Nell’aprile del 1991, la legge di convertibilità, che stabiliva che un peso valeva un dollaro, aveva la conseguenza per il governo di non poter più emettere moneta. L’Argentina era diventata, per finanziarsi, totalmente dipendente dai capitali stranieri, e la dittatura, una borghesia mercantile, un agente diretto del capitale finanziario internazionale. Non rappresentava più i “cittadini argentini” ma gli interessi della classe sociale che la sosteneva, come ora vedremo. La rovina del paese determinerà il suo arricchimento così come quello del capitale finanziario.

Il verdetto del 13 luglio 2000

Il governo civile, che è succeduto alla dittatura, è stato costretto a svolgere un’inchiesta sulla questione dell’indebitamento. Il verdetto, reso pubblico il 13 luglio 2000, non ha portato ad alcuna condanna (per prescrizione). L’inchiesta ha però rivelato una parte dell’impresa distruttrice provocata dalla politica dell’indebitamento. Si è così appreso :

Tra il 1978 e il 1981, più di 38000 milioni di dollari avrebbero lasciato il paese in modo ingiustificato. Era, ad esempio, permesso ad ogni residente argentino acquistare quotidianamente 20000 dollari che potevano essere successivamente esportati all’estero. In breve, lo Stato si indebitava tanto quanto i capitalisti disinvestivano allegramente in Argentina. “Approssimativamente, il 90% delle risorse provenienti dall’esterno attraverso l’indebitamento delle imprese (private e pubbliche) e del governo venivano trasferite all’estero grazie a operazioni finanziarie speculative”. Importanti somme prestate dalle banche private degli Stati-Uniti e dell’Europa occidentale venivano successivamente depositate in quelle stesse banche. Imprese pubbliche come YPF sono state messe sistematicamente in difficoltà (vedi nota 7).

Il regime di transizione “democratico” che è succeduto alla dittatura ha trasformato il debito delle imprese private in debito pubblico in modo perfettamente illegale: questo significa che sarebbe stato possibile modificare questa decisione. Tra le imprese private, il cui debito fu assunto dallo Stato, vi sono anche le banche; senza commentare, 26 delle imprese di cui lo stato si era assunto il debito erano finanziarie. Tra esse figuravano numerose banche straniere che si erano stabilite in Argentina: City Bank, First National Bank of Boston, Deutsch Bank, Chase Manhattan Bank, Bank of America... Un chiaro esempio di collusione tra Banche private del Nord e dittatura argentina: tra luglio e novembre 1976, la Chase Manhattan Bank ha ricevuto mensilmente depositi per 22 milioni di dollari (che sono aumentati in seguito) e li ha remunerati al 5,5% circa; in questo periodo, con la stessa cadenza, la Banca Centrale argentina prendeva a prestito 30 milioni di dollari dalla stessa banca degli Stati-Uniti, la Chase Manhattan Bank, ad un tasso del 8,75%.

Le conclusioni della sentenza sono schiaccianti per la dittatura, per il regime che gli è succeduto, per il FMI, per i creditori privati... La sentenza depositata in tribunale enuncia chiaramente che “il debito estero della nazione (...) aumentò considerevolmente a partire dal 1976 grazie ad una politica economica semplice ed aggressiva che mise il paese in ginocchio e di cui beneficiarono le imprese e il commercio privato, nazionale e straniero a detrimento delle società e delle imprese di Stato; frutto di una politica orientata all’impoverimento giorno dopo giorno, che si ripercuoterà sul valore delle imprese al momento delle privatizzazioni”. Il giudizio doveva servire per un’azione risoluta volta a non pagare il debito estero pubblico argentino e per la sua cancellazione: questo debito è odioso e illegittimo. I creditori non hanno alcun diritto di esigerne la restituzione. I loro crediti sono nulli.

E come i nuovi debiti acquisiti a partire dal 1982-1983 sono serviti essenzialmente a rimborsare vecchi crediti, anche quest’ultimi sono in larga misura illegittimi. L’Argentina può legittimamente appoggiarsi sul diritto internazionale per fondare la decisione di non pagare il proprio debito estero.

Parecchi argomenti giuridici possono essere invocati, tra i quali la nozione di “debito odioso” (il debito argentino è stato negoziato da un regime dispotico, colpevole di crimini contro l’umanità, i creditori non potevano non saperlo), la forza maggiore (come gli altri paesi indebitati, l’Argentina è stata posta di fronte all’aumento dei tassi di interesse disposto unilateralmente dagli Stati-Uniti a partire dal 1979) e lo stato di necessità (lo stato delle finanze argentine non consentiva di proseguire nel rimborso del debito poichè questa condizione impediva di adempiere alle proprie obbligazioni in rispetto dei patti internazionali e riguardo ai propri cittadini in termini di rispetto di diritti economici e sociali). Dal giudizio del 13 Luglio 2000, gli eventi a ripetizione ci rivelano tutta la gravità e tutta la corruzione del sistema del debito pubblico.

L’indebitamento dello stato durante la dittatura militare

È durante il periodo della dittatura militare e violenta del generale Videla (1976-1981) che lo Stato argentino e il FMI mettono in campo una politica d’indebitamento sistematico. Questo al fine di aumentare in maniera fittizia le sue “riserve in divisa straniera” come era successo nel diciannovesimo secolo per l’impero ottomano e l’Egitto (vedi il testo di Rosa Luxemburg sulla questione, in “L’accumulazione del capitale”). Quando l’accumulazione di riserve in divise  sarebbe dovuto essere il prodotto dello scambio di merci sul mercato mondiale (realizzazione di plus-valore), l’accumulazione del debito era presentata come accumulazione di capitale. Queste riserve non erano né amministrate né controllate dalla Banca centrale, il cui governatore era Domingo Cavallo[8].

Questa politica d’indebitamento, politica naturale del capitale finanziario, è sempre presentata dalle autorità come un mezzo per sostenere un forte incremento delle importazioni. Nella realtà, e tutta la storia dell’indebitamento internazionale lo attesta, il ruolo dei prestiti internazionali non soltanto permette al vecchio capitale (lavoro diventato capitale) di esprimere la sua capacità di sfruttamento e di accumulazione, ma anche di provocare la rovina delle economie naturali per sostituirle con economie di mercato. La penetrazione di capitale prestato porta sempre allo stesso risultato “accumulazione della ricchezza da una parte e povertà dall’altra”. Tale sarà il piano economico[9] che il ministro dell’economia, Martinez de Hoz, e il segretario di Stato al coordinamento e alla programmazione economica, Guillermo Walter Klein, metteranno in campo, con le raccomandazioni del FMI, a partire dal 2 aprile 1976. Un lungo processo di distruzione dell’apparato produttivo del paese[10] si è ormai messo in moto. Si apprenderà successivamente che la maggioranza dei prestiti (tanto in Argentina che in Venezuela) non sarebbe servirà ad altro che alla fuga di capitali. La maggior parte dei prestiti concessi alla dittatura argentina, proveniva dalle banche private del Nord[11]. Questa politica d’indebitamento permetterà alla dittatura di ottenere una certa riconoscenza da migliaia di finanzieri internazionali, sia per la  capacità di mantenere l’ordine che di appropriarsi di plus-valore. Nel 1978 la coppa del mondo di calcio viene organizzata in Argentina.

Il dopo-dittatura e l’impunità

Il regime post-dittatoriale non epurerà né le forze armate né la polizia. Al contrario, i militari impegnati nella repressione sono rimasti in servizio ed hanno ottenuto l’impunità grazie alle leggi del “point finale” e dell’”obbedienza dovuta” entrate in vigore nel 1986-1987.

“È scoppiato uno scandalo perché uno di loro, il capitano Astiz, ha rotto per la prima volta la legge del silenzio osservata dai militari: nel 1982, un amico mi ha chiesto se vi sono stati molti desaparecidos. Io gli ho risposto: certamente, ce ne sono stati 6500, anzi di più, ma non più di 10000. Sono stati tutti eliminati”(Le soir, 16 gennaio 1998). La maggior parte degli alti funzionari dell’apparato di Stato sono rimasti al loro posto, certi furono addirittura promossi. Il governo presieduto da Alfonsin (1983-1989) prende atto che la Banca centrale argentina dichiara di non avere alcun registro del debito estero pubblico e prosegue nella politica dei suoi predecessori, con una particolarità: è lui a decidere che lo Stato deve assumersi l’insieme del debito tanto privato che pubblico. Confermando così la celebre riflessione di Marx: “la sola parte della sedicente ricchezza nazionale che entra realmente a far parte della proprietà collettiva dei popoli moderni, è il loro debito pubblico” (Karl Marx, Le Capital, t.1, ed.de Moscou, p. 721).

La marcia forzata delle privatizzazioni

Il governo Menem (1989-1999), che è seguito a quello di Alfonsin, ha preso a pretesto il formidabile indebitamento delle imprese pubbliche per giustificare agli occhi dell’opinione pubblica la sua politica di privatizzazioni realizzata tra il 1990 e il 1992. Tuttavia, questo indebitamento era il risultato della politica d’indebitamento imposta dal governo. Lo Stato, una volta di più, interveniva per sostenere il capitale finanziario:

“è così, per esempio, che la principale impresa pubblica argentina, l’impresa petrolifera YPF (Yacimientos Petroliferos Fiscales), è stata costretta ad indebitarsi all’estero quando disponeva di risorse sufficienti per sostenere il proprio sviluppo. Al momento del colpo di Stato militare del 24 marzo 1976, il debito estero dell’YPF si aggirava a circa 372 milioni di dollari. Sette anni più tardi, alla fine della dittatura, questo debito era di 6000 milioni di dollari. Il debito si è moltiplicato di 16 volte in sette anni. Quasi nessun prestito straniero è arrivato nelle casse delle imprese, bensì è finito nelle mani dei dittatori. Sotto la dittatura, la produttività dei lavoratori dell’YPF è aumentata dell’80%. Il personale complessivo è passato da 47000 a 34000 unità. La dittatura, per aumentare le entrate nelle sue casse, ha ridotto alla metà la parte di denaro incassata dall’YPF per la vendita di combustibile al pubblico. Di più, YPF era obbligata a raffinare una parte del petrolio che estraeva per le multinazionali private Shell e Esso, quando quest’ultime avrebbero potuto, vista la loro buona situazione finanziaria all’inizio della dittatura, dotarsi di una raffineria capace di soddisfare i loro bisogni (completando le loro raffinerie di La Plata e di Lujin de Cuyo). Nel giugno 1982, tutto l’utile delle società era rappresentato dall’indebitamento (O Globo, 8 aprile 1997, Brasile).

Oltre all’YPF (venduta alla multinazionale petrolifera spagnola Repsol nel 1999), la compagnia aerea Aerolineas Argentinas fu venduta alla spagnola Iberia, che pagò in contanti 130 milioni di dollari e il resto come annullamento dei debiti. I Boing 707 che facevano parte della flotta sono stati ceduti per la cifra simbolica di 1 dollaro (1,54 dollari per l’esattezza!). L’Iberia per comprare la compagnia ha preso a prestito denaro, che ha trasferito immediatamente sulle spalle della nuova società aerolineas Argentinas, la quale si è ritrovata di colpo indebitata come prima. Nel 2001, Aerolineas Argentinas, proprietà dell’Iberia, era sull’orlo del fallimento per respondabilità dei suoi proprietari. La privatizzazione dell’Aerolineas è esemplare. In generale, le imprese privatizzate sono state cedute libere dai loro debiti, essendo questi ultimi rilevati dallo Stato.

L’assunzione del debito privato da parte dello stato e l’indebitamento forzato delle imprese pubbliche.

Nel 2001, il governo di centro sinistra de la Roea (1999-2001) impone, come chiede il FMI, un’austerità durissima alla maggioranza della popolazione. Il dono supremo (assunzione del debito pubblico e privato) di Alfonsin ai capitalisti argentini (e stranieri) non viene messo in discussione[12]. Da allora, il debito dello Stato si è appesantito del fardello del debito delle imprese private, poiché lo Stato deve assumersi le loro obbligazioni nei confronti dei creditori. Ed ancora, i capitalisti argentini hanno proseguito nella politica dell’esportazione dei capitali come se si trattasse di uno sport nazionale. Al punto che se si dovesse creare una graduatoria latino-americano dell’esportazione di capitali, la classe capitalista argentina potrebbe pretendere il primato di questa classifica, pur lottando con contendenti piuttosto agguerriti, come brasiliani, messicani e venezuelani.

Di contro, i debiti delle imprese pubbliche, che furono anch’essi aumentati notevolmente per decisione della dittatura, non furono annullati, salvo quando si trattava di privatizzare quelle stesse imprese. I governi che si sono succeduti dopo la caduta della dittatura hanno preso a pretesto l’indebitamento delle imprese pubbliche per privatizzarle, avendo la premura di trasferire i debiti allo Stato prima di vendere.

“Menem ha conferito alla banca americana Merril Lynch l’expertise per valutare il prezzo dell’YPF. Merril Lynch ha deliberatamente ridotto del 30% le riserve petrolifere disponibili al fine di sottostimare il valore dell’YPF prima della sua messa in vendita.

Una volta realizzata la privatizzazione, la parte delle riserve occultate riappariva nelle scritture contabili della società. Gli operatori finanziari, che avevano acquistato a prezzi molto bassi le azioni delle imprese, potevano realizzare dei guadagni formidabili grazie all’aumento delle quotazioni in borsa delle azioni YPF. Questa operazione permette anche di dimostrare ideologicamente la superiorità del privato sul pubblico.

Nota bene: la stessa banca americana Merril Lynch è stata incaricata dal predidente brasiliano Fernando Enrique Cardoso di procedere nel 1997 alla valutazione della principale società pubblica brasiliana, Vale do Rio Doce (impresa di estrazione mineraria). Merril Lynch è stata accusata all’epoca da numerosi parlamentari brasiliani di avere sottostimato del 75% le riserve minerali dell’impresa (O Globo, 8 aprile 1997, Brasile).

Il futuro di un’altra argentina

Ciò che attraversa l’Argentina, può essere il segno di una crisi generale del sistema finanziario internazionale. Di fatto la recessione si è mondializzata: interi paesi possono fallire da un momento all’altro. È il caso della Turchia, che sta negoziando con il FMI un prestito di 10 miliardi di dollari, del Libano e del Brasile. La Thailandia e le Filippine sono al limite della recessione. I fondi pensione Calpers stanno ritirando i loro investimenti dalla Thailandia, dalle Filippine e dalla Malesia. I rischi si aggravano, ed abbiamo visto come dal 1987 la banca americana Citicorp prevedeva che gli Stati non sarebbero più riusciti a garantire i crediti delle banche. Il FMI stesso fu rimesso in questione e, alla fine del 2001, si diceva che “la creazione di un diritto fallimentare applicabile agli Stati nel caso di incapacità di rimborsare i loro debiti appariva più che mai di attualità. L’idea non è nuova. Essa era molto diffusa durante la crisi asiatica, prima di ricadere nell’oblio. Che sia risorta con le difficoltà argentine non sorprende.  La grande novità è che l’idea è ormai sostenuta dal FMI”.(La Tribune, 24 dicembre 2001).

Non è la prima volta che dei paesi falliscono. Rosa Luxemburg, nel suo libro L’Accumulazione del capitale, parla diffusamente delle conseguenze dei prestiti internazionali e mostra come si dispieghi il capitale nel mondo:

“Tra il 1870 e il 1875 – scrive - i prestiti furono contrattati a Londra per un valore di 260 milioni di sterline, ciò provocò immediatamente una crescita rapida delle esportazioni delle merci inglesi nei paesi d’oltre-manica. Benché questi paesi falliscano periodicamente, i capitali continuano ad affluirvi in massa. Alla fine del 1870, certi paesi avevano parzialmente o completamente sospeso il pagamento degli interessi: la Turchia, L’Egitto, la Grecia, la Bolivia, il Costarica, l’Equador, l’Honduras, il Messico, il Paraguay, Santo Domingo, il Perù, l’Uruguay, il Venezuela. Tuttavia, dalla fine del 1880, la febbre dei prestiti agli Stati d’oltremare riprese...” (L’Accumulation du capital, ed. Maspero, p. 95 vedi anche pag.72).

Non possiamo prevedere l’evoluzione della crisi economica e sociale argentina, che dipenderà da numerosi fattori. La spinta sociale conoscerà un’altra fase e si libererà del nazionalismo? Il governo Duhalde, per calmare le piazze, offre un reddito minimo garantito; ma cerca di costituire alla bene meglio un “fronte nazionale”. Duhalde procede attraverso la riabilitazione dei veterani delle Malouines e mentre tiene testa formalmente al FMI, già si appresta a stipulare un accordo con lo stesso FMI. Questo accordo prevede di attaccare il deficit delle province (350000 impieghi sono già nel mirino). Il FMI esige il ritiro dei buoni che le province emettono senza garanzia monetaria per pagare i funzionari,ed il ministro dell’economia si è già impegnato ad eliminarli in un anno.

Storia politica

“Un paese trasformato in un’immensa zona franca finanziaria”: questo era il titolo di un articolo di Le Monde diplomatique del luglio 1987 dedicato all’Argentina, che tratteggiava succintamente una tavola storica, economica e politica, a partire dalle lotte per l’unificazione del 1810-1853 fino agli anni trenta, periodo in cui, sotto l’influenza dominante del capitale britannico, si cercò di dotare il paese di infrastrutture orientate verso un semi-colonialismo fondato sulla grande proprietà fondiaria, facendo del paese uno dei maggiori produttori mondiali di prodotti agricoli a basso prezzo. Si sviluppò, cioè, quello che un altro articolo dello stesso giornale chiama “una cultura della rendita”, che dominerà effettivamente la vita economica e sociale fino ad oggi[13].

È uno sviluppo industriale parallelo che, con la crisi del 1930 (che ostacola lo sbocco dei prodotti agricoli e le fonti dei prodotti importati), i rischi economici e i pericoli di guerra nel mondo, conosce un grande sforzo dal 1930 al 1970 per realizzare un’industrializzazione di sostituzione. Con una successiva integrazione verticale e lo sviluppo dell’industria pesante, l’Argentina comincia a vivere una dinamica di crescita stimolata dalla produzione industriale. Questa situazione modifica profondamente i rapporti di classe all’interno dell’Argentina e le sue relazioni con l’insieme del capitalismo mondiale, situazione che d’altra parte non caratterizza solo l’Argentina.

Pensiamo che sia utile ricordare la storia politica più recente dell’Argentina per cercare di comprendere ciò che è successo negli ultimi mesi. Per fare questo, dobbiamo, innanzitutto, tentare di capire il fenomeno del peronismo, la cui comprensione esatta può darci la misura della realtà politica argentina. In effetti, il peronismo ha impregnato la cultura e le strutture sociali del paese a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, toccando tutti i campi della vita sociale e politica.

Juan Domingo Peron giunge al potere attraverso libere elezioni nel 1946. Tra il 1943 e il 1945 è stato segretario di Stato al lavoro, dove ha fatto adottare misure favorevoli, soprattutto, alla classe operaia recentemente formatasi, composta da proletari che hanno abbandonato le campagne (tra il 1943 e il 1952, la capitale Buenos Aires ha assorbito almeno un milione di immigrati). Sono innanzitutto questi uomini e donne che porteranno Peron al potere. Bisogna comprendere l’ascesa di Peron nel quadro dell’industrializzazione del paese, che aveva visto il suo esordio negli anni trenta e che conobbe il suo apogeo tra il 1940 e il 1950. Se gli immigrati costituiscono la base del potere, il sostegno maggiore fu quello dei loro padroni, che, con il pretesto del patriottismo esaltato dal programma peronista, vedevano nella politica dello Stato la protezione delle loro attività. Ciò dimostra che la struttura sociale ed economica del paese è cambiata: si è passati da una fase pre-capitalistica ad una vera e propria industrializzazione. Questo passaggio è avvenuto già da qualche decennio, ma, per la sua prima fase, è preferibile parlare di una riconversione produttiva, poiché gli industriali utilizzavano ancora i profitti dell’agricoltura per reinvestirli nell’industria. Con Peron al potere, gli industriali intervengono indipendentemente, per la prima volta nella storia, nell’esercizio del potere e contro il vecchio ordine dei proprietari fondiari che avevano sempre guidato l’Argentina.

Questo deve portarci a considerare meglio l’ideologia di Peron. Contrariamente a ciò che si dice frequentemente, il peronismo non ha niente di reazionario se non una certa fraseologia fascista.

Per il resto, è un’ideologia che accompagna più potentemente la modernizzazione industriale del paese. È per questo che diciamo che il peronismo rappresenta la prima reazione importante al potere della classe dei proprietari terrieri[14].

Dal punto di vista della “sovrastruttura”, cioè dal punto di vista delle idee, si tratta di capire il ruolo che Peron ha giocato nel nazionalismo, come ideologia che subordina il discorso di classe alla Nazione e allo Stato “paternalista”.

Lo sforzo per l’integrazione delle classi popolari nei meccanismi statali è passata attraverso questo aspetto “simbolico”[15]. Parliamo proprio di un aspetto simbolico, poiché è evidente che Peron si è sempre guardato bene dall’opporsi realmente agli investimenti stranieri, il nazionalismo è stato più una copertura ideologica che un fatto reale. Se passiamo ora al piano concreto dei rapporti di classe, possiamo osservare il metodo “scientifico” con il quale Peron ha costruito questa alleanza con gli operai. Ha concesso diritti sociali, ha dato ai proletari argentini una “dignità” che non avevano mai avuto, soprattutto di fronte al potere, istituendo con loro un rapporto diretto. Ha aumentato notevolmente il mercato interno e il consumo di massa. Tutte queste iniziative sono state accompagnate da un vero e proprio inquadramento “politico”, con il quale tutte le relazioni tra gli operai e lo Stato passava attraverso interessi corporativi. Il sindacato diventava il custode ufficiale di questo meccanismo.

Lo sforzo dall’alto che faceva Peron si realizzava dunque grazie al lavoro dal basso che facevano i sindacati: il fine era l’integrazione completa della classe operaia nell’apparato dello Stato. Questo progetto incontrava le difficoltà maggiori proprio negli interessi capitalistici che lo appoggiavano. Il capitalismo industriale argentino era troppo debole per emanciparsi completamente dall’aristocrazia terriera. Quest’ultima doveva soprattutto risorgere per far sentire la sua forza ancora viva: il rovesciamento violento di Peron nel 1955 si spiega così facilmente[16].

A partire da quel momento, egli comprenderà che non si poteva prescindere da questa forza per governare il paese: quando ritornerà al potere, nel 1973-1974, non potrà ripetere ciò che aveva realizzato negli anni quaranta. Innanzitutto perché non c’era più un capitalismo specificamente nazionale, né agricolo né industriale: il capitalismo argentino cominciava in questi anni ad essere sostituito da quello multinazionale. I “mangeurs du populaire”[17] si sono mondializzati. È il momento in cui gli argentini conoscono l’internazionalizzazione della loro schiavitù. La sequenza degli eventi storici fino ad oggi conferma il ruolo preponderante assunto dal capitale internazionale nell’economia argentina. Già la dittatura militare, che aveva rovesciato il potere peronista, teneva a precisare che il suo obiettivo, dietro il massacro degli operai e degli altri oppositori, era soprattutto quello “di promuovere lo sviluppo economico, offrendo all’iniziativa e ai capitali privati, nazionali e stranieri, tutte le agevolazioni per poter sfruttare le ricchezze nazionali”. Il ritorno alla democrazia non cambierà in niente questa dipendenza dell’argentina dal capitale internazionale. In questo senso, il caso più emblematico diviene il nuovo peronismo incarnato da Carlos Menem, che si appoggerà chiaramente sulla finanza internazionale avanzando un programma tutto rivolto alle privatizzazioni. La distanza dal peronismo tradizionale è confermata anche dall’abbandono della politica di concertazione sociale: Menem non fonderà il suo potere sui sindacati come rappresentanti di interessi corporativi. Questi ultimi si realizzeranno attraverso l’indebolimento del potere esercitato sui lavoratori da parte dei sindacati. In effetti, l’alleanza con il potere, che ha contraddistinto il sindacalismo argentino (come il sindacalismo tout court, dovunque nel mondo) ha favorito anche la nascita di forme autonome di lotta (come quelle attuali) che sono diventate così forti che hanno screditato completamente il ruolo delle diverse “centrali” sindacali.

In effetti, il peronismo ha conosciuto al suo inizio un’altra grande contraddizione, che sarebbe dovuta esplodere prima o poi. Questa contraddizione riguarda proprio il ruolo giocato dal sindacato. Abbiamo cercato di dimostrare che nella storia recente dell’Argentina ci sono sempre state due tendenze di “mangeurs du populaire”: la prima, rappresentata dal peronismo, che tentava l’integrazione del proletariato, la seconda, rappresentata dalle diverse dittature militari, che intervenivano per reprimere brutalmente la classe operaia quando quest’ultima diventava troppo indipendente. Il fatto che tutti i tentativi di integrazione della classe operaia furono sempre seguiti da episodi di repressione violenta deve farci comprendere che l’integrazione del proletariato non è mai stata facile. Nonostante si sia costruito un enorme apparato d’integrazione (sindacati, partiti, etc.), la classe operaia restava in ultima istanza autonoma. L’industrializzazione, sulla quale Peron si era appoggiato, ha fatto in modo che ci fossero dei sindacati “asserviti”, ma ha anche prodotto lo sviluppo “autonomo” di una cultura e di una pratica operaia che ha espresso grandi forme di resistenza (in virtù di un processo sociale autonomo).

D’altronde questo sviluppo aveva delle importanti radici storiche in Argentina. Un breve cenno a queste radici può essere utile. L’Argentina si distingue dagli altri paesi latino-americani, poiché da più di un secolo conosce una consistente presenza di classe. È a partire dal momento in cui German Ave Lallemant fonda il giornale “El Obrero”, nel 1890, che la sinistra argentina ha espresso tutte le tendenze del movimento operaio (anarchici, leninisti, internazionalisti, social-democratici). Il benessere economico della prima metà del secolo ha fatto dell’Argentina il rifugio di molti emigrati politici europei che vi hanno poi continuato la loro attività politica[18], costruendo le basi di un vero e proprio movimento operaio. Peron ha utilizzato gli immigrati “interni” (la nuova classe operaia “autoctona” che proveniva dalle campagne) contro questo movimento “storico”. Il suo fine era quello di addomesticare il movimento attraverso il proletariato più debole, quello senza “camicia” (i descamisados). Tuttavia questo gioco non poteva durare a lungo: la causa era il processo di classe autonomo, era chiaro che una nuova conflittualità avrebbe dovuto manifestarsi. O, visto che non poteva esprimersi attraverso i sindacati di regime, ha trovato altre forme di espressione, delle forme totalmente autonome. Ciò che osserviamo oggi, in particolare quello che abbiamo visto durante le giornate di dicembre nel 2001, non è che il risultato della lunga storia della resistenza della classe operaia argentina di fronte allo sfruttamento capitalistico.

Oggi si parla di piqueteros, di assemblee de barrios (quartieri), di vecinos (vicini) che pongono la questione di una resistenza radicale al potere. In realtà queste strutture autonome di classe accompagnano da molto tempo il movimento sociale argentino, e precisamente a partire dalle società di fomento. Contro un potere così distante (specialmente nelle banlieues) e contro l’opposizione di regime rappresentata dai sindacati e dai partiti, i proletari hanno dovuto darsi delle forme autonome di organizzazione. Queste forme, come queste diverse assemblee, sono nate sulla base di una semplice difesa degli interessi vitali dei proletari. Lo Stato non era nemmeno capace di rispondere ai bisogni più elementari della vita quotidiana, per questo i “voisins” si sono auto-organizzati per farvi fronte. Ma questi fenomeni si sono estesi via via a vere e proprie forme di socializzazione. Da “privati” sono dunque diventati “pubblici”.

Anche il movimento delle Madres de plaza de Mayo è sorto sulla base di questa dinamica. Le madri si sono mobilitate a causa di un dramma personale (la scomparsa dei loro bambini), ma hanno fatto diventare questo problema un affare pubblico. Infatti, hanno interrogato direttamente i funzionari, hanno messo in questione l’ordine esistente delle cose ed hanno proposto anche la trasformazione delle relazioni sociali e politiche. Il carattere politico della loro mobilitazione è sottolineato anche dai luoghi scelti per le loro manifestazioni: un luogo “pubblico” per eccellenza, la sede del governo argentino, plaza de Mayo. Non è un caso se hanno giocato un ruolo di primo piano negli eventi più recenti.

Si può dunque parlare di una vera e propria tendenza originale del movimento sociale argentino. Questa tendenza ha avuto la luce grazie alle condizioni particolari dell’evoluzione politica e sociale del paese. Si può definire questa tendenza come una forma di lotta di classe che è più sociale che politica. Essa non fa nient’altro che portare sulla scena pubblica dei problemi materiali, di sopravvivenza, che erano prima risolti nella sfera familiare o dei vicini. È una lotta di classe “classica”, cioè a dire “immediata”. È per questa ragione che molti osservatori sono portati a condannare le lotte argentine per il loro carattere “limitato”, “riformista” e anche “reazionario”. Conosciamo il ritornello! Noi non lo giudichiamo, ma ci limitiamo ad osservare che questo movimento, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, è quanto meno capace di esprimere nuove forme di azione e nuove pratiche collettive.

La questione è sapere se sarà capace di trasformare queste pratiche collettive in un potere “costituente”, cioè se saprà creare una nuova società. Per ora, sembra molto lontano da questa prospettiva. Non vediamo forme concrete di contro-potere, queste restano sempre molto confuse e non implicano mai tutta la classe. Ma è certo che si tratta di una tappa non trascurabile nella storia del movimento proletario argentino. Anche se non raggiunge il livello “rivoluzionario”, rappresenta comunque un evento molto importante nella memoria di classe. Ecco perché i capitalisti argentini hanno avuto veramente paura. Sapevano bene che non avrebbero potuto recuperare il movimento dei cacerolazo attraverso i soliti strumenti (sindacati e partiti). Così, è chiaro che il livello della lotta di classe ha già superato il limite abituale della conflittualità ordinaria.

Una volta compreso questo, gli uomini politici argentini hanno subito pensato (da buoni democratici) all’altra faccia della medaglia, cioè alla repressione. Hanno innanzitutto insanguinato le strade argentine per intimorire i manifestanti, e in seguito hanno lasciato intendere che una repressione ancora più violenta poteva essere messa in campo. Una polizia di provincia, creata per combattere la delinquenza, già infuria nei quartieri seminando paura e perpetrando delitti. È definita dagli argentini come la “polizia maledetta”, perché se la prende spesso con le persone, soprattutto con i militanti. Essa costituisce la forza d’urto contro il movimento quando sarà giudicato opportuno creare un vero regime dittatoriale. Ciò si verificherà quando la questione proletaria comincerà a diventare seria.

Per ora, l’eventualità di un colpo di Stato militare non sembra del tutto scartata. Si brandisce ancora una volta lo spettro della reazione contro la classe operaia argentina: quando l’integrazione non funziona più, c’è il manganello. I “mangeurs du populaire”, nazionali o internazionali, sono sempre gli stessi.

Allegati
I partiti e i sindacati argentini

È difficile sbrogliare la matassa di quelli che possiamo chiamare partiti, ma che sono piuttosto dei clans che si contendono i favori del potere. Praticamente tutti si richiamano all’eredità del peronismo, pur in assenza di una qualsiasi relazione con la dottrina peronista. Non si tratta che di un argomento elettorale che si fonda spesso su un clientelismo provinciale, dato che i “leaders” sono per la maggior parte dei governatori di provincia corrotti e onnipotenti. Le due correnti che, al momento degli eventi di dicembre, si contendono il potere sono da una parte i “giustizialisti”, il partito peronista di Carlos Menem e di altri ritornati in auge, e dall’altra l’ Alleanza, una coalizione tra l’Unione civica radicale (UCR, il partito radicale di Ferdinand de la Ria) e il Fronte per un paese solidale (Frepaso), una coalizione di dissidenti peronisti.

I gruppi di estrema sinistra sono così tanti come altrove lo sono le correnti trotskiste o maoiste; gli anarchici, dopo il lontano ormai periodo di gloria della Federazione operaia regionale argentina (Fora) anarchico-sindacalista, non può più considerarsi una forza politica o sindacale. Una organizzazione anarchica, l’Organizzazione socialista libertaria (OSL) può scrivere: “non abbiamo forme d’azione, né di rottura in caso di insurrezione auto-organizzata. Ciò mette in evidenza che la sinistra in generale non è stata considerata un’ interlocutrice valida dal “popolo” insorto... “. Secondo questo stesso articolo, i manifestanti gli avrebbero “tolto la parola”. Non si potrebbe esprimere meglio il fossato che si è creato tra i “rivoluzionari organizzati” intorno alla loro ideologia e il movimento di base che si costruisce a partire dalle situazioni concrete dei suoi partecipanti per risolvere i problemi della loro vita in queste condizioni.

In gennaio, un gruppo, Democrazia operaia, lancia un appello per un Congresso nazionale operaio; l’appello era indirizzato alle “organizzazioni rivoluzionarie” PO (Partiti operai”, alla Sinistra unita, PTS (Partito dei lavoratori per il socialismo), MAS (Movimento per il socialismo), alla FOS, Convergenza socialista, per “coordinare tutti i settori in lotta” e si rivolgeva alle altre organizzazioni affinché si unissero a loro, compresi i poliziotti; come se il movimento non si auto-organizzasse più, senza dubbio non come avrebbero desiderato. Diversamente da questi gruppi influenzati dal trotskismo e dal leninismo, il PCR maoista guida la Corriente clasista combativa (CCC) attiva nel movimento dei piqueteros.

I tre principali sindacati argentini scaturiti tutti dal peronismo o che si richiamano più o meno ad esso:

In un certo senso, l’Argentina operaia pratica una “cultura dello sciopero”: lo testimonia la frequenza degli scioperi generali, spesso decisi da un giorno all’altro, mobilitazioni molto seguite ma altrettanto poco efficaci. Nell’ultimo periodo, hanno ritrovato  una nuova efficacia attraverso i piqueteros. La crisi attuale ha largamente ridotto la loro influenza. Un’assenza degna di nota:

nessun sindacato, nemmeno i più populisti, ha partecipato agli eventi del 19 e 20 dicembre, salvo per proclamare uno sciopero di un giorno contro lo Stato d’assedio. Essi hanno poi tentato con tutti i mezzi di impedire l’unificazione del movimento dei piqueteros e delle assemblee; proprio come nel gioco politico tra le differenti fazioni di ciò che rimane del peronismo, la loro attività all’interno del movimento attuale è poco chiara, tra ostilità e recupero, tentano di indirizzare il movimento verso obbiettivi legali, in ogni caso verso obbiettivi molto interessati.

Qualche cifra sull’Argentina

(Le cifre sono quelle del 1996, cioè a dire prima della ripresa effimera che ha preceduto la caduta libera attuale per la quale nessun dato può rappresentare efficacemente la realtà. Gli elementi di comparazione sono dati in rapporto alla Francia dello stesso periodo).

Argentina

Francia

popolazione

35 milioni

59 milioni

superficie

2,8 milioni de km2 (5 volte la Francia)

550.000 km2

densità

12,6 ab/km2

106 hab/km2

Intorno alla capitale

12 milioni (1/3 del totale)

10 milioni (1/6 del totale)

% dei terreni coltivati

13%

35%

Ripartizione delle attività: agricoltura 11% della popolazione attiva, produce il 5% del PNB. Miniere e industria 29% della popolazione, produce il 30% del PNB. Servizi 60% della popolazione, 63% del PNB.

L’Argentina è un paese molto ricco dal punto di vista agricolo, il che non è il paradosso maggiore per una popolazione la cui metà circa deve attualmente saccheggiare, barattare o mendicare per sopravvivere.

L’estensione dell’Argentina dai tropici fino alla terra del fuoco e dall’atlantico fino alle vette andine offre una grande varietà di clima e di produzione. La si può definire attraverso la sua posizione mondiale: grano (13), bovini (5), canna da zucchero (13), cereali (senza grano e maoes) (14), cotone (12), maoes (8), arance (14), ovini (17), thè (10), vino (3).

Oltre alle altre risorse minerarie importanti, l’Argentina potrebbe essere auto-sufficiente di petrolio e gas naturale. Dispone inoltre di grandi possibilità per la produzione di elettricità, specialmente idrauliche, benché il neo-colonizzatore sia riuscito ad imporgli due centrali nucleari.

Il PNB per abitante, di 8300 dollari (9000 euro), è un terzo di quello della Francia, ma equivale a quello del Portogallo o della Corea del Sud, al doppio di quello della Polonia, ed è largamente superiore a quello di tutti i paesi dell’America Latina (quasi tre volte superiore a quello del Brasile). Riguardo al PNB è il terzo paese dell’america latina, ma tutto questo deve essere riconsiderato da quando sappiamo che il 40% dell’economia è sommersa. Oggi si stima che il PNB per abitante potrebbe essere crollato a 3500 dollari (4000 euro), al di sotto di quello del Messico e del Cile, a livello di quello del Brasile. Tutti questi dati mostrano che la crisi che attraversa l’Argentina è quella di un paese industrializzato piuttosto che quello di un paese in via di sviluppo, benché la ricchezza provenga ancora dalle esportazioni di prodotti agricoli.

Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, l’economia argentina non dipede più da quella degli Stati-uniti, la cui presenza è molto simile a quella dell’Unione europea; l’Argentina esporta verso gli Stati-uniti 35 volte meno del Messico. Anche se l’Argentina è il paese che possiede più dollari (700 dollari per abitante contro i 6 del Brasile, in tutto 25 miliardi di dollari), gli investimenti europei superano largamente quelli degli Stati-uniti; i paesi dell’Unione Europea sono quelli che hanno approfittato maggiormente delle privatizzazioni, e controllano settori importanti dell’economia.

Qualche osservazione sulla struttura di classe (dati 1994). Dopo la legge sulle eredità, la metà delle fattorie sono state divise ed ora sono di dimensioni troppo modeste per poter essere competitive sui mercati internazionali. Ma per lo sfruttamento agricolo, le fattorie agivano più come proprietà fondiarie che come attività commerciali inserite in un circuito industriale, ed hanno sempre, in questo senso, un peso politico nel destino dell’Argentina. Le piccole imprese, malgrado una certa concentrazione industriale nei settori pubblici e privatizzati nel periodo di Menem, impiegano il 60% dei lavoratori argentini.

Dal 1970 al 2001, la disoccupazione è passata dal 7% al 20% della popolazione attiva (dati ufficiali, la realtà è certamente peggiore), la popolazione considerata in condizione di miseria è passata da 200000 a 5 milioni (15% della popolazione totale) e quella in condizone di povertà da 1 milione a 14 milioni (40% della popolazione). In ragione del crollo del sistema educativo, l’analfabetismo è aumentato dal 2 al 12%. Per compensare la caduta nella povertà, il clientelismo ha moltiplicato gli impieghi di funzionari (dal 5 al 32% della popolazione attiva) ed è una delle cause delle difficoltà finanziarie irrisolte delle province. I più ricchi disponevano da molto tempo di depositi in dollari, per un totale di 120 miliardi di dollari, l’equivalente del debito estero.

La fine del sogno operaio argentino

Quando suo marito Juan fu eletto per la prima volta presidente nel 1946, Evita Peron sognava un futuro mirabolante per i lavoratori argentini. Evita Peron elabora il piano per una città giardino composta di casette per migliaia di famiglie povere.

Oggi, le speranze di prosperità che i Peron avevano sognato per i “descamisados”, i “senza-camicia” poveri che avrebbero dovuto vivere nella città modello di Ciudad Evita, sono svanite completamente. Ora è soltanto una bidonville che scoppia al limite della banlieue sud-ovest di Buenos Aires. Una recessione inesorabile da quattro anni colpisce duramente La Matanza, un quartiere industriale che nel corso degli anni aveva assorbito Ciudad Evita e che si trova ora ad albergare più di 2 milioni di Argentini poveri. Le bidonville si sono sviluppate nelle zone industriali più depresse: centinaia di fabbriche, di magazzini e laboratori ancora attivi negli ultimi 5 anni, sono fermi o chiusi. I salari sono precipitati e i disoccupati sono saliti fino all’80% in qualche quartiere vicino.

È facile comprendere perché in uno di questi quartieri, les “barrios”, uno dei più poveri, sia sorto il movimento di protesta che si è diffuso ovunque quando una nuova generazione di “senza-camicia” ha rovesciato il governo impopolare di De la Roea. Omar Mostafav si ricorda come traslocò a Ciudad Evita, lasciando il distretto sordido vicino al fiume; era una vera promozione per la sua famiglia. Era il 1953, l’anno dopo la morte di Evita, quando Peron cominciò l’assegnazione di 5000 appartamenti.

Ciudad Evita rappresentava il tipico esempio di utilizzo da parte di Peron del potere di Stato per guadagnarsi la lealtà della classe operaia attraverso il clientelismo. Venerati dai poveri ma invisi alle classi possidenti tradizionali come agli affaristi del potere,i Peron sovraintenderanno all’industrializzazione, fonderanno ospedali e lanceranno programmi di sicurezza sociale.

Oggi non resta pressoché nulla dell’eredità di Peron, distrutta da una serie di crisi economiche che sono culminate con la destituzione del governo. Mostafav, che attualmente si occupa di tre mense popolari e sette centri di vestiti di occasione per i poveri, dichiara: “soprattutto stiamo per aprire altre tre mense popolari poiché il numero delle persone che hanno fame aumenta costantemente”.

L’economia dell’Argentina si ritira così rapidamente come si era sviluppata negli anni del boom economico all’inizio degli anni 1990, circa 2000 argentini ogni giorno superano la soglia della povertà, molte famiglie devono vivere con meno di 480 dollari al mese (circa 500 euro). In novembre, l’attività industriale crolla del 12%, le industrie tradizionali come quelle di La Matanza (automobile e tessile) sono crollate anche di più, rispettivamente del 43% e del 37%.  

“È diventata così dura che non è solamente difficile vivere, ma anche morire”, ci ha detto Claudio Palermo, un attivista sindacale locale che organizza i centri di aiuto comunitari. “Una bara costa 200 dollari (250 euro); alcune famiglie non guadagnano quella cifra nemmeno in due o tre mesi”.

In una via polverosa piena di immondizia, dove si allineano delle capanne costruite con casse d’imballaggio e della tela catramata, Julio Mercader passa i suoi giorni a vagare: “Ho sette fratelli e soltanto uno di loro e mio padre hanno un lavoro”, ci confida questo carpentiere di 32 anni. “Tra noi i disoccupati sono circa il 70-80%”. Come molti, Mercader cerca di arrangiarsi con il tradizionale “chang”, il lavoro nero: fare il tassista, caricare camions, o qualsiasi altra cosa, non viene dichiarata alle autorità. Ma ora c’è un problema da quando il governo ha fissato ad un massimo di 1000 dollari (1100 euro) il prelievo in contanti dai conti bancari. Tutti i pagamenti al di sopra di questa cifra sono probabilmente effettuati con assegno o carta di credito, il che elimina praticamente il lavoro nero. Come lo riguarda questo? Mercader alza un muro di silenzio. Egli non ha nemmeno un conto in banca.

Non stupisce che La Matanza sia diventata la capitale di ciò che l’Argentina chiama i piqueteros, contestatori che si trovano in queste settimane all’avanguardia della ribellione popolare: “ dobbiamo protestare perchè, per le autorità, non esistiamo”, dice Norma Portilla, 30 anni, una vicina di Mercader la cui comunità si trova in un hangar di lamiera ondulata vicino ad una fogna puzzolente che viene chiamata con ironia “Rio Hermoso” “la belle riviere”. “L’immondizia non viene raccolta, abbiamo avuto l’elettricità l’anno scorso e i bambini vanno a scuola solamente perché gli viene dato un pasto”.

A Ciudad Evita, il monumento alla fondatrice, ancora venerato come una santa e un’eroina operaia, adorna l’angolo della via e le casette originarie esistono ancora, con i loro giardini ben ordinati. Ma la maggior parte sono occupate da ufficiali in pensione, coloro che hanno messo a spasso i lavoratori e che vi hanno traslocato dopo che Peron fu destituito dal colpo di Stato del 1955.

Motoqueros. I motociclisti al servizio del movimento

I motoqueros, i corrieri motociclisti, hanno avuto un ruolo particolare nell’insurrezione, in un primo momento in maniera disorganizzata poi come forza organizzata, distribuendo acqua e pietre, trasportando i feriti fuori dalla zona di pericolo quando le ambulanze non potevano passare, e partecipando agli assalti contro i poliziotti. Almeno due di loro sono stati uccisi dalla polizia.

L’ 80% delle 58000 moto di Buenos Aires servono al trasporto della posta o delle persone. Un anno e mezzo prima, i corrieri (motociclisti, ciclisti e altri) avevano creato un loro sindacato: il Simeca, un sindacato autonomo indipendente dall’apparato burocratico, senza dirigenti e senza funzionari retribuiti, situato nei locali di Hijos (1), un’organizzazione in difesa dei diritti dell’uomo che lottava contro l’impunità dei militari, da cui provengono i fondatori del Simeca.

Dieci agenzie per cui lavoravano i corrieri in moto su 11 esistenti non avevano pagato i salari del mese precedente, i motoqueros tennero un’assemblea mercoledi  19 dicembre (2001).  Dopo il discorso del presidente De la Roea che proclamava lo stato d’assedio, i Motoqueros si unirono alle manifestazioni dei casseroles (concerti delle casseruole), poi stabilirono i contatti tra i manifestanti facendo la spola da una piazza all’altra. Il giorno dopo, migliaia di motoqueros si recarono al lavoro, ma non poterono raggiungere il centro della città per via degli scontri di piazza e dei lacrimogeni. Allora si radunarono in gruppi senza che vi fosse alcuna parola d’ordine; tre gruppi di circa quaranta moto si diressero verso il centro. Un coordinamento spontaneo si organizzò appena si seppe dell’uccisione del primo motoquero, e si ritrovarono nel parcheggio delle agenzie, invitando tutti i corrieri ad unirsi a loro. Si radunarono rapidamente un centinaio di moto ed attaccarono i poliziotti tutti insieme obbligando la polizia a ritirarsi parzialmente.

I corrieri motociclisti sono abituati a sfuggire ai poliziotti, e la loro facilità di spostamento gli permette di ottenere molte informazioni, per esempio sulle azioni dei poliziotti in borghese che, come era nello stile della dittatura, sparano sulla folla da auto private con targhe false. I motoqueros potevano prevenire gli spostamenti e gli attacchi della polizia, diventando così il servizio di ricognizione e il collante del movimento. Il 28 dicembre, i motoqueros parteciparono come gruppo organizzato alla mobilitazione che metteva fine al breve periodo del presidente Sai. Sotto gli applausi della folla, fecero un concerto di clacson intorno alla piazza. Tuttavia, non hanno ancora fatto uso della loro vera forza: “Noi trasportiamo i soldi delle imprese, portiamo i documenti e le fatture. I nostri scioperi paralizzano i centri degli affari. Siamo furiosi per i nostri morti”.

(Testo tradotto dal tedesco, apparso nel supplemento al numero 63 (marzo 2002) di Wildcat-Zirkular: “El Argentinazo. Aufstand in Argentinien” (El Argentinazo. Insurrection en Argentine), p.8)

Potere e rapporti sociali nella provincia di Tucuim

(Benché datato 21 febbraio 1996, questo articolo del Financial Times ci da una percezione precisa della situazione politica e sociale argentina e dei rapporti tra le province e la capitale; la provincia di Tucumin, di cui si tratta, è situata nell’estremo nord-ovest del paese.)

“(...) il governatore di Tucumin, il generale Antonio Domingo Bussi, ama ricevere i suoi ospiti con una pistola negligentemente lasciata sulla sua scrivania. Alcuni dei portieri all’ingresso della sede del governo, un magnifico palazzo in stile francese, ci fa il saluto militare, per quanto l’Argentina sia una democrazia da più di tre anni.

Il generale Bussi è stato eletto nel 1995 governatore di Tucumin, una provincia caratterizzata dalla produzione di canna da zucchero, da una popolazione esasperata da decenni di beghe politiche e fiaschi economici. Questa provincia, in passato ricca, ha ora un tasso di mortalità infantile del 27 per mille, il doppio del tasso della capitale federale, Buenos Aires.

Il governatore precedente, un peronista, un lucidascarpe che fu una pop star prima di diventare un politico, condusse la provincia sull’orlo della catastrofe. Le elezioni provinciali del luglio 1995 che portarono al potere il generale Bussi, candidato del partito Force repubblicaine, si tennero sullo sfondo della protesta violenta dei funzionari scesi in piazza per ottenere il pagamento dei mesi di salario arretrati.

Non è la prima volta che il generale Bussi sbarca a Tucumin. L’ultima volta fu nel 1976, quando forte della “sporca guerra” che vide migliaia di argentini torturati e assassinati dal governo militare, il generale fu inviato a Tucumin per annientare la guerriglia locale. Il successo di questa “campagna militare” fece del generale Bussi un simbolo della repressione. “Io sono un soldato professionista”, ribatte il generale Bussi.”Ho servito la nazione come membro di un governo costituzionale durante un periodo drammatico della nostra vita politica... Ciascuno è giudice delle proprie azioni. Le mie azioni riguardo a Tucumin sono state giudicate dal popolo che mi ha votato.

“La gente vuole ordine - constata Raquel Carlino, giornalista del quotidiano locale Siglo XXI - vuole un militare per spazzare via tutta la corruzione”.

L’idea che solo un “uomo forte” possa rimediare a generazioni di cattiva amministrazione pare che possa applicarsi anche al governo federale. Durante la campagna elettorale dell’anno scorso per l’elezione del governatore, il presidente Carlos Menem, un peronista, abbandona il candidato peronista locale per sostenere il generale Bussi. Pensava che fosse l’uomo giusto per frenare la spesa pubblica e rimettere in piedi Tucumin. La banca mondiale aveva una posizione identica. Nel novembre 1995, pubblicava un documento intitolato: “Rivitalizzare l’economia di Tucumin”, che  coincideva con l’ascesa al potere di Bussi nella provincia. Questo progetto di riforme rifletteva ciò che auspicava in tutte le province il ministro dell’economia, Domingo Cavallo.

La pozione era amara. Le raccomandazioni comprendevano:

Secondo la banca mondiale erano necessarie delle misure radicali, perchè la provincia aveva un deficit di 15 milioni di dollari (17 milioni di euro) su un reddito di soli 75 milioni di dollari (80 milioni di euro). Dal 1985, il numero di dipendenti provinciali sono raddoppiati senza che i servizi siano migliorati.

Qualcuna di queste raccomandazioni erano già state attuate dalle amministrazioni precedenti e da quelle attuali. Certi servizi provinciali erano stati privatizzati ma erano sorte molte polemiche per la privatizzazione delle rete idrica. La banca provinciale è sul punto di essere privatizzata e la decisione di trasferire il sistema pensionistico è pendente presso la corte suprema. A giudicare dalle centinaia di ufficiali che girano senza fine intorno al palazzo del governatore, ben poco è stato fatto per ridurre il peso degli impiegati della provincia. Anziché licenziare, il generale Bussi ha imposto una riduzione “volontaria” del 5-10% dei salari. Egli spiega che “è meglio per molti guadagnare meno piuttosto che pochi guadagnino di più”.

Ma la ricetta del generale Bussi per riattivare l’economia si allontana dall’ortodossia della Banca mondiale quando si  affronta la questione della “produzione”. Nonostante le critiche di alcuni economisti che hanno definito le misure adottate ispirate alla pianificazione statale, il generale ha nominato un ministro della produzione per elaborare un programma di investimenti per il settore privato. Coloro che sono interessati a questi progetti, che vanno dalle fabbriche di concime alle esportazioni di ortaggi, possono beneficiare degli aiuti della provincia. Il generale pensa che il Tucumin sia una provincia particolarmente fertile per il suo sole e il micro-clima favorevole, il che dovrebbe portare ad un aumento considerevole della sua produzione. Lo sviluppo spettacolare della produzione di limoni, che ha fatto della provincia uno dei più grandi esportatori mondiali, dona qualche credito al suo ottimismo. Il mondo degli affari lo è molto meno. Il presidente della Federazione degli imprenditori di Tucumin sottolinea che la fine dell’iperinflazione degli ultimi anni ha fatto riemergere la scarsa competitività delle province lontane e dimenticate dell’Argentina. “Il processo attuale nous saigne a blanc”, dichiara evocando l’aumento dei disoccupati che riguarda ormai un abitante su cinque.

È li che risiede il problema: “naturalmente non penso che dobbiamo avere una tale burocrazia pubblica. Ma allo stesso tempo, con un tale livello di disoccupazione, non possiamo licenziare massicciamente. Dove finirebbero tutte queste persone? Lo Stato svolge una funzione sociale. Il settore privato non può semplicemente riassorbirli.”

Il debito: l’esempio dell’impero ottomano e dell’Egitto nel diciannovesimo secolo

Un breve cenno alla storia dell’indebitamento dell’impero ottomano e dell’Egitto potrebbe risultare istruttivo. Ciò che univa l’impero ottomano e l’Egitto era il desiderio comune di molti dirigenti di entrare a far parte del mondo moderno dell’Europa industriale. Solamente che per entrare in questo mondo, è necessario investire e, per investire, è necessario indebitarsi. L’egitto, sotto la direzione di Mohammed Ali, aveva però la sfiducia dei potenziali creditori; l’Egitto doveva così contare sulle sue forze per dare vita all’accumulazione primitiva. Per realizzarla, creò delle manifatture di Stato, embrioni di un capitalismo di Stato, seguendo in questo l’esperienza giapponese dell’era Meiji. I successori di Mohammed Ali, specialmente Khedive Ismail, si adoperò per ottenere, a partire dal 1854 e soprattutto dopo il 1864, una serie di prestiti che superavano ampiamente le capacità di restituzione dell’economia egiziana dell’epoca.

Dalla sua, il debito ottomano assume consistenza nello stesso periodo, precisamente nel 1856. L’ossessione della classe dirigente ottamana era l’Europa. Per questo da vita al movimento dei “Tanzimat” (riorganizzazione) che sostiene la sostituzione del diritto islamico con il diritto napoleonico (salvo quello della famiglia). L’Egitto è risucchiato in questo movimento attraverso la sua dipendenza giuridica dall’impero ottomano.

Le finanze dell’Impero ottomano cominciano a dissolversi, quale conseguenza delle avventure militari che costano sempre più care allo Stato. Il sistema fiscale non era propriamente strutturato e così non garantiva delle entrate regolari ed anche per questo l’impero veniva spinto verso l’indebitamento e ad aprirsi al “libero scambio”. L’Egitto di Mohammed Ali accumula disfatte militari, e le basi ancora fragili della sua accumulazione primitiva non gli permettono di resistere alla collusione tra la Gran Bretagna e l’impero ottomano. L’Egitto entra nel “mondo moderno in ginocchio”.

I monopoli di Stato sono smantellati, il debito dal 1854 in Egitto e nell’impero Ottomano cresce rapidamente. Nel 1876, l’Egitto sospende i pagamenti (1); la sua stessa sovranità è messa in discussione. Nel 1882, la Gran Bretagna occupa il paese, e l’impero ottomano si trova dal 1880 sotto tutela (viene istituito il consiglio di amministrazione del debito ottomano che diventerà un organismo di tutela economica nelle mani dei potenti europei).

Anche l’impero ottomano non riusciva più a far fronte ai propri impegni finanziari dal 1985. Nel ventesimo secolo, l’Egitto di Abdel Nasser intraprenderà una nuova infruttuosa esperienza di capitalismo di Stato, che terminerà con un ricorso massiccio ai capitali stranieri. La Turchia di Ataturk, nella prima metà del ventesimo secolo, si ricostruirà attraverso il ricorso limitato ai prestiti stranieri; i suoi successori con una politica opposta porteranno la Turquia in un caos quasi permante a partire dal 1978.

Echanges et Mouvement

 

[1] Una delle fonti dirette d’informazione è fornita dal sito: http://argentina.indymedia.org/news. Questo sito in spagnolo fornisce traduzioni (pessime) in differenti lingue (non in francese).

[2] Gli ingredienti essenziali della crisi per indebitamento si sono manifestati tra il 1979 e il 1981. Gli Stati-uniti e gli altri paesi dell’OCDE hanno rialzato i tassi di interesse, ciò che ha immediatamente accresciuto il debito dei paesi latino-americani, in gran parte costituito da tassi variabili. Attirati da tassi più elevati o da situazioni prive di rischi dal punto di vista della stabilità politica, i Latino-americani hanno trasferito i loro soldi all’estero: il denaro dei nuovi prestiti è ritornato a Miami. Il flusso di capitali è iniziato molto prima che si scatenasse la crisi (vedi Ramses 93).

[3] Il presidente dell’epoca della Citicorp: Walter Wriston.

[4] È singolare notare come l’onda d’urto della crisi asiatica e la recessione americana abbiano azzerato i risultati economici dell’America Latina nel periodo 1998-2001. Il tasso di crescita medio dei dieci paesi principali della zona non è stato superiore all’1,6% l’anno.

[5] Il mercato comune del sud (Mercosur, 1991) che comprende l’Argentina, il Paraguay e l’Uruguay. La Bolivia si è aggregata.

[6] Se la caduta o la crescita di questi titoli non ha alcun rapporto con il movimento di valorizzazione del capitale reale che rappresenta, la ricchezza di una nazione è tanto maggiore prima di quanto lo sia dopo tanto maggiore è il deprezzamento dei loro titoli (Le Capital, L.III, ed. Moscou, p.493). Se il tasso di crescita prima e dopo la crisi non ne è colpito, non vi è nemmeno una contrazione della produzione durante la crisi. Se non ci fosse stata la crisi, la produzione avrebbe continuato ad aumentare.

[7] Vedi il caso di IPF (impresa pubblica petrolifera) e di Aerolineas Argentinas (negli allegati).

[8] È necessario ricordare che lo stesso Cavallo, il cui ruolo fu così funesto per l’economia argentina alla fine della dittatura (fu presidente della Banca Centrale durante i 54 giorni a partire dal 2 luglio 1982, partecipando attivamente al trasferimento del debito privato allo Stato), ha ricoperto per due volte il posto di ministro dell’economia. Una prima volta, tra il 1991 e il 1996 durante la presidenza Menem, sviluppò un vasto programma di privatizzazioni ed ancorò la moneta argentina al dollaro.

[9] Bisogna ricordare la totale adesione delle autorità statunitensi a questa politica di indebitamento.

[10] Il caso dell’industria dell’automobile è singolare. L’ Argentina fu uno dei primi paesi al mondo a dotarsi di un parco automobili importante (anni 1919-1930). Negli anni 30 si è sviluppata un’industria dell’automobile con capitali nazionali e con propri modelli, quali la Di Tella, che popolava le strade argentine, o l’impresa di Stato IME. Nel dicembre 1958, il governo di Frondizi ufficializzava l’ingresso in Argentina di 20 marche di automobili straniere (americane ed europee) e consentiva loro di rimpatriare i profitti. Questo decretò la fine dell’industria dell’automobile del paese.

[11] In generale, le somme favolose prestate ai banchieri del Nord erano immediatamente sostituite sotto forma di depositi presso gli stessi banchieri oppure presso banche concorrenti. L’83% di queste riserve furono spostate nel 1979 in istituti bancari fuori dal paese. Le riserve raggiungeranno la cifra di 10138 milioni di dollari e i trasferimenti nelle banche straniere toccheranno l’ammontare di 8410 (attraverso i mercati finanziari del nord-america ed europei, sui quali erano emessi i prestiti argentini, i capitalisti argentini compravano i titoli del debito argentino con i capitali che avevano fatto uscire dal paese) e percepivano una parte dei rimborsi. Lo stesso anno, il debito estero passò da 12496 milioni di dollari a 19034 milioni di dollari (Olmos, 1990, p.171-172). In ogni caso, l’interesse percepito per le somme depositate era inferiore all’interesse dovuto per le somme prestate.

[12] Le imprese private argentine e le filiali argentine delle multinazionali straniere erano state ugualmente incoraggiate ad indebitarsi sotto la dittatura. Il debito totale privato superò i 14000 milioni di dollari. Tra queste imprese indebitate figurano le filiali argentine di società multinazionali come: Renault, Mercedes-Benz, Ford Motor, IBM, City Bank, First National Bank of Boston, Chase Manhattan, Bank of America, Deutsche Bank. Lo Stato argentino ha rimborsato i crediti privati (cioè delle case madri) di queste imprese. In breve, il contribuente argentino ha rimborsato il debito contrattato dalle filiali delle multinazionali presso le loro case madri o dei banchieri internazionali. Si può facilmente supporre che le multinazionali abbiano ascritto un debito alle filiale argentine attraverso un semplice gioco contabile. Il potere pubblico argentino non aveva alcun mezzo di controllo su questi conti.

[13] Questo numero di Le Monde diplomatique del luglio 1987 permette, indipendentemente dalle teorie che cerca di dimostrare, di capire che era relativamente facile prevedere gli eventi successivi.

[14] Sarebbe interessante aprire una parentesi per comprendere, una volta per tutte, cosa significa la parola “fascismo”, termine con il quale si designano delle esperienze che vanno da Napoleone Bonaparte fino a Berlusconi, passando attraverso Pol Pot ed altri. Noi contestiamo questa “salsa” di fascismi, soprattutto perché vediamo in essa una scappatoia per eludere i problemi: si dà un nome “mostruoso” ai fatti storici, si condannano, e non si studiano più. È possibile assimilare effettivamente Peron al fascismo, o al “bonapartismo”, cioè a quei sistemi che hanno voluto integrare le forze proletarie in un dispositivo generale che aveva come fine la “grandeur” della Nazione, nel nome della quale tutti gli interessi particolari (tra cui quelli di classe) scompaiono. Ma, ancora una volta, è evidente che ci troviamo di fronte a delle etichette contenitore, dentro le quali è possibile includere anche le democrazie occidentali che hanno impiegato la stessa strategia nello stesso periodo. Ma allora non è meglio considerare tutti questi fenomeni uno per uno?

[15] Molti manifestanti argentini dei cacerolazo usavano come segno di distinzione un drappo del loro paese o le magliette della nazionale di calcio. Questo testimonia che l’ideologia nazionalista alberga ancora in molte frange proletarie.

[16] Il 16 Giugno 1975, un colpo di Stato militare destituisce Peron. Benché sia stato appoggiato agli inizi da forze reazionarie, in particolare dall’aristocrazia terriera, il colpo di Stato non si trasformerà in dittatura militare che nel 1976, passando per una fase detta “rivoluzione liberatrice”.

[17] Espressione coniata da Francois Rabelais, Gargantua, chap. 54.

[18] Ci si ricorderà soprattutto gli anarchici Errico Malatesta, Severino Di Giovanni, Antonio Soto. Quest’ultimo organizzò il grande sciopero operaio in Patagonia nel 1921.