Dove sono i movimenti sociali negli USA

un'intervista a Loren Goldner

Questa intervista è stata pubblicata in francese su Curant Alternatif, organo mensile dell’OCL, Organizzazione Comunista Libertaria. Loren Goldner ha pubblicato numerosi saggi e articoli sulla situazione economica e di classe in USA e sul movimento rivoluzionario internazionale. I suoi saggi si possono trovare al seguente indirizzo: www.home.earth-link.net/lrgoldner

In italiano alcuni suoi materiali sono stati pubblicati su PLUSVALORE, studi di teoria e analisi economica.

Un anno dopo gli avvenimenti di Seatle come analizzi questi avvenimenti? E’ cambiato il tuo punto di vista?

Si, dopo un anno sono senza dubbio portato a rividere quel che ho detto all’epoca.

Quando ho scritto questo articolo - qualche settimana dopo Seattle- ho visto questo come un superamento dell’epoca precedente: il movimento operaio, o piuttosto il movimento dei lavoratori sindacalizzati, ossia il 10-15% della popolazione attiva, che era fino ad esso indifferente agli altri movimenti sociali, li ha a Seattle in qualche modo raggiunti nella strada. I camionisti, gli operai dell’automobile, ossia i settori classici del movimento operaio, i meglio rappresentati a Seattle, si sono trovati fianco a fianco con gli ecologisti, le femministe e un movimento anarchico significativo. Fino a questo momento questi due movimenti sembravano seguire delle traiettorie separate ma nelle strade di Seattle si è stabilito un dialogo per la prima volta. Per tanto, ad un anno di distanza e dopo 5-6 tentativi di ripetere la cosa -a Washinton, alle convenzioni di Filadelfia e di Los Angeles, e recentemente a Boston- il fenomeno appare più effimero di come lo avevo considerato all’epoca.

E’ perchè la strategia di Seattle può difficilmente ripetersi o perchè la congiutura di queste due correnti non è che superficiale?

Sul piano pratico, per utilizzare una metafora un pò militare l’elemento di sorpresa si produce una sola volta: sfortunatamente tutti i tentativi di riprodurre Seattle sono falliti. Ma ciò che sopra tutto ha pesato, è stata l’assenza dell’elemento operaio nelle altre mobilitazioni. Bisogna ricordare che dei 50.000 manifestanti presenti a Seattle 30.000 circa erano operai sindacalizzati e che al momento decisivo questi hanno rifiutato di seguire le parole d’ordine dei sindacati - che volevano qualcosa di calmo e di organizzato - e hanno scelto nella loro schiacciante maggioranza di allearsi direttamente ai movimenti sociali, con grande costernazione dei burocrati sindacali. Credo che l’assenza relativa di questa corrente operaia nei successivi rassembramenti si spieghi col fatto che i burocrati della AFL-CIO, avendo ben capito il rischio di Seattle, hanno detto alle loro truppe di rimanere a casa.

Questa posta in gioco sarebbe quindi una connessione duratura tra movimento sindacale e nuovi movimenti sociali?

Si ma non soltanto questo...Ciò che ha segnato gli operai della regione di Boston che sono andati a Seattle e con cui o parlato, non è solo di essersi ritrovati in strada con gruppi -lesbici, ecologisti o anarchici- molto attivi, molto militanti, ma anche di aver fatto conoscenza con centinaia di delegati, tra cui i delegati operai dei paesi del terzo mondo: tutto in un colpo, la famosa “globalizzazione” prendeva un volto concreto. Questa possibilità dimettere un volto umano ad un fenomeno fino a questo omento impersonale sembra aver avuto un impatto ben più importante di qualsiasi conferenza sindacale ufficiale. Si poteva quindi prefigurare una vera internazionalizzazione delle prospettive.

I “nuovi movimenti sociali” ai quali ti riferisci sono nati alla fine degli anni 60. Ma quelli che erano presenti a Seattle erano portati da una nuova generazione. Vedi veramente una continuità tra le due generazioni?

Si. Non per forza attraverso gli individui, ma perchè i movimenti di oggi non potrebbero esistere senza i movimenti precedenti. Questi movimenti sono sopravvissuti per decenni in modo sparpagliato, ma ciò che era nuovo a Seattle, era il fatto di fare insieme, nella strada, l’esperienza concreta del suo potere rispetto allo stato, cosa che era sparita dalla scena dal 1973. I manifestanti hanno scoperto la loro forza.

Ci potresti dare un quadro di ciò che avviene nel movimento sindacale?

Credo che da 10 o 20 anni esista un gran malcontento nell’ambiente operaio, ma un malcontento che si può definire populista. Il populismo ha due secoli di storia negli USA, permette alle persone di spostarsi da destra e sinistra in funzione delle situazioni e delle evoluzione delle ideologie. L’ultimo esempio risale al passaggio del supporto operaio da un uomo della destra dura come Bucanan  al populismo nettamente più a sinistra apparso dopo Seattle. Dopo 5 o 10 anni i sindacati stanno perdendo velocità: negli anni 50, un terzo della forza lavoro era sindacalizzata; oggi i sindacalizzati non sono più del 10%. E’ vero che nel 1995 un nuovo gruppo che difendeva un programma di rinnovamento si è impadronito della direzione della AFL-CIO, con a capo Sweeney. Ma questo non impedisce la persistenza di tendenza fortemente protezioniste in alcuni settori del movimento operaio ufficiale, come presso i camionisti - che vedono un pericolo nel patto americo-canado-messicano (ALENA) che da accesso alle autostrade americane ai camionisti messicani, creando uno squilibrio sul mercato del lavoro - e presso i siderurgici - che hanno visto le importazioni di acciaio dai paesi asiatici far scaturire una nuova ondata di chiusura di fabbriche in America. D’altra parte l’United Steel Workers (il sindacato dei siderurgici) si  è lanciato da uno o due anni in una campagna per una nuova legislazione protezionista, che ha giocato un ruolo molto importante nella decisione dei sindacati di sostenere Gore e non Nader alle elezioni. Si osserva attualmente un netta scissione tra protezionisti e non protezionisti in seno alla federazione nazionale dell’AFL-CIO. Si, a Seattle dei siderurgici hanno rovesciato dell’acciaio nel porto - atto, che al di la del suo riferimento alla storia americana, era apertamente anti cinese - è anche perchè lo slogan principale della manifestazione (“fair trade, not free trade” cioè commercio equo e non libero scambio) era abbastanza ambiguo per cui gli operai protezionisti ci si riconoscevano. E’ vero che c’è più di un caso nella storia dove dei privilegiati si sono messi in movimento per difendere i loro privilegi e, nell’azione, hanno sorpassato questa motivazione di partenza per arrivare ad una vera solidarietà con gli esclusi da questi privilegi. Sapere se la situazione americana evolverà in questo senso o in senso ben più conservatore, è una domanda che resta aperta.

Hai evocato il populismo come una vecchia tradizione americana. Puoi precisare il tuo pensiero, poiché è un termine che non evoca necessariamente la stessa cosa in Europa.

In breve, direi che il populismo negli Stati Uniti è un sostituto di un marxismo più classico: invece di parlare di capitalismo, di proletariato, di classe operaia, si parla di ricchi e poveri, di quelli che hanno il potere contro quelli che non ce l’hanno - e questo assume a volte delle espressioni molto radicali. E’ questa logica che domina l’ambiente operaio da 20 anni - non dimentichiamo che il 44% degli operai hanno votato per Reagan nel 1984, su basi dello stesso tipo (contro i “burocrati di Washinton”....). Ma nella misura in cui questo non si appoggia ad una analisi concreta della realtà, che io chiamo capitalista, questo resta aperto a tutte le tentazioni.

Questo rinnovamento sindacale di cui hai parlato come si traduce concretamente?

A mio avviso con uno sbandamento:  dal 1995 la nuova direzione è riuscita solo a fermare il declino dei sindacati, niente più. I sindacati si sono lanciati in campagne di sindacalizzazione che a volte sono riuscite, a volte no, ma quello che non hanno mai provato è una vera mobilitazione di massa in strada. Le loro più grandi riuscite si realizzano sempre attraverso un compromesso con il sistema politico. Il caso più conosciuto è stato quello degli operai messicani che puliscono i palazzi pubblici a Los Angeles: la loro sindacalizzazione si è fatta con il sostegno del governo della California, accordata in cambio di un contributo sindacale di qualche milione di dollari per la campagna elettorale... E’ vero che questo si è tradotto anche in un aumento sindacale non trascurabile, ma sicuramente inferiore da quello chiesto dai lavoratori.

Questo processo di sindacalizzazione si compie attraverso delle lotte, degli scioperi?

Ci sono state delle lotte, degli scioperi. Questo non è stato un gioco da bambini sicuramente, creare una forza unita in una città come Los Angeles, senza contare che riguardava tutta la regione. Ma la legittimazione del sindacato si è giocata a livello politico, non ha prodotto uno scontro.

Leggendo la stampa militante americana, si ha comunque l’impressione che stia succedendo qual cosa che assomiglia ad un rinnovamento delle lotte in ambito operaio. Che importanza dai a questo fenomeno?

La prima cosa che spiega questo effettiva ripresa delle lotte è il cambiamento nel mercato del lavoro. Il periodo che va dal 1975 ai primi anni 90 a conosciuto una offensiva anti operaia in piena regola: i salari complessivi sono diminuiti dal 10 al 15% per l’80% della popolazione. Ma dal 1995 sembra ci sia stata una netta ripresa economica, con un mercato del lavoro come non si vedeva da 30 anni: un tale contesto non può che favorire la rinascita delle lotte. La lotta dell’UPS del 1997 ha segnato una svolta, non tanto per le vittorie materiali ottenute (un aumento di 10 cents all’ora ad anno, che non sembra neanche sia stata applicata) ma per il sostegno di massa della popolazione: se i picchetti di sciopero dell’UPS sono stati massicciamente rinforzati da degli sconosciuti è perchè si trattava della prima lotta aperta contro la precarizzazione. Da allora il rinnovamento degli scioperi sembra essere confermato: attualmente si osservano scioperi nei trasporti pubblici, nell’educazione... Si può quasi parlare di una ondata di scioperi, cosa sconosciuta dagli anni 70. L’altro elemento nuovo dal 1995 è la riapparizione delle vecchie rivendicazioni sindacali collettive che l’ideologia liberale dominante aveva totalmente delegittimato. Nessun uomo politico, di destra o di sinistra, oserà dire oggi come hanno fatto per anni: tutto questo è del vecchiume, delle cose del passato.

Tu credi che questa rimonta delle lotte si possa tradurre in un cambiamento significativo nel panorama sindacale, che verrebbe non più dai vertici, ma da una spinta delle lotte alla base?  

Un altra tendenza sta nascendo negli ultimi anni, il ritorno agli scioperi selvaggi. Due elementi rendono questi scioperi di nuovo possibili: da una parte una riduzione del tasso di disoccupazione ufficiale al 4%, dall’altra parte la generalizzazione del sistema così detto giapponese del just in time, sistema che, dopo aver provocato il licenziamento di migliaia di lavoratori, da la possibilità a coloro che sono rimasti di bloccare la produzione. Dalla metà degli anni 90 delle lotte si sviluppano dove si scopre questo nuovo potere: si sono visti degli scioperi riusciti nel settore dell’automobile che hanno puntato sulla vulnerabilità di questo sistema. Ma per ritornare al punto si è ancora lontani alla rimessa in discussione a livello nazionale delle vecchie strutture e delle vecchie direzioni sindacali. A lato del tentativo di rattoppare la facciata del sindacalismo venuto dall’alto, ci sono dei tentativi ancora molto sfumati di ricostruire un nuovo movimento operaio. Ma è ancora lontana dall’essere maturo a mio avviso.

Tu credi che questo possa prendere posto nel sistema sindacale così come è?

No, questo suppone una trasformazione radicale. Quello che bisogna capire bene è che il sistema sindacale americano ha assorbito un certo numero di militanti di sinistra che si sono formati nelle esperienze sessanttottine e parte dei lavoratori nelle fabbriche negli anni 70, come in Europa: molte migliaia di loro sono finiti nei livelli intermedi della burocrazia sindacale. Non sono più in fabbrica, ma hanno un forte peso in questa ristrutturazione sindacale. Per tanto le loro capacità di trasformare il sistema sindacale sono limitate dal fatto che hanno un ruolo di quadri nel vecchi sistema. Credo che ci sia un lungo cammino da fare prima che il sindacalismo americano classico, anche migliorato come spera Sweeney e questi militanti di sinistra riciclati rompa con le pratiche localiste e corporativiste del passato.

Cosa avviene nelle mobilitazione nell’ambito dell’immigrazione? Credi che possano cambiare il clima?

Si per forza. Gli operai delle pulizie della California del Sud per esempio sono messicani e sud americani che sono arrivati negli USA ricchi di una forte esperienza di lotte operaie ma anche di repressione. E’quindi una popolazione molto diversa dal mondo operaio americano.

D’altra parte, nella storia americana, ogni momento di sviluppo del movimento operaio si spiega in parte grazie alla mobilitazione degli immigrati di ultima generazione. L’ultima grande ondata di immigrazione, sia sud americana che asiatica, che è partita negli anni 60 e che occupa massicciamente i posti di lavoro più bassi nella scala -le pulizie, i laboratori di confezione organizzati con un sistema a capitalismo selvaggio- costituisce secondo me un potenziale esplosivo. Mi sembra difficile concepire un rinnovamento del movimento operaio americano senza una partecipazione sostanziale di questi nuovi immigrati. Segnalo che la nuova direzione della AFL-CIO comincia a rivendicare dei diritti  per i lavoratori senza documenti - sono attualmente due/tre milioni - cosa senza precedenti dagli anni 20.

Come vedi l’evoluzione del problema razziale negli USA?  

Diciamo chiaramente che fino agli anni 60 il sistema americano era fondato sulla supremazia dei bianchi - in scala differente su base regionale. I neri erano quindi gli ultimi ad essere assunti e i primi ad essere licenziati, per parlare solo delle manifestazioni economiche di questa segregazione. Ma questo sistema è stato fatto vacillare dalle insurrezioni urbane nere degli anni 60, dal movimento dei diritti civili, dal potere nero, dal nazionalismo nero. Sicuramente, tra il polo bianco e nero di questo sistema c’è tutta una gamma di asiatici, di ispanici, anch’essi entrati in gioco dopo gli anni 60. Dopo 30 o 35 anni aiutato anche della crisi economica, il sistema razziale americano sembra essere alla ricerca di un nuovo equilibrio. Un equilibrio che apparentemente suppone la creazione di una classe media nera - debole ma non trascurabile - contemporaneamente alla integrazione degli ispanici - numerosi quasi quanto i neri - e sotto un altra forma degli asiatici.

Per il momento il sistema sembra se non proprio sorpassare il razzismo che c’è da 40-50 anni almeno dargli un volto più “intelligente”.

Ma la presenza nelle prigioni di due milioni di americani di cui l’80% costituita di neri e ispanici mostra che la segregazione continua anche se sotto altre forme.

Concretamente si assiste ad una diminuzione delle tensioni razziali?

E’ difficile da dire poiché non siamo più negli anni 50-60 dove i neri americani dissimulavano molto più di oggi la loro collera e la loro rabbia, giocando il ruolo “del buon negro” perchè li si lasciasse tranquilli. Gli avvenimenti degli anni 60 hanno messo fine a questa messa in scena, tranne che in alcune regioni del sud. Di colpo le relazioni potevano sembrare più tese, ma è soltanto perchè i bianchi ne sono più coscienti. Non si può negare che oggi ci sono molti più contatti quotidiani tra bianchi e neri al lavoro e soprattutto a scuola. Senza contare che l’esistenza di fasce medie di colore gioca un ruolo di ammortizzatore.

Gli USA sono attualmente in periodo elettorale. Come interpreti il fenomeno Nader?

La prima e sola cosa di dire sulle questione delle elezioni è che solo la metà della popolazione americana vota, percentuale molto più bassa che in qualsiasi altro paese d’Europa -e che è la metà più ricca. Dagli anni 50-60 si può quindi dire che le elezioni sono una scommessa solo per la metà più ricca della popolazione. Al lato di questo esiste un enorme mal contento che si esprime da una ventina d’anni tramite espressioni, alternativamente di destra o di sinistra, di populismo. Ma nessuna di queste sfide populiste è riuscita a far vacillare l’egemonia dei due partiti.

Il movimento di Nader di questo anno è un movimento della classe media, un movimento di consumatori e di ecologisti. Ma, come tutti i movimenti di questo genere che lo hanno preceduto da 100 o 150 anni, è destinato a divenire un partito nell’orbita del partito Democratico: sempre critico ma incapace di rompere effettivamente con questo.

Sono sicuro che la metà o i 3/4 dei suoi militanti rinunceranno a votare Nader se considereranno che questo possa portare alla vittoria di Bush. In un certo senso sono dei democratici che si trovano male nei loro panni. D’altra parte secondo l’evoluzione dei sondaggi Gore si è messo a fare una classica campagna populista di sinistra per avvicinare l’elettorato di Nader: contro le grandi imprese, i ricchi... (come se il partito Democratico non fosse un partito di ricchi), cosa che ha fatto dire a Bush di Gore che “predica la guerra di classe”, cosa veramente ridicola quando si considerano le decina di milioni di dollari dati a Gore dalle grandi imprese che pretende di denunciare... Ma il sistema americano è tale che il semplice fatto di parlare di “redistribuzione della ricchezza” espone a questo genere di accuse... Pertanto questo permetterà sicuramente a Gore di recuperare i 2/3 dei voti di Nader.

Il sistema di gestione della sanità è stato una posta elettorale per le ultime elezioni, che cosa è successo da allora?

E’ dagli anni 40 che il partito Democratico parla della necessità di un sistema universale per la sanità negli USA. Questo non ha fatto molti progressi - salvo per gli anziani che beneficiano del Mediacaid e del Medicare. L’ultimo tentativo fatto da Clinton nel 1994 è fallito per svariate ragioni. Il sistema americano conta circa 1500 diversi sistemi di assicurazioni sanitarie che si chiamano HMO: sono dei piani di sanità privata, finanziati sia direttamente dagli individui che pagano dai 3000 ai 5000 $ all’anno sia dalle imprese che prendono in gestione circa l’80% dei versamenti dei loro salariati. Ma questo sistema oltre a lasciare senza copertura 40 milioni di americani genera un enorme burocrazia privata di qualche centinaia di migliaia di impiegati. Bisogna inoltre considerare la forte resistenza delle imprese farmaceutiche che manifestano il loro malcontento ogni volta che si tenta di aumentare il prezzo delle medicine (attualmente milioni di americani vanno ad acquistare le loro medicine in Canada dove sono più economiche). I partiti ufficiali, ed anche il partito Democratico, si scontrano quindi con un doppio problema: primo l’assenza di qualsiasi copertura per il 15% della popolazione, secondo l’enorme costo che questo sistema rappresenta per il padronato e per gli individui. Ma è impossibile trovare una soluzione senza attaccare frontalmente da una parte l’HMO e dall’altra le imprese farmaceutiche. E i due partiti sono incapaci di attaccare questi interessi, poiché sono loro che ne assicurano il finanziamento. E’ questo che spiega il fallimento del piano di Clinton, malgrado il 60% degli americani si sia pronunciato a favore di un sistema alla canadese (il sistema canadese copre l’intera popolazione impiegando solo 25 mila persone). I due partiti hanno quindi provvisoriamente risolto il problema eliminandola dai loro programmi elettorali...

Intervista di N.T. Courant Alternatif n.104 Dicembre 2000