L’Argentina,
dalla pauperizzazione alla rivolta
Indice
La lotta di classe in Argentina nel periodo recente
I piqueteros: recupero ed esproprio
Le assemblee di quartiere e la democrazia di base
Pratica ed organizzazione nella lotta di classe
Il debito latino-americano, riflesso della crisi finanziaria internazionale
L’Argentina e il contesto internazionale
Il ruolo specifico dello stato nell’indebitamento
Il verdetto del 13 luglio 2000
L’indebitamento dello stato durante la dittatura militare
Il dopo-dittatura e l’impunità
La marcia forzata delle privatizzazioni
Il futuro di un’altra argentina
Allegati
I partiti e i sindacati argentini
La fine del sogno operaio argentino
Motoqueros. I motociclisti al servizio del movimento
Potere e rapporti sociali nella provincia di Tucuim
Il debito: l’esempio dell’impero ottomano e dell’Egitto nel diciannovesimo secolo
“Si è detto che io ero un nemico del
capitale…voi vedrete che non c’è migliore difensore di me degli uomini
d’affari…gli operai, perché lavorino, devono essere presi molto in
considerazione…bisogna che coloro che hanno ai loro ordini degli operai
arrivino a loro attraverso questa strada in modo tale da poterli tenere sotto
controllo…” (Juan
Peron, 1944)
All’epoca, affermazioni di
questo genere, avrebbero potuto essere fatte in numerosi paesi in via di
industrializzazione o sotto regimi più o meno dittatoriali che tentavano
l’accumulazione primitiva servendosi dell’autarchia economica. Si trattava
di progetti che si accompagnavano alla trasformazione del proletariato agricolo,
che era tenuto in una condizione di miseria e di soggezione, in proletariato
industriale la cui condizione, qualunque fossero le servitù che
l’accompagnavano, tuttavia costituiva il più delle volte un progresso
rispetto alla loro condizione anteriore. Questi progetti, inevitabilmente, si
accompagnavano anche alla formazione concomitante di una borghesia industriale
che si contendeva il potere con i proprietari fondiari.
Nella Russia sovietica, nella
Cina popolare, si trova la medesima l’apologia dello sfruttamento del lavoro,
all’interno della glorificazione del proletario.
Questa glorificazione del
proletario non rimaneva soltanto al livello
del discorso, ma si traduceva nella realtà in un insieme di garanzie sociali
significative rivolte a questi nuovi proletari industriali, l’innalzamento del
livello di vita, insomma in un cambiamento di condizioni sociali. Queste
considerazioni potrebbero essere estese anche ai paesi industrializzati, nei
quali, sia pure in un contesto differente, dopo la grande crisi degli anni ’30
e la guerra mondiale che ne seguì, i capitalismi nazionali svilupperanno
insieme alle teorie economiche del keynesismo, tutto un arsenale di misure
sociali che permetteranno al capitale di riprendere fiato.
I tempi sono cambiati, tanto nei
paesi in via di sviluppo che nei paesi industrializzati. Costretti ad una corsa
inesorabile per arginare l’abbassamento dei tassi di profitto, che si traduce
in una concorrenza spietata, questi stessi “vantaggi” concepiti per lo
sviluppo e la salvezza del sistema, una forma di controrivoluzione che
comportava un certo consenso dei lavoratori, divengono degli ostacoli nel corso
attuale del capitale. La dinamica della “modernizzazione” tecnica e
strutturale implica di restringere in un modo o nell’altro la parte di
plusvalore concessa ai lavoratori. Nel mondo intero il capitale spazza via tutte
le forme di protezione sociale che esso stesso aveva messo in piedi al fine
della propria sopravvivenza, quasi sempre in un contesto di
riemergente nazionalismo e sotto la pressione della lotta di classe.
Da questo punto di vista, il
fallimento negli ultimi decenni del tentativo peronista di elevare l’Argentina
al livello delle altre potenze capitalistiche ha un’analogia con quello che si
è visto recentemente, sia pure sotto altre forme, nel sud-est asiatico, sotto
una forma quasi simile nella Russia sovietica, e anche nella Cina popolare.
L’Europa, invece sembra resistere meglio, sia pure al prezzo della
concentrazione economica, finanziaria e politica che è in corso, e che si
accompagna a tentativi di eliminare gli ostacoli nazionali a questo sviluppo
capitalistico “moderno”.
Secondo uno dei più importanti economisti della Banca
mondiale, J. Stiglitz, l’Argentina rappresenta il sesto fallimento del Fondo
Monetario Internazionale in meno di dieci anni, dopo la Tailandia,
l’Indonesia, il Brasile e la Russia. Il sistema capitalistico si distruggerà
da se stesso, dal proprio interno, attraverso il gioco dei suoi propri
meccanismi economici? In realtà ciò che è in discussione, non sono tanto le
conseguenze dell’economia detta liberale e delle forze del mercato, quanto
piuttosto lo scontro dell’insieme delle forze che agiscono all’interno
stesso del sistema: lo scontro capitale-lavoro. Tutto ciò ricolloca la lotta di
classe al suo giusto posto in queste crisi.
È in questo senso che la
resistenza di classe in Argentina assume per noi tutto il suo significato, e che
le forme di questa resistenza, per quanto particolari e imperfette possano
essere, devono essere analizzate e discusse in quanto espressioni di un
movimento autonomo di lotta per l’emancipazione.
Vogliamo dire che l’insieme dei
testi che seguono, frutto di un lavoro collettivo dei compagni di Echanges, è
imperfetto e incompleto: le informazioni che noi possiamo avere sulle lotte in
Argentina sono molto frammentarie[1]
e come abitualmente, su ciò che più ci interessa riusciamo ad avere meno
informazioni;d’altra parte, ci si trova in presenza di una situazione in
costante evoluzione che attualmente non si riesce a vedere come si possa
risolvere, sia in termini capitalistici sia in termini rivoluzionari. In una
nuova pubblicazione la rivista Echanges svilupperà ulteriormente questa
analisi.
L’attuale rivolta sociale in
Argentina non è caduta dal cielo. L’attacco globale del capitale
internazionale, che noi peraltro qui analizziamo, risale alla caduta del
peronismo, all’eliminazione fisica, da parte della dittatura militare, di ogni
resistenza che fosse clandestina o no, alla sottomissione agli imperativi della
liberalizzazione finanziaria. Una liberalizzazione perseguita dopo che la
dittatura fu fatta cadere nel disastro sia economico che militare, da parte dei
governi successivi, preoccupati anzitutto di soddisfare i loro interessi
personali e gli imperativi dell’FMI, senza preoccuparsi minimamente del mondo,
né degli interessi del capitale nazionale, né della condizione dei lavoratori
argentini. Tuttavia, fu un’ondata dal fondo popolare (stimolata dalla
resistenza eroica delle madri di plaza de Mayo durante la dittatura), che
costrinse i militari ad abbandonare il potere in una relativa ignominia. Ma
questa ondata si vide in qualche modo confiscare la vittoria (fino
all’impossibilità di perseguire i torturatori, ai quali fu garantita una
quasi impunità) dai brandelli sopravvissuti del peronismo, diviso in clan
rivali che si disputavano il potere. Il risultato fu lo smantellamento
dell’organizzazione economica, fortemente impregnata di capitalismo di stato,
ereditata dal peronismo, così come lo smantellamento di tutta
l’organizzazione sociale che ne garantiva l’accettazione. Per i salariati,
questo rappresentò il lento degrado dell’insieme delle condizioni di
sfruttamento, per arrivare sino alla situazione attuale nella quale vi è più
del 25% di disoccupati, che condividono una miseria crescente con la massa dei
lavoratori e dei pensionati che subiscono riduzioni di salario e di pensioni,
un’inflazione che raggiunge talvolta le vette, e la quasi scomparsa del
sistema sanitario e scolastico pubblico, un sistema che era stato invidiato da
tutti i paesi dell’america latina.
Certo, questa discesa agli inferi
non accadde senza lotte, ma incapaci di coordinarsi per estendersi aldilà delle
disparità provinciali e/o professionali, di superare i condizionamenti politici
e/o sindacali, impastoiati nelle loro relazioni claniche intorno al potere,
queste lotte non supereranno mai questa forma di globalizzazione che si vede
sorgere oggi attraverso una sorta di uniformizzazione crescente della povertà.
Prima di passare ad analizzare
gli avvenimenti che marcano questa globalizzazione, ci sembra utile ricordare
che solo negli ultimi anni, movimenti di grande ampiezza e spesso violenti, con
la repressione che causa feriti e morti, appaiono in maniera ricorrente e il più
delle volte nelle province più lontane, le più toccate dal marasma economico e
sociale. Non ci è sembrato necessario risalire fino ad analizzare il peronismo
(di cui peraltro parliamo alle pagg.58 e 59), alla sua caduta nel 1955, in
seguito ad un complotto militare, al suo ritorno nel 1972, per tentare di
risolvere una situazione sociale esplosiva che vedeva insieme le espressioni
della resistenza operaia (una delle più significative ebbe per teatro la
regione di Cordoba, nel maggio 1969) le lotte fra differenti fazioni del
peronismo, e contemporaneamente la montata di gruppi clandestini; i più
conosciuti saranno i montoneros che faranno numerosi rapimenti ed esecuzioni di
dirigenti anche militari. Questo ritorno di Peron, e del resto neanche la sua
morte e i tentativi di capitalizzarne l’eredità, non risolverà nulla, non
sarà affatto un ritorno alla belle epoque del peronismo, poiché si perpetuava
la situazione che aveva favorito questo ritorno. L’impotenza dei politici di
mettere termine al caos economico causato in buona parte dalla resistenza
sociale, si pensi agli scioperi e alle azioni clandestine, alimenterà il colpo
di stato militare del 24 marzo 1976, e una repressione sanguinosa di cui oggi si
sa che causò ben più di 30.000 vittime e quasi 100.000 arresti.
Nella primavera del 1989, dopo
che il presidente in carica, Raul Alfonsin, nato nel 1927, ebbe annunciato una
serie di misure economiche che miravano ad un rilevante aumento dei prezzi che
coronava un’inflazione (che era già al 70%), dei moti della fame scossero una
buona parte delle città argentine. Questi moti furono particolarmente violenti
alla fine di maggio 1989, a Rosario, la terza città per importanza del paese,
dove non si contarono i numerosi assalti ai supermercati (su cento soltanto due
ne furono risparmiati) e attacchi ad altri negozi alimentari. La repressione
della polizia provocò 5 morti e più di 800 arresti in tutto il paese. Per un
intero mese fu proclamato lo stato di assedio, mentre i moti e i saccheggi si
espandevano fino a Buenos Aires, città in cui più di 100 negozi e magazzini
vennero saccheggiati. Intanto, l’inflazione raggiungeva livelli fino al
5000%, e Domingo Cavallo instaurava la parità peso-dollaro, lanciava la vendita
all’asta delle società nazionali, cosa che assicurò qualche anno di respiro
all’economia, in ragione dell’afflusso di capitali stranieri, ma a tempo
stesso produsse un’esplosione esponenziale della corruzione e uno slancio
artificioso ingannevole dell’attività economica. Ma questo inganno durò solo
qualche anno, fino al contraccolpo della crisi mondiale che colpì
prevalentemente l’Asia, ma che si ripercosse anche su quelle che vengono dette
economie in via di sviluppo, alle quali può essere assimilata l’Argentina.
Nel dicembre 1993, a Santiago del Estero (nella provincia del nord-ovest) le
restrizioni di bilancio imposte dal ministro Domingo Cavallo (già in attività
sotto la dittatura militare), sostenitore del monetarismo, produssero delle
manifestazioni dei funzionari locali che si trasformarono in una rivolta che durò
diversi giorni, durante la quale le sedi amministrative e le case dei politici
vennero incendiate. A quell’epoca, tutti coloro che avevano sostenuto il
regime militare, cercavano di mantenere il dominio attraverso una repressione
sia pure mascherata. Il numero del dicembre 1993 del giornale delle madres di
Plaza de Mayo, pubblicava una lista di scomparsi non della dittatura ma della
democrazia. Nell’agosto del 1994 dopo una manifestazione di più di 100.000
persone a Buenos Aires, degli scioperi sindacali, che tuttavia si inserivano
all’interno di rivalità inter-sindacali, e delle manifestazioni cercarono di
frenare le conseguenze già disastrose delle restrizioni imposte dal FMI,
attraverso la mediazione del governo di Carlos Menem. Gli scioperi furono
particolarmente forti nelle città industriali di Rosario e di Cordoba. Menem
proclamò questi scioperi illegali e autorizzò le industrie a licenziare gli
scioperanti.
Alla fine del 1994 il settimanale
britannico The Economist scriveva: “il cambiamento sociale più sconvolgente
non ha toccato i poveri, ma piuttosto le classi medie dell’Argentina, il paese
più grande e più ricco di tutta l’America latina. Benché il livello di vita
abbia subito una caduta durante decenni, rispetto ad altri paesi, le classi
medie in Argentina hanno beneficiato di una certa solidarietà da parte della
borghesia. Allora il lavoro lo si conservava per tutta la vita, e questo
riguardava ogni genere di lavoro, perfino quello nella scuola o nella chiesa, le
riforme di Menem hanno distrutto tutto questo; le privatizzazioni hanno espulso
i quadri medi dal loro lavoro, i negozianti sono stati distrutti dagli
ipermercati, i professori di scola media superiore hanno dovuto cercare lavoro
altrove, gli psicanalisti adesso fanno i conduttori di taxi e le madri di
famiglia rispettabili vendono delle polizze. Un sociologo sottolinea che le
donne sono quelle che sono state particolarmente toccate, che devono spesso
accettare dei lavori malpagati per poter sopravvivere. Il numero di famiglie che
vive soltanto del reddito delle donne accresce rapidamente così come il numero
di famiglie che devono assumere in carico i genitori anziani (…)”.
Nell’aprile del 1995 tutti i
mali di cui soffrono gli argentini, tutte le reazioni degli sfruttati sono
sempre più ricorrenti: quasi tutto discende dalle conseguenze sociali
dell’apertura delle frontiere alla concorrenza straniera; i vari disordini che
si hanno nelle province, in particolare in quelle più lontane, discendono essi
stessi da questa rovina di stato che rende più acuti i problemi di favoritismo,
corruzione e così via. Il periodo in cui il presidente peronista Menem cerca di
farsi rieleggere, è un periodo agitato da movimenti che vanno dal nord-ovest
fino all’estremo sud, spesso violenti e al tempo stesso violentemente
repressi. Nella provincia di Salta, i lavoratori fanno degli scioperi ripetuti
per il pagamento dei salari arretrati, nella provincia vicina a Jujuy, un leader
sindacale carismatico, dopo uno sciopero della fame, ottiene concessioni per i
lavoratori dei servizi pubblici; nella provincia di Chaco, i lavoratori dei
servizi pubblici e i pensionati fanno scioperi di 24, 48 ore per protestare per
mesi e mesi di ritardo del pagamento dei sussidi; la stessa situazione si ha
nello stato di La Rioja e in quello di San Juan, più a sud, alla frontiera con
il Cile, stato in cui gli insegnanti fanno uno sciopero che dura più di tre
settimane; nella provincia di R’os, giusto a nord di Buenos Aires, si ha una
giornata di sciopero generale che paralizza tutto; nella provincia di R’o
Negro, i lavoratori del settore pubblico fanno la stessa cosa con scioperi e
manifestazioni violente, alla fine di settembre 1995 per ottenere il pagamento
dei salari; nella Terra del Fuoco, all’estremo sud, a Ushuaia, numerose
centinaia di lavoratori occupano per dieci giorni un’officina di montaggio di
televisori che era minacciata di chiusura, chiedendo anche loro il pagamento dei
salari, e vengono attaccati da una polizia particolarmente violenta: un morto e
venticinque feriti. Nel dicembre del 1995, le riforme fiscali e amministrative
portate avanti da Menem, e appoggiate dal ministro della finanza Cavallo,
accentuano ancora di più la recessione economica: dappertutto si annunciano
licenziamenti di impiegati e nella gran parte delle province si accumulano gli
arretrati di salari non pagati; in certe province, perfino le più ricche, le più
sviluppate economicamente, come quella di Cordoba, le manifestazioni violente
sono frequenti. Si constata già che la classe media si impoverisce sempre di più.
Se il 2% degli argentini guadagnano allora l’equivalente di più di 60000
franchi al mese, il 44% delle famiglie vivono con meno di 4000 franchi, mentre
il costo della vita è corrispondente a quello dell’Europa.
Le organizzazioni dei
disoccupati, i “piqueteros”, diventano sempre più attive a partire da
questo periodo e sviluppano delle tattiche specifiche suggerite dai bisogni
elementari di sopravvivenza: nel giugno 1996, a Cutral Co, nella provincia di
Neuquen (nell’estremo ovest vicino al Cile), e nella città vicina di Plaza Huincul, la principale strada della regione
è occupata per una settimana; dopo lo scontro con la gendarmeria locale, il
governatore infine fa procedere alla distribuzione dei viveri. Da aggio a luglio
del 1997, numerose province sono toccate dall’azione dei piqueteros, di nuovo
a Central Co, a Tartagal (nella provincia di Salta, nell’estremo nord-ovest,
alla frontiera con la Bolivia), a San Salvador de Jujuy (nella provincia di
Jujuy, vicino la precedente, verso il Cile), a Cruz del Eje (nella provincia di
Cordoba, vicino all’importante città di Cordoba, a nord-ovest di Buenos
Aires), migliaia di piqueteros bloccano la strada principale per 45 giorni per
il cibo e l'innalzamento dei costi dell'acqua e dell'elettricità. Ovunque, i
disoccupati si scontrano con le forze della repressione.
Nel 1998, a Corrientes, nella
provincia che porta lo stesso nome, al nord del paese, i lavoratori municipali
bloccano i ponti sul fiume Parani, che assicurano il passaggio alla provincia
vicina di Chaco Central; i piqueteros accorrono a sostenerli. Fernando De
La Rua, successore di Menem, fa caricare i manifestanti e il bilancio di 10
morti e di numerosi feriti non calma una rivolta che si prolunga per più di una
settimana. Di nuovo nella provincia di Salta (estremo nord-ovest), Tartagal, di
già teatro di sommosse nel 1997, conobbe, nel dicembre 1999 e poi nel maggio
2000, dei movimenti molto importanti: questa città e Mosconi, nella stessa
provincia, sono occupate per molti giorni, le force dell'ordine praticamente
espulse. Nel maggio 2000, l'annuncio di De La Rua di ulteriori tagli alla spesa
pubblica, getta più di 20.000 manifestanti nella strade. Il 6 ottobre, il
vice-presidente, Carlos Alvarez, leader del Fronte per un paese solidale (Frepaso),
si dimette per protestare contro l'insabbiamento di un'inchiesta di corruzione
del Senato. Di nuovo a Tartagal, nel novembre 2000, la morte di un manifestante
durante un'azione volta ad ottenere il pagamento dei salari arretrati provoca
una sommossa: degli uffici pubblici sono incendiati e dei poliziotti sono presi
in ostaggio. Tutta un'economia parallela di sussistenza si sviluppa, tessendo
dei legami al di fuori di tutta la mediazione statale; torneremo più avanti su
questo punto, evidenziamo soltanto questo, come il movimento dei disoccupati,
questi legami ricostituiranno una solidarietà e dei contatti di base che
formeranno le strutture attorno alle quali si svilupperà resistenza quando la
pentola sarà piena.
È precisamente quello che accade
durante l'ultimo trimestre del 2001. Ciò che si è dispiegato nel corso di
questi anni e quello che andrà a seguire non sono che un solo e unico
movimento, sempre più esasperato a causa della enorme disoccupazione e il
sotto-impiego (l'insieme comprende più del 40% della popolazione),
l'impantanamento dell'economia nella misura in cui non fa che accentuare i
problemi che vorrebbe combattere, in un'atmosfera di corruzione e di
repressione. Le ultime misure di una classe politica agli sgoccioli: la drastica
riduzione dei salari e delle pensioni, il blocco dei conti bancari, i maneggi
con le diverse monete in sostituzione del peso, la fuga di capitali, hanno reso
possibile il costituirsi di una unità di lotta. Tutte le classi della società,
ad esclusione delle classi dirigenti dell'economia, della politica e
dell'apparato repressivo, vanno unendosi alla lotta, stemperando le divergenze
che si erano manifestate in precedenza (per esempio, l'ostilità delle classi
medie al movimento dei piqueteros). Dove la classe possidente e le sue
servitù politiche detengono una insolente ricchezza, proveniente principalmente
dal saccheggio dell'economia e dell'appropriazione indebita dei prestiti del FMI,
il 20% degli abitanti vivono con meno di 2 pesos al giorno e l'84% di questi
percepiscono ogni mese meno di 1.000 pesos (circa 1.000 euro al corso di
allora). Il salario minimo, non sempre applicato, è fissato a 250 pesos al mese
(250 euro), e il reddito medio è stimato intorno ai 500 pesos. Si può
comprendere cosa significhi in queste condizioni il "corralito"
(restrizioni dei prelievi e dei movimenti bancari), la riduzione delle pensioni
e dei salari del 13%, e le misure di austerità imposte dal FMI.
Riprendiamo la cronologia degli
avvenimenti, rimandando a poi i tentativi di analisi:
1999
- 24 ottobre: il capo
dell’opposizione al peronismo, Fernando de la Roea (64 anni) viene eletto
presidente.
- dicembre: rincaro delle imposte
che tocca unicamente le classi medie.
2000
- 29 maggio: il governo de la
Roea annuncia un’ importante riduzione delle spese statali, con un taglio dei
salari tra il 12 e il 15% per 140.000 funzionari, estromissione dei sindacati
dalla gestione delle opere sociali: 20.000 persone protestano per le strade di
Buenos Aires.
- 6 ottobre: il vice presidente
Carlos Alvarez, leader del Fronte per un paese solidale (FREPASO) si dimette per
protesta contro il soffocamento da parte del Senato dello scandalo dei bicchieri
di vino versati in occasione del voto per la riforma del diritto del lavoro,
nell’aprile 2000.
- 28 dicembre: l’FMI assegna
all’Argentina 40 miliardi di dollari (45miliardi di euro).
2001
-16 marzo: de la Roea, presidente
d’una fragile alleanza politica tra il FREPASO, un’ amalgama di peronisti
dissidenti, socialdemocratici e di centro-sinistri, e il centro-destra (Unione
civile radicale), lancia un nuovo “piano di austerità” approvato dall’FMI.
-19 marzo: Domingo Cavallo,
redivivo monetarista che operò sotto la dittatura militare e autore della
catastrofica parità peso-dollaro, ministro dell’economia, ottiene poteri
speciali per “risolvere la crisi”. Numerose manifestazioni contro le misure
proposte, a Buenos Aires e in periferia.
- 27 aprile: un terzo piano
d’austerità che prevede di “riorganizzare” il servizio pubblico.
- maggio: Maggio: alcune
centinaia di figli di disoccupati manifestano a Buenos Aires dopo aver marciato
durante due settimane attraverso la provincia lontana del nord-ovest di Jujuy.
-11 luglio: undicesimo piano di
stabilizzazione che prevede un ribasso del 13% dei salari e delle pensioni che
provoca numerose manifestazioni e giornate di sciopero.
-19 luglio: il paese è
paralizzato da uno sciopero indetto dai sindacati che precede le manifestazioni
contro il piano d’austerità in tutto il paese il 29 agosto.
-14 ottobre: elezioni
parlamentari. Poiché i voto è obbligatorio e l’astensione passibile di
ammenda, ci sono state più del 40% di schede bianche o nulle e all’incirca un
20% di astenuti. Disfatta dell’Alleanza di governo e “successo”
dell’opposizione peronista.
- 1 dicembre: il governo con
Cavallo decide di limitare il ritiro di contanti a 1000 dollari al mese (pesos)
e di vietare i trasferimenti all’estero.
Dopo mesi, il governo presieduto
da de la Roea dal dicembre 1999 non è ancora riuscito a contenere le
manifestazioni e le sommosse ricorrenti nelle città di provincia, blocchi
stradali e saccheggi ad opera di disoccupati organizzati, i piqueteros,
azioni collettive o individuali, come la manomissione dei distributori di
biglietti. Parallelamente, i più ricchi ritirano i loro soldi dalle banche per
trasferirli all’estero o al sicuro: 1miliardo e 300 milioni di dollari se ne
sono volati via così.
- 3 dicembre: per piegarsi agli
imperativi dell’FMI, di cui una missione giunta a Buenos Aires detta le sue
condizioni, vengono prese misure di stretto controllo delle banche che limitino
l’uscita di soldi verso l’estero (la maggior parte è già uscita) e il prelievo di contante dai conti bancari.
Quest’ultima misura è particolarmente costrittiva, specialmente per i più
poveri, giacché la maggior parte delle transazioni vengono fatte in liquidi.
La maggior parte delle transazioni devono riferirsi a delle monete di
circostanza, emesse dalle organizzazioni di cambio ma anche dalle province, poi
dallo stesso Stato (che ha anche confiscato gli averi delle casse pensionistiche
convertiti in buoni cartacei cambiabili): il dollaro resta sovrano ma è
soprattutto tesaurizzato, lasciando il posto non soltanto al peso ma a ai patacones,
argentino, lecops e altri "buoni" di tutte le specie.
- 5 dicembre: l’FMI nega un
nuovo credito all’argentina per non aver compiuto la riforma di tutto il
sistema statale, riforma resa impossibile dall’opposizione simultanea dei
governatori delle province e dall’avanzata della resistenza popolare contro
tutte le misure già prese, ma giudicate insufficienti, dall’FMI.
- giovedì 13 dicembre: i tre
sindacati organizzano uno sciopero generale di 48 ore (il dodicesimo in due
anni) contro l’abbassamento dei salari e delle pensioni e la limitazione dei
prelievi bancari. Sciopero tanto inefficace quanto i precedenti, nonostante la
massiccia partecipazione (migliaia di persone per le strade e blocchi stradali
paralizzanti).
Molte discussioni si susseguono al livello della classe
dirigente per tentare di vedere quali restrizioni poter far subire alle classi
medie e operaie affinché le classi possidenti possano fuoriuscire dal marasma
economico, generatore di una enorme miseria sociale che da un momento all'altro
può esplodere dando origine a movimenti pericolosi per l'ordine sociale
capitalista. Si valuta che in sei mesi, più di 500.000 persone sono sprofondate
nella miseria sociale, accrescendo le "città di miseria" dove sono
comparse degli striscioni recanti la scritta ironica "benvenuto alle classi
medie", causando la povertà generale di quasi la totalità della
popolazione (escluse le limitate frange della classe dominante e dei suoi più
zelanti servitori). Si è stimato che in questo periodo ogni giorno 2.000
appartenenti alle "classi medie" sono scese di un gradino nella scala
sociale. Un economista argentino sottolinea che "la classe media si vede in
mezzo alla strada. Quella attuale è una situazione totalmente nuova".
Un'altra manifestazione sindacale è prevista per il 21, ma i dirigenti
sindacali saranno sorpresi in velocità da un'esplosione sociale che gli
incidenti e le violenze, limitati ma frequenti, avrebbero potuto lasciare
prevedere: le passeggiate sindacali punteranno a neutralizzare tutto per
aggiungere maggior peso ai burocrati nei loro intrighi attorno al potere.
- Il 14: nuove manifestazioni.
- Sabato 15 dicembre: i saccheggi
dei supermercati e dei magazzini prendono una grande ampiezza nelle città delle
province, quelle maggiormente toccate dalla miseria. Tali azioni non sono
affatto nuove, anche se nel recente passato sono state più sporadiche. Spesso
sono praticate da organizzazioni di disoccupati (il tasso dei disoccupati è in
media del 25%, molti di più in certe regioni o quartieri della Grande Buenos
Aires), i piqueteros organizzano anche per alcuni mesi dei blocchi
stradali, non solo per ottenere una maggiore efficacia nella paralisi del
sistema economico, ma anche per saccheggiare i camions di rifornimenti,
corrispettivo dei saccheggi dei supermercati o di altri centri di distribuzione.
Come sempre, di fronte all'estensione di questi disordini, delle voci insinuano
che questo sviluppo della violenza sociale può essere in parte dovuto ai
conflitti di potere in seno al peronismo. Certe fazioni tentano sia di prendere
il potere a favore dei disordini esistenti, e sia di consolidare questo potere
verso una repressione violenta inviando delle quadre di provocatori per creare
dei focolai di violenza. Una campagna di intossicazione cerca anche di
indirizzare la classe media contro i "saccheggiatori" mettendo in giro
la voce che delle "bande" starebbero attaccando le case nei quartieri
delle classi medie; ciò sarà comunque smentito quando dei gruppi di autodifesa
avranno atteso invano questi saccheggiatori inesistenti.
- 17 dicembre: è in queste
condizioni che il governo annuncia che il nuovo bilancio prevede dei tagli alle
spese del 20%, che implica una nuova caduta generalizzata del livello dei
servizi, dei salari e delle pensioni. Una consultazione popolare, lanciata dal
Fronte nazionale contro la povertà per il lavoro e la produzione (Frenapo,
organizzazione che riunisce il sindacato CTA, la Chiesa e diversi gruppi
umanitari o civici) e che rivendica in particolare una
assicurazione-disoccupazione, ha raccolto 2.700.000 voti in favore della
creazione di un "salario di cittadinanza" per combattere la
disoccupazione, la povertà e la recessione. Questa votazione, organizzata al di
fuori di tutte le mediazioni governative o politiche, sembra essere stata una
sorta di ritorno di fiamma riformista nei confronti di un movimento che,
iniziato dai piqueteros, è sfuggito loro totalmente in un'ondata di
marea furiosa.
Domenica 16, lunedì 17, martedì 18: i saccheggi e le
sommosse sconfinano nella regione di Buenos Aires e la repressione diviene più
dura con dei morti fra gli attivisti. È impossibile contarli tutti: sono
centinaia, migliaia, principalmente poveri e disoccupati, ma anche membri
proletarizzati delle classi medie che si scagliano su tutti i centri di
distribuzione (supermercati, magazzini, negozi, etc.) e i palazzi pubblici. Per
esempio, più di 2.000 manifestanti riuniti davanti a un supermercato Auchan a
Quilmes, nella regione di Buenos Aires, non si disperdono che dopo aver ricevuto
la promessa di una distribuzione di 3.000 sacchi da 20 Kg di prodotti alimentari
e del pagamento degli stanziamenti che avrebbero dovuto essere versati a
sostegno delle politiche di occupazione.
La giornata di mercoledì 19
dicembre e la notte tra il 19 e il 20 sono particolarmente confuse. Il movimento
si estende, quasi spontaneamente, quando il governo De La Rua denunciò
"l'anarchia" e minacciò di "ristabilire l'ordine", ciò che
successe in ogni caso nel corso della giornata del 19 con la decretazione dello
stato di assedio (tutte le riunioni pubbliche di più di 10 persone sono
considerate sovversive, i media sono censurati e le forse di repressione sono
mobilitate al massimo grado). I primi "concerti di casseruole" (caserolazos)
non fanno che riprendere una pratica che avevano accompagnato la fine della
dittatura militare nel 1976. Le manifestazioni, sommosse e saccheggi si
diffondono così in tutti i sobborghi di Buenos Aires e in più di una dozzina
di città in tutto il paese. Il presidente è assalito dalla folla quando esce
da una riunione con il governatore della provincia. Molti poliziotti vengono
disarmati ed alcuni pestati.
Nella serata del 19, una
manifestazione enorme di almeno 1 milione di persone converge spontaneamente
verso Plaza de Majo (celebre per le manifestazioni delle madri dei desaparecidos,
sotto la dittatura militare, manifestazioni che si sono susseguite fino
ad oggi per richiedere delle condanne contro i responsabili dei massacri
perpetrati allora), davanti al Palazzo Presidenziale, e, al grido di
"dimissioni!", fischiano i dirigenti politici e sindacali. Alle una
del mattino, la polizia carica per liberare la piazza: la folla disperata
(vecchi, donne, bambini) si disperde ma gli elementi più combattivi si
riorganizzano e ingaggia una battaglia cruenta nelle vie del centro di Buenos
Aires. Dei poliziotti saranno fatti prigionieri e disarmati; altri saranno
pestati. Su molti chilometri, tutte le banche sono incendiate, lo stesso ai
locali di Mac Donald's.
Così commenta gli eventi un
testimone dell'esplosione del 19 dicembre: "...a dispetto della loro
violenza, le rivolte della fame di mercoledì 19 dicembre, che toccheranno
diversi sobborghi di Buenos Aires e una dozzina di altre città in tutto il
paese, sono state largamente prevedibili... I controlli bancari imposti questo
mese per bloccare la strada verso i depositi bancari ha ugualmente prosciugato
la circolazione monetaria nell'economia e ha danneggiato i poveri che
sopravvivono con lavori irregolari. La sorpresa viene da quello che succede in
seguito. Al termine della notte, intere famiglie dei quartieri della classe
media come Belgrano, lasciarono le loro case e cominciarono a picchiare sulle
pentole in un movimento di protesta contro il governo e la sua politica
economica. Le automobili claxonanti e tutta questa gente canteranno fino alla
mattina come se il paese avesse vinto la coppa del mondo. Migliaia fra questi,
conversero in Plaza De Majo dove si trova il Palazzo Presidenziale, con i figli,
i cani e tutta la famiglia. La protesta spontanea era apparentemente provocata
dal rifiuto che aveva causato l'annuncio alla nazione di De La Rua, mercoledì
sera... Nella giornata di giovedì 20, l'atmosfera era drammaticamente cambiata.
Barricate sorgevano in molte strade di Buenos Aires; i giovani sono i più
determinati e i più efficaci poiché hanno acquisito esperienza affrontando la
polizia nella confusione che segue i concerti rock o le partite. Folle di
giovani uomini, col viso coperto, ergono barricate di protezione, attaccano
gettando pietre alla polizia che risponde con lanci di lacrimogeni e proiettili
di gomma. Altri manifestanti sono attaccati dalla polizia che è riuscita a
superare le barricate, alcuni sono trascinati nelle camionette della
polizia".
Un'altra testimonianza di uno
studente dimostra come un simile movimento è nato spontaneamente; egli descrive
subito il suo viaggio del pomeriggio del 19 dicembre, in una città quasi
deserta dove i supermercati sono stati chiusi per la paura dei saccheggi, dato
che altri erano già stati presi di mira; tornato a casa, ascolta il discorso di
De La Rua alla televisione: "...qualche cosa che io non posso spiegare mi
spinge a mettermi di corsa scarpe e maglietta; ho preso una grande pentola e, a
torso nudo, ho camminato fino all'angolo della via e ho cominciato a sbattere la
vecchia pentola con un fondo di bottiglia... Noi ci rendiamo conto di non essere
solo dei pazzi isolati e dopo qualche minuto, all'angolo della via, siamo già
diverse dozzine con le nostre pentole. Il movimento di protesta si generalizza,
anche se non sapevamo dove andare. Fino a quando un gruppo di musicisti
ambulanti affascinati dalla cosa, si unisce a noi. Qualche minuto più tardi, ce
ne andiamo in Plaza De Majo. Senza cambiarci, ci andiamo senza documenti, senza
soldi, soltanto con i nostri cellulari per poter restare in contatto. Non
sappiamo perché ci stiamo andando ma qualcosa ci dice che ci dobbiamo andare...
Vediamo una marea umana che si dirige li, ci rendiamo conto che qualcosa di
nuovo sta nascendo... Milioni di persone incominciano a cantare "coglioni,
coglioni, il vostro stato di assedio potete mettervelo in culo" oppure
"il popolo non sarà mai vinto"... Nessuno comanda la marcia, nessuno
la dirige ma ci muoviamo tutti lo stesso..."
- Descrivendo gli avvenimenti di
questi giorni e dei seguenti, il quotidiano britannico Finacial Times poteva
scrivere: "una volta che la miccia è stata accesa, sembrava che non ci
fosse alcun mezzo per fermare l'incendio. Quello che era cominciato con qualche
incidente isolato di saccheggio di supermercati nelle lontane province si è
esteso come un incendio in tutti i paesi durante il fine settimana". Le
immagini della repressione diffuse
dalla televisione e i racconti dei manifestanti tornati nei loro quartieri,
amplificano la rivolta.
- Nelle province, la situazione
non è più calma. A Còrdoba, seconda città dell'Argentina, sede
dell'industria dell'automobile, la rottura dei negoziati con il Comune per i
salari dei dipendenti comunali sfocia nell'occupazione del Comune per tenere
un'assemblea. Sgomberati dalla polizia, tentano di incendiarlo ed erigono
barricate nelle strade, raggiunti dagli operai di molte fabbriche che entrano in
sciopero. Questo giorno e i seguenti, manifestazioni ed altre diverse azioni
(saccheggi dei supermercati) riproducono la stessa dinamica crescente in una
unità di tutte le diverse azioni simili a quelle che si sviluppano nella
capitale. Ma anche qui la repressione fu dura con pallottole vere e proprie.
- Giovedì 20, dalla mattina,
migliaia di manifestanti si uniscono alla periodica manifestazione settimanale
delle Madri di Plaza De Mayo e il Ministro delle Finanze Cavallo, apologo del
monetarismo e del libero mercato, si dimette. Un testimone descriverà così
questa ondata interamente spontanea: "la gente andava e veniva, i cortei si
trasformano, i viali si svuotano e si riempiono di nuovi uomini, di donne, di
famiglie con i loro cani... È stato qualche cosa di impressionante perché
totalmente spontaneo..." I manifestanti si riuniscono di nuovo davanti al
Parlamento, davanti alla residenza del Primo Ministro, davanti al Ministero
delle Finanze. La casa di Cavallo è assediata quando egli pensa di mettersi al
sicuro con la sua famiglia all'estero. I divieti imposto dallo stato di assedio
restano lettera morta ed è sulle strade che "l'ordine deve farsi
rispettare". Degli scioperi a sorpresa si sviluppano nei trasporti locali.
Alcuni gruppi tentano di entrare nel Palazzo Presidenziale, il Ministero
dell'Economia viene incendiato. Le forze dell'ordine entrano in azione, sparando
proiettili veri. Gli scontri di strada dureranno più di nove ore. Nel distretto
operaio della periferia di Buenos Aires, bande di giovani attaccano i negozi di
alimentari, i supermercati, travolgendo i poliziotti che stavano a presidiarli.
Delle squadre di assassini in borghese si nascondono in mezzo ai manifestanti e
un certo numero di manifestanti saranno abbattuti con una pallottola nella nuca.
Quello stesso giovedì, i
sindacati organizzano una giornata di sciopero generale per protestare contro lo
stato di assedio... per un giorno soltanto, ordinando la ripresa del lavoro per
il giorno dopo, ripresa che comunque è avvenuta molto parzialmente.
- Da queste giornate di scontri,
si conteranno più di 35 assassinati (24 a Buenos Aires, 5 a Santa Fe, 1 a
Cordoba, 1 a Tucumin, 1 a Corrientes, 1 a Rio Negro), centinaia di feriti (185 a
Buenos Aires) e migliaia di arresti (cifre ufficiali 3.273, di cui 2.400 a
Buenos Aires). Le dimissioni del presidente del governo De La Rua nella serata
di giovedì 20 dicembre (dovrà essere prelevato in elicottero per poter tornare
a casa sua) mostra che le autorità non sapevano come arginare il movimento che
non è disposto a cedere nonostante la brutale repressione. Pertanto la
repressione, congiunta alle manovre politiche, è servita ai dirigenti del
sistema per prendere fiato. Ma non sarà che una interruzione parziale.
- Il 23 dicembre, per tentare di
placare la rivolta, il nuovo presidente, Adolfo Rodriguez Sai, annuncia delle
misure demagogiche: la sospensione del debito estero, un milione di posti di
lavoro, ecc. Senza effetto.
- Il 24, promette alle Madri di
Plaza de Majo, l'annullamento del decreto che impedisce l'estradizione dei
torturatori della dittatura militare.
- Ma il 25, l'ex presidente
Carlos Menem è liberato dalla prigione dove era detenuto per corruzione, e
annuncia la sua candidatura per il 2003: misure destinate a calmare una frazione
del clan peronista.
Nella notte fra il 28 e il 29
dicembre, a causa della carenza di politici in grado di rispondere alle
rivendicazioni dei manifestanti, e nonostante le dimissioni di tutto il governo,
nuove manifestazioni si radunano in Plaza de Majo. Nella mattinata, i Mac
Donald's, delle banche e degli uffici pubblici sono attaccati e incendiati.
Migliaia di membri delle classi medie convergono, in un concerto di pentole,
verso la piazza, unendosi alle Madri di Plaza de Majo in un sit-in subito
dispero dall'azione della polizia. La manifestazione vorrebbe essere pacifica ma
a causa dell'azione poliziesca, dei gruppi di giovani tentano di assaltare il
palazzo del governo. In un bar, un poliziotto in pensione abbatte, a sangue
freddo, tre giovani che manifestavano troppo apertamente il loro appoggio ai
manifestanti. 12 poliziotti sono feriti, 33 gli arresti.
- Il 30 dicembre, il presidente
in interim Saa, appena nominato, si dimette, preso fra tutto il movimento di
resistenza e l'abbandono da parte dei suoi pari negli scontri di clan in seno al
movimento peronista. È rimpiazzato, nella notte fra l'1 e il 2 gennaio, da un
peronista di un altro clan, Eduardo Duhalde (avvocato di 60 anni da un passato
molto dubbioso di corruzione quando era governatore della provincia di Buenos
Aires ed anche di trafficante di droga, che ha lasciato le casse della più
grande provincia argentina, quella di Buenos Aires, completamente vuota con un
debito più consistente di quello messo insieme delle altre 14). Egli
rappresenta una sorta di unione politica (alleanza dei peronisti, del Frepaso e
dei radicali, con il sostegno della Chiesa cattolica) compresa una parte di
quella che si chiama sinistra. Dichiara al padronato radunato: "la prossima
tappa della nostra decadenza sarà un bagno di sangue". Dei militanti
peronisti manifestano davanti l'assemblea per sostenere questo candidato di
"unione nazionale". Duhalde annuncia nello stesso tempo l'abbandono
della parità peso-dollaro e la sospensione del pagamento del debito. Nuove
manifestazioni che non indeboliscono il presidente. Un generale può dichiarare:
"è la prima volta che la società argentona depone un presidente senza la
partecipazione delle forze armate".
2002
- Durante tutto gennaio, le
manifestazioni si ripetono ma si può pensare che il miscuglio di promesse
politiche, di rinforzo della presenza poliziesca e militare fanno si che, pur
mantenendo una grande ampiezza per la partecipazione e l'estensione geografica,
si mantengano tuttavia in un certo quadro istituzionale.
- 11 gennaio: il concerto
abituale delle pentole in una manifestazione pacifica si trasforma di nuovo in
rivolta nel centro di Buenos Aires, con degli attacchi alle banche e l'assedio a
società straniere.
- 14 gennaio: nuove
manifestazioni, solitamente davanti al Palazzo Presidenziale, quando nelle
province di Santa Fe e di Jujuy, migliaia di manifestanti attaccano le banche.
Nel mercato centrale di Buenos Aires, 500 piqueteros che pretendono dei
viveri sono caricati dagli sbirri dei padroni e dai lavoratori del mercato;
alcune banche sono attaccate.
- 25 gennaio: una nuova
manifestazione mostra nel centro di Buenos Aires, mobilitata dai comitato di
quartiere, si scontra con uno schieramento di polizia senza precedenti. In
provincia, delle manifestazioni simili si originano nello stesso tempo; a Junin,
600 manifestanti bruciano la casa di un deputato peronista.
- 28 gennaio: più di 15.000 piqueteros
sostenuti dall'assemblea popolare, convergono sulla Piazza de Majo, accolti
quasi come dei liberatori, ai quali viene offerto da mangiare e da bere. Per
tentare di indebolire il movimento dei disoccupati, Duhalde riceve una
delegazione di piqueteros, ai quali annuncia egli stesso un programma per
la creazione di posti di lavoro retributiti con 200 pesos (116 euro).
- All'inizio di febbraio, la
stanchezza di fronte al temporeggiamento dei politici sembra indurre a una nuova
radicalità. Il 1° febbraio, la Corte di Giustizia dichiara
"incostituzionale" il "corralito" (provvedimento di
restrizione dei prelievi e dei movimenti bancari deciso all'inizio della crisi
argentina e mai ritirato); ma questa misura presa da un tribunale composto da
una maggioranza di giudici favorevoli alle tendenze peroniste fedeli a Carlos
Menem è più una manovra politica destinata ad imbarazzare il presidente
Duhalde, che si trova costretto ad annullare il piano economico che aveva appena
annunciato. La Banca Centrale decide il blocco di tutti i conti bancari e dei
marcati dei cambi per evitare le fughe di capitali. In realtà, i capitali e le
fortune private sono già uscite da alcuni mesi (l'ammontare totale dei depositi
all'estero è uguale ai tre quarti dei 150 miliardi del debito estero) e queste
misure toccano, come tutte le misure precedenti, i piccoli risparmiatori delle
classi medie. Le manifestazioni si susseguono e si indirizzano in particolare
contro le banche, compresa la Banca Centrale. Decine di migliaia di persone si
riuniscono su Plaza de Majo, convocate dalle assemblee di quartiere, e delle
manifestazioni simili si sviluppano in più di 100 città del paese.
- Sabato 2 e domenica 3 febbraio:
le ragioni del blocco divengono chiare con l'abbandono della parità
peso-dollaro, il fluttuare del peso e una conversione complessa dei conti
bancari che danneggiano tutti quelli che non hanno potuto fare dei trasferimenti
all'estero o conservare dei dollari. Il progetto di bilancio annunciato non
trova l'accordo che della metà di quello che rivendicavano i disoccupati; non
è previsto alcun aumento dei salari se si tiene conto che l'inflazione che
deriverà dalle misure monetarie è valutata al 15%. Alcune stime lasciano
pensare che il numero dei poveri passerà da 15 a 17 milioni. Nello stesso
tempo, il governo annuncia che "bisogna ricostituire l'apparato
produttivo" (sottointendendo con dei "sacrifici" imposti ai
lavoratori e ai pensionati) e aggiunge che il paese era "ai margini
dell'anarchia", che bisogna "mantenere la pace sociale"; Duhalde
aggiunge anche che egli "non è un presidente debole". Si sa cosa
vuole dire.
- 5 febbraio: la risposta arriva.
I piqueteros si riuniscono sulla Plaza de Majo e le strade sono bloccate
con degli sbarramenti un po' dappertutto. Il loro slogan è "pane e
lavoro". Le classi medie, ostili in altre occasioni, non lo sono più del
tutto, tanto meno per quelle i cui membri sono decaduti nella scala sociale,
spesso nella condizione di disoccupati. Come giungono dai quartieri periferici,
i manifestanti sono accolti con cibo e bevande.
- 6 febbraio: le rivolte si
dislocano davanti alle banche.
- 7 febbraio: i concerti delle
pentole riprendono con rinnovato vigore. Migliaia di manifestanti si riuniscono
davanti al Palazzo di Giustizia di Buenos Aires, richiedendo le dimissioni dei
giudici corrotti, e promettono di ritornare ogni giovedì finché non sarà
avviata un processo di destituzione (i giudici sono accusati specialmente di
aver coperto il traffico di armi di cui è accusato Carlos Menem). Buenos Aires
assume l'aspetto di una città assediata, testimonianza dei frequenti incidenti
che avvengono con le forze dell'ordine: le cabine del telefono e le fermate
dell'autobus sono pressoché distrutte e le banche e gli uffici delle società
sono blindate con pannelli di ferro.
- È una situazione che si
riproduce quasi quotidianamente con gli stessi obiettivi: uffici giudiziari,
ministeriali, bancari, ecc. Gli uomini politici più famosi per la loro
corruzione sono particolarmente attaccati: manifesti recanti il loro volto sono
diffusi su internet ed anche su un canale televisivo, con il loro indirizzo e le
coordinate personali, le loro foto sono attacchinate nella città con le stesse
informazioni; questi praticamente non possono più uscire di casa poiché, se
riconosciuti, sono immediatamente chiamati, spintonati e perfino maltrattati. I piqueteros
non solo continuano i loro blocchi ma tentano sempre con la persuasione o con la
violenza di farsi regalare del cibo; i saccheggi diventano più difficoltosi
perché i supermercati e i magazzini sono chiusi e blindati e/o controllati da
milizie o poliziotti. In tutto questo periodo, dopo gennaio, i comitati di
quartiere, federate in assemblee di quartiere e in collettivi più ampi, sono
con i piqueteros al centro delle azioni più importanti, agendo in piazza
come gruppi di pressione sul potere. Al punto che uno dei dirigenti politici
crede di dover ricordare che, ai termini della Costituzione, "il popolo non
delibera e non governa che attraverso l'intermediazione dei suoi
rappresentanti... Bisogna arrestare la fantasia della gente nelle strade che
decidono di quello che si deve o non si deve fare... Bisogna indirizzare le
richieste alle autorità... in modo ordinato e sensato invece di darle in pasto
agli agitatori abituali..."
- Febbraio. Per sostenere il presidente Duhalde e un progetto
di bilancio capace di soddisfare gli imperativi del FMI, il finanziamento delle
province (i governatori hanno ottenuto che il 30% dei nuovi prelievi fiscali
siano loro attribuite in cambio della promessa di ridurre del 60% il loro
deficit) e che prevede delle nuove tasse sulle esportazioni congiunte con una
riduzione del 14% dei dipendenti statali, in una sorta di contro-manifestazione
peronista, si radunano migliaia di militanti davanti al Parlamento, sventolando
bandiere argentine.
Una trasmissione del canale televisivo America,
"Dietro le informazioni", mostra come i quadri del partito peronista
reclutino manifestanti per 25 pesos o mediante una promessa di impiego.
Nel momento in cui stiamo
ultimando questo opuscolo (15 maggio 2002) la situazione in Argentina è lontana
dall'essere risolta. Il Finacial Times del 14 maggio 2002 può titolare:
"Piano di salvataggio, ritorno al punto di partenza". Praticamente
dopo il colpo di arresto brutale della repressione sanguinosa del 19 e 20
dicembre, le forze di resistenza si sono in qualche modo ricostituite e
riorganizzate al di fuori dai circuiti economici, sociali e politici ufficiali
ma evitando fino ad oggi di scontrarsi direttamente e globalmente il sistema.
Pertanto, dietro a questo apparente immobilismo (in parte dovuto al silenzio
mediatico) che potrebbe far pensare ad un'impasse, queste forze sono sempre
vigorose e delle trasformazioni, anche più radicali nelle pratiche della vita
quotidiana, si delineano.
Dal lato del capitale, gli
avvenimenti recenti non contribuiscono affatto ad una maggiore chiarezza. Senza
dubbio il governo Duhalde dispone sempre della sua "legittimità
costituzionale" ma, garantito da un apparato poliziesco e militare
onnipresente, la sua autorità non sembra quasi sorpassare le porte del Palazzo
Presidenziale. Il timore di una esplosione sociale radicale fa si che non possa
piegarsi direttamente alle esigenze del FMI, che tiene i cordoni della borsa. Un
nuovo aiuto finanziario, nei fatti, non risolverebbe un granché tanto
l'economia argentina, in termini capitalistici, naviga nel marasma. Diamo qui di
seguito gli ultimi sviluppi di aprile e di maggio.
- 16 aprile: il Ministro
dell'economia Leninev, accusato di essere troppo accomodante con il FMI, ribatte
agli apostoli dell'economia liberale che ha rovinato l'Argentina: "non
domandateci di fare in aprile quello che non abbiamo potuto fare in sette
anni".
Il peso ha perduto dopo dicembre
in rapporto al dollaro i due terzi del suo valore, rovinando ancora di più
quelli che avevano dei pesos o altre monete parallele e accrescendo
considerevolmente i rischi di inflazione. La pressione del FMI serve unicamente
a preservare gli interessi del capitale, prevalentemente straniero. Riguardo
alla riforma dello Stato, le misure promosse dal FMI implicano il licenziamento
di 500.000 impiegati delle province e dello Stato; ciò avrà, nelle circostanze
attuali, delle conseguenze drammatiche per il sistema. Le province continuano ad
emettere dei "buoni" che servono a pagare questi impiegati, più o
meno fittizi, buoni che circolano come moneta parallela. Una delle condizioni
del FMI è l'arresto di queste emissioni, che equivale al licenziamento degli
impiegati occupati, le province non detengono affatto risorse in moneta legale,
peso o dollaro.
- 24 aprile: il Ministro
dell'Economia, ripudiato dal FMI, si dimette (il quinto in un anno) quando i
detentori dei conti bancari di cui il totale è stato convertito in buoni a
pagamento ritardato, hanno manifestato davanti al Parlamento protetto da un
impressionante schieramento di forze di polizia e militari. I manifestanti sono
riusciti a distruggere le automobili dei parlamentari.
Per calmare le conseguenze di una
decisione della Corte Suprema che sospendeva il blocco dei conti bancari
(decisione che avrebbe determinato il fallimento delle banche poiché queste non
posseggono di liquidità), il governo ha quindi decretato dei "giorni di
vacanza illimitata", durante i quali le banche sono chiuse. Tuttavia deve
ritornare su questa decisione sotto la pressione della strada e di una parte
dell'apparato politico, per ristabilire il blocco per via legislativa.
Dappertutto, in particolare nelle
province, i lavoratori del settore pubblico non pagati manifestano
violentemente. A San Juan (nord-ovest), la polizia spara sui manifestanti per
proteggere gli uffici pubblici. La classe politica cerca in tutti i modi di
evitare le elezioni per la paura di una disastro totale del sistema
rappresentativo. La povertà minaccia la metà della popolazione, cioè 18
milioni di abitanti, e si scontra quotidianamente con l'oscillazione dei prezzi.
- 26 aprile: discussione su 14
punti di misure diverse imposte dal FMI. Il peggioramento delle difficoltà
quotidiane pone le condizioni per un rifiuto. Gli ospedali non hanno
praticamente più medicine nè farmaci, bisogna fare delle interminabili code
per ottenere un appuntamento con un medico uno o due mesi più tardi. Un
argentino su due non ha più diritto all'assistenza sociale.
- 9 maggio: annuncio del
fallimento totale dei negoziati con il FMI.
I piqueteros: recupero ed esproprio
L’estensione della
disoccupazione nel 1996 ha favorito non solo lo sviluppo di organizzazioni
specifiche di disoccupati, ma anche la comparsa di nuovi metodi di lotta. Questi
rompevano con ciò che le organizzazioni di disoccupati non erano riuscite a
realizzare in altri paesi, in cui esse pervenivano solo a timidi tentativi, per
ragioni ogni volta specifiche e facilmente spiegabili.
È quasi un luogo comune
constatare che in generale i disoccupati non interessano affatto, salvo nel caso
che la loro proporzione divenga preoccupante per il potere pubblico, in quanto
minaccia il difficile equilibrio fra il finanziamento volto a garantire la pace
sociale e la pace sociale stessa, o quando, per gli occupati, la paura della
disoccupazione può modificare i comportamenti sia nei rapporti di lavoro sia
nelle scelte politiche. Nel corso di un certo numero di anni i piqueteros, disoccupati
organizzati su base essenzialmente locale, per far valere quelli che ritenevano
loro diritti, avevano fatto ricorso a blocchi stradali che riuscivano
momentaneamente a bloccare il processo economico. Essi recuperavano così una
tattica universalmente conosciuta (praticata anche qui in Europa, fino alla
Russia – una tattica di larga scala), ma che non preoccupava e non coinvolgeva più di
tanto gli occupati e la “classe media” nella loro situazione.
Pur essendo violentemente represse, le loro lotte restavano isolate,
localizzate, e non riuscivano a trascinare altri settori della popolazione,
lavoratori o non, che pure cominciavano ad essere presi nelle
difficoltà della crisi economica, il che legittimava ancora di più la repressione e
un certo ostracismo da parte del potere. Le cose tuttavia cominciarono a
cambiare proprio a causa della crisi economica: poiché il numero di disoccupati
aumentava e dei settori sociali fino allora non coinvolti cominciavano a subire
il peso della crisi, la repressione diventava più difficile a causa del
coinvolgimento in queste azioni di un numero maggiore di persone e di un certo
sostegno indiretto ad esse, laddove prima queste azioni incontravano solo
indifferenza o addirittura ostilità.
Questa
tattica era quella di un gruppo sociale che non aveva altri mezzi di pressione
sul potere politico, poiché totalmente impossibilitato al ricorso allo
sciopero.
I disoccupati argentini erano
senza sussidio e si dovevano organizzare per la loro sopravvivenza;in un certo
senso queste pratiche di gruppo erano diventate un prolungamento di quelle
individuali. Mentre quest’ultime diventavano sempre più difficili, con
l’aumento dei disoccupati, le organizzazioni dei disoccupati divenivano più
radicali. In un primo momento, i blocchi stradali, indipendentemente o meno dai
giorni di sciopero e dalle manifestazioni ricorrenti organizzate dai sindacati,
tendevano essenzialmente a fare pressione sul governo per ottenere subito cibo,
medicine ed, eventualmente, lavoro. Sembra che questi blocchi stradali fossero,
in questo primo periodo d’azione dei disoccupati,indipendenti da situazioni
ugualmente ricorrenti nelle province povere lontane dal Nord-Ovest
dell’Argentina, colpite prima dalla crisi economica. In queste regioni era
diventato impossibile mantenere un sistema clientelare dopo che erano stati
moltiplicati gli impieghi locali per assorbire una povertà endemica. Le rivolte
locali e gli attacchi agli edifici pubblici erano divenuti frequenti. Non si può escludere che queste rivolte abbiano
fornito sia un modello che un contribuito a trasformare i rapporti di forza
nelle province urbane quando l’estensione della disoccupazione e della povertà
conseguente, erano prodotte da situazioni simili. Le organizzazioni dei
disoccupati formarono così dei coordinamenti prima provinciali e poi nazionali.
I
metodi di lotta poterono modificarsi anche grazie alla diversa origine dei
disoccupati: sempre di più questi erano operai dell’industria estromessi dal
ciclo produttivo dall’ingresso di massa di capitali e prodotti stranieri,
risultato delle politiche liberiste dei governi militari, come di quelli
successivi, dopo la breve sbornia provocata dall’afflusso di capitali
stranieri che approfittarono della messa in liquidazione delle industrie
nazionalizzate e del settore pubblico. Il movimento poté così
allargare la sua composizione sociale su una base locale attiva, non solamente
con questi operai dell’industria, ma anche con le famiglie (segnatamente le
donne, forse influenzate dal ruolo avuto dalle Madres de plaza de Mayo
nell’insistente rivendicazione di giustizia) e con i giovani che non avevano
mai avuto un’occupazione (quando l’industria gira al 40% della sua capacità
e più della metà del 20% dei disoccupati censiti sono ex operai
dell’industria recentemente licenziati, è difficile per un giovane trovare
un’occupazione).
Le
pratiche “illegali” proliferarono con la moltiplicazione delle pratiche
individuali di recupero, ad esempio, il “furto” dell’elettricità. Se
all’origine di questi movimenti c’erano soprattutto le banlieu delle città,
le bidonvilles, il progressivo declassamento accelerava le mutazioni sociali e
faceva si che altri strati sociali si aggregassero in un doppio fenomeno:
sociale,i declassati s’installavano nei quartieri poveri, e
geografico,attraverso la pauperizzazione dei quartieri operai e della classe
media tradizionale. Questa situazione produceva un cambiamento di atteggiamento
nei confronti dei piqueteros, visti prima come dei “marginali pericolosi”,
poi sempre più ammirati per le loro azioni radicali. Si vedrà che, a partire
dagli eventi di Dicembre, questa situazione servirà in un qualche modo da
detonatore per un movimento come quello dei piqueteros che diventerà
un’avanguardia seguita e non più isolata.
Il
movimento piquetero ha visto la luce nella provincia di Jujuy, nell’estremo
Nord-ovest argentino. Il periodo peronista vi aveva portato una relativa
prosperità dal 1946 al 1955, con lo sviluppo di un’agricoltura industriale
(tabacco e zucchero) e l’insediamento al fianco delle miniere locali, di
un’industria siderurgica (Acerso Zapla), dove la maggior delle imprese erano
nazionalizzate. Nel 1980, la
privatizzazione e l’abbassamento delle tariffe doganali, in nome del libero
mercato, manderanno in rovina tutte queste industrie. Aceros Zapla, acquisita da
un gruppo americano, ridusse i suoi effettivi da 5000 a 700 persone per poi
consacrarsi ad una produzione altamente specializzata.
In una provincia di 600000 abitanti, i disoccupati
si sono moltiplicati e, nel periodo recente, si è passati dal 35% di
disoccupati nel 1991, al 55% nel 1999. Le organizzazioni locali di difesa dei
disoccupati perseguirono le vie legali e pacifiche per tentare di far cessare
questa situazione ed ottenere almeno dei sussidi. È stato allora che la guerra di logoramento ha
portato, il 7 maggio 1997, al blocco del ponte che convoglia il traffico verso
la vicina Bolivia. Questo blocco fece scuola e, spontaneamente, in quattro
giorni, il loro movimento si estese a tutta la provincia. Il governo inviò le
truppe il 20 maggio per ristabilire l’ordine: due morti e decine di feriti.
Furono creati 12.500 posti pubblici e concessi aiuti ai disoccupati.
L’esempio era stato dato, e il
movimento si era esteso poco a poco in tutte le regioni dove l’industria
statale era in caduta libera, come a Cordoba, Rosario, Neuquen e Buenos Aires;
organizzazioni autonome si costituirono e finirono per coordinarsi; così era
nato il movimento piqueteros con la sua composizione di classe e i suoi
estremismi.
Il movimento si caratterizza per
la totale assenza di gerarchie. Tutte le decisioni sono prese dalle assemblee e
tutto è deciso in comune. Altre regioni rivendicano la nascita del movimento
piqueteros, come Central Co, una località petrolifera del sud, dove la
privatizzazione ha prodotto una situazione tale che il blocco della via
principale verso il sud del paese era inevitabile. In realtà, il movimento è sorto in differenti
punti del paese, a partire dalle medesime cause e nelle stesse situazioni.
Il
2000 testimonia l’importanza assunta da questo movimento: è l’allargamento
dei blocchi stradali che diviene massiccio. Il blocco di La Matanza nella
provincia di Buenos Aires (2 milioni di abitanti in questo distretto che fu
industriale) o un altro a La Plata, che raggrupparono migliaia di piqueteros,
non furono tolti che dopo dieci giorni. All’inizio le rivendicazioni
erano molto concrete: liberazione di militanti imprigionati, ritiro della
polizia, distribuzione di cibo, creazione di impieghi, indennità di
disoccupazione, assistenza sanitaria.
Una
strategia si andava delineando: una volta scelto il luogo del blocco dai
piqueteros locali, vengono presi contatti con i gruppi locali vicini e si
tengono assemblee nei luoghi dell’occupazione. Tende e cucine da campo
assicurano la permanenza del blocco e, se la polizia interviene, una pronta
mobilitazione moltiplica gli occupanti. Talvolta le cose si spingono oltre.
Nella città del Generale Mosconi, nella provincia di Salta, nel nord-ovest del
paese, i piqueteros diedero vita a 300 progetti di un’economia parallela,
alcuni tuttora funzionanti.
Ma l’accelerazione della
discesa all’inferno dell’economia e le difficoltà sempre maggiori
produssero un’estensione del movimento in due direzioni. Da una parte, si
strutturò: in settembre, un’assemblea nella regione di Buenos Aires che vide
la partecipazione di più di 2000 delegati ad un’assemblea regionale; il 3
dicembre 2000, i piqueteros di Tartagal convocarono un’assemblea locale e poi
un’assemblea nazionale provvisoria. Dall’altra, gli obbiettivi cambiarono:
le rivendicazioni non furono più indirizzate ad un potere che non voleva
concdere più nulla, ma si prende o si “recupera” senza alcun negoziato; i
camions non furono più solamente bloccati ma saccheggiati, lo stesso i
magazzini e i supermercati, e la collera portò all’assalto degli edifici
pubblici. Il 17 giugno, le sommosse nella città del Generale Mosconi furono
represse violentemente, il bilancio fu di due morti e più di 40 feriti. Ciò
provocò un movimento di protesta dei piqueteros in tutta l’Argentina con più
di 300 occupazioni. In un certo senso fu la prova generale di ciò che scoppierà
su scala maggiore nel dicembre 2001.
Sino
ad allora, le azioni non avevano oltrepassato, pur nella loro violenza, il
quadro di rivendicazioni negoziate con le autorità. Pertanto, un elemento di
novità si è così inserito sistematicamente nella politica dei piqueteros: i
blocchi stradali vedono di fronte
disoccupati determinati e polizia, quest’ultima impiegata dal potere più per
contenere che per reprimere (repressione che ci sarà quando, recentemente, gli
scontri con la polizia durante i blocchi stradali, provocheranno 6 morti).
La strategia usata presenta tutte le caratteristiche
di un’azione operaia; la tattica è quella di paralizzare l’economia
attraverso il blocco dei trasporti e la circolazione delle merci.
Niente di nuovo, sicuramente, e niente di
“rivoluzionario”, ma ciò che vi è di nuovo è in un qualche modo
l’espressione di una sfida alla classe politica e a tutte le forme di
rappresentanza, che sfocerà più tardi nel rifiuto della delega e nella
rinuncia ad avvalersi di rappresentanti (tutto ciò si concretizza anche nella
diffidenza nei confronti dei portavoce politici e sindacali infiltratisi nel
movimento).
Una sorta di democrazia diretta
prende forma: i rappresentanti dell’autorità devono andare sul posto a
discutere con tutti i partecipanti all’azione, e un accordo deve essere
raggiunto perché l’occupazione sia rimossa (non sappiamo però se questi
accordi dovessero essere raggiunti all’unanimità o attraverso la semplice
maggioranza o sotto quale altra forma).
Così, molto prima che prendano
vita le assemblee nei quartieri delle classi medie dopo il 19 Dicembre, la
pratica delle assemblee locali e la loro federazione sul piano nazionale sono già
un fenomeno diffuso, così come i tentativi di esproprio.
Di
natura diversa appaiono le lotte per gli alloggi e per la terra.
I “locali” sembrano aver organizzato il recupero
delle terre (non sappiamo se per costuirvi o per coltivarle), dato vita ad
alloggi di fortuna, messo all’ordine del giorno il recupero e la distribuzione
dell’elettricità, dell’acqua potabile e costruito le fogne; hanno dato vita
cioè, a tutto un processo di auto-organizzazione della sopravvivenza.
L’estensione e l’efficienza
delle reti di baratto, le espone però a tentativi di integrazione, tentativi
che mirano a trasformarle in “gestori ausiliari” della miseria, in un
sistema che cerca capacità di sfruttamento e di miglioramento del degrado
sociale. I piqueteros, inquietanti per la loro origine sociale, lo divengono
ancora di più per la loro strutturazione, la loro diffusione e la loro
radicalità.
Non sono le amministrazioni provinciali, ma i
sindacati e i partiti politici, principalmente peronisti, che tentano
l’integrazione (anche i gruppi di sinistra, ma il loro peso è modesto).
Sembra che questi tentativi non abbiano avuto gli
effetti di integrazione e di spostamento desiderati, benché non si possano
escludere totalmente. Secondo diverse testimonianze, pare che differenti clans
peronisti politici e/o sindacali abbiano tentato di manipolare l’azione dei
piqueteros nelle manifestazioni che hanno portato alla caduta dei presidenti.
Ciò
che si può sicuramente affermare, in tutti questi tentativi di recupero, è
l’esistenza di una base attiva che, spinta dalle necessità della
sopravvivenza, è progressivamente giunta a forme d’azione sempre più
radicali che sfoceranno il 19 e 20 Dicembre 2001.
Nel settembre 2001 si tengono
due incontri nazionali e un comitato di coordinamento dell’azione dei
disoccupati nelle città e nelle regioni. È difficile dire che ruolo abbiano
avuto partiti e sindacati in questi tentativi di strutturazione di un movimento
che effettivamente era rimasto fino ad allora frammentato e localizzato, la cui
organizzazione su un’altra scala avrebbe potuto senz’altro rinforzare
l’efficacia del movimento, ma che avrebbe potuto, allo stesso tempo, produrre
uno scollamento con la base ed esporre il movimento a molteplici
strumentalizzazioni. È per questo che alcuni distinguono tre diverse tendenze
“capitalizzabili” da partiti e sindacati all’interno del movimento: il
sindacato Centrale dei lavoratori argentini(CTA), che lotta con il Frente
national contra la proveza(Frenapo), precisamente nella banlieu di Buenos Aires;
il CCC (Corriente clasista combativa) nel quale si ritrova l’influenza del PCR(ml),
organizzazione maoista che predica l’unità popolare, una sorta di fronte
interclassista; il coordinamento Anibal Veron, un cartello di movimenti diversi,
che manifesta le posizioni più radicali.
Qualcuno
ha sottolineato che il principale agente d’organizzazione dei disoccupati
argentini è stato ed è ancora la miseria. È ciò che determinerà, senza
alcun piano prestabilito, la deflagrazione di Dicembre. In altre parti di questo
documento si mostrerà, nell’esposizione dei fatti, come il movimento si sia
ancor più radicalizzato con l’estensione della crisi e l’impossibilità di
trovare una soluzione immediata ai bisogni più elementari, sia attraverso i
metodi precedenti sia per l’incapacità delle autorità di portare una
qualsiasi proposta di negoziazione. Sarà la pratica sistematica del
“recupero”, dell’esproprio di massa, laddove è possibile, che costringerà
le popolazioni delle province più colpite dalla miseria a scendere verso i
centri urbani e verso la capitale, Buenos Aires. Verso il 3 dicembre, il
movimento, che innanzitutto controlla il “recupero”, sfugge totalmente ai
suoi promotori. I piqueteros vogliono diventare, per il semplice effetto
dell’estensione incontrollata di una pratica illegale incontenibile (la volontà
di sopravvivenza), di cui si possono misurare le ripercussioni ideologiche, non
solo i promotori, ma anche l’avanguardia di un movimento di massa. Questo si
esprimerà in manifestazioni che sfoceranno negli assalti contro gli edifici del
potere politico, nella rottura con la classe politica, anzi con tutti gli attori
di un sistema che ha provocato la loro miseria.
Ne risulterà un’alleanza di fatto dei disoccupati con
gli altri lavoratori, con gli elementi di quella che viene comunemente definita
una “classe media” dai contorni sfumati e poco definiti, ma che si trova
colpita in pieno dalle ultime misure economiche, dopo un lento e progressivo
slittamento verso la proletarizzazione e precarizzazione negli ultimi anni. Si
svilupperà ciò che può apparire come la formalizzazione dell’alleanza, di
fatto, nelle assemblee dei quartieri e la loro federazione, nelle quali si
ritroveranno membri delle differenti classi sociali (ma non si può precisare,
per mancanza d’informazione, sia il numero che la qualità dei partecipanti, né
l’origine dei promotori). Senza dubbio i piqueteros avevano già mostrato una
solidarietà attiva con iniziative negli scioperi, come ad esempio in una
fabbrica di ceramiche di Neuquen, dove il loro intervento fu decisivo, proprio
come era successo nei giorni di sciopero decisi dai sindacati. Una delle prove
dell’importanza di questo movimento è testimoniato dal tributo pagato dopo le
manifestazioni del 19 e 20 dicembre: i 35 morti, più le centinaia di feriti e i
2000 arrestati, che miravano evidentemente a castrare il movimento nei suoi
elementi più radicali, i piqueteros.
Le
minacce rivolte a più riprese dai vari presidenti nel loro breve interim e dal
presidente ancora in carica, non sono senza dubbio casuali. Abbiamo potuto
vedere i coordinamenti delle assemblee dei quartieri organizzare servizi
d’ordine nelle manifestazioni, senza che si possa precisare se queste fossero
sagge precauzioni per evitare il bagno di sangue promesso da Duhalde o una
strategia per rimanere in un quadro di legalità da altri disatteso. È evidente
che la repressione brutale (immaginate una tale repressione in un paese europeo)
ha modificato radicalmente il campo d’azione e la natura del movimento. Ne
parliamo più avanti a proposito delle assemblee di quartiere,ma sembra che
questa repressione brutale abbia donato alle azioni dei piqueteros, se non una
battuta d’arresto, almeno un orientamento differente, forse momentaneo, del
loro intervento. D’altra parte, anche se un certo black-out
dell’informazione sembra eliminare tutto ciò che potrebbe sussistere di
queste azioni illegali dal 20 dicembre e nelle settimane precedenti, sembra che
non abbiano cessato di produrre effetti. Ma, da una parte, l’elemento sorpresa
gioca un ruolo meno decisivo, tanto che i bersagli prendono precauzioni contro
eventuali attacchi. Lo testimonia lo scontro nel mercato centrale di Buenos
Aires, il 14 gennaio, dove i piqueteros che chiedevano la consegna delle merci,
si sono scontrati, secondo alcuni con il servizio d’ordine dei commercianti,
secondo altri con i lavoratori del mercato. Il 15 gennaio, a Jujuy un movimento
prende vita sotto una nuova bandiera, non più quella dei piqueteros ma quella
del “Movimento per la lotta di classe”. Nella banlieue di Buenos Aires, in
Marzo, un camion che trasportava bestiame è coinvolto in un incidente: gli
abitanti del quartiere abbattono le bestie e saccheggiano tutto ciò che
possono.
La
situazione, dopo un certo immobilismo, nell’attesa di “soluzioni”, sembra
improvvisamente conoscere una brusca accelerazione con la nuova crisi economica.
È difficile prevedere ciò che potrà avvenire, anche se è facile ipotizzare
nuove manifestazioni radicali, con degli obiettivi differenti ma in continuità
con le esperienze degli ultimi mesi.
Sulla
base di una prima analisi della situazione argentina, si possono individuare tre
livelli possibili di sviluppo della lotta:
la
rivolta semplice di una base affamata in un paese con enormi risorse
alimentari;
l’emergere di una leadership,
non precisamente delineata, comunque anticapitalista e antisistema-politico;
l’affermarsi
di prospettive rivoluzionarie.
È evidente che un tale schema
non tiene conto delle possibili manipolazioni politiche, ma soprattutto della
repressione nazionale e/o internazionale, che cercherà di impedire con tutti i
mezzi che il movimento attuale possa minacciare l’ordine capistalistico.
“Nessuno sa se avrà un lavoro domani o quando sarà pagato.
Tutti sono paralizzati dalla paura.” Questa dichiarazione poteva
effettivamente applicarsi alla maggioranza della classe media sottoposta da anni
al degrado economico ed a una proletarizzazione accelerata negli ultimi mesi del
2001. Ma, improvvisamente, per effetto delle ultime misure finanziarie prese da
una classe politica corrotta che aveva approfittato della debacle economica più
o meno organizzata da loro e che aveva condotto a nuovi “sacrifici” coloro
che avevano ormai perduto ciò che consideravano segni distintivi del loro
status sociale, la paura lasciava il posto alla rivolta che esplodeva proprio
tra chi, in passato, poteva apparire la base sociale del regime prima
dittatoriale e poi democratico.
È chiaro che a partire dal
Dicembre 2001 la classe media era scivolata verso forme di protesta che
rompevano con le loro tradizionali forme legalitarie. La causa immediata era
l’aver messo a repentaglio l’ultimo dei loro privilegi, la loro fortuna
personale, principalmente la possibilità di garantirsi la sopravvivenza
attraverso i propri conti bancari, e questo dopo mesi, anzi anni, di riduzione o
addirittura di perdita completa dei privilegi goduti dalla loro posizione nella
gerarchia sociale. È questa reazione di difesa del proprio patrimonio che ha
creato una forma spontanea di protesta e organizzazione di cui vogliamo
sottolineare sia la radicalità che l’ambiguità (secondo le statistiche, la
classe media raggruppava il 65% della popolazione nel 1970 contro il 45% di
oggi; tra il 1999 e il 2001 più di 2 milioni di appartenenti alla classe media
avevano perso uno o più gradini nella gerarchia sociale).
Nel passato, e precisamente al
momento della caduta del regime militare nel giugno del 1982, le imponenti
manifestazioni di Buenos Aires, che annoveravano una buona parte delle classi
medie, avevano portato all’instaurazione di un regime civile democratico, sia
per reazione patriottica dopo il disastro dei Malouines, che per opposizione
risoluta alla dittatura (la classe politica continuerà praticamente ad operare
come sotto la ferocia dei militari e questi ultimi rimanevano i garanti di un
ordine sociale che gli garantiva l’impunità dei loro crimini).
Ma, nel dicembre 2001, tutto sarà
differente, non tanto per il carattere delle manifestazioni quanto per l’autorganizzazione
spontanea che in un certo modo giungerà a riprodurre forme di protesta e
d’organizzazione sociale esistenti. Le assemblee popolari saranno l’elemento
caratteristico di queste manifestazioni. Sarebbe possibile misurare la rottura
dell’insieme della popolazione se non con il sistema sociale, almeno con la
classe politica considerata incapace di risolvere la situazione economica e
sociale dell’Argentina: le elezioni parlamentari del 14 ottobre hanno visto,
malgrado il voto obbligatorio, un tasso d’astensione record (più del 20%) e
un maremoto di schede bianche o nulle (40%).
In cosa consistono queste
“assemblee popolari” che, dopo le manifestazioni spontanee del 19 e 20
dicembre, vogliono guidare l’opposizione politica?
Come sono nate le assemblee popolari?
Nessuno
ne può rivendicare la creazione, perché esse sono sorte spontaneamente da
iniziative locali ed hanno risposto immediatamente al bisogno di conservare la
spontaneità delle prime manifestazioni. Qualche racconto testimonia della
diversità della loro origine, ma anche delle caratteristiche comuni derivate
dal rifiuto delle organizzazioni esistenti, quali partiti e sindacati, e dal
rifiuto della politica tradizionale. Questo rifiuto della “politica” sarà
una delle caratteristiche non solamente delle assemblee ma anche delle
manifestazioni che, fino ad oggi, rifiutano attraverso cartelli e striscioni
ogni appartenenza ad un’organizzazione.
Nel
quartiere di Caballito, i manifestanti fecero togliere tutti i manifesti del
Partito operaio (trotzskista) al grido “Tutti i politici sono uguali”. Anche
gli Hijos (associazione dei bambini scomparsi sotto la dittatura militare tra il
1976 al 1983) dovettero ritirare i loro striscioni da plaza de Mayo. Solitamente
le cose vanno così: un gruppo di militanti affigge manifesti nel quartiere che
invita gli abitanti del quartiere stesso ad un prima assemblea; alla prima
intervengono una cinquantina di persone, poi più di 100, infine 300. Alcune
raggiungono anche più di 1000 partecipanti, ma è difficile dire cosa
rappresentino queste cifre in rapporto alla popolazione del quartiere. Le
assemblee sembrano essersi sviluppate nei quartieri abitati dalle classi medie,
ma si deve sottolineare che i quartieri più poveri erano già organizzati
intorno a gruppi di disoccupati, i piqueteros.
Chi vi partecipa?
Anche a questa domanda è
difficile rispondere, tanto sono contraddittorie le informazioni e le analisi.
Per alcuni, la classe media era praticamente scomparsa e vedono nelle assemblee
un processo nel quale i lavoratori escono dalle fabbriche per lottare su un
terreno sociale. Altri si spingono più lontano. Anche se non si produce
praticamente più nulla nei luoghi di produzione (a quanto pare, le fabbriche
continuano a girare e i servizi di base continuano ad essere assicurati come in
condizioni “normali”, anche attraverso forme di autogestione), l’influenza
dei leaders sindacali, tutti più o meno impregnati di peronismo, che sostengono
questo o l’altro clan politico, impedisce alla base operaia di mobilitarsi
come tale e di unirsi collettivamente alle assemblee. Gli appelli lanciati da
qualche gruppo di sinistra che invitava i lavoratori ad organizzarsi in
coordinamenti dimostra che non esistevano più forme di organizzazione dei
lavoratori in quanto tali. È verosimile che le assemblee dovessero essere un
miscuglio sociale dove avveniva una sorta di ricongiungimento di tutte le classi
degli sfruttati vecchi e nuovi. Alcuni esempi mostrano che talvolta la “base
operaia” raggiunge se non direttamente le assemblee, almeno le manifestazioni
che esse organizzano a Cordoba, dove i comitati di fabbrica si aggiungono
all’organizzazione dei manifestanti; a Santa Fé anche migliaia di insegnanti
si uniscono ai manifestanti.
Come si organizzano le
assemblee?
Si riuniscono regolarmente,
almeno una volta alla settimana e, per un certo periodo, tutte le sere si
ritrovano nelle piazze dei quartieri. Tutti possono prendere la parola, ma gli
interventi sono limitati a tre minuti ciascuno. Nessuno può parlare come
rappresentante di qualche organizzazione e non è tollerata alcuna propaganda
(per paura di infiltrazioni e spionaggio da parte della polizia). Le decisioni o
approvazioni di rivendicazioni sono prese per alzata di mano. Si tengono
assemblee di diversi quartieri e tutte le Domeniche, a Buenos Aires, si tengono
gli Stati generali delle assemblee nel parco Cenetenario (solamente per i grandi
quartieri di Buenos Aires). Solo i delegati eletti possono prendere la parola,
ma queste assemblee generali sono aperte a tutti (e possono raggruppare più di
migliaia di persone); i delegati, designati a rotazione, informano sul lavoro
nei quartieri ed espongono le proposte dei loro quartieri per decidere nuove
forme di lotta; essi poi riportano nei loro rispettivi quartieri le decisioni
prese.
L’informazione
circola diffusamente non solamente attraverso il canale di questi delegati ma
anche su Internet (15 siti sono dedicati alle assemblee, indicano ore e luoghi
delle riunioni e le decisioni prese), attraverso i media (la radio e la
televisione vi dedicano una parte delle loro informazioni) e tramite i giornali
di quartiere e manifesti. Le posizioni sono particolarmente precise su questa
forma di organizzazione, come dichiara uno dei loro membri: “le assemblee di
quartiere ci appartengono; non appartengono ai militanti politici che guardiamo
con diffidenza e che cercano di imporci un’esperienza di cui non abbiamo
bisogno”.
Oltre all’attività politica
vera e propria, si è organizzato un lavoro in profondità che si avvicina a
quello che i piqueteros hanno intessuto per la loro sopravvivenza. Si danno vita
a commissioni che cercano di risolvere problemi concreti rimasti insoluti dagli
organismi ufficiali. È così che sono sorte nei quartieri le commissioni sulla
disoccupazione, sulla sanità (per trovare le medicine più urgenti in
collaborazione con gli ospedali più vicini), di scambio, d’inchiesta (per
esempio sulla morte di un giovane), di propaganda, sui media e di riflessione
politica. L’organizzazione delle mense, distribuzione di abiti e cibo. Un
esempio recente di una pratica che risponde ai bisogni immediati: in un
quartiere di Buenos Aires, centinaia di persone si riuniscono davanti ad un
ospedale pubblico il cui funzionamento lascia molto a desiderare; entrati con la
forza hanno convocato la direzione e tutto lo staff medico ed hanno imposto loro
un’assemblea permanente che, da allora, controlla il budget e gli
approvvigionamenti dei medicinali. In un altro quartiere, una commissione si
occupa di “progetti produttivi”; quando vengono approvati nuovi lavori nel
quartiere, l’assemblea impone, per eseguire i lavori al minor costo, di
impiegare ingegneri e professionisti disoccupati.
L’attività
politica rimane essenziale. Essa si esprime in tre modi diversi: la discussione
delle questioni legate alla vita dei quartieri e la ricerca di soluzioni con
mezzi di fortuna. Questa attività, deve essere considerata un’attività
politica vera e propria, anzi forse più radicale delle rivendicazioni espresse
in altre decisioni di carattere generale, poiché implica una riorganizzazione
della vita sociale su basi comunitarie. In tali circostanze, è normale che
l’autonomia e la spontaneità facciano oscillare il movimento un po’ in
tutte le direzioni e che le parole e le azioni assumano ora una connotazione
riformista ora una più radicale, senza che gli interessi e i bisogni immediati
consentano loro di coglierne appieno le implicazioni.
Così,
quando lo slogan più diffuso è “che se ne vadano tutti, che non ne rimanga
uno solo”, che ha alla base un rifiuto totale dell’intervento dei partiti
politici, allo stesso tempo le assemblee esprimono delle rivendicazioni nei
confronti del potere che così tornano a legittimare, pur rigettandolo altrove
come corrotto, impotente, sottomesso al capitale internazionale e agli Stati
Uniti attraverso l’intermediazione del FMI.
È in
queste rivendicazioni, che si ritrovano pressoché in tutte le assemblee, che si
rivelano le origini sociali dei partecipanti:
la
fine del “corralito” (blocco dei conti bancari);
la nazionalizzazione delle
banche e delle industrie (elettrica, telefonica, delle ferrovie) che sono
state privatizzate;
cancellazione
del debito estero;
una
certa autarchia economica per il rilancio dello sviluppo delle industrie
nazionali, compreso il boicottaggio dei prodotti stranieri;
le
dimissioni dei giudici della corte suprema accusati di essere un covo di
corrotti.
Tutto
questo è lontano dalle rivendicazioni dei disoccupati piqueteros che chiedevano
“ pane e impieghi”. Ancora, queste rivendicazioni traducono delle tendenze
nazionaliste che si esprimono nelle manifestazioni dove si canta l’inno
nazionale e dove alcuni manifestanti sono avvolti nella bandiera nazionale.
la
partecipazione alle assemblee è molto selettiva;
le manifestazioni più
importanti sono le “cacerolazos”, i concerti delle casseruole, che hanno
debuttato spontaneamente nelle grandi manifestazioni del dicembre 2001 e che
proseguiranno regolarmente fino ad oggi, in principio tutti i venerdì a
plaza de Mayo di fronte al palazzo del governo, ma occasionalmente anche
altrove. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, nessuna
organizzazione può essere rappresentata nelle manifestazioni; le uniche
bandiere tollerate indicano il quartiere di provenienza.
si
praticano le “escrache”, denunce indirizzate alla Corte suprema o al
palazzo presidenziale, al ministero della sanità pubblica, alle banche, a
questo o l’altro uomo politico, per esigenze di volta in volta specifiche;
Azioni
spontanee contro l’insieme della classe politica, appaiono come il seguito
spontaneo delle denunce fatte dai media o diffuse spontaneamente di bocca in
bocca. Ecco come un giornalista descrive queste azioni:
“....
un sociologo disoccupato con un gruppo di una decina di persone, il 14 Marzo,
affigge, su un muro del quartiere degli affari, dei manifesti che ritraggono
degli uomini politici accompagnati dalla scritta “wanted”.... uova, sputi,
anatemi urlati nelle strade, nei negozi, nei cinema, nei bar contro gli uomini
politici di tutti gli orientamenti, obbligano talvolta la polizia ad intervenire
per sottrarre quegli stessi politici al linciaggio. “Ladri” è l’insulto
più comune. Quando escono in strada, gli uomini politici si camuffano con
occhiali neri e parrucche per non farsi riconoscere. Accompagnati da guardie del
corpo, si muovono preferibilmente in macchine con vetri oscurati.”
La
situazione che abbiamo descritto sembra essersi modificata nel corso dei tre
mesi successivi ai moti di Dicembre. La base delle assemblee si è allargata
grazie ai rapporti di solidarietà e d’azione con i piqueteros. Il 13 gennaio
2002, un’assemblea nazionale delle assemblee di quartiere, che vede la
partecipazione di rappresentanti dei piqueteros e dei lavoratori, annuncia di
aver preso una serie di decisioni (più di 1000 rappresentanti vi hanno preso
parte). Ritroviamo la dichiarazione seguente:
“riconosciamo
soltanto due schieramenti o parti, e i risparmiatori stanno dalla stessa parte
dei lavoratori, dei disoccupati, dei piqueteros e di tutte le vittime del
sistema”.
È
evidente che sotto diversi aspetti tra le differenti componenti sociali si
instaurano rapporti di solidarietà. Delle vere e proprie comunità si
concretizzano per assolvere compiti che
possono essere assimilati a funzioni sociali. Questa solidarietà e queste
comunità sono state descritte nella cronologia degli eventi dei moti per fame
di Rosario alla fine del 1989. Allora avevamo parlato solo di piqueteros. Il
governo dell’epoca aveva sfruttato il panico della classe media e aveva potuto
mobilitare parte di loro in gruppi armati di autodifesa, che avevano aiutato la
polizia in una repressione particolarmente dura (5 morti e più di 800 arresti).
È senza dubbio questo precedente che ha portato il potere attuale a tentare di
sfruttare il panico della classe media per rompere la solidarietà già ben
dispiegata. Ma non era possibile riprodurre la situazione del 1989: le classi
medie non avevano più nulla da perdere, al contrario potevano soltanto lottare
a fianco di tutti gli altri miserabili.
Un giornale argentino, la Nacìon,
analizzando il fenomeno delle assemblee popolari, individua “un meccanismo di
discussione pieno di insidie che può sviluppare un modello sovietico
pericoloso”. Questi commenti sono simili a quelli di certi gruppi politici che
intravedono anche il pericolo di una rivoluzione sul modello dei soviet. È
significativo che questi stessi gruppi od altri ancora continuino a pensare che
la mancanza di dirigenti favorisca “la disorganizzazione e la frammentazione
del movimento”(sic);alcuni attribuiscono questa assenza di leadership allo
sterminio di più di 30000 attivisti o considerati tali da parte dei militari
durante la dittatura; altri, all’incoraggiamento dei media verso
l’esclusione dalle assemblee delle “organizzazioni popolari”.
Si
possono, per tanto, di fronte alle esitazioni e alle ambiguità, scorgere, nella
misura in cui lo Stato è sempre attivo con tutti i suoi apparati di dominio e
repressione, delle forme destinate a sopperire alle carenze di certe strutture
che permettano al sistema di sopravvivere malgrado il caos economico, la cui
soluzione potrebbe significare l’endemizzazione della miseria attuale e la
ristrutturazione imposta con la forza, se necessario nel bagno di sangue delle
classi sfruttate, come promesso dal presidente Duhalde.
Un altro tema è accarezzato
dagli angeli custodi americani, nella più pura tradizione della fiducia
accordata alle classi medie per garantire l’ordine sociale -alla cilena,
potremmo dire. Un alto dirigente del Centro Internazionale di Studi Strategici
di Washington ha dichiarato, il 5 Febbraio, che ciò che sta attraversando
l’Argentina non è una crisi generale della società, aggiungendo che “ se
il governo non è capace di far fronte al caos, la classe media richiederà
l’intervento militare ... Si vedrà, allora, una militarizzazione della
polizia e delle funzioni di base della sicurezza”. Ancora più chiaramente
insiste un commentatore inglese: “ ... la sola cosa che resta è
l’intervento militare... I militari non sono più disposti a guardare alla
televisione ciò che succede...”.
A
sostegno di questa visione politica, si possono ricordare le manovre militari
che si sono svolte nel Settembre 2001 nell’estremo nord dell’ Argentina,
nella provincia di Salta, dove più di migliaia di militari americani, argentini
e di altri paesi dell’America Latina, hanno elaborato una strategia volta a
contrastare tutte le azioni destabilizzanti nei paesi interessati.
Si può
così vedere nella liberazione, il 2 Febbraio 2002, del torturatore Astiz e nel
rifiuto della sua estradizione verso l’Europa, un segnale chiaro indirizzato
alla casta militare, per un sostegno eventuale nel caso in cui il movimento
delle assemblee e dei piqueteros si radicalizzassero ulteriormente.
È certo che sia i piqueteros
che le assemblee sono degli organismi dal doppio potere (inconsapevoli di
questo, potremmo dire). I dirigenti politici che ne sono invece consapevoli
tentano in ogni modo di sfruttarlo, ma la l’”ingenuità” del movimento li
sottrae a questa eventualità (i tentativi sono diversi: in Dicembre, per
esempio, tentando di aizzare le classi medie contro i piqueteros, alimentando il
panico per possibili saccheggi). L’alleanza, la convergenza o tutte le altre
forme tattiche tra i piqueteros, il movimento proletario più radicale, e le
“assemblee popolari” delle classi medie declassate o minacciate di esserlo,
può essere considerata come un’alleanza contro natura che tende a castrare le
componenti proletarie più radicali del movimento.
Ma
questa alleanza può anche essere vista come un pericoloso rischio che minaccia
il sistema sociale in quanto tale e che può
apparire come una sorta di rivoluzione, anche se la situazione non è
propriamente tale. Precisamente, è questa situazione che può oscillare in un
senso o nell’altro, che può far intravedere agli uni una prospettiva
rivoluzionaria, agli altri una possibilità per il potere di rompere facilmente
l’unità del fronte che sembra profilarsi. Alla fine si potrebbe essere
indotti a pensare che questo fronte, in ogni modo, indichi un orientamento
riformista imposto dalla visione politica e sociale delle classi medie.
Tutto
è possibile nella situazione attuale dell’Argentina, perché quando tutti
sono impegnati nella crisi economica e sociale, quest’ultima può essere
portatrice sia di un incancrenimento dell’esistente che di una soluzione
violenta. In tutti i modi, queste sono le forze del capitale internazionale che
determineranno la via d’uscita dalla crisi, salvo un’ improbabile esplosione
dell’America latina.
Una delle questioni più
importanti, che ci si deve porre in situazioni economiche come quelle della
Russia di ieri o quella dell’Argentina di oggi, può essere: come può la
maggioranza della popolazione sopravvivere con un’inflazione incredibile
(attestata in Argentina fino al 5000 %), e/o con un tasso di disoccupazione così
elevato da anni (che, per l’Argentina raggiunge ufficialmente il 20% della
popolazione attiva, ma che tocca, in certe banlieue o province arretrate, più
del 60%, cioè la quasi totalità della popolazione), e/o con ritardi importanti
e ricorrenti nel pagamento dei salari o delle pensioni?
Si può
pensare innanzitutto a sbrogliarsela individualmente attraverso il lavoro nero,
o il mercato nero, o il furto, o, quando si può, attraverso lo sfruttamento
delle relazioni familiari o di piccoli appezzamenti di terra. Evocare gli anni
di miseria in Francia durante l’ultima guerra, può dare una chiave di lettura alla lotta per la
sopravvivenza nell’ Argentina di questi ultimi anni.
Tuttavia questa similitudine può rappresentare qualcosa solo per gli anziani.
Le soluzioni individuali sono necessarie quando non esistono soluzioni
collettive e sociali ad una miseria profonda.
Ignoriamo se questo stadio di
risposta individuale sia stato superato nella Russia post-sovietica, ma
nell’Argentina attuale una risposta collettiva sembra delinearsi al di fuori e
contro il circuito organizzato dell’economia capitalistica garantita dallo
Stato. Ci sembra che non si possano ignorare i caratteri delle azioni collettive
in questo campo, anche se si devono prendere tutte le cautele possibili.
Da una parte (e ne parliamo
separatamente a proposito dell’azione dei piqueteros, organizzazioni attive di
disoccupati), un primo tentativo di risposta collettiva è il recupero su grande
scala delle merci attraverso pressioni diverse più o meno radicali per farsi
“donare” viveri (pacchi gratuiti dallo Stato, dalla collettività, dai
supermercati e dai commercianti);
la forma collettiva d’azione garantisce efficacia e assicura, grazie ad un
rapporto di forza più equilibrato, un’esposizione minore alla repressione
giudiziaria. Questi recuperi sotto forma di racket si sono trasformati, laddove
si sono rivelati inefficaci, in recupero per saccheggio, cioè attraverso “il
furto organizzato in gruppo”, per riprendere la terminologia dello Stato
braccio armato del capitale. Volenti o nolenti,
espropri e saccheggi
non potevano essere efficaci che con azioni di
commando, dove sorpresa e rapidità
costituivano gli elementi essenziali nell’arte di schivare una repressione che poteva esercitarsi più difficilmente, fin tanto che l'azione si estendeva inevitabilmente,
con l’apporto di "clienti" che approfittavano di quelle merci
piovute dal cielo.
Delle “red de trueque” (“reti di baratto”) non
conosciamo altro che le loro dimensioni e altri pochi caratteri che cercheremo
ora di esaminare. Non sappiamo come si siano formate e, soprattutto, come si
siano diffuse, come siano gestite e che forme di relazioni si siano instaurate
tra i partecipanti delle reti. Ma un aspetto essenziale riguarda lo scambio di
merci contro merci, questo termine merce designa, come nelle società
capitalistiche, non soltanto dei beni materiali, ma dei beni anche immateriali
che dispongono sia di un valore di scambio che di un valore d’uso. Inoltre, lo
scambio può avvenire sia su scala individuale che collettiva, sotto la forma di
uno scambio immediato “negoziato” o solidale
(gli scambi possono avvenire per semplice “stretta di mano” e posticipati
nel tempo; risulta difficile tracciare la linea di demarcazione tra quello che
potremmo chiamare lo scambio tra vicini e una formalizzazione su una scala più
o meno ampia). In tutti i casi, ma principalmente in quest’ultimo, la
questione centrale è la fissazione del valore, dell’equivalenza tra i due
valori scambiati. Questa equivalenza si può stabilire in tempo (di lavoro) o
facendo riferimento ai valori delle merci scambiate sul mercato capitalistico,
ma questo pone, allora, altre questioni.
Tutte le vicissitudini e le
miserie che colpiscono da molto tempo l’Argentina hanno favorito la nascita di
questa vasta organizzazione di baratto, le cui dimensioni hanno assunto negli
anni una tale scala che si può guardare al fenomeno come ad una sorta di
riorganizzazione parallela e spontanea dell’economia al di fuori dei circuiti
capitalistici di produzione e distribuzione, anche se tutto questo si sviluppa
all’interno di un sistema capitalistico, cioè a partire da merci vecchie e
nuove, ma pur sempre prodotte attraverso questo sistema ( comprate o
“recuperate”).
Prima
di esaminare in cosa consista questo circuito del baratto, è necessario fare
qualche osservazione che può condurci ad esprimere qualche riserva:
alcuni non mancheranno di
raffrontare lo sviluppo dei sistemi di scambio locali(SEL) o altre
organizzazioni di baratto simili, e di vedervi l’opportunità o il
potenziale in esperienze europee. Non c’è dubbio che all’origine vi
siano delle ideologie del baratto che si sono tradotte in pratiche.
Tuttavia, per il momento, la differenza è grande: chi anima e utilizza in
Europa questi circuiti di baratto lo fa più per ideologia che per necessità.
Le reti di baratto argentine sono cresciute dalle necessità della
sopravvivenza.
Chi ha lanciato e utilizzato di più queste reti di baratto
deve avere qualcosa da scambiare per il suo valore d’uso. Nella
maggioranza dei casi sono dei membri della classe media o lo erano. La
grande scommessa è che la scissione tra i piqueteros e i partecipanti alle
reti di baratto annulli le divisioni tra il proletariato (o almeno la parte
più povera e la meno qualificata del proletariato, che non ha altro da
scambiare che la propria forza lavoro, merce molto abbondante sul mercato) e
quelli, prossimi alle classi medie, che hanno (sia per loro possesso
precedente sia per la loro specializzazione o qualifica) qualcosa da
scambiare. Se si guardano i mezzi d’azione dei piqueteros e la
riappropriazione diretta delle merci da una parte, e, dall’altra, la messa
in campo dei circuiti di scambio, si può osservare che la scelta dei mezzi
di sopravvivenza è determinata dall’appartenenza ad una parte sociale: questa appartenenza di classe
definisce, da una parte, una forma di rivendicazione d’azione diretta che
diviene rapidamente, per essere più efficace, una forma più radicale di
recupero, una sorta d’attacco frontale contro il mercato. Ma i recuperi
dei piqueteros, ideologici o necessari che siano, o l’attribuzione di
pacchi gratuiti, non sono solamente una semplice forma di redistribuzione
del plus-valore. Non si tratta nemmeno di una trasformazione radicale del
sistema, capace di mettere in discussione la creazione di plus-valore
attraverso lo sfruttamento; dall’ altra parte definisce una sorta di
innovazione che provoca un corto-circuito del mercato capitalistico, ma che
può anche apparire come una forma di adattamento alle carenze di questo
sistema.
Riguardo a queste osservazioni,
la questione che ci poniamo, è: cosa significa la nuova organizzazione della
sopravvivenza in termini di trasformazione della società?
In un caso come nell’altro
(così come l’organizzazione e il carattere delle manifestazioni e delle
proteste), niente sembra avvenire sul terreno della produzione. Esperienze
di cooperative o di autogestione rimangono sporadiche e non hanno potuto
inserirsi in questi movimenti; anche i tentativi individuali di produzione
di beni di consumo in vista dello scambio, attraverso il canale delle reti
di baratto, sono troppo limitati per prefigurare qualcos’altro che delle
mere eccezioni. Per quanto ne sappiamo, in Argentina non c’è attualmente,
a parte qualche sciopero in alcune imprese, nessun movimento d’occupazione
di fabbriche per rivendicazioni specifiche e ancor meno tentativi di
autogestione o di formazione di consigli o altre forme di organizzazione
autonome. È ovvio che nella misura in cui il 50% circa della forza lavoro
è inutilizzata e le imprese girano al 50% delle loro capacità, dove
servizi e funzionari degli enti locali e provinciali hanno raggiunto
dimensioni smisurate, un’azione propriamente operaia potrebbe sembrare
poca cosa. In più, è difficile, in mancanza d’informazione, dire quale
sia la partecipazione operaia al movimento dei piqueteros e delle assemblee
di quartiere.
Le considerazioni fatte –
lungi dall’essere trascurabili o secondarie - non possono che sottolineare
l’importanza assunta dalle reti di baratto, tanto nel rendere marginale le
strutture tradizionali dell’economia capitalistica, quanto nel sistema delle
relazioni sociali, fenomeni che hanno giocato certamente un ruolo decisivo nel
corso degli eventi.
Le reti di baratto sarebbero
nate nel 1995 dall’azione di una ventina di persone, più preoccupate di
questioni ideologiche ed ecologiche che di problemi legati al capitalismo
argentino; hanno fondato dei “clubs” di scambio, sulla scorta delle
esperienze europee dei SEL. Ma la formula corrispondeva ad un tale bisogno,
nella crisi vertiginosa dell’economia argentina, che si è diffusa nel breve
volgere di qualche anno in tutto il paese, sino a formare una rete nazionale con
negozi e mercati a giorni fissi; tale diffusione ha portato persino ad emettere
una moneta specifica, il credito, una sorta di buono di scambio che riporta un
valore fittizio. Ognuno dispone di un cartello in cui scrive cosa offre e cosa
domanda: può essere offerto e scambiato tutto. Oltre a questi luoghi
tradizionali di scambio si è sviluppato anche un mercato virtuale su internet.
In
Argentina si possono contare più di un migliaio di questi club, che raggruppano
più di 2 milioni di partecipanti “scambisti”. I creditos in circolazione ammontano a circa 7
milioni di dollari (quasi 8 milioni di euro) e, nel 2000, sarebbero stati
scambiati prodotti per un valore di 600/800 milioni di dollari americani
(700/900 milioni di Euro). È poco se si considera il debito o il PIB argentino.
Le reti di baratto si sarebbero diffuse anche nei paesi vicini e, negli ultimi
mesi, ci sarebbe stato un balzo in avanti dell’80%, ciò che da la misura
della catastrofe economica del paese. Ma la cosa più
inquietante per il futuro di queste reti, è che molte collettività, municipali
e provinciali, hanno in un certo senso riconosciuto questo modo di distribuzione
delle merci, accettando il credito come moneta “legale”.
È evidente che l’estensione delle reti ha reso
inevitabile una certa formalizzazione, da qui tutta una serie di problemi di
organizzazione, al di là del volontariato, del finanziamento, e dei prestiti,
etc. Su questi temi disponiamo però di pochissime informazioni.
Questa
forma di attività comunitaria non è d’altra parte la sola, senza che si
possa precisare se si siano creati dei veri e propri coordinamenti tra attività
simili. Una “red solidaria” (“rete solidale”) sarebbe più orientata
verso la soluzione di problemi sociali; essa avrebbe 18 sedi nel paese ed
opererebbe principalmente nel campo della salute e della cura, soprattutto
cercando di risolvere le carenze di approvvigionamento di medicinali. Le assemblee di quartiere, così come le
associazioni dei disoccupati che raggruppavano i piqueteros, avrebbero
sviluppato delle organizzazioni comunitarie: giardini d’infanzia, mense. Ma
anche per questi fenomeni sono poche le informazioni che hanno oltrepassato
l’Atlantico.
Resta una questione alla quale
è molto difficile rispondere: qual è l’incidenza di tutte queste forme
d’attività comunitarie sui diversi movimenti di protesta (piqueteros,
assemblee di quartiere, manifestazioni, etc.). Vi è senza dubbio una
interdipendenza stretta nella quale cause ed effetti interagiscono e diventano
indistinguibili. Si può pertanto affermare, senza eccessivi timori d’errore,
che, quale che sia la loro origine o i loro caratteri, la risposta a situazioni
di miseria e di evidenti segni di fallimento di un sistema e di una classe
politica che ha condotto a questo fallimento, in ragione della dimensione di
questa crisi e dell’allargamento a differenti parti o classi della
popolazione, ha portato a forme di solidarietà e a comunità di azione in campi
molto diversi tra loro, ma di cui non è possibile prevedere l’evoluzione.
La descrizione e l’analisi
delle differenti tendenze nella lotta e nelle organizzazioni che cercano di
fronteggiare il caos economico e sociale fanno emergere un insieme di
particolarismi strettamente legati alle origini sociali dei loro promotori: i
disoccupati ex-lavoratori con l’organizzazione e l’azione diretta dei
piqueteros, le (ex) classi medie con le loro assemblee o la pratica crescente
del baratto. Unici punti in comune nel dicembre 2001, malgrado le loro origini
totalmente differenti, erano, da una parte, la risposta di base e diretta alle
difficoltà economiche della vita quotidiana e alla lotta per la sopravvivenza,
dall’altra, la rottura con tutte le organizzazioni “legali” della società
capitalistica, anzi con le regole stesse di questa legalità. Al di là di
queste similitudini, le divergenze potevano apparire decisive: i piqueteros, in
principio disoccupati organizzati in maniera spontanea come gruppi di pressione
e di azione diretta “per il pane e l’impiego” evolvono progressivamente
verso le forme più radicali del recupero e dell’esproprio; le assemblee, che
provenivano principalmente dalle classi medie, all’inizio gruppi di pressione
per la garanzia dei salari e dell’accesso ai conti bancari, anch’esse
evolvono verso l’azione diretta; il baratto si trasforma in
un’organizzazione economica parallela (come del resto il lavoro nero dei
piqueteros disoccupati).
La repressione brutale, nel
sangue, del 19 e 20 Dicembre ha modificato la natura del rapporto con il potere.
Nel momento in cui scriviamo questa strategia, che da cinque mesi continua con
manifestazioni e azioni dirette, paralizza il potere politico, stretto com’è
tra le condizioni drastiche del FMI, il sostegno critico delle strutture
provinciali e la minaccia di una esplosione sociale che potrebbe portare ad un
nuovo attacco frontale.
Per quanto statica possa
apparire questa situazione, si può intravedere una possibile linea evolutiva.
Se il potere non è solido (né internazionalmente né internamente) e può
anche sembrare indebolito dai conflitti interni (che riflettono sicuramente i
legami di certi gruppi con alcuni settori del capitalismo nazionale e/o
straniero) è certo che, come risposta a queste contestazioni permanenti,
potenzialmente esplosive e che minano alla base il sistema, sono state alzate
delle barriere repressive:
i “recuperi” sono stati resi
più difficili attraverso la protezione dei luoghi presi di mira (edifici
istituzionali, banche, supermercati, negozi) che si sono trasformati in vere e
proprie fortezze protette dalla polizia di Stato, o da polizie private e dai
commercianti stessi che si sono armati fino ai denti. Recentemente, arresti e
feriti da pallottole mostrano che il regine può, se le circostanze lo
permettono, limitare gli assalti contro “l’ordine pubblico”; questo spiega
perché si sia messo di nuovo l’accento sui blocchi stradali (che pure sono
sempre continuati) quando i recuperi sono diventati sempre più difficili. Ma
anche i rapporti di forza possono modificarsi rapidamente. Quando Duhalde
“promise” ad uno dei leaders dei piqueteros un’ indennità di
disoccupazione di 40 dollari mensili “44 euro”, venne lanciato un appello
dall’organizzazione nazionale dei piqueteros per un “blocco permanente delle
strade”. Allo stesso tempo l’azione diretta si estende attraverso gli assedi
delle società petrolifere e dell’elettricità per ottenere una “tariffa
sociale”. Contemporaneamente si moltiplicano nelle province le occupazioni
degli edifici pubblici portate a compimento dai disoccupati e dai lavoratori
senza salario;
anche se sono più rare, le
pratiche di recupero sembrano essere diventate dei veri e propri assedi ai
supermercati, dove migliaia di manifestanti esigono la distribuzione di cibo
e il ribasso dei prezzi;
le
assemblee di quartiere e le assemblee centrali possono mostrare anche una
certa stanchezza, che si esprime in una partecipazione minore, ma allo
stesso tempo vediamo una trasformazione delle azioni, che raggiungono
proporzioni sempre più vaste, e che si svolgono in collaborazione con altri
settori in lotta. Ad esempio, quando la delegazione del FMI andò in
Argentina, le vie d’accesso a Buenos Aires furono bloccate e gli hotels
dove risiedevano i membri della delegazione furono assediati: quando vi fu
la discussione al Parlamento dei 14 punti del FMI, non soltanto il
Parlamento fu assediato (protetto questa volta dai militari perché forse la
polizia non offriva altrettante garanzie), ma le strade che portavano a
Buenos Aires furono occupate e delle sommosse scoppiarono in diverse città
della provincia (Jujuy, San Juan, Rosario ...). “Andatevene tutti”
divenne lo slogan dei manifestanti;
sembra svilupparsi, a livello di
quartiere, un coordinamento tra i diversi movimenti per le azioni di
sopravvivenza, non solamente indirizzate ai supermercati, ma anche nei
confronti degli ospedali o contro i commissariati per ottenere la
liberazione di manifestanti arrestati.
È
difficile dire se si tratti di un movimento di base che si allargherà e si
approfondirà, passando per l’assunzione della responsabilità sociale
dell’amministrazione diretta della sopravvivenza. Ma questo non ci deve
impedire di corroborare questi fatti con altri, che sembrano isolati, ma di cui
non si sa abbastanza a causa della carenza di informazione, né quale sia la
loro ripercussione sul proletariato; questi fatti riguardano questa volta i
luoghi stessi dello sfruttamento, le imprese.
Senza
dubbio, scioperi o azioni dirette hanno avuto luogo o hanno luogo per il
pagamento dei salari arretrati; ciò non è nuovo, ma questi movimenti non
riguardano solo gli impiegati delle province in sovrannumero (spesso operai
anziani delle industrie liquidati dopo le privatizzazioni) o, più recentemente,
gli insegnanti di R’o Black.
Più significative sono le
azioni nelle ferrovie, di cui sappiamo poco, se non che esse sono successive
alla soppressione di 500 servizi, alla sospensione di 4000 impiegati e di
piccoli scioperi dovuti alla chiusura di fabbriche.
Tre di
questi ultimi scioperi sembrano servire non solo come esempio, ma assumono anche
apparentemente un valore simbolico nel contesto attuale dell’Argentina:
a
Neuquen (nel sud), lo sciopero con occupazione di una fabbrica di ceramiche,
che era già in atto in Dicembre, sembra aver polarizzato la resistenza
nella regione;
a Matanza, nella banlieu di
Buenos Aires, l’industria del pane (Panificadora), chiusa, è stata
occupata dai lavoratori con il sostegno di tutto il quartiere e rimessa in
attività per la fornitura di pane a prezzo ridotto agli abitanti, con i
piqueteros che la proteggono contro l’intervento della polizia;
a Buenos Aires, dal 18 Dicembre,
la fabbrica di confezione Brukman, dichiarata fallita e chiusa, è stata
occupata dai 54 lavoratori. Sgombrata dalla polizia, è stata rioccupata con
il sostegno della popolazione del quartiere ed è stata rimessa in funzione,
sempre sotto questa protezione. La dichiarazione di un’operaia ci da il
senso della ripresa dell’attività: “ non pensiamo di dare vita ad una
cooperativa, perché non vogliamo essere i nuovi mostri dell’economia...
ci si dovrebbe sottomettere a 11 persone che darebbero gli ordini a tutti
gli altri ...”;
nelle province, principalmente,
sembra vi siano state delle reazioni dirette contro i burocrati sindacali
nelle manifestazioni di Neuquen, Quilmes, Jumps, etc…
Possiamo vedere in queste
manifestazioni, che riguardano i rapporti di produzione, il segno di una sorta
di fusione delle lotte nei diversi campi in un movimento capace di costituire
dei comitati di base e dei gruppi politici di estrema sinistra?
L’appello alla costituzione di
un “polo operaio” e alla convocazione di assemblee generali “per farla
finita con le burocrazie sindacali e il governo capitalista” (sulla base di un
delegato eletto ogni 20 partecipanti) può essere rappresentativo di una tale
unità?
È
difficile dirlo allo stadio attuale, ma il fatto
che queste questioni vengano poste nella situazione che stiamo descrivendo può
significare che questa unità, quale che sia il modo in cui avverrà, è ormai
una necessità della lotta di classe in questo stadio. Rimane anche evidente
che, da parte del potere, tutti gli sforzi verranno fatti per arginare e
controllare questo movimento che tende all’unità, ed è possibile che questo
appello sia uno di questi tentativi di controllo.
Il debito latino-americano, riflesso della
crisi finanziaria internazionale.
Prima di affrontare la “crisi
dell’Argentina”, crisi che è più del capitale mondiale che
dell’Argentina stessa, dobbiamo fare un breve riassunto della situazione
latino-americana (Messico compreso). È a partire dal 1982, data della “crisi
messicana”, che i paesi latino-americani fortemente indebitati a livello
internazionale entrano globalmente in una fase di recessione[2].
Per molti anni i governi di questa zona hanno confuso l’accumulazione di
debiti con l’accumulazione di capitale.
Rapidamente questi governi
(dittatoriali o democratici) si trovano di fronte al dilemma: non è più
possibile accrescere il reddito disponibile attraverso l’indebitamento, le
banche attendono con le armi spianate il rimborso degli interessi. Gli stati di
questi paesi sono dunque costretti a procedere rapidamente a tagli della spesa
pubblica, per liberare i fondi necessari al rimborso dei prestiti, secondo la
formula adottata all’epoca “prestito forzato -rimborso obbligato”.
Tutti
gli Stati e i governi intraprendono la via del grande salasso ai
“cittadini”. Cinque anni dopo la crisi messicana, l’importo dei rimborsi
dei paesi latino-americani è impressionante, nonostante una quota importante
degli interessi dovuti sia stata rimborsata. La recessione del 1982-1983 e la
grande svalutazione (20% in termini reali tra il
1981 e il 1985) sono stati il prezzo pagato dal proletariato. Queste misure
furono accentuate da un’iperinflazione, segnatamente per l’Argentina (2000%)
e per la Bolivia (30000%) nel 1985.
A seguito di questa crisi, le
banche non hanno concesso più crediti ai paesi dell’America latina se non
quelli necessari a garantire il flusso dei rimborsi degli interessi dovuti. La
sfiducia regna, e, da allora, i mercati non credono più possibile che i paesi
indebitati riescano a restituire tutti i loro debiti. Le banche cominciano a
pensare che si debba abbandonare l’idea che “le nazioni non possano fallire,
le banche non hanno protezioni contro le perdite”[3].
Il Brasile nel febbraio del 1987 sospende il pagamento degli interessi dovuti su
68 miliardi di prestiti privati stranieri.
A partire dal 1987, le banche
cominciano a coprire i crediti incerti, pensando che tutti i paesi
latino-americani sarebbero entrati in una recessione profonda e lunga, e che non
sarebbe più stato possibile applicare la formula del 1982 “prestito forzato -
rimborso obbligato” senza correre gravi rischi politici.
È allora che è stato messo in
campo il piano Brady, che consiste nell’utilizzare le risorse del FMI e della
banca mondiale e che proponeva di riscattare il loro debito con uno sconto che
teneva conto delle pratiche sul mercato secondario oppure di scambiare il loro
debito con nuove obbligazioni a tassi d’interesse più bassi. L’Argentina
utilizzerà questo piano nel 1992, ciò non impedirà (nel 1993) il fallimento
delle banche argentine - Banco Extrader, Banco Bases e Banco Multicredito - dopo
la crisi del peso. In Brasile, il Banco economico di Bahia è tecnicamente
fallito. Le principali banche private del Brasile hanno reso operativo un piano
di 800 milioni di reaux per garantire i depositi di questa banca.
Nel 1994-1995, una nuova crisi
messicana. Un’ondata di panico scuote i mercati finanziari. Questa crisi è
tanto più importante, dichiara Michel Camdessus, direttore generale del FMI,
perché è la “prima crisi del nuovo mondo, la crisi dei mercati finanziari
globalizzati”. Il peso fu svalutato del 40% a metà dicembre 1994.
L’America
latina si trova oggi nella situazione “del cappello di Balzac”; non è più
possibile, senza rischio d’estensione delle sommosse, sottoporre ad ulteriori
pressioni il proletariato (salariati, disoccupati e agricoltori). Le banche
organizzano un mercato secondario per la liquidazione dei debiti e svendono i
crediti che vantano nei confronti del terzo mondo. I topi lasciano la nave.
Nel
2001-2002, la crescita di tutti i grandi paesi latino-americani è rivista al
ribasso[4];
quanto all’Argentina, viene dichiarato il “fallimento”. Ne risulta la
situazione seguente: la diffidenza dei capitali privati nei confronti
dell’America latina e l’aumento del loro costo costituisce un fattore di
destabilizzazione finanziaria della zona, destabilizzazione già in
corso in Argentina (ricontrattazione del debito
pubblico) e in Venezuela (con il rischio di esportare la crisi). La crescita
delle esportazioni in dollari della zona era del 22% nel 2000; è precipitato a
l’1% nel 2001. Il bisogno d’indebitamento cresce di nuovo, tanto più gli
investimenti diretti (IDE) rallentano e il debito corrente cresce. Il Cile e il
Messico restano stabili: il valore del peso messicano è anche cresciuto. Questi
due paesi contano sulla “ripresa americana e mondiale” per non precipitare
nella recessione. I paesi andini e quelli
dell’America centrale possono essere distinti da quelli del Mercosur [5].
I primi dipendono meno dalla finanza rispetto ai secondi, dunque più
indipendenti dalla finanza mondiale; essi subiscono soprattutto gli effetti del
ribasso dei prezzi delle materie prime (Perù, Colombia, Venezuela). I secondi
si trovano trascinati nelle tormente dell’indebitamento: l’Argentina è in
ginocchio; quanto al Brasile la sua base economica si è deteriorata a partire
dall’inverno 2000-2001, e il FMI lo sostiene sempre più come la corda
sostiene l’appeso.
La situazione catastrofica
dell’Argentina non è un caso isolato, ma il prodotto della svalutazione
finanziaria internazionale iniziata nel 1982 (con la crisi messicana), seguita
nel 1985 dal crollo delle casse di risparmio americane: 500 miliardi di dollari
di perdite (quasi la metà del debito del terzo mondo). Due anni dopo è la
volta del crack storico del 1987 (2000 miliardi di dollari vanno in fumo). Da
allora, le crisi finanziarie si sono succedute una dopo l’altra come mai nella
storia del capitalismo ...
In definitiva la svalutazione
del capitale-finanziario è un potente mezzo di concentrazione della ricchezza
finanziaria ed un mezzo per depurare il sistema finanziario dal capitale
fittizio.
È
sufficiente prendere ad esempio la Citicorp, la prima holding bancaria
americana. Quest’ultima decide, nel maggio 1987, di anticipare 3 miliardi di
dollari sui crediti che detiene nel terzo mondo. Questa decisione mette in
ginocchio le banche che non hanno la capacità finanziaria di anticipare a
questi livelli i loro crediti incerti. Si trova in questa difficoltà la Bank of
America o la Manufactures Hanover degli Stati-Uniti.
Tuttavia, vedremo che le
svalutazioni finanziarie sono sempre più spesso l’espressione di una
incapacità del capitale produttivo di realizzare plus-valore che permetterebbe
di avere profitti dopo aver pagato gli interessi dovuti ai loro creditori. La
crisi asiatica ha rivelato perfettamente il doppio movimento della svalutazione
del capitale (capitale-circolante e capitale fisso).
Le
crisi attuali, come possiamo osservare, sono principalmente crisi delle borse e
monetarie ed esplodono a seguito di fenomeni speculativi “esagerati”. È
necessario fare una distinzione tra l’epoca
mercantile e industriale, dove le crisi si manifestano in generale come crisi da
sovrapproduzione di mercato, mentre nella fase dell’egemonia finanziaria, il
“fulcro” delle crisi è “ il capitale circolante e la loro sfera
immediata, Banche, Borse e Finanza.” (Le Capital, ed. Moscou, t.I, p.140).
Se la crisi messicana del 1994
è rimasta nell’insieme circoscritta alla sfera finanziaria ed ha, dunque,
solo sfiorato l’economia reale[6],
il peso fu svalutato del 40% e l’ottava banca messicana entrò in una fase di
insolvibilità tecnica. La crisi asiatica (1997-1998) di contro esce dalla sfera
finanziaria e si dispiega nell’insieme dell’apparato produttivo.
L’economia reale di tutta la zona asiatica è nel caos, il FMI esige lo
smantellamento dei conglomerati (chaebols) della Corea del sud.
Infatti, gli Stati-Uniti e
l’Unione Europea vogliono eliminare un concorrente temibile, di cui hanno
saccheggiato l’industria acquisendo le loro imprese a basso costo, tanto più
facilmente perché la moneta nazionale si era svalutata del 40%. Contrariamente
al Messico che, dal 1995, aveva ripreso le sue esportazioni (+ 35% in volume +
30% in dollari), l’Asia continuerà a conoscere una crisi latente.
La
crisi russa del 1998 non può essere separata da quella dell’URSS e dalla
revisione semi pacifica degli accordi di Yalta.
La Russia contava di
privatizzare rapidamente le sue imprese pubbliche, cedendole ai finanzieri
internazionali, per rimborsare il proprio debito e ritrovare la propria
indipendenza. La Russia contava su gli investimenti diretti dell’Occidente per
uscire dal caos economico.. La privatizzazione abortita della compagnia
petrolifera Rosneft provoca un tonfo della Borsa del 40%. La crisi
fin qui si era limitata alla sfera finanziaria e la falla aperta era
stata chiusa dal FMI. La crisi attuale dell’Argentina è un vero e proprio
laboratorio delle contraddizioni del capitalismo, che ora andremo ad analizzare
in dettaglio.
“Se
le democrazie esigono un debito pubblico sotto controllo, gli operai devono
volere la bancarotta dello Stato”. (Karl Marx, 1re adresse du comité de la Ligue des
communistes, 1850).
Ciò che domina nella crisi
finanziaria (monetaria ed economica) dell’Argentina è il ruolo centrale avuto
dallo Stato; l’indebitamento dello Stato è diventata l’arma più acuminata
per portare un paese intero alla pauperizzazione e alla rovina. Come, dunque,
non interrogarsi, sulla sorte del mondo intero, quando sappiamo che il capitale
funziona sempre più sul debito pubblico?
Ora questo capitale fittizio -
scrive Tom Thomas nell’”Egemonia del capitale finanziario e la sua
critica” (ed. Albatroz) - costituisce l’elemento essenziale della massa del
capitale finanziario mondiale. Lo stock dell’attivo finanziario mondiale è in
effetti costituito dal 30% di titoli pubblici (e per un altro 30% di titoli e
monete). Ciò mostra l’importanza dello Stato nel gonfiamento della
remunerazione del capitale fittizio mondiale.
Lo
stato garantisce titoli sicuri, investimenti fluidi, e rendimenti regolari. Così,
“i mercati dei titoli di Stato sono diventati il settore più attivo del
mercato finanziario internazionale... le operazioni sui titoli pubblici superano
di gran lunga quelle su tutti gli altri mercati finanziari, ad eccezione dei
mercati di cambio” (ma il mercato dei cambi è esso stesso largamente
alimentato attraverso i deficit pubblici). Secondo il FMI, i mercati dei titoli
obbligazionari pubblici sono diventati
la “spina dorsale” dei mercati obbligazionari internazionali.
L’Argentina o, più
esattamente, il suo popolo, sopravvive da più di tre anni nella recessione; la
politica dissennata dell’indebitamento dello Stato ha portato il paese al
fallimento. Questo vuol dire che l’Argentina non soltanto è incapace di
rimborsare il suo debito (circa 147 milioni di dollari alla fine del 2000),
capitale diventato fittizio poiché bruciato in maniera improduttiva, ma il
popolo argentino è costretto a pagare gli interessi del debito (11 milioni di
dollari), cioè il 22% della spesa pubblica.
Tra il marzo 1976, inizio della
dittatura di Videla, e il 2001, il debito del popolo argentino si è
moltiplicato di venti volte (è passato da 8000 milioni di dollari a 160000
milioni). Non stupisce che la maggioranza del popolo argentino viva peggio di 30
anni fa. Il popolo ha rimborsato, a partire dal 1976, 200000 milioni di dollari
per un indebitamento che “è stato divorato dalla spesa dello Stato. Non
esiste più...perché non è mai stato destinato ad essere speso come capitale
in quanto tale” (Karl Marx)[7].
Vedremo
più avanti come questo capitale sia stato speso; per il momento, cercheremo di
esaminare l’evoluzione di questo paese verso la sua crisi generale. La
dittatura argentina non sarebbe stata in grado di mantenere il suo regime di
terrore tra il 1976 e il 1980, senza il sostegno attivo degli Stati-Uniti; la
dittatura si è dunque posta sotto l’ala protettrice dello zio Sam, e lo zio
Sam vedeva con occhio benevolo l’indebitamento argentino come il mezzo più
sicuro per controllare questo paese, che durante gli anni del peronismo aveva
conosciuto un certo benessere economico.
La
dittatura di Videla, che ha sulle mani il sangue di 30000 morti, non aveva
scelta; doveva collaborare con gli Stati-Uniti o scomparire. La collaborazione
doveva portare progressivamente la dittatura a rinunciare completamente
all’indipendenza del paese. Nell’aprile del 1991, la legge di convertibilità,
che stabiliva che un peso valeva un
dollaro, aveva la conseguenza per il governo di non poter più emettere moneta.
L’Argentina era diventata, per finanziarsi, totalmente dipendente dai capitali
stranieri, e la dittatura, una borghesia mercantile, un agente diretto del
capitale finanziario internazionale. Non rappresentava più i “cittadini
argentini” ma gli interessi della classe sociale che la sosteneva, come ora
vedremo. La rovina del paese determinerà il suo arricchimento così come quello
del capitale finanziario.
Il
governo civile, che è succeduto alla dittatura, è stato costretto a svolgere
un’inchiesta sulla questione dell’indebitamento. Il
verdetto, reso pubblico il 13 luglio 2000, non ha portato ad alcuna condanna
(per prescrizione). L’inchiesta ha però rivelato una parte dell’impresa
distruttrice provocata dalla politica dell’indebitamento. Si è così appreso
:
che il FMI ha sostenuto
attivamente la dittatura, prestandogli uno dei suoi più alti funzionari,
Dante Simone;
che la Federal Reserve di New
York ha avallato dei prestiti alla dittatura erogati da banche private
americane, e che la Federal Reserve ha svolto un ruolo di mediazione in
diverse operazioni della Banca centrale argentina;
che la
dittatura indebitava il Tesoro pubblico e le imprese pubbliche; permetteva
ai capitalisti argentini di portare all’estero quantità di capitali
niente affatto irrilevanti.
Tra il 1978 e il 1981, più di
38000 milioni di dollari avrebbero lasciato il paese in modo ingiustificato.
Era, ad esempio, permesso ad ogni residente argentino acquistare quotidianamente
20000 dollari che potevano essere successivamente esportati all’estero. In
breve, lo Stato si indebitava tanto quanto i capitalisti disinvestivano
allegramente in Argentina. “Approssimativamente, il 90% delle risorse
provenienti dall’esterno attraverso l’indebitamento delle imprese (private e
pubbliche) e del governo venivano trasferite all’estero grazie a operazioni
finanziarie speculative”. Importanti somme prestate dalle banche private degli
Stati-Uniti e dell’Europa occidentale venivano successivamente depositate in
quelle stesse banche. Imprese pubbliche come YPF sono state messe
sistematicamente in difficoltà (vedi nota 7).
Il
regime di transizione “democratico” che è succeduto alla dittatura ha
trasformato il debito delle imprese private in debito pubblico in modo
perfettamente illegale: questo significa che sarebbe stato possibile modificare
questa decisione. Tra le imprese private, il cui debito fu assunto dallo Stato,
vi sono anche le banche; senza
commentare, 26 delle imprese di cui lo stato si era assunto il debito erano
finanziarie. Tra esse figuravano numerose banche straniere che si erano
stabilite in Argentina: City Bank, First National Bank of Boston, Deutsch Bank,
Chase Manhattan Bank, Bank of America... Un chiaro esempio di collusione tra
Banche private del Nord e dittatura argentina: tra luglio e novembre 1976, la
Chase Manhattan Bank ha ricevuto mensilmente depositi per 22 milioni di dollari
(che sono aumentati in seguito) e li ha remunerati al 5,5% circa; in questo
periodo, con la stessa cadenza, la Banca Centrale argentina prendeva a prestito
30 milioni di dollari dalla stessa banca degli Stati-Uniti, la Chase Manhattan
Bank, ad un tasso del 8,75%.
Le conclusioni della sentenza
sono schiaccianti per la dittatura, per il regime che gli è succeduto, per il
FMI, per i creditori privati... La sentenza depositata in tribunale enuncia
chiaramente che “il debito estero della nazione (...) aumentò
considerevolmente a partire dal 1976 grazie ad una politica economica semplice
ed aggressiva che mise il paese in ginocchio e di cui beneficiarono le imprese e
il commercio privato, nazionale e straniero a detrimento delle società e delle
imprese di Stato; frutto di una politica orientata all’impoverimento giorno
dopo giorno, che si ripercuoterà sul valore delle imprese al momento delle
privatizzazioni”. Il giudizio doveva servire per un’azione risoluta volta a
non pagare il debito estero pubblico argentino e per la sua cancellazione:
questo debito è odioso e illegittimo. I creditori non hanno alcun diritto di
esigerne la restituzione. I loro crediti sono nulli.
E come
i nuovi debiti acquisiti a partire dal 1982-1983 sono serviti essenzialmente a
rimborsare vecchi crediti, anche quest’ultimi sono in larga misura
illegittimi. L’Argentina può legittimamente appoggiarsi sul diritto
internazionale per fondare la decisione di non pagare il proprio debito estero.
Parecchi argomenti giuridici
possono essere invocati, tra i quali la nozione di “debito odioso” (il
debito argentino è stato negoziato da un regime dispotico, colpevole di crimini
contro l’umanità, i creditori non potevano non saperlo), la forza maggiore
(come gli altri paesi indebitati, l’Argentina è stata posta di fronte
all’aumento dei tassi di interesse disposto unilateralmente dagli Stati-Uniti
a partire dal 1979) e lo stato di necessità (lo stato delle finanze argentine
non consentiva di proseguire nel rimborso del debito poichè questa condizione
impediva di adempiere alle proprie obbligazioni in rispetto dei patti
internazionali e riguardo ai propri cittadini in termini di rispetto di diritti
economici e sociali). Dal giudizio del 13 Luglio 2000, gli eventi a ripetizione
ci rivelano tutta la gravità e tutta la corruzione del sistema del debito
pubblico.
È durante il periodo della
dittatura militare e violenta del generale Videla (1976-1981) che lo Stato
argentino e il FMI mettono in campo una politica d’indebitamento sistematico.
Questo al fine di aumentare in maniera fittizia le sue “riserve in divisa
straniera” come era successo nel diciannovesimo secolo per l’impero ottomano
e l’Egitto (vedi il testo di Rosa Luxemburg sulla questione, in
“L’accumulazione del capitale”). Quando l’accumulazione di riserve in
divise sarebbe dovuto essere il
prodotto dello scambio di merci sul mercato mondiale (realizzazione di
plus-valore), l’accumulazione del debito era presentata come accumulazione di
capitale. Queste riserve non erano né amministrate né controllate dalla Banca
centrale, il cui governatore era Domingo Cavallo[8].
Questa
politica d’indebitamento, politica naturale del capitale finanziario, è
sempre presentata dalle autorità come un mezzo per sostenere un forte
incremento delle importazioni. Nella realtà, e tutta la storia
dell’indebitamento internazionale lo attesta, il ruolo dei prestiti
internazionali non soltanto permette al vecchio capitale (lavoro diventato
capitale) di esprimere la sua capacità di sfruttamento e di accumulazione, ma
anche di provocare la rovina delle economie naturali per sostituirle con
economie di mercato. La penetrazione di capitale prestato porta sempre allo
stesso risultato “accumulazione della ricchezza da una parte e povertà
dall’altra”. Tale sarà il piano economico[9]
che il ministro dell’economia, Martinez de Hoz, e il segretario di Stato al
coordinamento e alla programmazione economica, Guillermo Walter Klein,
metteranno in campo, con le raccomandazioni del FMI, a partire dal 2 aprile
1976. Un lungo processo di distruzione dell’apparato produttivo del paese[10]
si è ormai messo in moto. Si apprenderà successivamente che la maggioranza dei
prestiti (tanto in Argentina che in Venezuela) non sarebbe servirà ad altro che
alla fuga di capitali. La maggior parte dei prestiti concessi alla dittatura
argentina, proveniva dalle banche private del Nord[11].
Questa politica d’indebitamento permetterà alla dittatura di ottenere una
certa riconoscenza da migliaia di finanzieri internazionali, sia per la
capacità di mantenere l’ordine che di appropriarsi di plus-valore. Nel
1978 la coppa del mondo di calcio viene organizzata in Argentina.
Il dopo-dittatura e l’impunità
Il regime post-dittatoriale non
epurerà né le forze armate né la polizia. Al contrario, i militari impegnati
nella repressione sono rimasti in servizio ed hanno ottenuto l’impunità
grazie alle leggi del “point finale” e dell’”obbedienza dovuta”
entrate in vigore nel 1986-1987.
“È
scoppiato uno scandalo perché uno di loro, il capitano Astiz, ha rotto per la
prima volta la legge del silenzio osservata dai militari: nel 1982, un amico mi
ha chiesto se vi sono stati molti
desaparecidos. Io gli ho risposto: certamente, ce ne sono stati 6500, anzi di più,
ma non più di 10000. Sono stati tutti eliminati”(Le soir, 16 gennaio 1998).
La maggior parte degli alti funzionari dell’apparato di Stato sono rimasti al
loro posto, certi furono addirittura promossi. Il governo presieduto da Alfonsin
(1983-1989) prende atto che la Banca centrale argentina dichiara di non avere
alcun registro del debito estero pubblico e prosegue nella politica dei suoi
predecessori, con una particolarità: è lui a decidere che lo Stato deve
assumersi l’insieme del debito tanto privato che pubblico. Confermando così
la celebre riflessione di Marx: “la sola parte della sedicente ricchezza
nazionale che entra realmente a far parte della proprietà collettiva dei popoli
moderni, è il loro debito pubblico” (Karl Marx, Le Capital, t.1, ed.de Moscou,
p. 721).
Il governo Menem (1989-1999),
che è seguito a quello di Alfonsin, ha preso a pretesto il formidabile
indebitamento delle imprese pubbliche per giustificare agli occhi
dell’opinione pubblica la sua politica di privatizzazioni realizzata tra il
1990 e il 1992. Tuttavia, questo indebitamento era il risultato della politica
d’indebitamento imposta dal governo. Lo Stato, una volta di più, interveniva
per sostenere il capitale finanziario:
“è
così, per esempio, che la principale impresa pubblica argentina, l’impresa
petrolifera YPF (Yacimientos Petroliferos Fiscales), è stata costretta ad
indebitarsi all’estero quando disponeva di risorse sufficienti per sostenere
il proprio sviluppo. Al momento del colpo di Stato militare del 24 marzo 1976,
il debito estero dell’YPF si aggirava a circa 372 milioni di dollari. Sette
anni più tardi, alla fine della dittatura, questo debito era di 6000 milioni di
dollari. Il debito si è moltiplicato di 16 volte in sette anni. Quasi nessun
prestito straniero è arrivato nelle casse delle imprese, bensì è finito nelle
mani dei dittatori. Sotto la dittatura, la produttività dei lavoratori dell’YPF
è aumentata dell’80%. Il personale complessivo è passato da 47000 a 34000
unità. La dittatura, per aumentare le entrate nelle sue casse, ha ridotto alla
metà la parte di denaro incassata dall’YPF per la vendita di combustibile al
pubblico. Di più, YPF era obbligata a raffinare una parte del petrolio che
estraeva per le multinazionali private Shell e Esso, quando quest’ultime
avrebbero potuto, vista la loro buona situazione finanziaria all’inizio della
dittatura, dotarsi di una raffineria capace di soddisfare i loro bisogni
(completando le loro raffinerie di La Plata e di Lujin de Cuyo). Nel giugno
1982, tutto l’utile delle società era rappresentato dall’indebitamento (O
Globo, 8 aprile 1997, Brasile).
Oltre all’YPF (venduta alla
multinazionale petrolifera spagnola Repsol nel 1999), la compagnia aerea
Aerolineas Argentinas fu venduta alla spagnola Iberia, che pagò in contanti 130
milioni di dollari e il resto come annullamento dei debiti. I Boing 707 che
facevano parte della flotta sono stati ceduti per la cifra simbolica di 1
dollaro (1,54 dollari per l’esattezza!). L’Iberia per comprare la compagnia
ha preso a prestito denaro, che ha trasferito immediatamente sulle spalle della
nuova società aerolineas Argentinas, la quale si è ritrovata di colpo
indebitata come prima. Nel 2001, Aerolineas Argentinas, proprietà dell’Iberia,
era sull’orlo del fallimento per respondabilità dei suoi proprietari. La
privatizzazione dell’Aerolineas è esemplare. In generale, le imprese
privatizzate sono state cedute libere dai loro debiti, essendo questi ultimi
rilevati dallo Stato.
L’assunzione del
debito privato da parte dello stato e l’indebitamento forzato delle imprese
pubbliche.
Nel 2001, il governo di centro
sinistra de la Roea (1999-2001) impone, come chiede il FMI, un’austerità
durissima alla maggioranza della popolazione. Il dono supremo (assunzione del
debito pubblico e privato) di Alfonsin ai capitalisti argentini (e stranieri)
non viene messo in discussione[12].
Da allora, il debito dello Stato si è appesantito del fardello del debito delle
imprese private, poiché lo Stato deve assumersi le loro obbligazioni nei
confronti dei creditori. Ed ancora, i capitalisti argentini hanno proseguito
nella politica dell’esportazione dei capitali come se si trattasse di uno
sport nazionale. Al punto che se si dovesse creare una graduatoria
latino-americano dell’esportazione di capitali, la classe capitalista
argentina potrebbe pretendere il primato di questa classifica, pur lottando con
contendenti piuttosto agguerriti, come brasiliani, messicani e venezuelani.
Di contro, i debiti delle
imprese pubbliche, che furono anch’essi aumentati notevolmente per decisione
della dittatura, non furono annullati, salvo quando si trattava di privatizzare
quelle stesse imprese. I governi che si sono succeduti dopo la caduta della
dittatura hanno preso a pretesto l’indebitamento delle imprese pubbliche per
privatizzarle, avendo la premura di trasferire i debiti allo Stato prima di
vendere.
“Menem
ha conferito alla banca americana Merril Lynch l’expertise per valutare
il prezzo dell’YPF. Merril Lynch ha deliberatamente ridotto del 30% le riserve
petrolifere disponibili al fine di sottostimare il valore dell’YPF prima della
sua messa in vendita.
Una volta realizzata la
privatizzazione, la parte delle riserve occultate riappariva nelle scritture
contabili della società. Gli operatori finanziari, che avevano acquistato a
prezzi molto bassi le azioni delle imprese, potevano realizzare dei guadagni
formidabili grazie all’aumento delle quotazioni in borsa delle azioni YPF.
Questa operazione permette anche di dimostrare ideologicamente la superiorità
del privato sul pubblico.
Nota
bene: la stessa banca americana Merril Lynch è stata incaricata dal predidente
brasiliano Fernando Enrique Cardoso di procedere nel 1997 alla valutazione della
principale società pubblica brasiliana, Vale do Rio Doce (impresa di estrazione
mineraria). Merril Lynch è stata accusata all’epoca da numerosi parlamentari
brasiliani di avere sottostimato del 75% le riserve minerali dell’impresa (O
Globo, 8 aprile 1997, Brasile).
Il futuro di un’altra argentina
Ciò che attraversa
l’Argentina, può essere il segno di una crisi generale del sistema
finanziario internazionale. Di fatto la recessione si è mondializzata: interi
paesi possono fallire da un momento all’altro. È il caso della Turchia, che
sta negoziando con il FMI un prestito di 10 miliardi di dollari, del Libano e
del Brasile. La Thailandia e le Filippine sono al limite della recessione. I
fondi pensione Calpers stanno ritirando i loro investimenti dalla Thailandia,
dalle Filippine e dalla Malesia. I rischi si aggravano, ed abbiamo visto come
dal 1987 la banca americana Citicorp prevedeva che gli Stati non sarebbero più
riusciti a garantire i crediti delle banche. Il FMI stesso fu rimesso in
questione e, alla fine del 2001, si diceva che “la creazione di un diritto
fallimentare applicabile agli Stati nel caso di incapacità di rimborsare i loro
debiti appariva più che mai di attualità. L’idea non è nuova. Essa era
molto diffusa durante la crisi asiatica, prima di ricadere nell’oblio. Che sia
risorta con le difficoltà argentine non sorprende.
La grande novità è che l’idea è ormai sostenuta dal FMI”.(La
Tribune, 24 dicembre 2001).
Non è
la prima volta che dei paesi falliscono. Rosa Luxemburg, nel suo libro
L’Accumulazione del capitale, parla diffusamente delle conseguenze dei
prestiti internazionali e mostra come si dispieghi il capitale nel mondo:
“Tra
il 1870 e il 1875 – scrive - i prestiti furono contrattati a Londra per un
valore di 260 milioni di sterline, ciò provocò immediatamente una crescita
rapida delle esportazioni delle merci inglesi nei paesi d’oltre-manica. Benché
questi paesi falliscano periodicamente, i capitali continuano ad affluirvi in
massa. Alla fine del 1870, certi paesi avevano parzialmente o completamente
sospeso il pagamento degli interessi: la Turchia, L’Egitto, la Grecia, la
Bolivia, il Costarica, l’Equador, l’Honduras, il Messico, il Paraguay, Santo
Domingo, il Perù, l’Uruguay, il Venezuela. Tuttavia, dalla fine del 1880, la
febbre dei prestiti agli Stati d’oltremare riprese...” (L’Accumulation du capital,
ed. Maspero, p. 95 vedi anche pag.72).
Non possiamo prevedere
l’evoluzione della crisi economica e sociale argentina, che dipenderà da
numerosi fattori. La spinta sociale conoscerà un’altra fase e si libererà
del nazionalismo? Il governo Duhalde, per calmare le piazze, offre un reddito
minimo garantito; ma cerca di costituire alla bene meglio un “fronte
nazionale”. Duhalde procede attraverso la riabilitazione dei veterani delle
Malouines e mentre tiene testa formalmente al FMI, già si appresta a stipulare
un accordo con lo stesso FMI. Questo accordo prevede di attaccare il deficit
delle province (350000 impieghi sono già nel mirino). Il FMI esige il ritiro
dei buoni che le province emettono senza garanzia monetaria per pagare i
funzionari,ed il ministro dell’economia si è già impegnato ad eliminarli in
un anno.
“Un paese trasformato in
un’immensa zona franca finanziaria”: questo era il titolo di un articolo di
Le Monde diplomatique del luglio 1987 dedicato all’Argentina, che tratteggiava
succintamente una tavola storica, economica e politica, a partire dalle lotte
per l’unificazione del 1810-1853 fino agli anni trenta, periodo in cui, sotto
l’influenza dominante del capitale britannico, si cercò di dotare il paese di
infrastrutture orientate verso un semi-colonialismo fondato sulla grande
proprietà fondiaria, facendo del paese uno dei maggiori produttori mondiali di
prodotti agricoli a basso prezzo. Si sviluppò, cioè, quello che un altro
articolo dello stesso giornale chiama “una cultura della rendita”, che
dominerà effettivamente la vita economica e sociale fino ad oggi[13].
È uno sviluppo industriale parallelo che, con la crisi del
1930 (che ostacola lo sbocco dei prodotti agricoli e le fonti dei prodotti
importati), i rischi economici e i pericoli di guerra nel mondo, conosce un
grande sforzo dal 1930 al 1970 per realizzare un’industrializzazione di
sostituzione. Con una successiva integrazione verticale e lo sviluppo
dell’industria pesante, l’Argentina comincia a vivere una dinamica di
crescita stimolata dalla produzione industriale. Questa situazione modifica
profondamente i rapporti di classe all’interno dell’Argentina e le sue
relazioni con l’insieme del capitalismo mondiale, situazione che d’altra
parte non caratterizza solo l’Argentina.
Pensiamo
che sia utile ricordare la storia politica più recente dell’Argentina per
cercare di comprendere ciò che è successo negli ultimi mesi. Per fare questo,
dobbiamo, innanzitutto, tentare di capire il
fenomeno del peronismo, la cui comprensione esatta può darci la misura della
realtà politica argentina. In effetti, il peronismo ha impregnato la cultura e
le strutture sociali del paese a partire dalla fine della seconda guerra
mondiale, toccando tutti i campi della vita sociale e politica.
Juan
Domingo Peron giunge al potere attraverso libere elezioni nel 1946. Tra il 1943
e il 1945 è stato segretario di Stato al lavoro, dove ha fatto adottare misure
favorevoli, soprattutto, alla classe operaia recentemente formatasi, composta da
proletari che hanno abbandonato le campagne (tra il 1943 e il 1952, la capitale
Buenos Aires ha assorbito almeno un milione di immigrati). Sono innanzitutto
questi uomini e donne che porteranno Peron al potere. Bisogna comprendere
l’ascesa di Peron nel quadro dell’industrializzazione del paese, che aveva
visto il suo esordio negli anni trenta e che
conobbe il suo apogeo tra il 1940 e il 1950. Se gli immigrati costituiscono la
base del potere, il sostegno maggiore fu quello dei loro padroni, che, con il
pretesto del patriottismo esaltato dal programma peronista, vedevano nella
politica dello Stato la protezione delle loro attività. Ciò dimostra che la
struttura sociale ed economica del paese è cambiata: si è passati da una fase
pre-capitalistica ad una vera e propria industrializzazione. Questo passaggio è
avvenuto già da qualche decennio, ma, per la sua prima fase, è preferibile
parlare di una riconversione produttiva, poiché gli industriali utilizzavano
ancora i profitti dell’agricoltura per reinvestirli nell’industria. Con
Peron al potere, gli industriali intervengono indipendentemente, per la prima
volta nella storia, nell’esercizio del potere e contro il vecchio ordine dei
proprietari fondiari che avevano sempre guidato l’Argentina.
Questo deve portarci a
considerare meglio l’ideologia di Peron. Contrariamente a ciò che si dice
frequentemente, il peronismo non ha niente di reazionario se non una certa
fraseologia fascista.
Per il
resto, è un’ideologia che accompagna più potentemente la modernizzazione
industriale del paese. È per questo che diciamo che il peronismo rappresenta la
prima reazione importante al potere della classe dei proprietari terrieri[14].
Dal punto di vista della
“sovrastruttura”, cioè dal punto di vista delle idee, si tratta di capire
il ruolo che Peron ha giocato nel nazionalismo, come ideologia che subordina il
discorso di classe alla Nazione e allo Stato “paternalista”.
Lo
sforzo per l’integrazione delle classi popolari nei meccanismi statali è
passata attraverso questo aspetto “simbolico”[15].
Parliamo proprio di un aspetto simbolico, poiché è evidente che Peron si è
sempre guardato bene dall’opporsi realmente agli investimenti stranieri, il
nazionalismo è stato più una copertura ideologica che un fatto reale. Se
passiamo ora al piano concreto dei rapporti di classe, possiamo osservare il
metodo “scientifico” con il quale Peron ha costruito questa alleanza con gli
operai. Ha concesso diritti sociali, ha dato ai proletari argentini una
“dignità” che non avevano mai avuto, soprattutto di fronte al potere,
istituendo con loro un rapporto diretto. Ha aumentato notevolmente il mercato
interno e il consumo di massa. Tutte queste iniziative sono state
accompagnate da un vero e proprio inquadramento
“politico”, con il quale tutte le relazioni tra gli operai e lo Stato
passava attraverso interessi corporativi. Il sindacato diventava il custode
ufficiale di questo meccanismo.
Lo sforzo dall’alto che faceva
Peron si realizzava dunque grazie al lavoro dal basso che facevano i sindacati:
il fine era l’integrazione completa della classe operaia nell’apparato dello
Stato. Questo progetto incontrava le difficoltà maggiori proprio negli
interessi capitalistici che lo appoggiavano. Il capitalismo industriale
argentino era troppo debole per emanciparsi completamente dall’aristocrazia
terriera. Quest’ultima doveva soprattutto risorgere per far sentire la sua
forza ancora viva: il rovesciamento violento di Peron nel 1955 si spiega così
facilmente[16].
A
partire da quel momento, egli comprenderà che non si poteva prescindere da
questa forza per governare il paese: quando ritornerà al potere, nel 1973-1974,
non potrà ripetere ciò che aveva realizzato negli anni quaranta. Innanzitutto
perché non c’era più un capitalismo specificamente nazionale, né agricolo né
industriale: il capitalismo argentino cominciava in questi anni ad essere
sostituito da quello multinazionale. I “mangeurs du populaire”[17]
si sono mondializzati. È il momento in cui gli argentini conoscono
l’internazionalizzazione della loro schiavitù.
La sequenza degli eventi storici fino ad oggi conferma il ruolo preponderante
assunto dal capitale internazionale nell’economia argentina. Già la dittatura
militare, che aveva rovesciato il potere peronista, teneva a precisare che il
suo obiettivo, dietro il massacro degli operai e degli altri oppositori, era
soprattutto quello “di promuovere lo sviluppo economico, offrendo
all’iniziativa e ai capitali privati, nazionali e stranieri, tutte le
agevolazioni per poter sfruttare le ricchezze nazionali”. Il ritorno alla
democrazia non cambierà in niente questa dipendenza dell’argentina dal
capitale internazionale. In questo senso, il caso più emblematico diviene il
nuovo peronismo incarnato da Carlos Menem, che si appoggerà chiaramente sulla
finanza internazionale avanzando un programma tutto rivolto alle
privatizzazioni. La distanza dal peronismo tradizionale è confermata anche
dall’abbandono della politica di concertazione sociale: Menem non fonderà il
suo potere sui sindacati come rappresentanti di interessi corporativi. Questi
ultimi si realizzeranno attraverso l’indebolimento del potere esercitato sui
lavoratori da parte dei sindacati. In effetti, l’alleanza con il potere, che
ha contraddistinto il sindacalismo argentino (come il sindacalismo tout court,
dovunque nel mondo) ha favorito anche la nascita di forme autonome di lotta
(come quelle attuali) che sono diventate così forti che hanno screditato
completamente il ruolo delle diverse “centrali” sindacali.
In
effetti, il peronismo ha conosciuto al suo inizio un’altra grande
contraddizione, che sarebbe dovuta esplodere prima o poi. Questa contraddizione
riguarda proprio il ruolo giocato dal sindacato. Abbiamo cercato di dimostrare
che nella storia recente dell’Argentina ci sono sempre state due tendenze di
“mangeurs du populaire”: la prima, rappresentata dal peronismo, che tentava
l’integrazione del proletariato, la seconda, rappresentata dalle diverse
dittature militari, che intervenivano per reprimere brutalmente la classe
operaia quando quest’ultima diventava troppo indipendente. Il fatto che tutti
i tentativi di integrazione della classe operaia furono sempre seguiti da
episodi di repressione violenta deve farci comprendere che l’integrazione del
proletariato non è mai stata facile. Nonostante si sia costruito un enorme
apparato d’integrazione (sindacati, partiti, etc.), la classe operaia restava
in ultima istanza autonoma. L’industrializzazione,
sulla quale Peron si era appoggiato, ha fatto in modo che ci fossero dei
sindacati “asserviti”, ma ha anche prodotto lo sviluppo “autonomo” di
una cultura e di una pratica operaia che ha espresso grandi forme di resistenza
(in virtù di un processo sociale autonomo).
D’altronde
questo sviluppo aveva delle importanti radici storiche in Argentina. Un breve
cenno a queste radici può essere utile. L’Argentina si distingue dagli altri
paesi latino-americani, poiché da più di un secolo conosce una consistente
presenza di classe. È a partire dal momento in cui German Ave Lallemant fonda
il giornale “El Obrero”, nel 1890, che la sinistra argentina ha espresso
tutte le tendenze del movimento operaio (anarchici, leninisti,
internazionalisti, social-democratici). Il benessere economico della prima metà
del secolo ha fatto dell’Argentina il rifugio di molti emigrati politici
europei che vi hanno poi continuato la loro attività politica[18],
costruendo le basi di un vero e proprio movimento operaio. Peron ha utilizzato
gli immigrati “interni” (la nuova classe operaia “autoctona” che
proveniva dalle campagne) contro questo movimento “storico”.
Il suo fine era quello di addomesticare il movimento
attraverso il proletariato più debole, quello senza “camicia” (i
descamisados). Tuttavia questo gioco non poteva durare a lungo: la causa era il
processo di classe autonomo, era chiaro che una nuova conflittualità avrebbe
dovuto manifestarsi. O, visto che non poteva esprimersi attraverso i sindacati
di regime, ha trovato altre forme di espressione, delle forme totalmente
autonome. Ciò che osserviamo oggi, in particolare quello che abbiamo visto
durante le giornate di dicembre nel 2001, non è che il risultato della lunga
storia della resistenza della classe operaia argentina di fronte allo
sfruttamento capitalistico.
Oggi
si parla di piqueteros, di assemblee de barrios (quartieri), di vecinos (vicini)
che pongono la questione di una resistenza radicale al potere. In realtà queste
strutture autonome di classe accompagnano da molto tempo il movimento sociale
argentino, e precisamente a partire dalle società di fomento. Contro un potere così distante
(specialmente nelle banlieues) e contro l’opposizione di regime rappresentata
dai sindacati e dai partiti, i proletari hanno dovuto darsi delle forme autonome
di organizzazione. Queste forme, come queste diverse assemblee, sono nate sulla
base di una semplice difesa degli interessi vitali dei proletari. Lo Stato non
era nemmeno capace di rispondere ai bisogni più elementari della vita
quotidiana, per questo i “voisins” si sono auto-organizzati per farvi
fronte. Ma questi fenomeni si sono estesi via via a vere e proprie forme di
socializzazione. Da “privati” sono dunque diventati “pubblici”.
Anche
il movimento delle Madres de plaza de Mayo è sorto sulla base di questa
dinamica. Le madri si sono mobilitate a causa di un dramma personale (la
scomparsa dei loro bambini), ma hanno fatto diventare questo problema un affare
pubblico. Infatti, hanno interrogato direttamente i funzionari, hanno messo in
questione l’ordine esistente delle cose ed hanno proposto anche la
trasformazione delle relazioni sociali e politiche. Il carattere politico della
loro mobilitazione è sottolineato anche dai luoghi scelti per le loro
manifestazioni: un luogo “pubblico” per eccellenza, la sede del governo
argentino, plaza de Mayo. Non è un caso se hanno giocato un ruolo di primo
piano negli eventi più recenti.
Si può dunque parlare di una
vera e propria tendenza originale del movimento sociale argentino. Questa
tendenza ha avuto la luce grazie alle condizioni particolari dell’evoluzione
politica e sociale del paese. Si può definire questa tendenza come una forma di
lotta di classe che è più sociale che politica. Essa non fa nient’altro che
portare sulla scena pubblica dei problemi materiali, di sopravvivenza, che erano
prima risolti nella sfera familiare o dei vicini. È una lotta di classe
“classica”, cioè a dire “immediata”. È per questa ragione che molti
osservatori sono portati a condannare le lotte argentine per il loro carattere
“limitato”, “riformista” e anche “reazionario”. Conosciamo il
ritornello! Noi non lo giudichiamo, ma ci limitiamo ad osservare che questo
movimento, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, è quanto meno
capace di esprimere nuove forme di azione e nuove pratiche collettive.
La
questione è sapere se sarà capace di trasformare queste pratiche collettive in
un potere “costituente”, cioè se saprà creare una nuova società. Per ora,
sembra molto lontano da questa prospettiva. Non vediamo forme concrete di
contro-potere, queste restano sempre molto confuse e non implicano mai tutta la
classe. Ma è certo che si tratta di una tappa non trascurabile nella storia del
movimento proletario argentino. Anche se non raggiunge il livello
“rivoluzionario”, rappresenta comunque un evento molto importante nella
memoria di classe. Ecco perché i capitalisti argentini hanno avuto veramente
paura. Sapevano bene che non avrebbero potuto recuperare il movimento dei
cacerolazo attraverso i soliti strumenti (sindacati e partiti). Così, è chiaro
che il livello della lotta di classe ha già superato il limite abituale della
conflittualità ordinaria.
Una volta compreso questo, gli
uomini politici argentini hanno subito pensato (da buoni democratici)
all’altra faccia della medaglia, cioè alla repressione. Hanno innanzitutto
insanguinato le strade argentine per intimorire i manifestanti, e in seguito
hanno lasciato intendere che una repressione ancora più violenta poteva essere
messa in campo. Una polizia di provincia, creata per combattere la delinquenza,
già infuria nei quartieri seminando paura e perpetrando delitti. È definita
dagli argentini come la “polizia maledetta”, perché se la prende spesso con
le persone, soprattutto con i militanti. Essa costituisce la forza d’urto
contro il movimento quando sarà giudicato opportuno creare un vero regime
dittatoriale. Ciò si verificherà quando la questione proletaria comincerà a
diventare seria.
Per ora, l’eventualità di un colpo di Stato militare non sembra del tutto scartata. Si brandisce ancora una volta lo spettro della reazione contro la classe operaia argentina: quando l’integrazione non funziona più, c’è il manganello. I “mangeurs du populaire”, nazionali o internazionali, sono sempre gli stessi.
È
difficile sbrogliare la matassa di quelli che possiamo chiamare partiti, ma che
sono piuttosto dei clans che si contendono i favori del potere. Praticamente
tutti si richiamano all’eredità del peronismo, pur in assenza di una
qualsiasi relazione con la dottrina peronista. Non si tratta che di un argomento
elettorale che si fonda spesso su un clientelismo provinciale, dato che i
“leaders” sono per la maggior parte dei governatori di provincia corrotti e
onnipotenti. Le due correnti che, al momento degli eventi di dicembre, si
contendono il potere sono da una parte i “giustizialisti”, il partito
peronista di Carlos Menem e di altri ritornati in auge, e dall’altra l’
Alleanza, una coalizione tra l’Unione civica radicale (UCR, il partito
radicale di Ferdinand de la Ria) e il Fronte per un paese solidale (Frepaso),
una coalizione di dissidenti peronisti.
I gruppi di estrema sinistra
sono così tanti come altrove lo sono le correnti trotskiste o maoiste; gli
anarchici, dopo il lontano ormai periodo di gloria della Federazione operaia
regionale argentina (Fora) anarchico-sindacalista, non può più considerarsi
una forza politica o sindacale. Una organizzazione anarchica, l’Organizzazione
socialista libertaria (OSL) può scrivere: “non abbiamo forme d’azione, né
di rottura in caso di insurrezione auto-organizzata. Ciò mette in evidenza che
la sinistra in generale non è stata considerata un’ interlocutrice valida dal
“popolo” insorto... “. Secondo questo stesso articolo, i manifestanti gli
avrebbero “tolto la parola”. Non si potrebbe esprimere meglio il fossato che
si è creato tra i “rivoluzionari organizzati” intorno alla loro ideologia e
il movimento di base che si costruisce a partire dalle situazioni concrete dei
suoi partecipanti per risolvere i problemi della loro vita in queste condizioni.
In gennaio, un gruppo,
Democrazia operaia, lancia un appello per un Congresso nazionale operaio;
l’appello era indirizzato alle “organizzazioni rivoluzionarie” PO (Partiti
operai”, alla Sinistra unita, PTS (Partito dei lavoratori per il socialismo),
MAS (Movimento per il socialismo), alla FOS, Convergenza socialista, per
“coordinare tutti i settori in lotta” e si rivolgeva alle altre
organizzazioni affinché si unissero a loro, compresi i poliziotti; come se il
movimento non si auto-organizzasse più, senza dubbio non come avrebbero
desiderato. Diversamente da questi gruppi influenzati dal trotskismo e dal
leninismo, il PCR maoista guida la Corriente clasista combativa (CCC) attiva nel
movimento dei piqueteros.
I tre
principali sindacati argentini scaturiti tutti dal peronismo o che si richiamano
più o meno ad esso:
la CGT (Confederazione generale
del lavoro) resta la confederazione sindacale ufficiale; si trova sempre
dalla parte del governo, quale esso sia, ed ha anche concluso accordi con le
autorità al tempo della dittatura militare. I suoi dirigenti sono
strettamente legati al mondo padronale; pertanto, per diverse ragioni, chi
ha ancora un posto di lavoro vi aderisce;
la CGT-MOYANO è una
confederazione sindacale dissidente della CGT che si è data il nome del
leader del sindacato dei camionisti, Hugo Moyano, che ha provocato una
scissione, per i legami troppo stretti del sindacato con i governi. È una
organizzazione burocratica come la casa madre, ma che fa leva su una
opposizione populista attraverso scioperi generali ma limitati e ben
controllati, volti ad ottenere delle piccole concessioni dal potere;
la Confederazione dei lavoratori
argentini (CTA) si fonda su un rifiuto più netto della CGT. È il sindacato
prevalente nel settore pubblico, specialmente tra gli insegnanti (ATE,
Associazione dei lavoratori dello Stato). Questa confederazione è molto più
militante e tenta di utilizzare le organizzazioni più radicali, essendo
coinvolta nelle organizzazioni dei disoccupati e dei piqueteros. Ma anche
per loro, l’azione deve portare al negoziato ed è proprio questa la
differenza principale tra le burocrazie sindacali e i movimenti di base.
Politicamente vicina alla Frepaso, che a sua volta si trova coinvolta nei
governi di centro-sinistra ( se questa definizione ha un senso in
Argentina).
In un certo senso, l’Argentina
operaia pratica una “cultura dello sciopero”: lo testimonia la frequenza
degli scioperi generali, spesso decisi da un giorno all’altro, mobilitazioni
molto seguite ma altrettanto poco efficaci. Nell’ultimo periodo, hanno
ritrovato una nuova efficacia
attraverso i piqueteros. La crisi attuale ha largamente ridotto la loro
influenza. Un’assenza degna di nota:
nessun
sindacato, nemmeno i più populisti, ha partecipato agli eventi del 19 e 20
dicembre, salvo per proclamare uno sciopero di un giorno contro lo Stato
d’assedio. Essi hanno poi tentato con tutti i mezzi di impedire
l’unificazione del movimento dei piqueteros e delle assemblee; proprio come
nel gioco politico tra le differenti fazioni di ciò che rimane del peronismo,
la loro attività all’interno del movimento attuale è poco chiara, tra
ostilità e recupero, tentano di indirizzare il movimento verso obbiettivi
legali, in ogni caso verso obbiettivi molto interessati.
(Le
cifre sono quelle del 1996, cioè a dire prima della ripresa effimera che ha
preceduto la caduta libera attuale per la quale nessun dato può rappresentare
efficacemente la realtà. Gli elementi di comparazione sono dati in rapporto
alla Francia dello stesso periodo).
Argentina |
Francia |
|
popolazione |
35
milioni |
59
milioni |
superficie |
2,8 milioni de km2 (5 volte la Francia) |
550.000 km2 |
densità |
12,6 ab/km2 |
106 hab/km2 |
Intorno
alla capitale |
12 milioni (1/3 del totale) |
10 milioni (1/6 del totale) |
% dei terreni coltivati |
13% |
35% |
Ripartizione delle attività: agricoltura 11% della popolazione attiva, produce il 5% del PNB. Miniere e industria 29% della popolazione, produce il 30% del PNB. Servizi 60% della popolazione, 63% del PNB.
L’Argentina è un paese molto ricco dal punto di vista agricolo, il che non è il paradosso maggiore per una popolazione la cui metà circa deve attualmente saccheggiare, barattare o mendicare per sopravvivere.
L’estensione
dell’Argentina dai tropici fino alla terra del fuoco e dall’atlantico fino
alle vette andine offre una grande varietà di clima e di produzione. La si può
definire attraverso la sua posizione mondiale: grano (13), bovini (5), canna da
zucchero (13), cereali (senza grano e maoes) (14), cotone (12), maoes (8),
arance (14), ovini (17), thè (10), vino (3).
Oltre
alle altre risorse minerarie importanti, l’Argentina potrebbe essere
auto-sufficiente di petrolio e gas naturale. Dispone inoltre di grandi
possibilità per la produzione di elettricità, specialmente idrauliche, benché
il neo-colonizzatore sia riuscito ad imporgli due centrali nucleari.
Il PNB
per abitante, di 8300 dollari (9000 euro), è un terzo di quello della Francia,
ma equivale a quello del Portogallo o della Corea del Sud, al doppio di quello
della Polonia, ed è largamente superiore a quello di tutti i paesi
dell’America Latina (quasi tre volte superiore a quello del Brasile). Riguardo
al PNB è il terzo paese dell’america latina, ma tutto questo deve essere
riconsiderato da quando sappiamo che il 40%
dell’economia è sommersa. Oggi si stima che il PNB per abitante potrebbe
essere crollato a 3500 dollari (4000 euro), al di sotto di quello del Messico e
del Cile, a livello di quello del Brasile. Tutti questi dati mostrano che la
crisi che attraversa l’Argentina è quella di un paese industrializzato
piuttosto che quello di un paese in via di sviluppo, benché la ricchezza
provenga ancora dalle esportazioni di prodotti agricoli.
Contrariamente a ciò che si
potrebbe pensare, l’economia argentina non dipede più da quella degli
Stati-uniti, la cui presenza è molto simile a quella dell’Unione europea;
l’Argentina esporta verso gli Stati-uniti 35 volte meno del Messico. Anche se
l’Argentina è il paese che possiede più dollari (700 dollari per abitante
contro i 6 del Brasile, in tutto 25 miliardi di dollari), gli investimenti
europei superano largamente quelli degli Stati-uniti; i paesi dell’Unione
Europea sono quelli che hanno approfittato maggiormente delle privatizzazioni, e
controllano settori importanti dell’economia.
Qualche osservazione sulla
struttura di classe (dati 1994). Dopo la legge sulle eredità, la metà delle
fattorie sono state divise ed ora sono di dimensioni troppo modeste per poter
essere competitive sui mercati internazionali. Ma per lo sfruttamento agricolo,
le fattorie agivano più come proprietà fondiarie che come attività
commerciali inserite in un circuito industriale, ed hanno sempre, in questo
senso, un peso politico nel destino dell’Argentina. Le piccole imprese,
malgrado una certa concentrazione industriale nei settori pubblici e
privatizzati nel periodo di Menem, impiegano il 60% dei lavoratori argentini.
Dal
1970 al 2001, la disoccupazione è passata dal 7% al 20% della popolazione
attiva (dati ufficiali, la realtà è certamente peggiore), la popolazione
considerata in condizione di miseria è passata da 200000 a 5 milioni (15% della
popolazione totale) e quella in condizone di povertà da 1 milione a 14 milioni
(40% della popolazione). In ragione del crollo del sistema educativo,
l’analfabetismo è aumentato dal 2 al 12%. Per compensare la caduta nella
povertà, il clientelismo ha moltiplicato gli impieghi di funzionari (dal 5 al
32% della popolazione attiva) ed è una delle cause delle difficoltà
finanziarie irrisolte delle province. I più ricchi disponevano da molto tempo
di depositi in dollari, per un totale di 120 miliardi di dollari,
l’equivalente del debito estero.
Quando suo marito Juan fu eletto
per la prima volta presidente nel 1946, Evita Peron sognava un futuro
mirabolante per i lavoratori argentini. Evita Peron elabora il piano per una
città giardino composta di casette per migliaia di famiglie povere.
Oggi, le speranze di prosperità che i Peron avevano
sognato per i “descamisados”, i “senza-camicia” poveri che avrebbero
dovuto vivere nella città modello di Ciudad Evita, sono svanite completamente.
Ora è soltanto una bidonville che scoppia al limite della banlieue sud-ovest di
Buenos Aires. Una recessione inesorabile da quattro anni colpisce duramente La
Matanza, un quartiere industriale che nel corso degli anni aveva assorbito
Ciudad Evita e che si trova ora ad albergare più di 2 milioni di Argentini
poveri. Le bidonville si sono sviluppate nelle zone industriali più depresse:
centinaia di fabbriche, di magazzini e laboratori ancora attivi negli ultimi 5
anni, sono fermi o chiusi. I salari sono precipitati e i disoccupati sono saliti
fino all’80% in qualche quartiere vicino.
È
facile comprendere perché in uno di questi quartieri, les “barrios”, uno
dei più poveri, sia sorto il movimento di protesta che si è diffuso ovunque
quando una nuova generazione di “senza-camicia” ha rovesciato il governo
impopolare di De la Roea. Omar Mostafav si ricorda come traslocò a Ciudad
Evita, lasciando il distretto sordido vicino al fiume; era una vera promozione
per la sua famiglia. Era il 1953, l’anno dopo la morte di Evita, quando Peron
cominciò l’assegnazione di 5000 appartamenti.
Ciudad
Evita rappresentava il tipico esempio di utilizzo da parte di Peron del potere
di Stato per guadagnarsi la lealtà della classe operaia attraverso il
clientelismo. Venerati dai poveri ma invisi alle classi possidenti tradizionali
come agli affaristi del potere,i Peron sovraintenderanno
all’industrializzazione,
fonderanno ospedali e lanceranno programmi di
sicurezza sociale.
Oggi non resta pressoché nulla
dell’eredità di Peron, distrutta da una serie di crisi economiche che sono
culminate con la destituzione del governo. Mostafav, che attualmente si occupa
di tre mense popolari e sette centri di vestiti di occasione per i poveri,
dichiara: “soprattutto stiamo per aprire altre tre mense popolari poiché il
numero delle persone che hanno fame aumenta costantemente”.
L’economia dell’Argentina si
ritira così rapidamente come si era sviluppata negli anni del boom economico
all’inizio degli anni 1990, circa 2000 argentini ogni giorno superano la
soglia della povertà, molte famiglie devono vivere con meno di 480 dollari al
mese (circa 500 euro). In novembre, l’attività industriale crolla del 12%, le
industrie tradizionali come quelle di La Matanza (automobile e tessile) sono
crollate anche di più, rispettivamente del 43% e del 37%.
“È
diventata così dura che non è solamente difficile vivere, ma anche morire”,
ci ha detto Claudio Palermo, un attivista sindacale locale che organizza i
centri di aiuto comunitari. “Una bara costa 200 dollari (250 euro); alcune
famiglie non guadagnano quella cifra nemmeno in due o tre mesi”.
In una via polverosa piena di
immondizia, dove si allineano delle capanne costruite con casse d’imballaggio
e della tela catramata, Julio Mercader passa i suoi giorni a vagare: “Ho sette
fratelli e soltanto uno di loro e mio padre hanno un lavoro”, ci confida
questo carpentiere di 32 anni. “Tra noi i disoccupati sono circa il 70-80%”.
Come molti, Mercader cerca di arrangiarsi con il tradizionale “chang”, il
lavoro nero: fare il tassista, caricare camions, o qualsiasi altra cosa, non
viene dichiarata alle autorità. Ma ora c’è un problema da quando il governo
ha fissato ad un massimo di 1000 dollari (1100 euro) il prelievo in contanti dai
conti bancari. Tutti i pagamenti al di sopra di questa cifra sono probabilmente
effettuati con assegno o carta di credito, il che elimina praticamente il lavoro
nero. Come lo riguarda questo? Mercader alza un muro di silenzio. Egli non ha
nemmeno un conto in banca.
Non stupisce che La Matanza sia
diventata la capitale di ciò che l’Argentina chiama i piqueteros,
contestatori che si trovano in queste settimane all’avanguardia della
ribellione popolare: “ dobbiamo protestare perchè, per le autorità, non
esistiamo”, dice Norma Portilla, 30 anni, una vicina di Mercader la cui
comunità si trova in un hangar di lamiera ondulata vicino ad una fogna
puzzolente che viene chiamata con ironia “Rio Hermoso” “la belle
riviere”. “L’immondizia non viene raccolta, abbiamo avuto l’elettricità
l’anno scorso e i bambini vanno a scuola solamente perché gli viene dato un
pasto”.
A Ciudad Evita, il monumento
alla fondatrice, ancora venerato come una santa e un’eroina operaia, adorna
l’angolo della via e le casette originarie esistono ancora, con i loro
giardini ben ordinati. Ma la maggior parte sono occupate da ufficiali in
pensione, coloro che hanno messo a spasso i lavoratori e che vi hanno traslocato
dopo che Peron fu destituito dal colpo di Stato del 1955.
I motoqueros, i corrieri
motociclisti, hanno avuto un ruolo particolare nell’insurrezione, in un primo
momento in maniera disorganizzata poi come forza organizzata, distribuendo acqua
e pietre, trasportando i feriti fuori dalla zona di pericolo quando le ambulanze
non potevano passare, e partecipando agli assalti contro i poliziotti. Almeno
due di loro sono stati uccisi dalla polizia.
L’ 80% delle 58000 moto di Buenos Aires servono al
trasporto della posta o delle persone. Un anno e mezzo prima, i corrieri
(motociclisti, ciclisti e altri) avevano creato un loro sindacato: il Simeca, un
sindacato autonomo indipendente dall’apparato burocratico, senza dirigenti e
senza funzionari retribuiti, situato nei locali di Hijos (1),
un’organizzazione in difesa dei diritti dell’uomo che lottava contro
l’impunità dei militari, da cui provengono i fondatori del Simeca.
Dieci agenzie per cui lavoravano
i corrieri in moto su 11 esistenti non avevano pagato i salari del mese
precedente, i motoqueros tennero un’assemblea mercoledi
19 dicembre (2001). Dopo il
discorso del presidente De la Roea che proclamava lo stato d’assedio, i
Motoqueros si unirono alle manifestazioni dei casseroles (concerti delle
casseruole), poi stabilirono i contatti tra i manifestanti facendo la spola da
una piazza all’altra. Il giorno dopo, migliaia di motoqueros si recarono al
lavoro, ma non poterono raggiungere il centro della città per via degli scontri
di piazza e dei lacrimogeni. Allora si radunarono in gruppi senza che vi fosse
alcuna parola d’ordine; tre gruppi di circa quaranta moto si diressero verso
il centro. Un coordinamento spontaneo si organizzò appena si seppe
dell’uccisione del primo motoquero, e si ritrovarono nel parcheggio delle
agenzie, invitando tutti i corrieri ad unirsi a loro. Si radunarono rapidamente
un centinaio di moto ed attaccarono i poliziotti tutti insieme obbligando la
polizia a ritirarsi parzialmente.
I corrieri motociclisti sono
abituati a sfuggire ai poliziotti, e la loro facilità di spostamento gli
permette di ottenere molte informazioni, per esempio sulle azioni dei poliziotti
in borghese che, come era nello stile della dittatura, sparano sulla folla da
auto private con targhe false. I motoqueros potevano prevenire gli spostamenti e
gli attacchi della polizia, diventando così il servizio di ricognizione e il
collante del movimento. Il 28 dicembre, i motoqueros parteciparono come gruppo
organizzato alla mobilitazione che metteva fine al breve periodo del presidente
Sai. Sotto gli applausi della folla, fecero un concerto di clacson intorno alla
piazza. Tuttavia, non hanno ancora fatto uso della loro vera forza: “Noi
trasportiamo i soldi delle imprese, portiamo i documenti e le fatture. I nostri
scioperi paralizzano i centri degli affari. Siamo furiosi per i nostri morti”.
(Testo
tradotto dal tedesco, apparso nel supplemento al numero 63 (marzo 2002) di
Wildcat-Zirkular: “El Argentinazo. Aufstand in Argentinien” (El Argentinazo. Insurrection en Argentine),
p.8)
(Benché datato 21 febbraio
1996, questo articolo del Financial Times ci da una percezione precisa della
situazione politica e sociale argentina e dei rapporti tra le province e la
capitale; la provincia di Tucumin, di cui si tratta, è situata nell’estremo
nord-ovest del paese.)
“(...)
il governatore di Tucumin, il generale Antonio Domingo Bussi, ama ricevere i
suoi ospiti con una pistola negligentemente lasciata sulla sua scrivania. Alcuni
dei portieri all’ingresso della sede del governo, un magnifico palazzo in
stile francese, ci fa il saluto militare, per quanto l’Argentina sia una
democrazia da più di tre anni.
Il
generale Bussi è stato eletto nel 1995 governatore di Tucumin, una provincia
caratterizzata dalla produzione di canna da zucchero, da una popolazione
esasperata da decenni di beghe politiche e fiaschi economici. Questa provincia,
in passato ricca, ha ora un tasso di mortalità infantile del 27 per mille, il
doppio del tasso della capitale federale, Buenos Aires.
Il governatore precedente, un
peronista, un lucidascarpe che fu una pop star prima di diventare un politico,
condusse la provincia sull’orlo della catastrofe. Le elezioni provinciali del
luglio 1995 che portarono al potere il generale Bussi, candidato del partito
Force repubblicaine, si tennero sullo sfondo della protesta violenta dei
funzionari scesi in piazza per ottenere il pagamento dei mesi di salario
arretrati.
Non è la prima volta che il
generale Bussi sbarca a Tucumin. L’ultima volta fu nel 1976, quando forte
della “sporca guerra” che vide migliaia di argentini torturati e assassinati
dal governo militare, il generale fu inviato a Tucumin per annientare la
guerriglia locale. Il successo di questa “campagna militare” fece del
generale Bussi un simbolo della repressione. “Io sono un soldato
professionista”, ribatte il generale Bussi.”Ho servito la nazione come
membro di un governo costituzionale durante un periodo drammatico della nostra
vita politica... Ciascuno è giudice delle proprie azioni. Le mie azioni
riguardo a Tucumin sono state giudicate dal popolo che mi ha votato.
“La
gente vuole ordine - constata Raquel Carlino, giornalista del quotidiano locale
Siglo XXI - vuole un militare per spazzare via tutta la corruzione”.
L’idea
che solo un “uomo forte” possa rimediare a generazioni di cattiva
amministrazione pare che possa applicarsi anche al governo federale. Durante la
campagna elettorale dell’anno scorso per l’elezione del governatore, il
presidente Carlos Menem, un peronista, abbandona il candidato peronista locale
per sostenere il generale Bussi. Pensava che fosse l’uomo giusto per frenare
la spesa pubblica e rimettere in piedi Tucumin. La banca mondiale aveva una
posizione identica. Nel novembre 1995, pubblicava un
documento intitolato: “Rivitalizzare l’economia
di Tucumin”, che coincideva con
l’ascesa al potere di Bussi nella provincia. Questo progetto di riforme
rifletteva ciò che auspicava in tutte le province il ministro dell’economia,
Domingo Cavallo.
La pozione era amara. Le raccomandazioni comprendevano:
diminuzione
della spesa pubblica di un quarto attraverso licenziamenti e riduzione dei
salari. Su 400000 lavoratori di Tucumin, 80000 sono impiegati dello Stato e
80000 sono disoccupati. Quattro quinti della spesa della provincia sono per
i salari, ciò che lascia ben poco per la gestione delle infrastrutture e
dei servizi;
privatizzare
la banca provinciale sull’orlo del fallimento, per colpa del clientelismo
politico, della spesa senza controllo e della corruzione. Privatizzare anche
il sistema di distribuzione dell’acqua e dell’elettricità totalmente
inefficiente;
trasferimento delle pensioni
delle province (che ha un deficit di 4 milioni di dollari al mese - 4,5
milioni di euro -) al governo federale, il sistema era costituito da grandi
privilegi e fraudolento;
la
soppressione delle sovvenzioni all’industria zuccheriera non più
concorrenziale;
la
soppressione di diverse tasse per incoraggiare l’impresa privata.
Secondo
la banca mondiale erano necessarie delle misure radicali, perchè la provincia
aveva un deficit di 15 milioni di dollari (17 milioni di euro) su un reddito di
soli 75 milioni di dollari (80 milioni di euro). Dal 1985, il numero di
dipendenti provinciali sono raddoppiati senza che i servizi siano migliorati.
Qualcuna di queste
raccomandazioni erano già state attuate dalle amministrazioni precedenti e da
quelle attuali. Certi servizi provinciali erano stati privatizzati ma erano
sorte molte polemiche per la privatizzazione delle rete idrica. La banca
provinciale è sul punto di essere privatizzata e la decisione di trasferire il
sistema pensionistico è pendente presso la corte suprema. A giudicare dalle
centinaia di ufficiali che girano senza fine intorno al palazzo del governatore,
ben poco è stato fatto per ridurre il peso degli impiegati della provincia.
Anziché licenziare, il generale Bussi ha imposto una riduzione “volontaria”
del 5-10% dei salari. Egli spiega che “è meglio per molti guadagnare meno
piuttosto che pochi guadagnino di più”.
Ma la
ricetta del generale Bussi per riattivare l’economia si allontana
dall’ortodossia della Banca mondiale quando si
affronta la questione della “produzione”.
Nonostante le critiche di alcuni economisti che hanno definito le misure
adottate ispirate alla pianificazione statale, il generale ha nominato un
ministro della produzione per elaborare un programma di investimenti per il
settore privato. Coloro che sono interessati a questi progetti, che vanno dalle
fabbriche di concime alle esportazioni di ortaggi, possono beneficiare degli
aiuti della provincia. Il generale pensa che il Tucumin sia una provincia
particolarmente fertile per il suo sole e il micro-clima favorevole, il che
dovrebbe portare ad un aumento considerevole della sua produzione. Lo sviluppo
spettacolare della produzione di limoni, che ha fatto della provincia uno dei più
grandi esportatori mondiali, dona qualche credito al suo ottimismo. Il mondo
degli affari lo è molto meno. Il presidente della Federazione degli
imprenditori di Tucumin sottolinea che la fine dell’iperinflazione degli
ultimi anni ha fatto riemergere la scarsa competitività delle province lontane
e dimenticate dell’Argentina. “Il processo attuale nous saigne a blanc”,
dichiara evocando l’aumento dei disoccupati che riguarda ormai un abitante su
cinque.
È li
che risiede il problema: “naturalmente non penso che dobbiamo avere una tale
burocrazia pubblica. Ma allo stesso tempo, con un tale livello di
disoccupazione, non possiamo licenziare massicciamente. Dove finirebbero tutte
queste persone? Lo Stato svolge una funzione sociale. Il settore privato non può
semplicemente riassorbirli.”
Il debito:
l’esempio dell’impero ottomano e dell’Egitto nel diciannovesimo secolo
Un breve cenno alla storia
dell’indebitamento dell’impero ottomano e dell’Egitto potrebbe risultare
istruttivo. Ciò che univa l’impero ottomano e l’Egitto era il desiderio
comune di molti dirigenti di entrare a far parte del mondo moderno dell’Europa
industriale. Solamente che per entrare in questo mondo, è necessario investire
e, per investire, è necessario indebitarsi. L’egitto, sotto la direzione di
Mohammed Ali, aveva però la sfiducia dei potenziali creditori; l’Egitto
doveva così contare sulle sue forze per dare vita all’accumulazione
primitiva. Per realizzarla, creò delle manifatture di Stato, embrioni di un
capitalismo di Stato, seguendo in questo l’esperienza giapponese dell’era
Meiji. I successori di Mohammed Ali, specialmente Khedive Ismail, si adoperò
per ottenere, a partire dal 1854 e soprattutto dopo il 1864, una serie di
prestiti che superavano ampiamente le capacità di restituzione dell’economia
egiziana dell’epoca.
Dalla sua, il debito ottomano
assume consistenza nello stesso periodo, precisamente nel 1856. L’ossessione
della classe dirigente ottamana era l’Europa. Per questo da vita al movimento
dei “Tanzimat” (riorganizzazione) che sostiene la sostituzione del diritto
islamico con il diritto napoleonico (salvo quello della famiglia). L’Egitto è
risucchiato in questo movimento attraverso la sua dipendenza giuridica
dall’impero ottomano.
Le finanze dell’Impero
ottomano cominciano a dissolversi, quale conseguenza delle avventure militari
che costano sempre più care allo Stato. Il sistema fiscale non era propriamente
strutturato e così non garantiva delle entrate regolari ed anche per questo
l’impero veniva spinto verso l’indebitamento e ad aprirsi al “libero
scambio”. L’Egitto di Mohammed Ali accumula disfatte militari, e le basi
ancora fragili della sua accumulazione primitiva non gli permettono di resistere
alla collusione tra la Gran Bretagna e l’impero ottomano. L’Egitto entra nel
“mondo moderno in ginocchio”.
I monopoli di Stato sono
smantellati, il debito dal 1854 in Egitto e nell’impero Ottomano cresce
rapidamente. Nel 1876, l’Egitto sospende i pagamenti (1); la sua stessa
sovranità è messa in discussione. Nel 1882, la Gran Bretagna occupa il paese,
e l’impero ottomano si trova dal 1880 sotto tutela (viene istituito il
consiglio di amministrazione del debito ottomano che diventerà un organismo di
tutela economica nelle mani dei potenti europei).
Anche
l’impero ottomano non riusciva più a far fronte ai propri impegni finanziari
dal 1985. Nel ventesimo secolo, l’Egitto di Abdel Nasser intraprenderà una
nuova infruttuosa esperienza di capitalismo di Stato, che terminerà con un
ricorso massiccio ai capitali stranieri. La Turchia di Ataturk, nella prima metà
del ventesimo secolo, si ricostruirà attraverso il ricorso limitato ai prestiti
stranieri; i suoi successori con una politica opposta porteranno la Turquia in
un caos quasi permante a partire dal 1978.
Echanges
et Mouvement
[1] Una delle fonti dirette d’informazione è fornita dal sito: http://argentina.indymedia.org/news. Questo sito in spagnolo fornisce traduzioni (pessime) in differenti lingue (non in francese).
[2] Gli ingredienti essenziali della crisi per indebitamento si sono manifestati tra il 1979 e il 1981. Gli Stati-uniti e gli altri paesi dell’OCDE hanno rialzato i tassi di interesse, ciò che ha immediatamente accresciuto il debito dei paesi latino-americani, in gran parte costituito da tassi variabili. Attirati da tassi più elevati o da situazioni prive di rischi dal punto di vista della stabilità politica, i Latino-americani hanno trasferito i loro soldi all’estero: il denaro dei nuovi prestiti è ritornato a Miami. Il flusso di capitali è iniziato molto prima che si scatenasse la crisi (vedi Ramses 93).
[3] Il presidente dell’epoca della Citicorp: Walter Wriston.
[4] È singolare notare come l’onda d’urto della crisi asiatica e la recessione americana abbiano azzerato i risultati economici dell’America Latina nel periodo 1998-2001. Il tasso di crescita medio dei dieci paesi principali della zona non è stato superiore all’1,6% l’anno.
[5] Il mercato comune del sud (Mercosur, 1991) che comprende l’Argentina, il Paraguay e l’Uruguay. La Bolivia si è aggregata.
[6] Se la caduta o la crescita di questi titoli non ha alcun rapporto con il movimento di valorizzazione del capitale reale che rappresenta, la ricchezza di una nazione è tanto maggiore prima di quanto lo sia dopo tanto maggiore è il deprezzamento dei loro titoli (Le Capital, L.III, ed. Moscou, p.493). Se il tasso di crescita prima e dopo la crisi non ne è colpito, non vi è nemmeno una contrazione della produzione durante la crisi. Se non ci fosse stata la crisi, la produzione avrebbe continuato ad aumentare.
[7] Vedi il caso di IPF (impresa pubblica petrolifera) e di Aerolineas Argentinas (negli allegati).
[8] È necessario ricordare che lo stesso Cavallo, il cui ruolo fu così funesto per l’economia argentina alla fine della dittatura (fu presidente della Banca Centrale durante i 54 giorni a partire dal 2 luglio 1982, partecipando attivamente al trasferimento del debito privato allo Stato), ha ricoperto per due volte il posto di ministro dell’economia. Una prima volta, tra il 1991 e il 1996 durante la presidenza Menem, sviluppò un vasto programma di privatizzazioni ed ancorò la moneta argentina al dollaro.
[9] Bisogna ricordare la totale adesione delle autorità statunitensi a questa politica di indebitamento.
[10] Il caso dell’industria dell’automobile è singolare. L’ Argentina fu uno dei primi paesi al mondo a dotarsi di un parco automobili importante (anni 1919-1930). Negli anni 30 si è sviluppata un’industria dell’automobile con capitali nazionali e con propri modelli, quali la Di Tella, che popolava le strade argentine, o l’impresa di Stato IME. Nel dicembre 1958, il governo di Frondizi ufficializzava l’ingresso in Argentina di 20 marche di automobili straniere (americane ed europee) e consentiva loro di rimpatriare i profitti. Questo decretò la fine dell’industria dell’automobile del paese.
[11] In generale, le somme favolose prestate ai banchieri del Nord erano immediatamente sostituite sotto forma di depositi presso gli stessi banchieri oppure presso banche concorrenti. L’83% di queste riserve furono spostate nel 1979 in istituti bancari fuori dal paese. Le riserve raggiungeranno la cifra di 10138 milioni di dollari e i trasferimenti nelle banche straniere toccheranno l’ammontare di 8410 (attraverso i mercati finanziari del nord-america ed europei, sui quali erano emessi i prestiti argentini, i capitalisti argentini compravano i titoli del debito argentino con i capitali che avevano fatto uscire dal paese) e percepivano una parte dei rimborsi. Lo stesso anno, il debito estero passò da 12496 milioni di dollari a 19034 milioni di dollari (Olmos, 1990, p.171-172). In ogni caso, l’interesse percepito per le somme depositate era inferiore all’interesse dovuto per le somme prestate.
[12] Le imprese private argentine e le filiali argentine delle multinazionali straniere erano state ugualmente incoraggiate ad indebitarsi sotto la dittatura. Il debito totale privato superò i 14000 milioni di dollari. Tra queste imprese indebitate figurano le filiali argentine di società multinazionali come: Renault, Mercedes-Benz, Ford Motor, IBM, City Bank, First National Bank of Boston, Chase Manhattan, Bank of America, Deutsche Bank. Lo Stato argentino ha rimborsato i crediti privati (cioè delle case madri) di queste imprese. In breve, il contribuente argentino ha rimborsato il debito contrattato dalle filiali delle multinazionali presso le loro case madri o dei banchieri internazionali. Si può facilmente supporre che le multinazionali abbiano ascritto un debito alle filiale argentine attraverso un semplice gioco contabile. Il potere pubblico argentino non aveva alcun mezzo di controllo su questi conti.
[13] Questo numero di Le Monde diplomatique del luglio 1987 permette, indipendentemente dalle teorie che cerca di dimostrare, di capire che era relativamente facile prevedere gli eventi successivi.
[14] Sarebbe interessante aprire una parentesi per comprendere, una volta per tutte, cosa significa la parola “fascismo”, termine con il quale si designano delle esperienze che vanno da Napoleone Bonaparte fino a Berlusconi, passando attraverso Pol Pot ed altri. Noi contestiamo questa “salsa” di fascismi, soprattutto perché vediamo in essa una scappatoia per eludere i problemi: si dà un nome “mostruoso” ai fatti storici, si condannano, e non si studiano più. È possibile assimilare effettivamente Peron al fascismo, o al “bonapartismo”, cioè a quei sistemi che hanno voluto integrare le forze proletarie in un dispositivo generale che aveva come fine la “grandeur” della Nazione, nel nome della quale tutti gli interessi particolari (tra cui quelli di classe) scompaiono. Ma, ancora una volta, è evidente che ci troviamo di fronte a delle etichette contenitore, dentro le quali è possibile includere anche le democrazie occidentali che hanno impiegato la stessa strategia nello stesso periodo. Ma allora non è meglio considerare tutti questi fenomeni uno per uno?
[15] Molti manifestanti argentini dei cacerolazo usavano come segno di distinzione un drappo del loro paese o le magliette della nazionale di calcio. Questo testimonia che l’ideologia nazionalista alberga ancora in molte frange proletarie.
[16] Il 16 Giugno 1975, un colpo di Stato militare destituisce Peron. Benché sia stato appoggiato agli inizi da forze reazionarie, in particolare dall’aristocrazia terriera, il colpo di Stato non si trasformerà in dittatura militare che nel 1976, passando per una fase detta “rivoluzione liberatrice”.
[17] Espressione coniata da Francois Rabelais, Gargantua, chap. 54.
[18] Ci si ricorderà soprattutto gli anarchici Errico Malatesta, Severino Di Giovanni, Antonio Soto. Quest’ultimo organizzò il grande sciopero operaio in Patagonia nel 1921.