L’organizzazione 
è l’organizzazione dei compiti

In questi ultimi anni la composizione di classe è profondamente mutata, con una maggiore presenza di fasce di proletari immigrati, giovani operai precari, e una nuova schiera di tecnici creati da una sempre più capillare divisione del lavoro.
Queste porzioni sociali hanno posto nuove esigenze.
Manca una prospettiva per il futuro rosea, si assapora la precarietà abitativa e lavorativa, si infrange il sogno di plastica degli ultimi 20 anni in Italia.
Questo nuovo scenario provocato da un processo di crisi del capitalismo ha inevitabilmente scosso le organizzazioni politiche-sindacali di sinistra.

I Social Forum come la sinistra della CGIL, il PRC, i Disobbedienti e i movimenti/gruppi “antagonisti” che cercando di rappresentare nel teatro della politica il ruolo di sinistra, sono strutture che hanno un peso numerico importante, ma negano una qualsiasi autonomia del proletariato, in quanto organizzazioni e movimenti che partecipano a pieno titolo allo sviluppo del capitalismo. Dal sindacato all’associazione di mercato equo-solidale, alla galassia della nuova industria della cultura di sinistra fino ad arrivare alla cooperativa, è una gara per acquisire porzioni di mercato. Non va meglio a chi autorappresenza istanze politiche, tutto teso a spacciare per nuovo ogni vecchio strumento della politica. Assistiamo alla celebrazione delle passeggiate, finalizzate a rincorrere il consenso della inconsistente opinione pubblica. Si celebra il pacifismo e in una sempre verde tradizione del riformismo, si fa a gara nel criminalizzare, reprimere in vari modi i compagni che non accettano la Politica e le sue leggi. 
E’ in questo senso che si possono leggere i continui appelli alla non-violenza, all’interclassismo, e alla caccia dell’untore, che può andare dal proletario incazzato che rifiuta le logiche sindacali, al compagno cui non va che gli sbirri e i loro fedeli amici, i giornalisti, possano tranquillamente entrare dentro i cortei…
All’interno di questi partiti, sindacati, movimenti, vi sono sempre più frizioni interne dovute alla ricerca di leadership o di genuina ribellione agli angusti spazi della politica. Queste lacerazioni interne, che iniziano ad emergere sono una diretta conseguenza del clima sociale differente a cui andiamo incontro.
Le organizzazioni politico-sindacali troppo poco ragionano sulle modificazioni dell’organizzazione del lavoro, sulle specifiche esigenze organizzative di determinati settori di classe. 
Una produzione flessibile legata ad una precarietà contrattuale porta inevitabilmente alla modificazione del comportamento di classe.
Vi sono grossi ritardi riguardo all’esigenza di organizzare reti territoriali per sopperire all’impossibilità di azioni pubbliche nelle aziende per i precari e gli immigrati. Si è celebrata la new economy, osannando la figura dei lavoratori dell’immaterialità ma non si è prestato attenzione all’estremo sfruttamento a cui sono sottoposti e alle forme di resistenza che si sono dati.
Si sottovaluta il livello repressivo, di vera e propria contro-rivoluzione preventiva, del capitalismo. Si rifuggono le problematiche dell’attuale livello dello scontro, omettendo in modo puerile il problema della violenza proletaria nella lotta di classe. Le criminali considerazioni dei pacifisti prima e dopo Genova vanno a braccetto con le manganellate della polizia.

Sarebbe presuntuoso e francamente inutile, proporre o rappresentare nuovi organismi che ricompongano la frammentazione sociale, prodotta non tanto dal settarismo della poltica, ma dalle divisioni profonde dentro la classe. Parafrasando A. Pannekoek1, la classe operaia non è debole perché divisa, ma è divisa perché debole. La ricomposizione di classe, o almeno di una parte consistente di essa, avverrà per vie interne-esterne dagli attuali raggruppamenti politico-sindacali, influenzandosi a vicenda, ma in ultima istanza saranno determinate condizioni sociali a far emergere una porzione di classe che si autodeterminerà come comunità di lotta, sperimentando livelli organizzativi adeguati alla fase sociali in atto. Non è una visione iperdeterminista, cioè di una classe omogenea che esce fuori dal cilindro come un coniglio. E’ idealistico pensare ad una classe puramente rivoluzionaria, vi saranno sempre, anche dentro le fasi più acute dello scontro di classe (guerra civile), dei differenti interessi immediati nel corpo della classe e quindi differenti comportamenti politici, tali da rendere operativi nello stesso momento approcci riformisti o rivoluzionari con la realtà. Il problema del riformismo è innanzitutto la sua formidabile capacità organizzativa, la sua tenuta nel corpo sociale. Il riformismo si nutre del compromesso tra capitale e proletariato, esaltato nei momenti di espansione del sistema economico. E’ nel farsi Stato, Nazione, che settori di classe, fanno coincidere il proprio programma, i propri interessi, con quello del capitale medesimo2. Il riformismo ha la capacità di sedimentare memoria e coscienza collettiva, tollerato o appoggiato (difficilmente osteggiato) dai borghesi.
Storicamente la formalizzazione del riformismo ha trovato nei partiti e sindacati del vecchio Movimento Operaio la sua ossatura organizzativa. Tali organizzazioni hanno riversato la loro forza contro le porzioni di proletari che attaccavano radicalmente il capitale e quindi implicitamente contro la loro funzione sociale (compromesso tra le classi). La rivoluzione tedesca degli anni ‘20 fu schiacciata non dal nazismo ma dalla socialdemocrazia tedesca, la Spagna del 1936 fu affossata dagli stalinisti e dalla statalismo anarchico non dalle orde fasciste. Le più interessanti esperienze di lotta negli anni ‘70 in Italia furono criminalizzate e distrutte dal PCI e dai burocrati della nuova-sinistra prima ancora di venir sconfitte militarmente dalla Stato.
In questo modo la lotta delle aree riformiste contro i proletari rivoluzionari è stata ed è lotta per la sopravvivenza dei partiti e sindacati.

Un tale ragionamento mutuato dai rapporti sociali e non dal mondo delle idee, non ci fa dimenticare come vi siano questioni di primaria importanza inerenti al problema dell’organizzazione. Esaltare la spontaneità dell’azione di classe non basta, o nel caso peggiore è una facile scusante per non assumere i problemi della lotta di classe. In ultima istanza la cieca fede della spontaneità rivoluzionaria del proletariato viene presentata, dagli apologeti dell’informalità, in un atto di fede, che ricorda più le sette religiose, che gruppi che partecipano allo sviluppo del movimento comunista.

Vi sono aree di compagni che credono che per intervenire nella classe si debba avere forti strutture, centralizzate, che per molti versi ripetono la modellistica del partito leninista, altri vedono forme assembleari-libertarie più adatte, si assiste ad una vetusta contrapposizione tra chi eleva il centralismo a soluzione dei mali e chi si professa federalista convinto. Si perde di vista l’importanza della comunità d’intenti, del contenuto delle lotte, che risiede nei rapporti di forza tra capitalismo e proletariato. I modelli, gli stessi contenuti pregressi, derivano dalla capacità di esprimere come classe un'azione autonoma, che si traduce nella negazione della classe stessa, in quanto rifiuto della propria condizione di sfruttati.
In una comunità di lotta, in un comitato nato all’interno di una vertenza o in una rete di compagni, la fiducia non si realizza attraverso la ripetizione di principi, e neppure nel “conoscersi bene”, su vaghi aspetti di cameratismo, campanilismo, ma di fiducia politica che si conquista attraverso la prassi comune: “Non siamo buoni selvaggi in una società buona, ma a – priori – figli di puttana in una società malata. Un militante non ha il diritto di dimenticare questo né per chiedere né per concedere una fiducia a scatola chiusa che può mettere in pericolo lo sviluppo del lavoro politico organizzato”3, un tale rapporto esiste, anche se in forme elementare, anche tra il più parziale comitato di lotta. 

Vi è una massa critica di compagni che rifiuta la Politica, e si pone sul terreno dell’autonomia proletaria, desiderosa non di vuoti contenitori, ma di avere efficaci strumenti per la guerra di classe, che si tramutano, per noi, in un simile “programma”:

- direzione proletaria degli organismi di lotta (lavoro, carcere, ambiente, scuola, territorio)
- rifiuto del compromesso sociale tra padroni e proletari
- antiparlamentarismo e rifiuto del sindacalismo
- indipendenza politica e organizzativa

Questa rete di compagni e gruppi per lo più indipendenti uno dall’altro è bene che si coordinino su determinati obiettivi, rispetto alle azioni e alla teoria, nel tentativo di portare una maggiore critica all’esistente. Critica che chiamiamo disvelamento del movimento comunista nello scontro generale di classe.
Non serve promuovere fumose assemblee di tuttologia, ma concentrarsi su determinati obiettivi e compiti da portare avanti. Il problema del localismo pensiamo non si porrà se la lotta, la ricerca, o qualunque azione sia, verrà considerata come un aspetto di una processo sociale, che nell’autonomia proletaria ha il suo momento di sintesi. Ogni parzialità non sarà quindi il centro del mondo, ma un fondamentale tassello del composito agire della classe. L’organizzazione che ne deriverà sarà sempre l’organizzazione dei compiti.

Note

1 Serge Bricianer, A.Pannekoek e i consigli operai, Musolini Editore, 1974, Torino. Si può richiedere il resto in fotocopia alla redazione.

2 Storicamente questo processo ha visto coincidere organizzazioni legate alla tradizione di sinistra con quelle di destra, in un deciso nazionalismo economico e politico. Non deve quindi stupire che vi sono stati travasi enormi dalla socialdemocrazia tedesca al partito nazista in Germania negli anni trenta, ed ora dal PCI alla Lega Nord.

3 Il collettivo, lotta sociale e organizzazione nella metropoli, 1970, Milano

inverno 2003

da Senza Freni n.0