Ulach
Smah! - nessun perdono
notizie
dall'insubordinazione algerina
Indice
I primi assalti proletari dell’aprile 2001 in Cabilia
La borghesia disorientata
Contro il “particolarismo cabilo”: l’estensione della lotta ad altre regioni
Forze e debolezze del movimento
Nel 1988…
Le soluzioni democratiche proposte dalla borghesia
Gli “Aarch”
Contro il mito dell’invincibilità dello Stato…
… la lotta contro l’isolamento!
SEGUE…
Piattaforma di rivendicazione detta Piattaforma di El-Kseur
I
primi assalti proletari dell’aprile 2001 in Cabilia
Il
18 aprile, le prime sommosse scoppiano a Beni-Douala (regione di Tizi Ouzou,
nella Grande Cabilia, 100 km a est di Algeri) in seguito all’assassinio di un
giovane liceale da parte dei gendarmi. Secondo la versione ufficiale il giovane
liceale sarebbe stato ucciso “da una raffica di fucile mitragliatore caduto
accidentalmente (sei pallottole!) dalle mani di un gendarme”.
Fin
dal giorno dopo “le sommosse si estendono a diversi villaggi della Cabilia
provocando, in certi casi, decine di feriti e causando ingenti danni
materiali”[1].
Nel frattempo ad Amizour (regione di Béjaïa, nella Piccola Cabilia, 250 km a est di Algeri),
“la manifestazione di protesta contro il fermo e l’arresto di tre liceali
che scandivano slogan ostili al potere degenerava in sommosse e scontri in tutta
la Piccola Cabilia”[2] .
Sabato
21 aprile: “sono centinaia, molto giovani, spesso liceali, a manifestare la
loro collera lanciando pneumatici incendiati, pietre, bottiglie Molotov contro
il commissariato della gendarmeria a Beni-Douala, El-Kseur e Amizour”[3].
Domenica
22, ad Amizour, malgrado gli appelli alla calma lanciati dalle famiglie delle
vittime e dai dirigenti del FFS (Fronte delle Forze Socialiste, attualmente
partito dell’opposizione) venuti “a fare da pompieri”, “alcuni
manifestanti attaccano il distaccamento a pietrate, incendiando due veicoli
della gendarmeria, la sede della Daïra (sottoprefettura),
i servizi dell’anagrafe del comune e saccheggiando il tribunale” (corsivi nostri)[4].
L’azione
del proletariato in Algeria fu fin dai primi giorni immediatamente violenta e
diretta contro la propria borghesia. A partire da un avvenimento specifico e
locale, vissuto come la goccia che fa traboccare il vaso, il proletariato affermò
improvvisamente la sua esistenza. Ovunque, la strada fu occupata. Rapidamente la
gendarmeria cessò di essere il bersaglio esclusivo e la vendetta del
proletariato si generalizzò all’insieme delle istituzioni dello Stato, sia
civili che militari. La violenza di classe fu senza concessioni per la borghesia
(incendi, saccheggi, distruzioni, razzie, riappropriazione diretta delle merci,
ostacoli alla repressione etc.).
Come
sempre di fronte a questi avvenimenti la borghesia tentò alla meno peggio di
calmare il fermento proletario giocando simultaneamente il bastone e la carota.
Fin dal lunedì 23, unità antisommossa furono inviate da Tizi Ouzou (capitale
della Cabilia) verso Beni-Douala, a 20 km di distanza. Parallelamente, “per
uno scrupolo di calmare le acque”, le autorità annunciarono il 24 la
sospensione del vice-capo della Sicurezza della wilaya (prefettura) di Béjaïa,
l’arresto del gendarme autore degli spari mortali a Beni-Douala e
l’istituzione di un “programma speciale di aiuto economico a questa
regione”, diffondendo nel contempo gli appelli alla calma dei genitori del
liceale assassinato decisi a “intentare un’azione giudiziaria”.
Ma
né le promesse, né gli appelli alla calma dei genitori della vittima e dei
partiti e organizzazioni socialdemocratiche (RCD, FFS, MCB, …)[5],
né il dispiegamento di forze repressive hanno impedito la continuazione delle
sommosse. Contemporaneamente, l’assalto al tribunale rispecchiava quante poche
illusioni questi proletari si facciano sui risultati delle “azioni
giudiziarie”, ben decisi a condurre la loro lotta in maniera autonoma. I
partiti socialdemocratici sembrano incapaci di modificare questa determinazione
e quest’orientamento violento. Scrivendo sui loro striscioni “Non
potete ucciderci, siamo già morti”, questi proletari affermano che è la
miseria totale a cui il capitale li ha condannati che li spinge a lottare senza
concessioni.
Qualche
cifra può dare un’idea della situazione. Dal 1991 al 1999, in otto anni, il
“potere d’acquisto” del proletariato in Algeria è diminuito del 60%. Tra
il 1999 e il 2001 il numero di persone dichiarate “al di sotto della soglia di
povertà” è passato da dieci milioni a quattordici milioni… sui trenta
milioni che conta l’Algeria. Quasi la metà della popolazione vive così con
meno di 50 euro al mese mentre gli affitti degli appartamenti privati nei
quartieri popolari oscillano tra 130 e 170 euro al mese. Non sorprende pertanto
che il tasso medio di abitazione sia di più di sette persone per alloggio.
Il
FMI, istituzione internazionale del capitale, sbloccò un aiuto finanziario al
governo algerino in cambio di una ristrutturazione del settore pubblico
industriale. L’andare incontro alle nuove norme produttive comportò il
licenziamento di 400.000 dipendenti. Questi ultimi, per la maggior parte operai,
non hanno nessuna speranza di riconversione tenuto conto del declino della
produzione industriale in questa regione.
Alla
vigilia delle sommosse, il tasso di disoccupazione raggiungeva ufficialmente il
40% della popolazione attiva. Fatto rivelatore della situazione sociale tesa, il
solo settore che assume è quello delle società di sicurezza private. Esistono
in Algeria più di 80 società di questo tipo, che occupano a volte fino a 1500
lavoratori. E le più numerose, cosa sintomatica, sono le società di vigilanza
industriale…
In
Algeria perfino i bisogni più elementari dei proletari oggi non sono più
coperti: l’acqua potabile, la casa, l’elettricità mancano a molte famiglie.
I più colpiti da queste condizioni sociali sono i giovani con meno di
trent’anni, che costituiscono il 70% della “popolazione attiva”. Sono
300.000 ad arrivare ogni anno su un mercato del lavoro che non ha bisogno di
loro. Aggrediti fin nelle possibilità di sopravvivenza, si inventano delle
strategie per arrangiarsi. Visto l’importo degli affitti, è per loro
impossibile prendere in considerazione di lasciare il nucleo familiare. E allora
si fanno volontariamente bocciare a scuola per rimandare la scadenza del
servizio nazionale e quella del primo giorno di disoccupazione. Si capirà così
la parte che si accingono a prendere nella rivolta, e non ci si stupirà del
fatto che i giornalisti ne approfittino per snocciolare i loro cliché
sociologici preferiti. Partendo dalla realtà del dilemma tra l’esilio e la
disoccupazione, i giornali ci ripropinano il grande “disagio giovanile” e la
“sete di giustizia e di democrazia”, negando che è il proletariato di tutte
le età a scontrarsi con la giustizia e con la democrazia.
Spazzando
via ogni terapia cittadina, questi proletari che non hanno da perdere che le
loro catene riprendono la sola arma di lotta efficace per la nostra classe,
l’azione diretta: “I giovani manifestanti non hanno voglia di parlare con un
potere che li disprezza. Anche loro disprezzano il potere, ciò di cui hanno
voglia per il momento è spaccare. E allora si spacca tutto ciò che simboleggia
lo Stato. I manifestanti non hanno voglia per il momento di dialogare”[6].
Questa
collera non si fissa veramente su delle rivendicazioni specifiche. L’insopportazione
è generale e verte sugli aspetti “economici”, “politici” e
“sociali” della sopravvivenza che viene loro imposta. L’assenza di
rivendicazioni precise, concrete o di proposte positive rende ancor più arduo
il compito liquidatore dei riformisti di ogni risma. Soltanto l’opposizione a
tutto ciò che proviene dal potere in generale è esplicita. La negazione
di tutto l’esistente costituisce senza dubbio l’elemento-forza
del movimento. Dall’inizio delle sommosse, e malgrado tutti i tentativi
borghesi di appelli alla calma, di polarizzazioni ideologiche, di conciliazioni,
di riforme, di negoziazioni, i proletari si aggrappano in maniera risoluta al
terreno della lotta di classe, facendosi carico di diverse necessità che si
impongono nello sviluppo di questa lotta.
Alla
fine di una settimana soltanto di scontri, la lotta è quasi riuscita ad
estendersi a tutta la Cabilia. Il numero di bersagli presi di mira non ha smesso
nel contempo di dilatarsi. Gli espropri della proprietà borghese si sono moltiplicati. I proletari
fanno razzia delle merci di cui hanno bisogno e distruggono volontariamente
quello che, per loro, ha sempre significato più repressione e più miseria
(incendio del palazzo delle imposte, della prefettura, delle sedi dei partiti
per la tutela dell’identità nazionale etc.). In pochi giorni la totalità
delle città e dei villaggi della Cabilia è in ebollizione.
Sabato
28 aprile “una marea umana ha invaso le strade di Béjaïa, anche se gli
scontri più micidiali hanno avuto luogo nelle piccole città, se non
addirittura nei villaggi… Ancora una volta gli
edifici pubblici sono stati saccheggiati. A Béjaïa i manifestanti hanno
distrutto la casa della cultura, la direzione
del Demanio, la stazione degli autobus”[7]
(corsivi nostri). Sebbene la giornata di sabato 28 aprile sia stata la più
sanguinosa dall’inizio delle sommosse, con una trentina di vittime, il
rapporto di forza tendeva complessivamente a invertirsi a favore del
proletariato. Un giornalista osserva che “da 40 a 60 membri delle forze di
sicurezza sarebbero stati uccisi giovedì 26 aprile in uno scontro a sud di Tébessa”[8] .
Si noti che abbiamo trovato quest’informazione soltanto una volta… È forse
rivelatrice di un armamento più conseguente del proletariato?
L’angoscia
e la sorpresa che il rapido sviluppo del movimento suscitò nei ranghi della
borghesia locale, la paralizzarono più o meno, a seconda dei casi, nella sua
azione. Avendo già sperimentato senza successo svariati campi di immediate
repliche, non riusciva più alla fin fine a dotarsi di una linea chiara e
precisa di risposta.
Le
strutture d’inquadramento e di
mediazione sociale si sono rivelate completamente superate. In balia dello
sviluppo della lotta, esse furono in maniera sempre più esplicita denunciate
praticamente, come testimoniano i saccheggi delle sezioni dei partiti
indipendentisti. Questi fatti dimostrano chiaramente che nessuna formazione
politica di questo tipo è idonea a canalizzare gli straripamenti, ma anche, e
soprattutto, che la lotta dei proletari in Cabilia non è né nazionale, né
indipendentista, come ogni lotta proletaria. La parola d’ordine della
“liberazione nazionale” esprime sempre una manovra della borghesia mondiale
per spezzare la nostra lotta, per isolare il proletariato in ogni paese e
rendere così possibile la sua sconfitta paese per paese di fronte alla
“sua” borghesia nazionale[9].
Questa ideologia oggi è superata nel movimento in Algeria, ma il contesto
mondiale è ancora segnato da una grande debolezza dell’internazionalismo, che
implica che questa lotta non venga riconosciuta, vissuta, condivisa, assunta dal
proletariato negli altri paesi. In modo particolare in Francia, la non-lotta
globale del proletariato lo porta a vedere, del movimento in Algeria, solo
l’immagine che ne dà la borghesia, reagendo quindi con l’indifferenza, il
rifiuto, quando non addirittura la difesa di putride parole d’ordine
socialdemocratiche. Forte di questa passività del proletariato, lo Stato
francese può continuare impunemente a portar sostegno e inquadramento alle forze
dell’ordine in Algeria.
Sul
terreno tuttavia, la capacità di repressione
e controllo militare della situazione si è ritrovata assottigliata a causa
dell’ampiezza assunta dal movimento. Poiché i tumulti non cessano di
scoppiare in altre regioni – separate da diverse centinaia di chilometri di
distanza – le forze dell’ordine non possono essere materialmente presenti in
numero sufficiente su tutti i fronti. I proletari hanno saputo trarre vantaggio
dalla topografia accidentata della regione per ostacolare seriamente lo
spostamento delle truppe della repressione, bloccando delle strade. Si aggiunga
inoltre che le autorità delle città in cui fino ad ora è stata mantenuta la
pace sociale temono che l’estensione del movimento le raggiunga, ed esitano
perciò ad accogliere le richieste di rinforzi delle altre città.
A
metà giugno la borghesia non poteva che constatare la perdita di ogni controllo
della situazione in Cabilia. Quest’ultima era una zona interamente assediata
dagli insorti, mentre le forze repressive erano costrette a barricarsi in campi
fortificati: “Sia a Tadmaïl che a Ouadhias, Boghni, Akbou, Aïn el-Hammam,
Mekla, Larbaa-Nath-Irathen, Azazga, Béjaïa,… tutti i distaccamenti della
gendarmeria nazionale offrono lo stesso spettacolo di fortini assediati, portali
sfondati, mura sventrate, facciate incendiate, porte ammaccate. Tutto attorno
resti di pneumatici bruciati, piloni divelti, alberi abbattuti bloccano tutte le
strade che portano ai distaccamenti. Ovunque i commercianti si rifiutano di
servire i gendarmi. Il boicottaggio è totale. I 36 distaccamenti che conta la
Cabilia vengono approvvigionati da Algeri, tramite elicottero o via terra con
convogli estremamente armati. Un giovane di Tigzirt, che ha lanciato un
pacchetto di sigarette a un gendarme al di là del muro di cinta del
distaccamento, poco c’è mancato venisse linciato dalla folla. La sollevazione
è divenuta un’insurrezione generalizzata. […] Da tre settimane non c’è
più nessun gendarme per strada in Cabilia. Barricata nei propri locali, la
missione dei gendarmi è rimanere sul posto a difendere il proprio
distaccamento, la propria vita. La regione è in balia dei rivoltosi”[10].
Contro
il “particolarismo cabilo”:
l’estensione
della lotta ad altre regioni
Come
sempre, quando la borghesia si trova di fronte ad una radicalizzazione della
lotta in un determinato territorio, fa di tutto affinché da lì non esca.
“Le
autorità temono che il movimento si allarghi a macchia d’olio, essendoci già
state delle frizioni nei dintorni di Sétif, ai confini orientali della Cabilia.
Sabato 28 aprile hanno avuto luogo a Oran e a Boumerdès, vicino ad Algeri, dei
tentativi di manifestazione, mentre nella capitale regnava una forte tensione”[11],
constatava un “inviato speciale”. La tattica del governo diventa allora
quella di presentare la lotta dei proletari in Cabilia come una “battaglia
per l’identità berbera”, al punto che questo stesso giornalista fu
indotto a segnalarla con cautela: “La paura di vedere il movimento fuoriuscire
dalla Cabilia ha indotto il potere a tentare di ridurlo a una rivendicazione
strettamente linguistica, cancellando l’insieme delle rivendicazioni sociali e
politiche che vi si esprimono e che sono comuni all’intero Paese. Isolando la
Cabilia, Algeri spera così di montare il resto della popolazione contro il
“particolarismo cabilo”, per impedire qualsiasi congiungimento nella
contestazione”[12].
Le frazioni borghesi insediate al governo speravano anche di utilizzare i 250 km
che separano Algeri dalla regione insorta per stroncare i rischi di
contaminazione.
Se
è avvenuto tutto il contrario, occorre capire che ciò è dovuto a diversi
fattori:
•
la borghesia aveva imposto delle condizioni di sopravvivenza miserabili simili
in tutta l’Algeria, creando così essa stessa condizioni favorevoli al
ravvicinamento;
•
i proletari della Cabilia avevano attaccato dei bersagli che, per il loro
significato, rendevano difficile questo tipo di confusionismo interessato
borghese. I giornalisti stessi furono costretti a riconoscere che
“l’incendio che conosce oggi la Cabilia non ha alcuna attinenza con le
tensioni che agitano regolarmente la regione. Non c’è nessuna rivendicazione
culturale e linguistica questa volta, ma una vera e propria esplosione sociale.
[…] Anche le formazioni politiche fortemente radicate in Cabilia, che fino a
poco fa controllavano e inquadravano le rivendicazioni per l’identità, non
vengono risparmiate dai manifestanti. Costoro non vogliono più sentir parlare
di rivendicazioni pacifiche e non si fanno nessuno scrupolo a farlo sapere ai
responsabili del Fronte delle Forze
Socialiste (FSS) e soprattutto a quelli del Raggruppamento
per la Cultura e la Democrazia (RCD) che paga così la sua partecipazione al
governo”[13].
Il
25 aprile “le città di Sidi Aïch, El-Kseur, Tazmalt, Barbacha, Seddouk e
Timezrit sono state abbandonate alle razzie di giovani sovreccitati, che
urlavano slogan contro il governo. Le macchine dei privati non sono state
risparmiate, proprio come le sezioni di partiti che difendono la causa berbera e cabila, che sono
state saccheggiate. […] I rivoltosi hanno incendiato la sede della Daïra di
Ouzellaguen […]. I manifestanti hanno incendiato il palazzo dell’ufficio imposte di Abkou e Barbacha, nella Piccola
Cabilia. La strada statale fra Béjaïa e
Algeri è stata picchettata di sbarramenti eretti dai rivoltosi, impedendo
la circolazione per una sessantina di chilometri”[14]
(corsivi nostri).
Attaccando
i partiti nazionalisti, ostentando chiaramente il loro rifiuto della lotta per
l’identità, denunciando direttamente il “potere
assassino”, questi proletari hanno operato concretamente per
l’estensione e il riconoscimento universale della loro lotta. Nei fatti la
carta identitaria o autonomista non ha potuto imporsi. Fin dalla fine del mese di aprile
l’intera classe dominante fu presa di mira, tanto le sue frazioni autonomiste
quanto quelle governative, socialiste o meno, dentro o fuori l’opposizione…
Perciò il primo maggio, quando il RCD annuncia il ritiro dei suoi due ministri
dal governo di Algeri, questo non basta a ridare credibilità a questo partito
presso i proletari.
Durante
i mesi di maggio e giugno hanno luogo un po’ ovunque in Algeria diverse
manifestazioni (di cui due nella stessa Algeri), malgrado molte di esse fossero
state vietate dalle autorità. Secondo gli organizzatori le manifestazioni
volevano essere pacifiche. È abitudine delle frazioni socialdemocratiche,
ancora oggi, quella di organizzare manifestazioni per riacciuffare il movimento
che sfugge loro. È quello che sembra sia successo durante un “periodo di
calma temporanea”, in cui i manifestanti seguivano docilmente gli
organizzatori, portatori di lettere di rimostranze indirizzate al governo. Ma la
“calma” di quel periodo era molto relativa e alla fin fine fu solo di breve
durata. Il tentativo di smobilitazione fallì, giacché fin dalla metà di
giugno gli scontri ripresero con vigore, assumendo forme quasi insurrezionali ed
estendendosi questa volta, è da sottolineare, a numerose altre regioni
dell’Algeria.
Martedì
12 giugno scoppiano delle sommosse a Khenchela (550 km a est di Algeri), nelle
Aurès (1 morto), ad Aïn Fakroun (500 km a est di Algeri) e a Sour El Ghozlane
(130 km a sud di Algeri).
Due
giorni dopo, giovedì 14, sarà nella stessa Algeri che scoppieranno violenti
scontri, verso l’una di pomeriggio in piazza I° maggio, tra i proletari e la
polizia antisommossa: “Alle pietre e ai proiettili lanciati dai manifestanti
hanno risposto i lacrimogeni, gli idranti. E pallottole vere. Alcuni capannoni
del porto di Algeri sono stati razziati. Questo assembramento è il più
importante dall’inizio della rivolta nata il 18 aprile in Cabilia […]. Nelle
strade di Algeri dei nomi di città [vengono] lanciati come le notizie da un
fronte di cui nessuno riesce a prevedere le vampate. “Kenchela, 1 morto”
dice uno. “Skikda dietro le barricate” risponde l’altro. “Sour El Gozlan
distrutta”. “E anche Annata”. Adesso la rivolta ha largamente oltrepassato
la Cabilia, dove non si placa da 45 giorni”[15].
Questa manifestazione del 14 giugno ha riunito nella capitale dalle 500.000 ai
2.000.000 di persone a seconda delle fonti. Tutte le manifestazioni nella città
durante i due mesi precedenti avevano seguito un solo itinerario imposto dallo
Stato. Quest’ultima fu la prima a essere illegalmente deviata, per la
determinazione dei proletari, verso la sede della presidenza della repubblica.
Occorre
risalire al 1988 per ritrovare un’esplosione simile in Algeria (sulla quale
torneremo più avanti). In un contesto mondiale ancora globalmente segnato dalla
debolezza delle lotte della nostra classe, gli ultimi movimenti importanti su
scala del continente africano risalgono parimenti a diversi anni fa[16].
Come in altre parti del mondo, alcune oasi a intensa valorizzazione (estrazione
di oro, di diamanti, di uranio, ma anche di petrolio, di gas, …) e una serie
di concentrazioni industriali convivono in Africa con vaste zone disertate dai
capitali, serbatoi di mano d’opera a buon mercato in cui imperversano
“record” di miseria assoluta. Quanto all’eliminazione del proletariato in
eccesso, se non bastassero quelle che impropriamente vengono chiamate
“catastrofi naturali” (in realtà penurie, carestie e malattie direttamente
legate al modo di produzione, fra le quali la distruzione del sistema
immunitario catalogata sotto il nome di “Aids”),
i massacri e le guerre imperialiste attribuite esoticamente agli “odî
tribali” e ai “conflitti interetnici” porteranno a termine l’ingrato
lavoro. Come ovunque, le chimere di “crescita” e di “sviluppo” non sono
che appelli mascherati a sacrificarsi agli interessi del capitale. E contro ogni
ideologia che discetta all’infinito sui rapporti fra “paesi poveri e paesi
ricchi”, affermiamo che la miseria mondiale del proletariato non ha soluzione
che non sia mondiale e
rivoluzionaria.
Una
delle forze maggiori del movimento attuale in Algeria consiste proprio
nell’essere negazione vivente del mito disfattista borghese, secondo cui la
lotta del proletariato non è o non è più d’attualità. D’altronde la
situazione qui descritta corrobora in diversi punti la “caratterizzazione
generale delle lotte attuali”[17]
che abbiamo trattato in una nostra precedente rivista, ossia:
•
il proletariato oggi sopporta, senza replicare, degradazioni estreme della
propria situazione e massacri in serie;
•
nei momenti in cui il proletariato manifesta la sua esistenza la sua lotta è
immediatamente violenta, si impone attraverso l’azione diretta e tende ad
affermarsi al di fuori di qualsiasi terreno specifico (posto di lavoro,
quartiere, …), a negare le divisioni alimentate dalla borghesia (lavoro, età,
origine, …), tende a generalizzarsi ed è portatrice di un rigetto globale
dello Stato e di ogni ambito socialdemocratico e rivendicativo (contro ogni
mediazione dello Stato, dei partiti e delle organizzazioni borghesi, contro le
parole d’ordine legaliste, pacifiste, elettorali, …).
Questi
tratti essenziali dell’affermazione della lotta del proletariato
caratterizzano oggi anche il movimento proletario in Algeria nel senso che:
•
il vecchio arsenale socialdemocratico è completamente inefficace di fronte
all’azione decisa e violenta del proletariato;
•
la rivolta è priva di ogni obiettivo preciso ed esplicito, e non propone nulla
di positivo;
•
i proletari espropriano direttamente la proprietà borghese per soddisfare
immediatamente i loro bisogni.
Oltre
a questi “tratti caratteristici delle lotte attuali”, la lotta in Algeria
presenta delle forze che denotano un livello di scontro con il capitale superiore
a quello generalmente raggiunto dalle lotte attuali del proletariato.
La
prima espressione di questa forza risiede nel fatto che qui, anche una volta
sfumato l’effetto sorpresa, la borghesia non è riuscita a condurre in maniera
efficace la sua controffensiva. Contrariamente a quello che è successo ad
esempio durante le sommosse di Los Angeles[18],
tutti i tentativi borghesi di spaccare il movimento, separando la maggioranza
dei proletari dalle loro avanguardie, sono finora falliti.
È
un fatto reale che alla testa delle azioni si sono trovati in maggioranza dei
“giovani proletari” (il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e sono i
primi a essere colpiti dalla disoccupazione), ed è anche vero che è capitato
talvolta che conducessero la loro lotta sotto la bandiera islamista, ma i
tentativi borghesi di caratterizzare l’azione diretta del proletariato sulla
base di queste realtà parziali non hanno finora avuto realmente presa sul
movimento. La pratica dell’amalgama, che consiste nel presentare la lotta delle avanguardie del
proletariato come quella di “giovani rivoltosi”, di “casseurs”, di
“banditi”, se non di “islamisti radicali”, non ha avuto l’effetto
sperato presso il resto del proletariato in Algeria. Il movimento si è mostrato
più forte di tutte le divisioni che la società impone. Proprio perché è
l’insieme del proletariato che oggi lotta in Algeria.
Le
poche “divisioni dei compiti”, che la borghesia desidererebbe farci
intendere come politiche, sono solo tecniche e organizzative. Finora la
solidarietà e l’unitarietà sono realtà concrete del movimento. È da notare
che azioni come i blocchi stradali presuppongono un certo livello di
organizzazione, di centralizzazione del movimento. Anche se oggi sono sviluppate
solo da un pugno di proletari, queste azioni costituiscono un abbozzo di
autonoma assunzione di aspetti militari della lotta.
Nel
periodo attuale un’altra specificità del movimento in Algeria è la sua durata
eccezionale e la sua estensione.
Contrariamente alle espressioni attuali del proletariato, che generalmente
bruciano il tempo di un lampo, questo movimento perdura da aprile… e il cielo
è ancora minaccioso per la borghesia! Dal 18 aprile il movimento proletario non
ha smesso di estendersi sia in ampiezza che in profondità, e ancora oggi la
lotta continua.
•
Essa tende oggi a interessare numerose
regioni in Algeria.
•
I bersagli attaccati sono ogni volta più globali
– ogni simbolo dello Stato è un potenziale bersaglio.
•
L’azione diretta è affermata sempre
più esclusivamente come unica arma del proletariato di fronte allo Stato.
•
Il proletariato tende a tracciare sempre più chiaramente la frontiera
di classe che lo separa dalla borghesia nel suo insieme, comprese le sue
frazioni “di sinistra” (FFS, RCD).
Questa
forza, questa persistenza del movimento attuale è da collocare in un processo
di continuità con le forze delle lotte passate. Più di un decennio fa abbiamo
sottolineato nelle nostre riviste centrali che il movimento di ottobre del 1988
in Algeria fu un movimento di negazione,
di attacco al capitale e ai suoi difensori.
•
i proletari se l’erano presa con gli edifici e i beni ufficiali (municipi,
macchine dei rappresentanti del governo, diverse sedi dell’FLN, commissariati
di polizia, palazzi di giustizia e luoghi sacri dell’accumulazione capitalista
come uffici delle imposte, banche, …);
•
partendo dal rifiuto di condizioni di sopravvivenza insopportabili, i proletari
non formularono rivendicazioni precise. Non reclamavano riforme, si lanciavano
negli espropri diretti attraverso la via delle sommosse allo scopo di
riappropriarsi del prodotto sociale di cui erano privati;
•
il movimento del 1988 è partito dalla strada e non da imprese precise, cosa che
non ha lasciato all’inquadramento socialdemocratico, fra cui i sindacati, la
possibilità di prendere pienamente il posto abituale di liquidatore delle
lotte.
È
chiaro che il movimento che oggi infiamma diverse regioni dell’Algeria
presenta delle evidenti similitudini con la lotta dell’ottobre 1988.
Riprendiamo qui alcuni brani del commento di “Libération” nell’aprile
2001: “Erigendo barricate distruggono i simboli dello Stato e le stazioni di
gendarmeria”. “È la rivolta di una gioventù radicalizzata [oh, categorie
a-classiste!] che non ha più niente da perdere, poiché schiacciata dalla
miseria e senza speranza. “Non potete
ucciderci, siamo già morti”, gridano così i manifestanti”.
“Lanciando pietre, pneumatici incendiati, bottiglie Molotov, sfuggono
totalmente al controllo di qualsiasi partito politico ed esprimono una collera
che nulla sembra poter canalizzare: tre sedi del FFS e numerosissimi locali
del RCD d’altronde sono stati bruciati” (corsivi nostri).
Il
processo di negazione in opera dall’aprile 2001 nella regione rinnova tre
aspetti che avevano costituito la forza del movimento del 1988:
1)
L’attacco alle istituzioni e alle forze dello Stato.
2)
L’assenza di rivendicazioni precise, espressione di una insopportazione
generale da parte di proletari coscienti che non hanno niente da perdere… e
niente da guadagnare negoziando con lo Stato.
3)
La scarsa presa dell’inquadramento socialdemocratico tradizionale sul
movimento[19].
Questa
breve digressione storica è sufficiente a mostrare chiaramente che il rifiuto
delle strutture di inquadramento socialdemocratico e della lotta per la tutela
dell’identità non piove dal cielo e non proviene unicamente dalle condizioni
di sfruttamento immediate. Trarre lezione dalle lotte passate ha molta
importanza e sciaguratamente oggi ci si fa carico di rado di questa continuità.
Non disponiamo a questo proposito di espressioni chiare, di testi di minoranze,
ma sappiamo che alcune manifestazioni hanno avuto luogo attorno a
“monumenti” creati dai proletari in memoria dei loro fratelli e sorelle di
classe che hanno lottato contro lo Stato, in particolare durante la cosiddetta
“primavera berbera” nella primavera del 1980 e durante il movimento di fine
1988. La nostra classe è così riuscita a mantenere viva una memoria operaia
malgrado i molteplici tentativi di eliminarne ogni traccia. In ogni caso
l’usura progressiva delle ideologie borghesi nel corso di ognuna di queste
lotte induce il proletariato a rifiutarle sempre più apertamente.
Su
queste basi il movimento attuale ha superato il suo predecessore su alcuni
punti:
•
L’“affermazione dell’identità” e la “liberazione nazionale” non
sono più portatrici di speranza fra quei proletari ai quali 40 anni di
indipendenza (di cui 20 di governo del FLN) non hanno portato che miseria e
massacri supplementari.
•
L’ideologia islamica ha perso capacità d’influenza in seguito alla perdita
di credibilità della frazione socialdemocratica che la sostiene, il FIS[20].
“Oggi gli islamici non sono riusciti a sfruttare le rivendicazioni della
gioventù algerina”, osserva uno storico[21] .
I proletari stessi denunciano le “concessioni del presidente Bouteflika agli
islamici”, segnatamente nella recente direttiva del governo che vieta di
baciarsi sulle panchine pubbliche e nei parchi.
•
I movimenti indipendentisti hanno
perso credibilità quanto alla loro capacità di produrre cambiamenti reali.
Malgrado gli accenti berberi del suo
programma, l’entrata del RCD nel governo non ha cambiato nulla delle
condizioni di vita in Cabilia. Al contrario, il proletariato denuncia oggi la
sua partecipazione all’esecuzione dei piani di austerità.
Il
succedersi di ogni ondata di lotta pone direttamente, in tal modo, le condizioni
di uno scontro di classe venturo sempre più violento. Ogni scontro
rivoluzione/controrivoluzione è un momento di esacerbazione del rapporto di
classe nel corso del quale delle maschere cadono, delle ideologie si
compromettono, delle illusioni si dissolvono…, aprendo la strada
all’espressione proletaria sempre più chiara delle determinazioni storiche
della sua lotta.
Allo
stesso modo, il ruolo dell’esercito nella feroce repressione del 1988
(imprigionamenti, torture, assassinii, …) oggi gli si ritorce contro perché
parecchi soldati hanno partecipato alle sommosse dell’epoca. L’esacerbarsi
delle contraddizioni fin nel suo seno costituisce un limite per la repressione
militare, se non altro per l’ampiezza che dovrebbe assumere se il movimento
proseguisse il proprio sviluppo. Un sociologo osserva perfino: “non penso che
spareranno sul popolo algerino. In compenso i servizi speciali o la gendarmeria
possono sparare. L’esercito di base, non quello di generali, ha i suoi cugini
e i suoi fratelli nella merda. E se ci sono morti, i giovani spaccheranno ogni
cosa e a quel punto potrebbe accadere di tutto”[22].
Se questa realtà sorge innegabilmente come prodotto della continuità storica
della lotta di classe, ciò non toglie che tutto debba essere ancora giocato!
Infatti, nessun indice di fraternizzazione o di disfattismo ci è ancora
pervenuto, e neanche di riappropriazione da parte del proletariato delle armi
dello Stato, negli edifici delle forze dell’ordine attaccati. E poi non
bisogna dimenticare intere parti delle forze controrivoluzionarie come le
frazioni per-i-diritti-dell’uomo che, anch’esse, preparano la repressione
con il pretesto di denunciarla cercando di rinchiudere il proletariato in una
“lotta per la democrazia contro i generali sanguinari”. Occorrerebbe,
secondo questi apostoli del pacifismo e del parlamentarismo, liberare Bouteflika
dall’influenza degli undici capi di stato maggiore (di cui nove sono vecchi
ufficiali dell’esercito di liberazione)
che dirigono l’Algeria per consentire al “processo democratico di svolgersi
normalmente” … Cosa che porterebbe, ancora una volta, la mannaia
parlamentare a tagliare la testa alla lotta del proletariato! È chiaro che tra
l’Esercito e la Chiesa le urne possono ancora ottenere un posto onorevole!
Le
soluzioni democratiche proposte dalla borghesia
Lo
si vede, anche la borghesia tenta di trarre lezione dalle lotte passate. Per
esempio, come nel 1988, la stampa ci viene a parlare di “disperazione
algerina” come di un effetto specifico del governo in carica. Ora, per noi è
evidente che la condizione riservata al proletariato non è l’esclusiva di un
particolare governo, di una particolare nazione.
Storicamente,
tutte le frazioni borghesi che si sono succedute al governo hanno operato nella
gestione sanguinaria dell’Algeria coloniale e postcoloniale, con il sostegno
permanente dello Stato francese che si compiaceva di essere “la
patria dei diritti dell’uomo”. Indebolito dalla lotta montante dei
proletari nella regione dal 1944, lo spazio di valorizzazione algerino fu
cementato all’inizio da massacri (Sétif etc.), poi dall’“indipendenza
nazionale”, alla fine dal rafforzamento del ruolo giocato dall’esercito nel
buon andamento delle cose. A seguito di ciò, da decenni in Algeria i proletari
in eccesso sono massacrati in maniera diretta, cruda e brutale. Interi villaggi
vengono regolarmente incendiati, le pratiche di tortura sono di ordinaria
amministrazione. Cambia solo di volta in volta la giustificazione evocata. Da 10
anni questi massacri sono potuti proseguire grazie all’imposizione di una
polarizzazione “governo contro integralismo islamico”, con la comparsa del
FIS, frazione socialdemocratica e islamica.
Costretti
a far fronte successivamente alle frazioni coloniale (sempre presente),
indipendentista poi islamica, i proletari tendono progressivamente a
identificarle complessivamente come “la loro borghesia”. Opponendosi nel
contempo allo Stato francese, a Bouteflika, ai generali, al FIS, al FFS, al RCD,
al FMI, questi proletari affermano praticamente quel riconoscimento sempre più
chiaro del loro nemico di classe: lo Stato del capitale in generale, sotto ogni
forma e a tutti i suoi livelli di organizzazione.
In
realtà la successione delle frazioni borghesi al governo poggia sulla loro
capacità di organizzare condizioni di produzione che massimizzino la
valorizzazione del capitale, segnatamente attraverso l’incessante aumento del
tasso di sfruttamento dei proletari. Il mantenimento o la sostituzione di queste
frazioni dipende non solo dalla loro capacità di imporsi e mantenersi nella
guerra permanente a cui si dedicano l’una contro l’altra per accrescere i
rispettivi capitali, ma anche dalla loro efficacia nella gestione
dell’antagonismo di classe, più o meno espresso a seconda delle circostanze
storiche. Questi due aspetti sono indissociabili dal ruolo sociale della
borghesia in quanto classe dominante. L’impegno dello Stato francese si
inscrive così nella necessità del mantenimento della coesione sociale nella
regione.
Il
FIS, dal canto suo, è il prodotto di una centralizzazione di gruppi strutturati
attorno all’ideologia islamica. Si è rafforzato nel contesto del crescente
malcontento dei proletari in Algeria dall’inizio degli anni ’80. La pratica
di questa organizzazione è stata fin dall’inizio quella di canalizzare la
combattività proletaria spostandola sul terreno religioso: soltanto
una lotta per la sovranità di Allah consentirebbe di assicurare di nuovo le
gioie che sono state spossessate dalla vita pagana. Il FIS fa dunque opera
di inquadramento delle lotte reali del proletariato e ne snatura il contenuto.
Il vantaggio rappresentato dall’inquadramento religioso era riconosciuto
finanche nei ranghi del governo del FLN (“Front de Libération Nationale”)
che, in quegli stessi anni, non smise di finanziare la costruzione di nuove
moschee e scuole musulmane, favorendo di fatto lo sviluppo del FIS.
La
loro complementarietà si rivela tanto più evidente dato che alla fin fine è
grazie al FIS che la combattività proletaria dell’ottobre 1988 venne
ricondotta sotto la mannaia parlamentare. Da buon partito socialdemocratico, il
FIS proclamava che era giunta l’ora che “la sovranità di Allah” si
insediasse anche in parlamento. Partecipò attivamente a rinforzare
l’illusione che i proletari nutrivano riguardo all’organizzazione delle
prime elezioni libere dopo “l’indipendenza”. Ma quali prospettive la
“libera scelta” fra candidati-carnefici ha mai portato ai proletari se non
la denegazione della loro lotta e il mantenimento dello sfruttamento borghese!?
L’FLN, partito unico fino a quel momento, accusò una cocente sconfitta a
beneficio dei dirigenti del FIS nei quali i proletari spossessati della loro
lotta investivano le loro speranze di maggior benessere. Il FIS vinse le
elezioni municipali del 1990, poi quelle del primo turno delle politiche nel
dicembre 1991.
Ma
il secondo turno delle politiche, previsto per il gennaio del 1992, non avrà
mai luogo. Fu annullato in seguito all’assunzione della direzione degli
apparati centrali dello Stato da parte della frazione borghese compattatasi
attorno allo stato maggiore dell’esercito.
La
persistenza di una forte combattività proletaria in quel periodo ci consente di
capire che in realtà il FIS è stato scavalcato dagli avvenimenti (sommosse del
1991). Pertanto la frazione borghese compattatasi attorno all’esercito,
facendosi forte di non avere alcuna credibilità da difendere davanti al
proletariato, reputò che essa sola sarebbe stata capace di ristabilire
realmente l’ordine borghese. La situazione che sfuggiva al FIS poté allora
essere ripolarizzata in una guerra borghese intestina FIS/militari.
Del
resto una partecipazione al governo avrebbe potuto essere fatale per il FIS. La
composizione dei suoi ranghi era troppo eterogenea perché potesse, senza rischi
di diserzione di massa, assumerne concretamente i compiti nella regione, cioè:
•
condurre apertamente la repressione degli elementi più combattivi
dell’ottobre 1988;
•
proseguire la distruzione dei proletari in eccesso;
•
eseguire gli inevitabili piani di austerità venturi.
L’applicazione
di un simile programma gli avrebbe probabilmente fatto perdere velocemente
qualsiasi credibilità fra i proletari.
Il
“colpo di Stato militare” ha consentito così di completare la messa in riga
dei proletari in Algeria. Questa frazione della borghesia, che si impose come partito
dell’ordine, potè, come ogni volta, esercitare la sua repressione
soltanto perché la combattività del proletariato era stata preliminarmente
dispersa da frazioni socialdemocratiche. È essenziale qui vedere che senza
partecipare (ufficialmente) al “potere”, è proprio il FIS ad aver preparato
l’irregimentazione dei proletari nella morsa parlamentare che era allora la
chiave della restaurazione dell’ordine borghese.
In
questo caso, le frazioni socialdemocratiche uscivano quasi integralmente non
compromesse dalla loro reale collaborazione repressiva. O meglio, la frazione
islamica poteva presentarsi come martire e proseguire il suo ruolo di
catalizzatore dei malcontenti del proletariato. Se non è escluso che alcune
frazioni islamiche abbiano perfino trascinato alcuni proletari in atti di
terrore borghese, è notorio che la maggioranza – se non addirittura la
totalità – dei massacri abitualmente attribuiti all’“islamismo armato”
sono puramente e semplicemente atti dell’esercito algerino (e dunque francese,
attraverso tutti i quadri che non smette di fornire). Infine, quando il
proletariato conduce il proprio terrore di classe, sotto la bandiera islamica o
meno, direttamente contro l’esercito o contro altre milizie organizzate dallo
Stato più localmente, la borghesia gli appiccica addosso le definizioni
ideologiche di “integralismo musulmano” e di “ cieco massacro di
innocenti”. Con il pretesto di quest’amalgama,
sotto la bandiera della “lotta contro il terrorismo”, la borghesia applica
diffusamente il proprio terrore di classe, il terrorismo di Stato. È anche così
che venne giustificata la crescente militarizzazione del regime, lo “sforzo
nazionale” di cui il proletariato paga sempre il prezzo. La polarizzazione
borghese FIS/militari, “terrorismo/antiterrorismo”, rese possibile la messa
di nuovo in riga dei proletari e l’imposizione di condizioni di sopravvivenza
ancora più miserabili e di nuovi massacri.
Attualmente
percepiamo nel movimento una vistosa debolezza, in realtà ricorrente nei
movimenti attuali: il contenuto proletario viene affermato attraverso
l’andamento stesso che assume la lotta, ma non viene rivendicato
esplicitamente. L’obiettivo comunista non viene identificato, non viene
portato coscientemente.
A
livello internazionale oggi le minoranze che agiscono all’avanguardia del
movimento ne rivendicano solo molto raramente le determinazioni classiste. Così
la bandiera rivoluzionaria che corrisponde al contenuto della lotta è brandita
solo di rado o in maniera confusa. Questa inconseguenza presenta diversi effetti
nefasti:
•
essa contribisce all’isolamento estremo della lotta del proletariato in
Algeria dalla lotta del resto del proletariato internazionale;
•
consente alla borghesia di utilizzare questa mancanza di chiarezza per
trasformare la lotta in conflitti fra frazioni borghesi.
Una
critica militante e responsabile di queste debolezze si inscrive imperativamente
in una prospettiva rivoluzionaria e direttamente internazionalista. È in questo
senso che ci sforziamo qui di:
•
cogliere le determinazioni storiche di cui il movimento è oggi portatore ma la
cui affermazione chiara gli sfugge;
•
criticare le debolezze attuali della lotta dei proletari in Algeria;
•
rompere la frammentazione del movimento proletario a livello mondiale, non solo
criticando le debolezze della nostra classe a tale livello, ma anche diffondendo
internazionalmente il presente contributo.
È
certo che un movimento non raggiunge questa durata e questa profondità senza
sviluppare un processo di organizzazione, di acquisizione di autonomia (è ciò
che spesso avviene ancor prima della sollevazione
propriamente detta). Le forme sviluppate nel corso di questo processo, le
bandiere che esso si dà ci rimangono tuttavia poco precise. Nessuna struttura
del movimento sembra finora aver dato prova di una attività internazionale di
presa di contatto con proletari del resto del mondo. L’assenza di reti
proletarie di diffusione della lotta ci ha imposto per adesso una dipendenza
quasi totale nei confronti dell’informazione borghese, e quest’ultima ha
tutte le ragioni di snaturare o di occultare le forze della lotta (in
particolare quelle riguardanti la sua acquisizione di autonomia) facendo nel
contempo l’apologia delle sue debolezze.
La
stampa menziona, come struttura organizzativa del movimento, i “comitati di
tribù”, gli “Aarch”. Questi soltanto sarebbero stati all’origine degli
svariati “appelli a manifestare”. La stampa li descrive come “delle
strutture ancora nebulose”. Sappiamo ben poco di questi “comitati”. Sono
l’improvvisa ricomparsa di un’antica struttura sociale paesana scomparsa da
più di un secolo, dopo l’annientamento di un movimento insurrezionale in
Cabilia nel 1871 (la “grande sollevazione cabila” fu soffocata nel sangue
dagli stessi generali francesi che avevano annientato la Comune di Parigi).
Secondo la stampa la loro resurrezione si spiegherebbe “con la volontà di
attingere dalla cultura locale modalità di rappresentanza che consentano di
superare le divisioni amministrative. Il riferimento del vincolo di sangue
costitutivo dell’Aarch consente di radunare villaggi appartenenti alla stessa
stirpe, ma dispersi fra vari comuni e sottoprefetture […] Una doppia necessità
ha presieduto alla resurrezione di queste strutture sociali tradizionali: prima,
il fermo rifiuto da parte degli insorti di ogni forma di organizzazione politica
legale, poi la necessità di trascendere le divisioni settarie”[23].
Al di là dello sproloquio culturale e particolaristico possiamo rilevare che
questa resurrezione di strutture inter-paesane vietate fino ad allora esprime
per lo meno la realtà di una lotta contro l’isolamento e contro le
organizzazioni politiche legali.
Come
succede generalmente in tutte le piattaforme che emergono dalle lotte attuali,
quella di questi comitati mescola rivendicazioni basate sui bisogni reali della
nostra classe e altre che comportano le polarizzazioni borghesi e i
particolarismi locali: “Costoro reclamano, alla rinfusa, l’immediato
allontanamento della gendarmeria, il farsi carico da parte dello Stato delle
vittime della repressione, l’annullamento delle azioni giudiziarie intraprese
contro i manifestanti, la consacrazione del tamazight come lingua nazionale e
ufficiale, più libertà e giustizia, l’adozione di un piano d’urgenza per
la Cabilia e la concessione di un sussidio di disoccupazione per tutti i senza
lavoro…”[24].
Attualmente
“la funzione di questi comitati di paese è essenzialmente difensiva”,
secondo un commentatore preoccupato di denunciare l’immaturità politica del
movimento. Costui prosegue sprezzantemente sul successo degli Aarch: “Come si
può non condividere un discorso che pretende riparazione per l’aggressione
subita? è un guazzabuglio di
rivendicazioni diverse che non è fondato su alcuna idea in prospettiva o
programma politico”[25].
Questa struttura (che raggruppa 2000 delegati) afferma infatti che “nulla è
negoziabile”, ed è appunto in base a ciò che giudichiamo la sua forza.
L’assenza di un progetto politico in senso borghese rivela secondo noi il
rifiuto di responsabilizzarsi come amministratori, di cadere in quella trappola
tesa immancabilmente dalla socialdemocrazia. Gli Aarch rifiutano anche qualsiasi
processo elettivo nella ripartizione delle responsabilità.
Ci
risulta tuttavia difficile valutare l’espressione di queste contraddizioni in
seno agli Aarch, e questo aspetto sfugge necessariamente alle informazioni
calibrate delle agenzie di stampa e ai loro zelanti commentatori. In ogni caso
non possiamo ridurle ad alcuni loro appelli a manifestare “pacificamente”
(quando la violenza proletaria si afferma alla più piccola manifestazione), né
alle dichiarazioni di questo o quell’altro loro “rappresentante”,
eventuale candidato-interlocutore presso lo Stato, quando i proletari che si
riconoscono negli Aarch non solo hanno bruciato gli edifici dei partiti
autonomisti e le “case della cultura berbera”, ma hanno anche rifiutato, a
colpi di bottiglie Molotov, il “programma speciale di aiuto economico alla
regione” proposto dalle autorità all’indomani delle prime giornate di
sommosse.
Ciò
di cui possiamo essere sicuri è che la rivendicazione della propria identità,
la democrazia, costituisce oggettivamente il programma che la borghesia locale,
nazionale e internazionale cerca d’imporre. Il proletariato, invece, non ha
nulla da guadagnare in questo programma… e tutto da perdere! In Algeria, visto
il contenuto reale delle azioni dirette, è un dato di fatto che il movimento
proletario afferma concretamente la propria lotta contro il programma
democratico, nelle sue varianti parlamentariste, di rivendicazione d’identità
etc. anche se, come ovunque, è una minoranza ad imporlo. È evidente che in
ogni lotta del proletariato sono presenti dei programmi al ribasso rispetto a
quanto afferma il movimento nella sua pratica reale e che la stampa borghese
metterà sempre in evidenza soltanto le espressioni più confuse del movimento,
adoperandosi affinché il proletariato venga spossessato degli aspetti più
forti della propria lotta.
Contro
il mito dell’invincibilità dello Stato…
In
linea di massima la socialdemocrazia ci presenta attualmente la lotta di classe
come una lotta di “apparato contro apparato”: “sbirri contro
manifestanti”, “giovani rivoltosi algerini contro esercito algerino”…
Partendo dallo scontro fra apparati in sé, questo tipo di postulato dualistico considera solo la
potenza in sé di ciascun apparato
preso isolatamente. Se al termine dello scontro l’apparato contestatore
risulta battuto, se ne dedurrà che la potenza dello Stato era superiore fin
dall’inizio. Di fronte a questa sconfitta le frazioni socialdemocratiche
dichiareranno che non era il momento di lottare, mentre alcune frazioni del
proletariato raccomanderanno il volontarismo armato come unico mezzo per
attaccare lo Stato onnipotente[26].
È da questo quadro adialettico di analisi che emerge il mito dell’onnipotenza
dell’apparato statale. L’ideologia del riformismo
armato (in questo caso l’ideologia del fochismo
cara a Castro e a Guevara) considera che la forza acquisita dall’“apparato
militar proletario” (cellule combattenti, guerriglia,…) corrisponda a una
diminuzione dalla potenza dell’apparato borghese fino alla maturità completa
dello “Stato proletario”. L’ideologia disfattista
borghese considera dal canto suo ogni “sconfitta” del proletariato come
un ulteriore rafforzamento dell’invincibilità dello Stato. Fra queste due
ideologie vi è una semplice inversione di punto di vista. Il postulato della
lotta rimane lo scontro di “apparato contro apparato”, a partire dal quale
viene dedotto che la forza persa da uno dei campi si trasferirebbe nell’altro,
fino a farne “il campo vittorioso”.
In
contrasto con quest’incomprensione della natura dialettica dei rapporti
sociali, noi affermiamo che:
•
Il mito della “superpotenza” attuale dello Stato ha una realtà effettiva
solo in quanto ideologia divenuta materia controrivoluzionaria, come mezzo per
scoraggiare il proletariato, essendo qualsiasi lotta considerata come persa in
anticipo di fronte al colosso statale.
•
Lo sviluppo della potenza dello Stato borghese è sempre il prodotto della lotta
di classe, del rapporto di forza sociale fra proletariato e borghesia. Parlare
d’invincibilità della borghesia, di scomparsa della prospettiva
rivoluzionaria rivela un’incomprensione del modo di sviluppo reale della lotta
fra le classi. Quest’immediatismo nasconde il fatto che la lotta di classe si
è sempre sviluppata attraverso salti qualitativi, intervallata da periodi di
pace sociale più o meno lunghi. Sicuramente la durata di questi ultimi può
fortificare il mito del trionfo definitivo della borghesia o la ricerca
idealistica di un motore della storia diverso dalla lotta fra le classi.
•
Ad ogni nuova ondata importante di lotta lo scontro fra classi si fa più teso.
È dialetticamente, nel movimento di scontro tra rivoluzione e
controrivoluzione, che il proletariato afferma e sviluppa sempre più
chiaramente il proprio progetto rivoluzionario. È nel corso stesso della lotta
che gli antagonismi si disvelano e che il proletariato opera le rotture
necessarie con le forze contro-rivoluzionarie che ostacolano lo sviluppo della
sua lotta, e questo avverrà fino all’abolizione della società di classe
stessa ad opera del proletariato.
Non
possiamo quindi vedere l’eventuale futuro arresto del movimento in Algeria
come una “sconfitta” del proletariato. La denuncia che Marx aveva fatto
della cosiddetta “sconfitta della rivoluzione del 1848” è ancora oggi
valida:
“Chi
soccombette in queste disfatte non fu la rivoluzione. Furono i fronzoli
tradizionali prerivoluzionari, risultato di rapporti sociali che non si erano
ancora acuiti sino a diventare violenti contrasti di classe, persone, illusioni,
idee, progetti, di cui il partito rivoluzionario non si era liberato prima della
rivoluzione di febbraio e da cui poteva liberarlo non la vittoria di febbraio ma
solamente una serie di sconfitte. In una parola: il progresso rivoluzionarlo non
si fece strada con le sue tragicomiche conquiste immediate, ma, al contrario,
facendo sorgere una controrivoluzione serrata, potente, facendo sorgere un
avversario, combattendo il quale soltanto il partito dell’insurrezione
raggiunse la maturità di un vero partito rivoluzionario” (Marx, Le
lotte di classe in Francia, 1850).
Pertanto,
la critica rivoluzionaria può brandire risolutamente la lotta attuale del
proletariato in Algeria in quanto portatrice della prospettiva rivoluzionaria,
in quanto prova vivente della potenza contenuta dalla classe proletaria quando
si scontra direttamente contro lo Stato.
…
la lotta contro l’isolamento!
La
questione che vogliamo sollevare adesso è quella di capire ciò che condiziona
in ultima istanza lo scemare – sempre provvisorio – di lotte proletarie
tanto perspicaci e profonde quanto quella attualmente in corso in Algeria. La
spiegazione fondata soltanto sulle debolezze interne è secondo noi totalmente
insufficiente in questo caso. Ci sembra che occorra assolutamente denunciare la
crudele mancanza di internazionalismo proletario nei confronti della lotta dei
proletari in Algeria. Infatti, se la repressione o lo sfinimento riescono ad
arrestare momentaneamente il movimento, ciò non è affatto la dimostrazione
della “superpotenza dello Stato” in sé, bensì, al di là delle debolezze
interne del movimento, la principale conseguenza dell’attuale mancanza di
internazionalismo proletario.
È
un bisogno vitale per il proletariato quello di rompere con la separazione,
l’isolamento, il non riconoscimento delle proprie lotte in ogni parte del
mondo. Più che mai, bisogna capire che in ultima istanza è l’assenza di
solidarietà proletaria internazionale che consente oggi alla potenza repressiva
dello Stato di colpire le nostre lotte. Così è stato in Albania, in Iraq, …
E al momento di scrivere queste righe non vediamo come potrebbe essere
diversamente in Algeria. Il riconoscimento della lotta dei proletari in Algeria
da parte del resto del proletariato internazionale, il suo prolungamento
attraverso la lotta dei proletari del resto del mondo contro la propria
borghesia, è l’unico modo di sostenere praticamente il movimento proletario
in Algeria.
La
borghesia, invece, sembra essere ben consapevole di questo fatto. Pertanto farà
tutto il possibile per evitare questo riconoscimento. La sua prima tattica
consiste immancabilmente nel disporre dei “cordoni sanitari” per isolare il
proletariato in lotta dal resto della sua classe.
In
Algeria il primo cordone che essa dispose per isolare la lotta in Cabilia come
“lotta per l’identità berbera” fu spezzato dal riconoscimento dei
proletari del resto dell’Algeria della loro lotta comune contro quel “potere
assassino” che essi stessi subiscono quotidianamente. La loro evidentissima
comunanza d’interessi è stata il motore dell’estensione del movimento, di
un certo grado di generalizzazione.
Il
secondo cordone, questa volta efficace, consiste nell’isolare la lotta dei
proletari in Algeria dal resto del mondo. La facilità con cui la borghesia
riesce a isolare le rivolte proletarie è molto caratteristica del periodo
attuale. Essa è nuovamente consentita innanzitutto dalla mancanza di
collegamenti fra organizzazioni proletarie nel mondo. Grazie al monopolio
dell’informazione, la borghesia riesce molto facilmente a evitare la
generalizzazione, a snaturare, a confondere le acque, con lo scopo di negare il
carattere classista delle lotte. I media assumono così un livello statale
essenziale nell’organizzazione del capitale come forza di dominio. Con un
colpo di bacchetta magica, hanno così trasformato in spettacolo compassionevole
i massacri commessi in Algeria. Hanno trasformato oggi lo scontro violento dei
nostri fratelli di classe contro la loro borghesia in una “richiesta di
democrazia”. Agli occhi del proletariato internazionale hanno trasformato una
lotta contro il sistema in lotta per la “democratizzazione delle
istituzioni”. Ci presentano la lotta che oppone in Algeria il proletariato
alla propria borghesia come una lotta che oppone “cattivi generali”
(crudeli, corrotti, responsabili di tutti i mali, dall’inflazione fino ai
massacri) a “buone volontà democratiche”. Queste ultime hanno le “mani
legate” dai generali, che “da soli dirigono di fatto il paese da quindici
anni”.
La
soluzione proposta dai media e da umanitaristi di ogni parrocchia è reclamare,
a colpi di petizioni, una “commissione d’inchiesta internazionale sugli
abusi del regime”! Preparando in questo modo un inquadramento della gestione
del capitale con delle strutture statali il più internazionali possibile,
questo tipo di politica partecipa anche alla costruzione del “cordone
sanitario”. A questo proposito abbiamo mostrato nella nostra precedente
rivista che il ruolo a malapena celato della NATO era proprio quello di evitare
che la pace sociale si dissolvesse a livello mondiale. Si tratta, attraverso
l’aumento dei sussidi della NATO, di rinforzare il “cordone sanitario” di
protezione delle “zone sane”, contro ogni rischio di contaminazione da parte
delle lotte proletarie. Isolando le zone di lotta, la NATO consente
l’indispensabile ristrutturazione della coesione sociale interna di ogni Stato
di fronte al proprio proletariato. Finché questo ordine sociale interno non è
ristabilito, non vi è vittoria per nessuna delle frazioni della borghesia
internazionale! Così, è direttamente sul piano internazionale che si prepara
il massacro dei nostri fratelli di classe in lotta in Algeria e che si gioca la
perennità di questo sistema di sfruttamento.
È
allo stesso modo su scala internazionale che si determinerà in fine la capacità
d’intervento dell’apparato repressivo algerino, come quella dello Stato
francese o di ogni altro Stato. La capacità repressiva di qualsiasi livello di
organizzazione dello Stato è prima di tutto determinata dalla combattività del
proletariato che lo fronteggia in tutti i paesi. Tanto la paralisi attuale dello Stato algerino
dipende dal livello di lotta del proletariato in questa regione, quanto la sua
ristrutturazione è imminente solo grazie alla passività del proletariato nel
resto del mondo di fronte a questi avvenimenti. Non vi è “superpotenza”, né
di uno Stato nazionale specifico, né di nessuna coalizione internazionale
borghese!
La
decisione di una repressione militare di vasta portata non è priva di pericoli
per la borghesia. La natura contraddittoria dell’esercito, composto anche di
proletari in uniforme ne ha sempre fatto un punto particolarmente delicato del
modo di produzione capitalista. Si conosce storicamente la rapidità con cui si
decompongono gli eserciti borghesi non appena i proletari che li costituiscono
fraternizzano con i proletari che dovrebbero combattere. Si è visto prima che
la borghesia è cosciente della fragilità del suo esercito, composto per la
maggioranza da proletari che hanno vissuto le sommosse del 1988. Contrariamente
alla lotta di “apparato contro apparato”, allo scontro di “sbirri contro
manifestanti”, l’azione disfattista rivoluzionaria, sul fronte come nelle
retrovie, assilla ostinatamente la “superpotenza” dello Stato!
La
generalizzazione della lotta si impone al proletariato come un bisogno vitale.
Contro il mito della superpotenza dello Stato, la
lotta dei nostri fratelli di classe in Algeria ci mostra che è prima di tutto
perché non ha smesso di estendersi che essi sono ancora in piedi! Ma ci
mostra anche che l’assenza completa di ogni solidarietà proletaria
internazionale vuol dire sottoscrivere internazionalmente il suo “arresto”.
Soltanto l’affermazione della nostra forza, ovunque nel mondo, manifesta la negazione mortale di questo sistema che ci uccide! Soltanto la generalizzazione della lotta consentirà il superamento rivoluzionario delle società divise in classi, dando alla luce una società che soddisfi realmente i bisogni umani!
Estendiamo
la lotta! Classe contro classe!
Riprendiamo
la bandiera della rivoluzione mondiale!
Ottobre
2001
Questa
cronologia degli sviluppi dell’insubordinazione cabila dal giugno 2001 al
giugno 2002, si basa sui resoconti apparsi nei principali quotidiani algerini,
consultati su internet, e riutilizzati da
alcuni italiani appassionati.
Dopo
la manifestazione di Algeri del 14 giugno 2001, e dopo che ancora due cortei
indetti per il 5 luglio e l’8 agosto vennero vietati dal governo, il 5 ottobre
un’altra manifestazione chiamata per deporre direttamente tra le mani del
presidente algerino Bouteflika le quindici rivendicazioni della Piattaforma di
El-Kseur (vedi allegato), viene fermata alle porte della capitale da un
imponente schieramento di reparti antisommossa.
Questo,
“all’indomani del comunicato dei servizi del capo del governo che dà
notizia di un “incontro” che avrebbe avuto luogo tra alcuni delegati degli
Aarchs (di cui nessuno ha avuto il piacere di attendere alla loro conoscenza,
figurarsi alla loro designazione) e il Primo ministro, signor Benflis” (“El
Watan”, 6 ottobre 2001) per discutere della messa in opera delle
rivendicazioni contenute nella piattaforma.
In
risposta all’ennesimo divieto a manifestare ad Algeri, e alla messinscena di
questo dialogo con dei delegati “taiwan” (come vengono chiamati dai cabili
nel senso di “falsi”), in pochi giorni la tensione monta in tutta la
regione.
Il
10 ottobre in molte località si registrano scontri tra gruppi di giovani ed
elementi dei CNS (Corpo Nazionale della Sicurezza) e della gendarmeria. A
El-Kseur un centinaio di ragazzi dà inizio a una fitta sassaiola contro la sede
della Pubblica Sicurezza della provincia. Ad Amizour i manifestanti erigono
barricate sulle strade principali del paese, e ad Aokas sono ancora dei ragazzi
a innescare scontri all’uscita dalle scuole.
L’11
ottobre, in seguito alle decisioni assunte dal Coordinamento Interwilayas, il
quale riunisce tutti i delegati degli Aarchs e dei comitati cittadini e di paese
della regione, “Le Jeune Indépendant” lamenta che “il cordone ombelicale
legale che vincola gli Aarchs al potere è ormai reciso. Peggio, il movimento
cittadino della Cabilia […] si accinge a dare inizio alla disobbedienza civile
totale”: tasse non pagate, fatture del gas e dell’elettricità che non
vengono saldate, chiamate al servizio militare ignorate, rifiuto di tutte le
scadenze elettorali venture. I delegati decidono inoltre di non rimettere più a
nessun rappresentante dello Stato le rivendicazioni contenute nella Piattaforma
di El-Kseur, che a questo punto diventa non negoziabile, e di bandire dal
movimento chiunque accetti il dialogo con il governo.
Così,
per protestare ancora contro un secondo incontro tra il Capo del governo Ali
Benflis e il gruppo di delegati autonominatisi rappresentanti degli Aarchs, il 6
dicembre viene proclamato in Cabilia lo sciopero generale e si organizzano
sit-in davanti a tutte le caserme dell’odiata gendarmeria. In poche ore questi
sit-in si trasformano in violenti scontri tra manifestanti e forze dell’ordine
che in molte città e altri piccoli centri durano per ben tre giorni.
A
Tizi Ouzou i rivoltosi assaltano le caserme, situate al centro della città, con
pneumatici in fiamme e bottiglie molotov. A Bejaïa, insieme a Tizi Ouzou
principale centro della Cabilia, il bilancio è di una ventina di feriti tra i
manifestanti. Ad Amizour, invece, “i rivoltosi, non contenti di assediare il
locale distaccamento della gendarmeria, se la sono presa con altri beni
pubblici, bruciando le sedi della Sonelgaz [compagnia algerina del gas e
dell’elettricità, N.d.T.], dell’ufficio delle imposte e dell’ONM
(Organizzazione Nazionale dei Mudjahidin)” (“Liberté”, 8 dicembre 2001).
A El-Kseur sono il tribunale e la casa di un magistrato a essere presi di mira e
saccheggiati nonostante l’intervento dei CNS.
Col
tempo la situazione si fa incandescente anche in altre regioni dell’Algeria,
con iniziative di protesta talvolta molto violente. Il 29 dicembre si registrano
manifestazioni di collera in molti comuni e località della provincia di Aïn
Berda, a causa della cronica mancanza d’acqua potabile, del gas e
dell’elettricità, a cui i giovani reagiscono innalzando barricate sulle
arterie principali.
E
col nuovo anno, il 22 gennaio 2002, è “la volta delle popolazioni del comune
di Oued El Aneb di esprimere violentemente la propria insopportazione per come
la loro vita quotidiana viene gestita da parte delle autorità locali” (“El
Watan”, 23 gennaio 2002), bloccando le principali strade statali della regione
di Annaba al confine con la Tunisia.
Nel
mese di febbraio del 2002 scontri e tumulti, del resto mai del tutto cessati,
riprendono con intensità. Il 7 una delegazione degli Aarchs viene arrestata
davanti alla sede dell’ONU di Algeri. Non appena la notizia giunge a Tizi
Ouzou gruppi di giovani assaltano la sede della Sonelgaz lanciando bottiglie
molotov. Gli agenti dei CNS che si trovano all’interno dell’edificio
rispondono con gas lacrimogeni. I manifestanti si dirigono in seguito verso il
distaccamento della gendarmeria per lanciare ancora molotov e pietre. Gli
scontri proseguono fino a sera.
Il
12 febbraio, il coordinamento dei comitati della provincia di Tizi Ouzou lancia
la parola d’ordine di sciopero generale in tutta la Cabilia, per protestare
contro la riapparizione nelle strade della gendarmeria messa al bando dopo i
tumulti dell’aprile 2001 repressi nel sangue. Ciò, conformemente alla
rivendicazione espressa nel quarto punto della piattaforma, nel quale si chiede
“la partenza immediata dei distaccamenti della gendarmeria e dei rinforzi URS
[Unità Repubblicane di Sicurezza, N.d.T.]”. La regione è completamente
paralizzata. Aziende e scuole chiuse, uffici pubblici deserti, serrata dei
negozi, trasporti fermi tutto il giorno. Assembramenti solo davanti alle caserme
della gendarmeria, che degenerano pressoché immediatamente in scontri con le
forze dell’ordine, in particolare a Tizi Ouzou, ma anche nelle vicine
cittadine di Azazga e Fréha, o ancora a Akbou, Seddouk e Sidi Aïch.
Il
26 febbraio il presidente Bouteflika annuncia la data delle elezioni
legislative, fissate per il 30 maggio 2002, a dispetto del fatto che sia alta la
probabilità che non abbiano luogo in una regione estesa e popolosa come la
Cabilia. Il movimento cittadino, che si era già espresso per il boicottaggio di
ogni recupero elettorale fino a che le rivendicazioni popolari contenute nella
piattaforma non fossero state soddisfatte, decide infatti di passare subito alla
fase attiva di questo boicottaggio, confiscando e bruciando urne elettorali e
altri documenti amministrativi, e lanciando ai primi di marzo un appello a
tutti gli algerini affinché si uniscano al rifiuto (fonte “Le Matin”, 9
marzo 2002).
Frattanto,
proseguono i tentativi dello Stato algerino di trovare una soluzione alla crisi
e venire a capo delle sommosse popolari.
Il
12 marzo, in un discorso pronunciato di fronte ai delegati favorevoli al
dialogo, Bouteflika annuncia di aver preso delle decisioni in merito alle
rivendicazioni della Piattaforma di El-Kseur: il berbero sarà riconosciuto come
una delle lingue nazionali, anche se non ufficiale, i reparti della gendarmeria
saranno dislocati lontano dalle città ma non lasceranno la regione, e uno
statuto di “vittima”, e non di “martire” verrà attribuito a tutti i
caduti a seguito degli eventi dell’aprile 2001, per questo detti dai cabili
della “Primavera nera”.
Tuttavia
queste risoluzioni non soddisfano la popolazione. Solo alcuni giorni dopo le
dichiarazioni presidenziali, intorno alla metà del mese, nei capoluoghi della
regione e in molti altri comuni si scatenano vere e proprie battaglie intorno ai
distaccamenti delle gendarmerie, che a Tizi Ouzou provocano un morto e decine di
feriti.
Il
23 marzo lo Stato algerino sembra fare un altro passo verso la soluzione della
crisi. Movimenti di reparti militari a Tizi Ouzou e Bejaïa annunciano la
partenza della gendarmeria dalle due città e il suo trasferimento in località
vicine.
Poi,
improvvisamente, scatena un’offensiva durissima contro i delegati degli Aarchs,
disponendo arresti di massa.
La
sera del 25 marzo, il teatro Kateb-Yacine di Tizi-Ouzou, sede del coordinamento
cittadino, viene assaltato da reparti dei CNS che arrestano ventuno delegati per
detenzione di armi proibite e occupazione illegale di beni pubblici. Numerosi
altri delegati si danno alla clandestinità dopo che i loro domicili sono stati
perquisiti dalla polizia. La città sembra in stato d’assedio.
Già
alcune ore dopo gli arresti, mentre i CNS occupano ancora la sede del
coordinamento, i primi tafferugli evolvono presto in violenti scontri che
trasformano la città in un campo di battaglia.
All’indomani,
altri quattrocento mandati di arresto sono spiccati ed eseguiti contro
altrettanti delegati di tutte le province interessate dal movimento, con accuse
che vanno dalla partecipazione a scontri di piazza alla costituzione di
organizzazione non autorizzata.
Il
27 marzo, il corteo chiamato a Bejaïa per esigere la liberazione immediata dei
detenuti è severamente represso e impedito. Il 28, a Tizi Ouzou, sin dalle
prime ore del mattino, le strade sono avvolte nella nebbia dei gas lacrimogeni,
sparati per trattenere la gente nelle case e impedire così il corteo chiamato
dagli Aarchs. Ma invano. Il corteo si svolge comunque al grido di slogan contro
il potere, con auto messe di traverso sulle strade e scontri violenti che
provocano nelle fila dei manifestanti tre morti e decine di feriti.
Mentre
nei giorni e nelle settimane successive si moltiplicano gli arresti e le
iniziative di lotta per tenere sotto pressione il potere algerino e costringerlo
a rilasciare i detenuti (sit-in all’esterno dei tribunali, attacchi alle
caserme, cortei degli studenti delle università, e migliaia di alunni che
rifiutano di andare a scuola finché quelli fra i loro insegnanti che sono stati
arrestati non verranno rilasciati), agli inizi di maggio riprende la campagna
anti-elettorale del movimento delle assemblee popolari con appelli, cortei e
distruzioni di urne elettorali.
Il
20 maggio, il presidente Bouteflika, recatosi all’università di Bouzaréah di
Algeri per festeggiare l’“anno dello studente”, viene accolto da un fitto
lancio di pietre dagli studenti che chiedono la liberazione dei detenuti, cui
fanno seguito vari arresti. Il giorno dopo gli stessi occupano l’università
ed esigono l’immediata liberazione dei loro compagni, che verranno poi
graziati dal presidente come gesto per invitare alla calma e andare a votare.
Ma
il 30 maggio è in un clima sempre più simile a un’aperta guerra civile che
in Cabilia non si tengono le elezioni:
barricate sulle strade, uffici delle prefetture e municipi occupati, urne arse
sulla pubblica via per dire di no allo “elezioni della vergogna”; uno
sciopero generale che paralizza tutta la regione, e in più tumulti e scontri
con la polizia che provocano altri morti e centinaia di feriti. Tizi-Ouzou è
ancora una città ferma all’inizio della mattinata quando improvvisamente si
scatena la collera popolare non appena le urne fanno la loro apparizione negli
uffici elettorali, che vengono perciò assaliti e distrutti da migliaia di
giovani rivoltosi. E si racconta di scene simili in molte città, nonostante il
massiccio schieramento della gendarmeria e delle forze dell’ordine.
In
numerosi comuni la gran parte degli uffici elettorali non è stata neanche
aperta. Alla fine della giornata la percentuale dei votanti della regione
risulterà dell’1,84 %, mentre nell’intera Algeria solo del 46,9 %. Ancorché
non nei termini così grandiosi della diserzione di massa alla buffonata elettorale
verificatasi in Cabilia, la parola d’ordine del rifiuto delle elezioni
lanciata dal coordinamento interwilayas è stata seguita ben al di là dei
confini della regione.
Nel
mese di giugno 2002, non solo in Cabilia, ma anche in altre regioni
dell’Algeria, la situazione è sempre esplosiva e i tumulti non hanno fine. Ad
est e a sud del paese, e ancora in alcuni quartieri della capitale, la collera
della gente è scoppiata violenta a causa della perdurante mancanza d’acqua, e
scatti di nervi collettivi, con strade bloccate ed altri edifici pubblici
incendiati, si sono verificati finanche perché nella cittadina di Bordj Ghedir
una corrente elettrica che va e viene ha disturbato e reso faticosa la visione
dei mondiali di calcio.
Nel
pomeriggio del 17 giugno anche la città di Boukadir, 210 chilometri ad ovest di
Algeri, è stata teatro di tumulti senza precedenti. “è
in seguito all’affissione della lista dei 129 assegnatari degli alloggi
sociali che la collera dei cittadini ha raggiunto il suo parossismo.
Dall’inizio degli eventi, alle 13.00, centinaia di scontenti hanno cominciato
a invadere le strade e i principali quartieri della città. La strada statale n°
4 che attraversa Boukadir, è stata chiusa a più riprese con pneumatici
bruciati e pietre. […] Nello stesso momento, un altro gruppo composto da 150
giovani si accaniva violentemente contro la sede del comune. Questi hanno
saccheggiato l’insieme del locale in questione con sbarre di ferro, poi hanno
incendiato tutto. Mobili, documenti e altri oggetti che vi si trovavano sono
stati completamente bruciati” (“Liberté”, 18 giugno 2002).
In
Cabilia, il 19 giugno, i detenuti del movimento cittadino incarcerati nella
prigione di Tizi-Ouzou, vengono autorizzati a riunirsi in una sala del
penitenziario per discutere della proposta informale di un emissario del governo
giunta con la mediazione di due sedicenti delegati, poi sconfessati dal
movimento. Sono stati invitati a scrivere una lettera ai delegati del
coordinamento di Tizi Ouzou per chiedere di accettare un negoziato sulla
Piattaforma di El Kseur in cambio della libertà provvisoria per tutti gli
arrestati. Alla fine della riunione, rifiutando qualsiasi forma di ricatto
esercitato dal potere, in un comunicato i detenuti ribadiscono la loro fiducia
nel coordinamento cittadino e l’indisponibilità a negoziare la Piattaforma di
El Kseur così come la liberazione loro e di tutti gli altri detenuti.
Aggiornamento
- agosto 2002: a seguito di violenti e
ripetuti incidenti e dell’ultimatum lanciato dal movimento il 25 luglio, il
presidente Bouteflika ha graziato tutti i delegati degli Aarch detenuti, i quali
all’uscita del carcere hanno dichiarato che la lotta continua...
Piattaforma
di rivendicazione detta Piattaforma di El-Kseur
Questo
documento è stato elaborato l’11 giugno dai rappresentanti delle wilayas Sétif,
Bordj Bou Arréridj, Bouira, Boumerdès, Bgayet, Tizi Ouzou, Algeri,
congiuntamente al Comitato collettivo delle università di Algeri e doveva
essere depositato presso la presidenza della repubblica, al termine della
manifestazione del 14 giugno.
Noi,
rappresentanti delle wilayas (…) abbiamo adottato questa piattaforma comune di
rivendicazioni:
1.
Che lo Stato si faccia carico urgentemente delle necessità materiali di tutte
le vittime ferite e di tutte le famiglie dei martiri della repressione durante
questi avvenimenti.
2.
Per il giudizio da parte dei tribunali civili di tutti gli autori, gli
organizzatori e i finanziatori dei crimini e per la loro radiazione dai corpi di
sicurezza e dalle funzioni pubbliche.
3.
Per il riconoscimento dello statuto di martire per ogni vittima della dignità
durante questi avvenimenti e per la protezione di tutti i testimoni del dramma.
4.
Per la partenza immediata dei distaccamenti di gendarmeria e dei rinforzi delle
URS.
5.
Per l’annullamento delle azioni giudiziarie contro tutti i manifestanti nonché
per l’assoluzione di quelli già giudicati durante questi avvenimenti.
6.
Cessazione immediata delle spedizioni punitive, delle intimidazioni e delle
provocazioni contro la popolazione.
7.
Scioglimento delle commissioni d’inchiesta costituite dal potere.
8.
Soddisfazione della rivendicazione amazigh[27]
in tutte le sue dimensioni (linguistica, culturale e relativa alla sua civiltà
e identità) senza referendum e senza condizioni, e consacrazione del tamazight[28]
quale lingua nazionale e ufficiale.
9.
Per uno Stato che garantisca tutti i diritti socioeconomici e tutte le libertà
democratiche.
10.
Contro le politiche di sottosviluppo, di pauperizzazione e di diseredazione
sociale del popolo algerino.
11.
La riconduzione sotto l’autorità effettiva delle istanze democraticamente
elette di tutte le funzioni esecutive dello Stato così come dei corpi di
sicurezza.
12.
Per un piano d’urgenza socio-economico per tutta la regione della Cabilia.
13.
Contro tamheqranit (hogra)[29]
e ogni forma di ingiustizia e di esclusione.
14.
Per una riorganizzazione degli esami regionali per gli alunni che non hanno
potuto sostenerli.
15.
Istituzione di un sussidio di disoccupazione per ogni iscritto alle liste di
collocamento per un ammontare pari al 50% dell’SNMG[30].
Esigiamo
una risposta ufficiale, urgente e pubblica a questa piattaforma di
rivendicazioni.
Nessun perdono, nessuno, la lotta continua
[1]
“Le
Monde”, 24 aprile 2001.
[2]
Yahoo!
Actualités,
26 aprile 2001.
[3]
“Libération”,
24 aprile 2001.
[4] “Libération”, 24 aprile 2001.
[5] “Raggruppamento per la Cultura e la Democrazia”, “Fronte delle Forze Socialiste” e “Movimento Culturale Berbero”.
[6] Commento dell’inviato speciale di Radio France, giornale radio della RTBF, 17-6-2001.
[7]
“Libération”,
30 aprile 2001.
[8]
“Libération”,
30 aprile 2001.
[9] Questa fu la politica dell’Internazionale Comunista dal suo II° Congresso nel 1920.
[10] “Le Soir”, 16 e 17 giugno 2001.
[11]
“Libération”,
30 aprile 2001.
[12]
“Libération”,
30 aprile 2001.
[13]
“Libération”,
30 aprile 2001.
[14]
“Le
Monde”, 26 aprile 2001.
[15] “Libération”, 14 giugno 2001.
[16] Rimandiamo il lettore ai nostri articoli concernenti le lotte dei proletari in Marocco (“Le Communiste” nn. 10-11, agosto 1981), in Tunisia e in Marocco (“Le Communiste” n. 19, febbraio 1984), in Sudafrica (“Le Communiste” n. 21, dicembre 1984 e n. 23, novembre 1985) e in Nigeria (“Communisme” n. 41, dicembre 1994). Durante la fiammata insurrezionale in Irak nel 1991 sono nate anche delle lotte in Africa, in particolar modo in Egitto e nel Mali.
[17] Si veda “Communisme” n. 39, ottobre 1993.
[18] Si veda “Communisme” n. 36, giugno 1992.
[19] Dopo dieci giorni di sommosse la stampa stessa stabilisce il legame: “Questa rivolta assomiglia così tanto da trarre in inganno a quella che fece vacillare il paese nell’ottobre 1988 e fece 500 morti dopo che l’esercito ebbe sparato sulla folla” (“Libération”).
[20]
“Front
Islamique du Salut” [Fronte Islamico di Salvezza].
[21] “Le Figaro”, 5 luglio 2001.
[22] “Libération”, 14 giugno 2001.
[23] “L’Intelligent [sic] – Jeune Afrique”, n. 2113, 10-16 luglio 2001. A proposito degli “Aarch” si veda anche l’ineffabile “Monde Diplomatique”, luglio 2001.
[24]
“L’Intelligent
- Jeune Afrique” n. 2113, 10-16 luglio 2001.
[25]
“L’Intelligent
- Jeune Afrique” n. 2113, 10-16 luglio 2001.
[26] Riguardo a questo tipo di azione del proletariato, rimandiamo il lettore al nostro articolo “Critique du Réformisme armé” (“Le Communiste” n. 17, luglio 1983), come ad altri due nostri articoli sul terrorismo: “Contre le terrorisme d’Etat, de tous les Etats existants” (“Le Communiste” n. 26, febbraio 1988) e “Discussion sur le terrorisme” (“Le Communiste” n. 3, settembre 1979, e n. 5, gennaio 1980).
[27] “Uomo libero” in tamazight. è il nome con il quale i berberi si definiscono.
[28] Designa la lingua berbera ma anche la causa e lo stesso fatto berbero.
[29] Il primo è la traduzione berbera del secondo, termine arabo che di questi tempi si usa spesso in Algeria per designare letteralmente “disprezzo” del potere nei confronti dei suoi amministrati.
[30] Salario minimo.